Digital bodies: il doppio virtuale all’insegna dell’etica post-umanistica

Ago 29, 2021

VirtualeReale, il percorso di analisi e ricerca sulle integrazioni di tecnologia, arte e nuove forme di narrazione, oggi vi porta a esplorare le nuove entusiasmanti prospettive dei Digital Bodies. Ma cosa sono questi corpi digitali?

All’interno dell’universo digitale, il corpo diventa qualcosa che non possiamo più toccare o sentire. Esso si distacca dalle nostre azioni, costringendoci a nuovi modi di associare, osservare e pensare alla sua relazione con lo spazio. Nonostante il corpo umano abbia dominato per secoli le visioni artistiche in ogni espressione, con l’emergere di nuovi strumenti digitali, arrivano nuovi modi di esplorare quale ruolo gioca il corpo negli ambienti sia fisici sia virtuali. I confini fluidi in cui ci alterniamo tra la nostra vita reale e quella virtuale implicano che la nostra comprensione del corpo sia distaccata e superata. Inspiriamo profondamente e gettiamoci in questo mondo misterioso e ancora tutto da costruire:


DANZA

Forse il cambiamento più vivido sta arrivando nell’arte più vicina al corpo umano: la danza. Se la danza è l’arte più incarnata, intimamente dipendente dallo stato del corpo… e ogni forma d’arte va verso il suo opposto, allora il futuro della danza deve essere trovato nella disincarnazione.

– Marcos Novak

L’acclamata compagnia di danza digitale britannica di Wayne McGregor, Random Dance Company, celebra la trasformazione corporea nel virtuale, esplorando la complementarietà tra i corpi dal vivo e virtuali in una memorabile trilogia multimediale ispirata agli elementi naturali: acqua (The Millenarium, 1998), fuoco (Sulphur 16, 1999) e terra/aria (Aeon, 2000). The Millenarium crea un ambiente futuristico di corpi digitali, uno spazio virtuale con straordinaria computer grafica per l’epoca, in un mondo simile a un acquario, dove il “dal vivo” presente incontra il “dal vivo” non presente in un dialogo vulcanico, mentre Sulphur 16 offre momenti ancor più straordinari e mozzafiato unendo danzatori live e proiettati. 

La performance si apre con una scintillante immagine gigante di una danzatrice proiettata su una fine tela di garza al centro del palco. Le luci gradualmente la illuminano per rivelare la sua controparte reale retrostante a centro palco. Due danzatori virtuali performano un duetto sensuale e fluido muovendosi all’interno e attraverso l’uno con l’altro. Mentre si spostano diventano interconnessi e sembra che avanzino uno nel corpo dell’altro. In una routine esuberante l’intera compagnia di danzatori viene raggiunta da loro doppi virtuali: il palco è riempito con danzatori reali e digitali, le immagini si dividono e si doppiano sulle varie superfici presenti in una sequenza al cardiopalma. Nonostante sia stata creata alla fine del 1999 è uno dei primi esempi di congiunzione sublime e mesmerica teatrale di performer live e virtuali all’interno di un palcoscenico. La ricerca della compagnia enfatizza come la tecnologia, stimolata attraverso ogni aspetto del palco, imprima la sua estetica futuristica sulla coreografia e sul design. Le coreografie rapide e inusuali di McGregor creano un vocabolario fisico “alieno” che mischia il personale, l’organico e la macchina. Egli lo descrive come un tentativo di “collocare il concetto del corpo, del tempo e dello spazio all’interno di nuove dimensioni” e “spingere i danzatori verso incredibili nuovi limiti di articolazione, esplorazione e dubbio nelle idee circa la tecnologia e il corpo umano”. Il coreografo approfondisce maggiormente questa idea in Nemesis (2002) dove i danzatori in tempo reale vestono ampie braccia prostetico-meccaniche propulsive. 

