È tempo di rifare il mondo, perché nemmeno l’arte è un Campo Innocente

Mag 2, 2021

«Remake the globe» è lo slogan che ha accompagnato la temporanea occupazione del Globe Theatre, una mobilitazione della Rete delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo di Roma che si è svolta dal 14 al 18 aprile 2021. Cinque giornate di confronti, elaborazione, dibattito con due richieste principali: l’attivazione di un tavolo interministeriale per avere voce in capitolo nel processo che porterà alla riforma del settore e, con sguardo più ampio, un reddito di base incondizionato che permetta una vita dignitosa a tutto l’universo precario.

Tra le diverse realtà che che compongono la rete «Il campo innocente» si distingue per l’attenzione rivolta alle tematiche della violenza di genere e del sessismo nel mondo dello spettacolo. Questo, almeno, ad una prima lettura; andando più a fondo si potrebbe dire che al gruppo stia a cuore il benessere dei corpi e del loro stare insieme, affinché la compresenza non generi esclusione e discriminazione ma sia, al contrario, foriera di cura. Una prospettiva transfemminista che si interseca con riflessioni sulla disabilità e sul razzismo, declinando poi questi discorsi nel contesto delle arti dal vivo. Un ulteriore livello rappresenta infatti la «messa a nudo» dei meccanismi di sfruttamento e autosfruttamento, delle pratiche consolidate ma nocive che sono fortemente diffuse e tacitamente accettate nell’ecosistema culturale. Una delle mission del Campo innocente sarebbe allora quella di esplicitare i discorsi impliciti, iniziare a parlare, dire che non ci va più bene e che un cambiamento non è più rimandabile. Un percorso su cui c’è ancora molta strada da fare. 

Abbiamo parlato con Leonardo Delogu e Valerio Sirna dell’esperienza dell’occupazione, di come sta procedendo il confronto per la riforma del settore — dove la nota finale, aggiunta in seguito all’intervista, mette in questione un dialogo che sembrava essere costruttivo — e di quali sono le prospettive future per la lotta.

Cosa sentite di aver costruito nelle giornate di occupazione del Globe Theatre?

Leonardo Delogu: Per me sono molto importanti le relazioni e le alleanze che si sono concretizzate in quei giorni. Erano già nate all’interno del percorso della rete dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo, ma l’esperienza comune è ciò che fa davvero incontrare le persone. Non era scontato perché le sensibilità sono diverse a volte, ma abbiamo avuto la sensazione che il movimento autorganizzato stesse facendo dei veri passi di apertura.

Valerio Sirna: Per il nostro gruppo, Il campo innocente, questa esperienza è stata un banco di prova. Era da un anno e mezzo che ci confrontavamo ma a parte il nostro intervento al festival di Santarcangelo e alcune iniziative che già erano state fatte con la rete ci mancava un passaggio all’azione e all’organizzazione. Ciò che abbiamo proposto noi nei giorni di occupazione, ovvero il tavolo su violenza, sessismo, razzismo, omolesbobitransfobia, abilismo è stato importantissimo. Già da qualche tempo stavamo portando avanti la pratica dell’auto inchiesta, ovvero di chiederci innanzitutto «come stiamo?»: a partire da qui, parlando insieme, emergono tante altre domande che stiamo raccogliendo in una lista sempre più lunga e che potrebbe non terminare mai. Il tavolo è cresciuto di giorno in giorno, da quaranta siamo diventate cento persone.

L.D: C’è stato poi un importante riconoscimento della politica istituzionale, hanno capito che il mondo delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo è variegato e attivo, che le istanze che porta non sono così surreali. Quindi pensiamo sia positivo che Franceschini sia venuto, che sia in corso un tavolo interministeriale e che ci stiano ascoltando per la riforma del settore. È anche importante l’aver organizzato un evento pubblico in un momento in cui ancora non era possibile farlo, ce ne siamo presi la responsabilità e l’abbiamo fatto in sicurezza, i tamponi a 5€ raccontano di come si possano fare delle iniziative anche durante la pandemia senza speculazioni. 

La rete delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo è composta da realtà diverse, siete riusciti e riuscite facilmente a trovare una linea comune?

V.S: Noi come Campo innocente siamo arrivati ad un certo punto, gli altri gruppi come Autorganizzat_ Spettacolo Roma, Presidi Culturali Permanenti, Mujeres nel teatro, Clap e Risp si vedevano già da tempo. Sicuramente le realtà sono molto diverse e non sempre è facile, ma ci siamo ritrovate subito sui temi. Quando abbiamo parlato di Reddito Universale Incondizionato abbiamo trovato un generale accordo e lo stesso vale per l’idea intersezionale, per cui la lotta non deve essere solo di settore ma deve incrociarsi con tutto il mondo della precarietà. Da lì si è costruito presto un’agenda politica e un reale scambio, ad esempio nella rete c’è chi sa occuparsi di contratti collettivi nazionali di lavoro mentre nel nostro gruppo non sempre abbiamo queste conoscenze. 

Noi dal canto nostro però possiamo fornire degli strumenti per queerizzare lo spazio della discussione, de-patriarchizzarlo e renderlo più inclusivo. Per noi è stato importante lanciare una riflessione e una contaminazione sul tema della fragilità, chiedendoci: Si può essere fragili in un contesto politico di lotta? Si può piangere in un’assemblea? Cosa succede se sono una persona che ha difficoltà a prendere parola pubblicamente, vengo invisibilizzata oppure no?

