Elizabeth-Spattini: il potere è donna?

Dic 6, 2023

All’interno della programmazione di quest’anno dell’Emilia Romagna Teatro Fondazione, va in scena Elizabeth I – Sorry for what? della danzatrice Giulia Spattini, membro permanente della compagnia Balletto Civile, allestimento inserito nella rassegna Carne focus di drammaturgia fisica. 

La data del debutto avviene il 23 novembre e le repliche si protrarranno sino al 26, nel Teatro del DAMSLab, spazio satellite del Dipartimento delle Arti di Bologna, al cui interno si svolge,  a fianco  delle normali lezioni curriculari,  un programma fitto di incontri ed iniziative con artisti e accademici di tutti i linguaggi e le culture. A danzare con Giulia Spattini c’è  Paolo Rosini,  a lungo suo collaboratore oltre che membro della compagnia di Balletto Civile, anche lui coreografo e danzatore, che contribuisce al cantiere drammaturgico dello spettacolo. 

Il perimetro della scena è tracciato da uno scotch rosso, delimitando il quadrato di un ring. Appare Elizabeth al centro, illuminata da un occhio di bue. È in tenuta da boxeur, con tanto di stivaletti e guanti a fascia, eppure il tessuto della camicetta a collo alto tradisce una certa regalità, come il trucco e la pettinatura. 

Con in bocca il paradenti legge qualche riga dal suo quaderno. Una citazione, tratta da Donna vuol dire natura selvaggia di Abi Andrews (Atlantide, 2020): “La selvatichezza appartiene esclusivamente al maschile, capace anche di domarla; su una donna è sintomo solo di follia”. Rivolge mute occhiate di complicità agli invisibili spettatori, che non possono trattenere le risate a commento di affermazioni così retrograde. 

© Barbara Carioli

Conclusa la lettura ripiomba nel buio e ancora, per qualche istante, è visibile soltanto in piccoli fermi immagine, intervalli dal buio sempre schiariti da occhi di bue. Si guarda intorno mentre dalla quinta di destra arriva un uomo in tuta, la maglietta con il logo rivisitato della cover del singolo dei Sex Pistols, God Save the Queen, un cappello con sotto una lunga parrucca, un asciugamano intorno al collo. 

Inizia una danza-allenamento, in sottofondo le originali composizioni di Guido Affini, unite a sonorità di musica da camera dell’epoca, al celebre inno inglese e al rumore degli stessi performer e degli oggetti in scena. Entrambi sono microfonati e il suono dell’esercizio fisico e della borraccia che si lanciano per affinare i riflessi è amplificato e in delay.

Le luci (Francesco Traverso) che circondano la scena ricordano quelle di un incontro di pugilato, sottolineandone l’epicità. Elizabeth non smette di guardarsi intorno, di guardare l’allenatore che non sembra ricambiarla, intento a forgiarla, a ricordarle un dovere. L’uomo si prende una breve pausa sedendosi sulla sedia azzurra capovolta, posizionata in fondo alla scena a sinistra: è proprio un trono. 

La donna, dopo aver riproposto i passi specularmente nel duetto-allenamento, si scatena in un vero e proprio monologo, dapprima verbale, citando un celebre discorso alle truppe tratto dal film Elizabeth: The Golden Age (Shekhar Kapur, 2007), per poi passare a un linguaggio corporeo. Si sfoga in ampi movimenti, spaccate, in cui sembra invano di voler affermare il suo volere, scrollandosi di dosso la coreografia che dovrebbe insegnarle a regnare. 

Deve di nuovo intervenire l’allenatore che la prende di peso, la rivolta, ne fa un corpo inerme da rigirarsi intorno e infine, dopo non poche lotte, la fa sedere, proprio nel luogo in cui deve stare. Sulla sedia azzurra la spoglia della sua tenuta da boxeur, giusto il tempo che Tenco impiega  a cantare la sua Una vita inutile. Elizabeth ormai stanca rimane in mutande, il seno coperto da una fascia reggente, lo sguardo interrogativo, pronto a recepire tutto ciò che è intorno a lei. L’allenatore la porta di nuovo al centro della scena, le luci si spengono, ne rimane solo una fioca su di loro. 

Dalla sua borsa sportiva tira fuori un sinistro ed ampio vestito nero di un tessuto ambiguo, che le infila dalla testa, come successivamente una cuffia altrettanto nera, che le nasconde la capigliatura, rendendola un’unica inquietante figura. Un poco di cipria ed è pronta. L’uomo esce di scena mentre Elizabeth si palesa effettivamente come regnante, ritornando frontale rispetto agli spettatori. 

Dopo poco sempre dalla quinta di destra un uomo completamente nudo lentamente giunge dietro di lei subito scomparendo. Finalmente l’incoronazione: Elizabeth avanza ma questa volta sembra elevarsi, cresce a dismisura, tenendo l’ampia e lunga gonna tra le mani sembra una montagna. Nella fioca ed epica luce di una ascesa, il suo capo viene decorato da una regale corona composta dalle sue stesse dita intrecciate. Da ora in poi niente sarà più come prima: lei non sarà più come prima.

È lungo e caloroso l’applauso che accoglie i danzatori alla fine della performance, tra le file stretti amici e collaboratori e semplici spettatori; c’è anche una scolaresca. Come in altri appuntamenti è previsto un incontro e scambio con gli artisti, aperto anche al pubblico. Questa volta con la presenza di un mediatore ovvero Maria Luisa Villa, per conto di ERT. 