VIDEO: https://www.numeridanse.tv/videotheque-danse/chrysalis

VIRTUAL/MIXED REALITY

E lungi dallo svanire nell’immaterialità del nulla, il corpo sta complicando, replicando, sfuggendo alla sua orfanizzazione formale, gli organi organizzati che la modernità ha preso per normalità. Questa nuova malleabilità è ovunque: nei cambiamenti del transessualismo, nelle perforazioni di tatuaggi e piercing, nei segni indelebili di marchi e cicatrici, nell’emergere di reti neurali e virali, vita batterica, protesi, inserti neurali, un gran numero di matrici vaganti.

– Sadie Plant

In un famoso articolo del 1994, Creare uno spazio: esperienze di un corpo virtuale, una delle artiste britanniche più rinomate di danza e tecnologia, Susan Kozel, riflette a lungo sul corpo digitale e la telepresenza, a seguito della sua performance di quattro settimane nell’installazione di Paul Sermon dal nome Telematic Dreaming (1992). Lavorando per svariate ore al giorno in un periodo conciso di tempo, simultaneamente come corpo reale (nel proprio letto) e come corpo virtuale (la sua immagine proiettata poteva interagire con la presenza telematica degli altri), Kozel ha esplorato in profondità la relazione tra il proprio corpo carnale e la sua controparte virtuale. Videocamere, monitor e proiettori interconnessi collegavano due letti in camere separate utilizzando una videoconferenza ISDN. Ogni silhouette di persona appoggiatasi sul letto blu veniva separata dal proprio background, utilizzando ChromaKey e tecniche di Blue Screen, e veniva trasmessa e proiettata all’interno dell’altro letto, e l’immagine composita veniva mostrata all’interno dei monitor. I due corpi, uno reale e uno virtuale, quindi, si incontravano su entrambi i letti con l’integrazione di alcune immagini preregistrate ricche di colori e texture per creare un’atmosfera onirica e immaginifica. Kozel descrive un’iniziale stranezza di relazione attraverso le proprie azioni, come ad esempio muovendo braccia e corpo da sola nel letto, come se si trovasse all’interno di qualche rituale ipnotico di danza; contemporaneamente instaurando un’intensa e intima improvvisazione con altri corpi sconosciuti proiettati sul letto. La performer testimonia di sentire piccole scosse elettriche in risposta alle carezze virtuali, rendendo evidente l’impatto delle connessioni telematiche. L’esperienza del suo corpo diviso diventa come un rito di passaggio mitico mentre ripercorre i suoi ricordi di tenere esperienze sessuali che la eccitano o la fanno sentire colpevole, andando ad esplorare anche possibili incidenti di violenza e contaminazione: “Posso essere desensibilizzata dell’attrito di una relazione con le persone che amo davvero?”. 

La sua esplorazione si basa sulle nozioni di McLuhan così come sulla ricerca di Frederik Brooks nell’ambito della Intellingence Amplification, per sollecitare il corpo elettronico come amplificatore ed estensore del corpo carnale, al quale è estremamente connesso. Piuttosto che rendere il corpo materiale obsoleto, la telematica offre una una quarta dimensione che rende possibili cose che il corpo fisico non può fare, come mappare se stessi all’interno di qualcun altro, o sparire, e quindi sfidare le idee di che cosa due corpi possano o meno fare: possiamo passare attraverso l’altro e renderci infinitamente mutevoli, ma non cessando mai di appartenere ai nostri corpi.  La telepresenza è considerata un’esperienza Out-of-Body: ciò che intriga non è solo il cambio radicale della percezione umana, ma l’inevitabile ritorno del corpo a cui si appartiene. Questo movimento extracorporeo e la sensazione che lascia una volta che si è tornati in se stessi, è la dimensione politica che risiede nella Virtual Reality. 

VIDEO: Telematic Dreaming v 2

TEXTURING/MOTION CAPTURE 

Nel bestiario culturale, il corpo è polverizzato e divaricato, come una “dissolvenza”; un viaggiatore del tempo, dove dal punto di vista delle avanzate tecnologie cibernetiche del panorama mediatico, è sempre un grande fallimento nel disperato bisogno di protesi tecniche supplementari.

