Don Chisciotte, la morte dell’hidalgo e il futuro del teatro

Lug 2, 2025

Don Chisciotte narratore inaffidabile, cavaliere errante, ostinato visionario, giace ormai morto al centro del teatro. Don Chisciotte ad ardere, che il Teatro delle Albe di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari porta in scena dal 25 giugno al 13 luglio, giunge con la sua terza anta, al termine, nell’ambito della 35esima edizione del Ravenna Festival, che ne è anche co-produttore.

Se l’immagine dell’hidalgo immobile e inerte strappa inevitabilmente un po’ di malinconia sia negli spettatori che nei partecipanti alla chiamata pubblica che in questi tre anni hanno vibrato e vissuto in questo teatro-mondo che è l’opera di Cervantes messa in vita, rimangono le domande. Rimane soprattutto la speranza in un teatro-comunità, ricettacolo, filtro privilegiato e sintesi tra vita reale e rappresentazione, tra visionarietà dell’arte e concretezza della polis, oltre che epifania e monito su quanto ci circonda.

Come già nella folla ammorbata che danza allegramente il suo tip tap di morte in Salmagundi, così nella gente festante e beota raccolta intorno alle imminenti nozze di Chiteira e Gamaccio di Saverio Mercadante, allestita negli spazi del Teatro Rasi, dove lo spettacolo si conclude, c’è un richiamo inevitabile a scenari sinistri. Una civiltà, quella occidentale, in declino, una preoccupante immaturità sociale e civica, iper stimolata da slogan e messaggi subliminali e dalla voglia di scattarsi selfie. Inevitabile, però, pensare anche a quanto accade in questi giorni in alcuni teatri italiani pesantemente ridimensionati.

Ancora una volta, tante le riflessioni che emergono anche in questa terza e conclusiva tappa della corposa opera di Cervantes, che attraverso lo strampalato Don Chisciotte, parla di una società corrotta e venale allora quanto quella di oggi. Lo fa immancabilmente attraverso la diade Montanari-Martinelli che è l’una magica, iniziatica e proiettata sulla memoria negli antri del palazzo e l’altro razionale, solare, ironico, incline a camminare e a guidare. Ma la diade diventa, attraverso la chiamata pubblica e il teatro di massa, energia vitale, connessione e contatto di anime, esperienza collettiva e capacità di abitare la propria unicità, di essere sia Don Chisciotte che Sancho Panza.

Don Chisciotte tenta di smontare ingiustizie e atrocità col solo risultato di essere messo alla berlina e umiliato. Un eroe deciso a ingannarsi da sé, in balìa dei suoi libri, che nella prima anta sono stati dati alle fiamme dal curato e dal barbiere, ma che viene anche ingannato. In primis dallo stesso Sancho Panza, spesso per salvarlo da situazioni catastrofiche. A volte razionale, altre volte ambizioso, Sancho rappresenta l’uomo comune che è in ciascuno di noi, come Don Chisciotte rappresenta il nostro essere stupendamente asinini e utopici.

L’opera, targata 1605, che anticipa il romanzo moderno e che Martinelli-Montanari hanno trasposto nella contemporaneità, riprendendone e accentuandone la componente intertestuale e metaletteraria, è policentrica, determinata a non voler dare soluzioni finali, ma votandosi ad una trasformazione perenne.

Il richiamo al farsi e disfarsi all’infinito dato sul piano visivo dal disegno dal vivo di Stefano Ricci. Ma anche lo stile narrativo scelto dalla maga Hermanita (Ermanna Montanari) nel prologo, con i versi dalla testa rotta di Alvarez de Soria, gli scherzosi giochi di parole del mago Marcus (Marco Martinelli) che rivolge ai suoi attori (Roberto Magnani nei panni di Don Chisciotte, Alessandro Argnani in quelli di Sancho Panza e Laura Redaelli in quelli di Dulcinea) per sdrammatizzare le loro diatribe all’interno del Palazzo Teodorico.

Altro elemento-chiave in tutte e tre le edizioni è il fuoco, nelle sue più disparate declinazioni: quella distruttiva del rogo dei libri della biblioteca di Don Chisciotte  con cui si concludeva la prima anta; quella di fuoco come memoria viva, a cui si sono richiamati i due maghi alla fine della seconda anta, lo scorso anno, per ricordare la tragedia della bambina senza nome, il cui corpo, sconciato più e più volte,  adagiato  in fondo al mare, ricorda le tragedie contemporanee della prostituzione minorile e del traffico di esseri umani.

Ma il fuoco che divampa è infine, anche quello del teatro, come si evince dal titolo della “messa in vita” dell’opera di Cervantes, Don Chisciotte ad ardere, e la scelta del teatro Rasi dove svolgere l’epilogo delle peripezie del personaggio, che ci ricorda appunto la sua forza trascinatrice. 

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