Michela Lucenti è un flusso incessante di gentilezza che si propaga attraverso la sua voce e i suoi occhi vivaci. Insieme con la sua compagnia Balletto Civile ha toccato diverse località italiane in questi mesi di palinsesti estivi. Era necessario recuperare gli spazi, il tempo e l’attenzione che l’emergenza sanitaria ha sottratto a M.A.D. Museo Antropologico del Danzatore – lo spettacolo-performance che ha vinto il Premio Rete Critica 2020. Collocandosi a metà tra un esperimento antropologico e uno studio di materiale umano d’artista, è stato recentemente programmato in festival come Da vicino nessuno è normale, Scene di paglia e Fuori Programma.
Per ognuno di questi appuntamenti, una location specifica. Le “casette” del Museo sono state allestite in contesti particolari e suggestivi come il parco dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini a Milano, il Casone Romei a Piove di Sacco (PD) e il Parco Alessandrino a Roma.
Il 23 e il 24 luglio è stata la volta della rassegna estiva Metamorfosi, presso la Reggia di Venaria, dove le teche, le partiture orchestrali, i capitoli fisici di Balletto Civile hanno ulteriormente impreziosito il Giardino delle Rose realizzato dall’architetto Filippo Juvarra, a partire dal 1716. In coda al mese di luglio, il 28, sarà il Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria, ad ospitare M.A.D. a Perugia.
Un po’ prima e in contemporanea è iniziata la tournée di Figli di un Dio ubriaco, la nuova produzione di Balletto Civile con Fondazione TPE, Fondazione Cantieri d’Arte di Montepulciano, con una serie di collaborazioni e con il sostegno del MIBAC.
L’attività artistica di Michela Lucenti con Balletto Civile può essere riassunta come un atto fisico e di resistenza, volta a trasformare la vita in un’opera d’arte. Può bastare leggere un grande romanzo, nutrirsi di una composizione musicale, coreografica o drammaturgica per comprendere (cum prehendere) la complessità dell’esistenza. Vi è in tutto questo il compito alto di lasciare una traccia tangibile di ciò che è intangibile.
In quasi venti anni di attività e carriera, Michela Lucenti, insieme con le donne e gli uomini della sua Compagnia, è stata instancabile esploratrice di dettagli e accadimenti dell’animo umano. Ricercatori di quei momenti di rara bellezza e poesia che la vita concede. Nonostante siano di breve durata e, quando finiscono, lasciano ognuno di noi senza troppe spiegazioni. In questo, Lucenti è l’esatto contrario dell’oracolo di Delfi, non indica una strada, non raccomanda la “cosa giusta” da fare, non fa allusioni, ma determina molteplici deduzioni. E solo così potrà compiersi il disegno: “Quello che vedi non rivelarlo a nessuno. Resta nell’immagine”.
MAD. Museo Archeologico del Danzatore, come è nato, quali sono le fasi di creazione che ha attraversato?
M.A.D. è nato durante il primo lockdown. L’idea, per me, era quella di ritornare, prima possibile, in scena e siccome Balletto Civile è una comunità, una compagnia numerosa che svolge un lavoro teatrale a contatto con il pubblico, doveva trattarsi di un progetto con un grande numero di danzatori. È stato immaginato nel momento in cui non era possibile ritornare a essere vicini con gli spettatori. L’idea, all’inizio, è stata quella di utilizzare un dispositivo che ci proteggesse il più possibile e fare in modo che le persone, come in un museo, non potessero avvicinarsi a noi.
Tutte le persone della comunità, le parti creative e gli artisti di Balletto Civile hanno sofferto la solitudine. Era come se ognuno di loro, nella loro condizione di isolamento, avesse aumentato la propria voglia di fare. Mi era venuta in mente l’idea di realizzare un’esposizione, dando importanza al fatto che dietro gli artisti ci sono uomini e donne con le loro vite, con le loro differenze. M.A.D. è nato in un momento nel quale non si poteva provare tutti insieme, con la compagnia.
Ho creato una casetta alla volta nel nostro spazio, ognuno si è sottoposto al tampone e si è proceduto così fino alla fine. Montare il lavoro è stata la parte più difficile del lavoro. A ogni artista è stato chiesto di stare in un mondo unico e solitario, di avere una sola linea, non un excursus, in modo che l’insieme delle tante linee differenti potesse creare un senso di unione. Con alcuni è stato più facile, con altri è stato un processo più lento e laborioso, a qualcuno ho cambiato il personaggio.