L.D: C’è un tipo di approccio sindacale che punta a fare pressione sulla politica per ottenere diritti e sicuramente sta funzionando. Allo stesso tempo, e qui diventa centrale la visione che si ha sul momento storico in cui viviamo, noi come Campo Innocente leggiamo la società attraverso una prospettiva transfemminista, antiabilista, antirazzista e antisessista per cui sappiamo che questi discorsi sono tutt’altro che acquisiti, è una lotta di corpi che si porta con sé per tutta la vita. A noi come gruppo quindi non interessa tanto il raggiungimento dell’obiettivo minimo ma un’influenza culturale costante da portare avanti.

Alcuni giorni fa la rete ha organizzato una nuova assemblea pubblica, quali prospettive ci sono per la lotta?

L.D: C’è la questione della riforma del settore, abbiamo una possibilità unica che non si ripresenterà per molti anni. Bisognerà quindi vedere come procederà il tavolo interministeriale e in base a come evolveranno le bozze ci saranno delle mobilitazioni. Credo che la radicalità della lotta, la condivisione dei contenuti e l’orizzontalità saranno dei punti fermi per questa rete. Ci sono poi tanti temi aperti, come l’attuale restrizione dello spazio pubblico, che è connessa al limite temporale dell’occupazione del Globe. Non ci interessava in questo momento occupare per fornire un modello alternativo di gestione, pensiamo che la modalità nomadica delle azioni sia più interessante attualmente anche per non esaurirsi né politicamente né fisicamente come spesso accade con le lotte. 

Anche questo è un punto che abbiamo portato, l’importanza di non esaurire le nostre risorse fisiche e psichiche. Il rischio è di finire nelle dinamiche di auto sfruttamento che critichiamo quando lavoriamo, non vogliamo replicarle quando agiamo politicamente. C’è poi la questione più generale del reddito universale e dell’intersezione con altre battaglie che andrà avanti a prescindere dal tavolo interministeriale.

L’incontro con Franceschini e con Orlando che è seguito all’occupazione è stato positivo? Cosa chiedete per la riforma del settore?

V.S: Da quello che ci ha riportato la delegazione nel tavolo c’è stato ascolto e le nostre richieste erano già in discussione. Dopo l’incontro ci è stato chiesto di produrre un documento scritto che abbiamo inviato dopo averlo discusso in assemblea. Dopodiché l’istituzione ce ne ha mandato un altro, che stiamo studiando e che dovrebbe contenere le nostre istanze.

L.D: Il documento che si sta delineando è una sintesi tra le due proposte di riforma del settore già in campo, quella Orfini e quella Carbonaro, insieme alle nostra. Ci siamo opposti all’autoversamento dei contributi e credo che non verrà riproposto, stiamo spingendo per il reddito di continuità e per l’instaurazione di un regime dell’intermittenza simile a quello francese. Chiediamo poi l’estensione dei bonus a tutto il 2021 e l’internalizzazione di tutte quelle persone che lavorano continuativamente per le istituzioni culturali ma che continuano ad essere precarie, con contratti di prestazione occasionale. 

Il riconoscimento delle figure professionali che orbitano nel settore poi va ampliato molto, è rimasto veramente indietro rispetto a come si è ibridata la produzione culturale. Ad esempio non è riconosciuta la figura del curatore o curatrice, nonostante ce ne siano in gran numero, finiscono per essere inquadrati come responsabili di produzione ma è totalmente un altro lavoro.

Com’è stato il confronto con le altre città? Avete avuto il sostegno che vi aspettavate?

V.S: È stato molto vivo con Napoli e col movimento delle maestranze venete. In una delle agorà pubbliche abbiamo invitato delle giovani studentesse protagoniste dell’occupazione dell’Accademia di Belle Arti di Napoli in cui denunciavano con i loro corpi gli abusi da parte dei professori. Sono state incendiarie! Abbiamo poi avuto collegamenti con Parigi, con Bruxelles e con la Grecia. Il tentativo è senz’altro quello di rafforzare una rete nazionale e internazionale.

L.D: Con chi non c’è stato dialogo, purtroppo, sono i direttori dei teatri. Normalmente c’è conoscenza e prossimità, ma quando poi avviene una battaglia politica in cui dovremmo essere tutte coinvolte, non c’è stato sostegno. Il datore di lavoro dovrebbe essere insieme a noi a chiedere il reddito universale, non fosse altro perché spesso è proprio lui a sottopagare e a lasciarci nella precarietà, per cui un reddito di questo tipo dovrebbe venirgli incontro. Se lo Stato coprisse tutti quei periodi che sono intorno allo spettacolo, quelli della riflessione e dello studio, dell’inoperosità produttiva che riguarda il mondo dell’arte, si calibrerebbe di nuovo la relazione tra datore di lavoro e artiste, lavoratrici, lavoratori. 

Solo un teatro pubblico, il Teatro di Roma, ha firmato il nostro appello perché c’era una dimensione di relazione legata alla città. Mi chiedo dove sono tutti gli altri direttori dei teatri nazionali. Vorremmo sapere poi quanto hanno capitalizzato quegli stessi teatri dalla pandemia, dov’è la redistribuzione delle risorse? In pochissimi hanno messo in campo delle azioni per farlo. Questo è un punto molto importante perché influenza anche le poetiche che propongono questi teatri e la loro azione culturale nella società.

NOTA: Lo stato dell’arte è già cambiato rispetto al momento in cui è stata rilasciata l’intervista, con importanti passi indietro da parte del Ministero della Cultura, che durante l’ultima audizione ha blindato un testo che non ha avuto il tempo di essere discusso e che non accoglie praticamente nulla delle richieste avanzate dalle lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo, ben lontana da essere la riforma strutturale del settore alla base delle mobilitazioni di questo ultimo anno e che anzi rischia di produrre una legge delega addirittura penalizzante.

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