Spattini è da quasi due anni ormai che dedica il suo studio alla mitica figura di Elisabetta I.  All’inizio era nato come un solo di una decina di minuti, il primo di tre piccoli atti, come tre sono i round che scandiscono un incontro di boxe. Con Alessandro Pallecchi Arena, altro storico componente di Balletto Civile, giunge ad un’altra conclusione ovvero «inserire un lavoro di relazione. Ci è venuta l’intuizione di avere la figura di questo allenatore-coscienza» ovvero Paolo Rosini. Continua Spattini: «Abbiamo lavorato insieme per tanto tempo e abbiamo una complementarietà molto interessante per la scena. Io ho una forza, un’energia maschile molto forte e lui ha una forte energia femminile, una grazia del movimento molto interessante e quindi è stato abbastanza naturale decidere di rendere questo lavoro non un solo ma un duetto». Dal loro discorso scaturisce l’immagine di «un rapporto atleta-allenatore», di un processo di crescita e di consapevolezza che sicuramente non si conclude, nel momento in cui l’analisi scenica è pregna di umanità. Michela Lucenti stessa definisce la coreografia «una presa di coscienza».

Perché proprio Elisabetta I? «L’ispirazione di solito non è sempre filologica. Credo che in questo caso sia proprio la fascinazione per una figura femminile così forte di un certo passato, che ha saputo mantenere un potere che in quel momento nessun uomo le avrebbe mai legittimato. 

Lei l’ha avuto nella casualità della successione, le è successo di ereditare questo potere e definirlo in rapporto al suo essere donna, pagando ovviamente un prezzo  molto alto: hanno provato ad ammazzarla, hanno provato a farla sposare con tutti i principi, duchi che c’erano intorno per toglierle questo potere ma lei ha trovato un modo per lottare e per mantenerlo. 

Quindi ho trovato sempre molto affascinante la sua figura e forse era arrivato il momento di usarla per parlare di una cosa che secondo me è estremamente contemporanea che è il rapporto della donna con il potere. Abbiamo un ideale del potere che chiaramente storicamente è un potere maschile e abbiamo molta poca esperienza di che cosa significa il potere femminile. Quindi cosa significa gestire un potere? Ci trasformiamo necessariamente in dei mostri nel momento in cui dobbiamo gestirlo? Sono tutte domande e lo spettacolo ne ha create altrettante. E questo significa che il materiale è interessante».

Sviluppare il personaggio di una donna regnante di metà Cinquecento difficilmente può prescindere da un discorso di genere, da una egemonia maschile sulla stessa rappresentazione e creazione di una donna potente. Così è complicato per una parte degli spettatori non leggere tutta la parabola drammaturgica del personaggio dell’allenatore come un costante sguardo maschile che plasma, che sottomette e che quindi è il solo a poter legittimare. D’altronde è grazie a lui che Elizabeth diventa montagna al termine della pièce, seppur nudo, invisibile sotto l’ampia gonna. 

È un fraintendimento che Spattini fa presto a correggere :«Nell’idea originale lui non dovrebbe vedersi. [..] Se è lui a sollevarla è perché io e lui siamo la stessa cosa. [..] Abbiamo lavorato su dei personaggi e chiaramente ciò rende ambiguo in alcune parti dello spettacolo il rapporto tra me e lui, [..] per noi l’ultima scena è chiarificatrice in questo senso: questa unione, questo allenamento alla presa di posizione. [..] Elisabetta è una figura femminile con una componente maschile molto forte tant’è che nella sua storia lei rinuncia a sposarsi, ad essere madre, rinuncia ad una componente femminile molto importante e quindi ha una componente maschile legata alla sua figura di potere. 

[..] Mi sono chiesta: “Forse sarebbe meglio un’altra donna? No”. Secondo me era giusto che la figura maschile ci fosse proprio perché se noi pensiamo che io e lui siamo lo stesso essere, all’interno c’è sia la componente maschile che quella femminile, quindi per noi era importante che non fossero due uomini o due donne, ma che fossero un uomo e una donna. Però ovviamente io sono una donna e sono vestita da donna e lui è un uomo ed è vestito da uomo, quindi questo anche solo a livello visivo e di percezione è inevitabile che possa creare la domanda sul loro rapporto. [..] L’obiettivo era di creare una personalità liquida, al di là della definizione dei personaggi, a favore della nostra particolarità come interpreti: essere alti uguali è fondamentale, è un’idea di parità e ciò crea anche un’immagine esterna che ci aiuta a lavorare in questa direzione».

Spattini Elizabeth I se la immagina così: «Una grande lottatrice nella sua epoca, una che ha lottato, […] una che si è battuta parecchio per restare lì dov’era», inscindibile dallo spazio di un ring. Dove il ring non simboleggia soltanto una corte cinquecentesca piena di insidie, ma un contemporaneo status quo che esige, con o senza gli strumenti di una tradizione maschilista, di essere qualcuno. La pena? Una vita inutile, come diceva proprio Tenco. Che il potere allora sia un’aspettativa più che una sincera presa di coscienza? Se fosse la stessa parola potere che tutti noi dovremmo rifuggire, nell’intimo dei discorsi tra noi e il nostro allenatore-coscienza?

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