Desideravo e siamo riusciti a realizzare una concertazione, ma prima ognuno ha lavorato su una propria musica. Abbiamo creato una geografia, un affresco musicale con Tiziano Scali e Guido Affini che sono due fonici e musicisti che lavorano con noi da molto tempo. È stata una bella sorpresa, abbiamo capito anche come calibrare le nostre energie, è stato faticosissimo. La condensa che si vede, a parte il performer con il ventilatore, è veramente una mancanza di ossigeno che, per tutto quello che abbiamo vissuto, ha delle molteplici letture. La mancanza lenta di un elemento vitale, l’arte che diventa evanescente nella sua solitudine, l’idea stessa di un museo.
Mediante il nostro esperimento, abbiamo ricevuto tante reazioni e tante letture. Nelle nostre casette-teche noi siamo accecati da barre led molto forti, non vediamo niente, non sappiamo se davanti abbiamo tante persone oppure se non c’è nessuno. È un’esposizione profonda, un esperimento bello per chi lo fa e anche per chi lo vede. Una sorta di destrutturazione dell’atto creativo, fisico, vocale.
Al centro dell’acronimo M.A.D. si trova la “A” di antropologico. C’è ancora un rapporto stretto tra politica e attività coreutica, con riferimento all’azione della Danza nella costruzione dell’identità di una comunità?
Assolutamente sì, per noi di Balletto Civile è proprio questo. L’idea di chiamarci in questo modo è nata dalla convinzione e condivisione di un pensiero preciso. “Balletto” inteso come un’azione danzata e “Civile” come derivazione etimologica da civis. La qualità di appartenenza di un individuo a uno Stato. Un corpo “testimone” insomma. Il lavoro sul corpo, per me è un lavoro centrale in qualsiasi arte dal vivo, sia che si tratti di un concerto o di teatro. La danza lo fa alla massima espressione perché il fisico è proprio il suo mezzo principale, in ogni performance dal vivo, ed è il rapporto di trasmissione del rito comunitario principale. Una comunità di spettatori si siede e, dall’altra parte, sul palcoscenico, uno o tanti artisti la rappresentano, raccontando qualcosa. In uno scambio reciproco. Questa è l’idea di un museo antropologico, vivo.
Il messaggio che vogliamo lasciare è una riflessione politica ed è quello di non lasciarci mettere in un museo di ricordi. Durante il periodo delle lotte, nel lockdown, sembrava che dovessimo essere solo salvaguardati come categoria, come una specie in estinzione. Benissimo le rivendicazioni e i sussidi ma per Balletto Civile c’è sempre stata la voglia di tornare a capire anche come agire, come fare cultura. Studiamo insieme allora come tornare a essere elemento fondante della comunità, testimone fisico. La “A” di antropologico è la centralità, il punto cardinale del nostro concetto di museo.
Raccontare, raccontarci delle storie è qualcosa che abbiamo perso o lo stiamo recuperando dal passato?
Io credo che le storie non finiscano mai. Le raccontiamo sempre, anche quando ci sembra che ci siano momenti in cui ciò non avviene, non è così, vengono raccontate in altri modi. I giovanissimi, per esempio, si inventano delle modalità e dei linguaggi che noi che siamo più “grandi” leggiamo diversamente, ma sono nuove storie che loro si raccontano. La possibilità di raccontare, come elemento rituale, è fondamentale. La danza ha un’immagine molto potente che attraversa il passato e il presente, ha una grande tradizione.
Nel caso di Balletto Civile la storia è più evidente perché per me la danza perde il suo significato quando non ha un’intenzione molto chiara. Mi piace molto lavorare al concetto di drammaturgia fisica, un termine che per me rappresenta la lotta che sto portando avanti in Italia. Credo che la danza abbia bisogno di drammaturghi, cioè non è solamente improvvisare delle cose, sentire il ritmo, lasciarsi andare. Tutto questo è meraviglioso, è una grande testimonianza, ma poi è molto importante dare una grande rilevanza a che gesto facciamo, che cosa rappresentiamo, dove vogliamo arrivare.
Quello che chiedo e che ripeto continuamente ai miei interpreti è di non fare danza senza raccontare una storia. Possono essere storie poetiche o peculiari, non sempre sono tutte uguali. A volte la difficoltà consiste nel non riuscire a leggerle. La danza utilizza molto le immagini e c’è anche un filone che si nutre di una grande estetica, da cui io mi sento però molto lontana. L’urgenza, la natura di Balletto Civile è quella di essere una compagnia che volutamente mescola danzatori con una formazione molto alta ad attori con una formazione profonda. La storia, per me, dimora nel dialogo.
Quello che emerge è un linguaggio fluido, altamente comunicativo. Si realizza un intreccio, un ordito nelle opere di Balletto Civile tra “azioni danzate”, pensieri, canto, musica. Che ruolo hanno, in tutto questo, il silenzio e la stasi?
Amo che lo spettacolo sia come un rito furioso, quindi, i momenti di stasi o di silenzio per la mia scrittura, sono pochi e decisivi. Il ritmo è importantissimo e ha una valenza determinante nelle mie composizioni. Quando vedo degli spettacoli con enormi silenzi, dei ritmi molto lenti, dopo un po’, provo una certa insofferenza. Nelle mie opere mi piace essere coinvolta da un andamento ritmico impetuoso per poi trarre la riflessione e la stasi al termine dello spettacolo. Chiaramente, oltre ad essere funzionali al ritmo, il silenzio e le pause si inseriscono all’interno di una partitura. Per me sono fondamentali ma di solito sono molto pochi.
Il senso del comico, della comicità nella Danza…qual è il tuo punto di vista?
È una componente straordinaria, il comico e il tragico sono vicinissimi tra loro e sono vitali. Amo meno l’ironia, trovo che sia un po’ come un’astuzia mentale, invece mi piace andare un po’ più dritta, avere la forza di provare a far ridere oppure a far piangere, senza essere quella via di mezzo che trovo abbastanza furba, come qualcosa che mi sembra studiata e fatta a tavolino. Credo invece che il rapporto con la scena unisca gli estremi e credo che appunto la tragicità e la comicità siano molto vicine tra loro e molto “fisiche”. La danza le deve per forza contenere, comunicando attraverso il corpo. Anche nella vita, nei momenti in cui sembriamo ridicoli o tragici, ognuno di noi sa bene cosa sta esprimendo perché tutto passa attraverso le nostre esperienze e i momenti forti che abbiamo vissuto. Sappiamo bene quanto il corpo è ingabbiato in quelle dinamiche.
Con Balletto Civile emerge un senso di fiducia, di legame e di forte empatia tra di voi e con il pubblico. Traspare anche una sorta di divertimento e, sebbene il significato etimologico di questa parola sia “volgere altrove”, in molti casi, si pensa che il varco per la creatività sia la sofferenza. È proprio così?
Credo che il divertimento sia fondamentale per noi come gruppo, come comunità che lavora insieme da vent’anni. Abbiamo cominciato giovanissime e senza la gioia di fare quel che facciamo non ce l’avremmo fatta. La sofferenza è qualcosa che non è tanto condivisibile. Le grandi esperienze come gruppo sono state indirizzate nel trovare un modo per rilanciare l’energia, reinventandola. Il concetto di divertimento, dunque, è alto, fondamentale per il nostro lavoro di gruppo, di grande possibilità nell’atto creativo.
Bisogna ricordarsi che, nonostante le nostre lotte per rivendicare la possibilità di lavorare meglio in un paese dove con molta difficoltà si cerca di tenere in vita la cultura, siamo pur sempre dei privilegiati. Fare dei periodi lunghi di prove ed uscirne stremati è di una bellezza, di una forza e di una soddisfazione indescrivibili. Perché di questo si tratta: una grande condivisione di gioia. Questa è l’utopia di Balletto Civile: essere produttori di felicità.
Noi spendiamo tanto tempo e tante parole con gli spettatori, con i produttori, con i critici per veicolare pensieri ed emozioni e questa per noi è una cosa importante, anche se può sembrare popolare. Non vuol dire fare spettacoli semplici o di grandi incassi, per noi è molto importante che il processo di creazione sia sereno e gioioso. Lo spettatore che guarda deve sentire che si tratta di un’evoluzione virtuosa. Si può e si deve mettere in circolo energia positiva, l’empatia che si percepisce è quella che noi cerchiamo con il pubblico e che abbiamo tra di noi, nonostante gli inevitabili conflitti, ma ricordandoci sempre di essere dei privilegiati.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.