– Arthur Kroker

Il motion capture è una tecnica di animazione avanzata molto frequente e richiesta sia nelle grandi produzioni cinematografiche che in quelle videoludiche. Spesso viene utilizzata per agevolare il compito degli animatori di rendere in maniera iperrealistica i personaggi digitali. La tecnica del Motion Capture (MoCap), fortunatamente, sta diventando sempre più accessibile grazie a progetti di crowdfunding e startup anche nell’ambito dell’industria indipendente: un esempio tra tutti è la Smartsuit Pro di Rokoko, che grazie al suo prezzo conveniente, costituisce una sezione fondamentale di questa ricerca. La tecnologia del MoCap nasce per soddisfare l’esigenza di voler campionare e rappresentare numericamente i movimenti di soggetti umani, animali o inanimati. Non a caso le prime aree di utilizzo di questo processo sono state nel settore clinico e militare, dove la registrazione dei movimenti del soggetto in esame permettevano di valutarne eventuali problemi di postura o di analizzare la prestazione fisica. 

La nascita di veri e propri sistemi di motion capture avviene dall’inizio degli anni Ottanta, negli ambienti universitari e di ricerca, dove lo studio del movimento favorì lo sviluppo di sistemi utili allo scopo. 

Nel 1982 al MIT viene presentata la Graphical Marionette, un sistema ottico che prevedeva l’uso di una serie di led posizionati su una tuta in corrispondenza dei giunti delle articolazioni, e quello di un paio di camere in grado di registrare le informazioni di movimento e visualizzarle real-time su una marionetta digitale. Pochi anni dopo, nel 1988, Silicon Graphics e Pacific Data Images (PDI) presentarono al pubblico Waldo, un sistema che permetteva di gestire in tempo reale i movimenti della bocca di un personaggio a bassa risoluzione: in un video della rubrica Jim Henson Hour, viene spiegato che “per una scena di due minuti di Waldo, al computer servono 120 ore per creare l’immagine finale ad alta risoluzione”. La metodologia più seguita e più affidabile rimane ad oggi quella dei sistemi marker based, spesso oggetti sferici di piccole dimensioni fissati in posizioni strategiche delle articolazioni su una tuta indossata dall’attore, che possono emettere o riflettere la luce per l’acquisizione del movimento. I dati vengono processati dal calcolatore che fornisce una curva continua del movimento. 

Storicamente il motion capture nell’industria dell’animazione è associato alla tecnica del rotoscoping, sviluppata nel 1914 da Max Fleischer, ovvero un processo che permetteva agli animatori di ricalcare le pose a partire da immagini registrate di attori reali che venivano proiettate su un pannello di vetro traslucido: il prodotto più celebre di Fleischer a dimostrazione di questa tecnica è la serie animata Out of the Inkwell dove i suoi personaggi apparivano molto fluidi nei movimenti. Nel 1921 fondò insieme a suo fratello i Fleischer Studios, che diedero vita a un personaggio importante per i cartoni animati di quegli anni, Betty Boop (1931), tanto da diventare i diretti concorrenti di Disney. 

Disney d’altra parte, si mostrò subito interessata al rotoscoping e produsse come primo film d’animazione con questa tecnica Biancaneve e i Sette Nani, che debuttò sul grande schermo nel 1937. 

Ma non fu una sperimentazione priva di problematiche. Traducibile come “la zona perturbante”, l’Uncanny Valley è uno studio degli anni ‘70 nell’ambito della robotica, secondo cui la visione di replicanti e automi antropomorfi, generi un senso di familiarità e agio tanto più questi sono somiglianti alla figura umana. La ricerca nell’ambito del texturing, quindi, punta alla “vestizione” del corpo del performer di un altro doppio digitale, che possiede caratteristiche anche completamente innaturali: è la capacità del performer che, conoscendo il risultato e la qualità del movimento che dovrebbe avere, adegua il proprio corpo al proprio doppio. Il MoCap si è sviluppato drasticamente nell’industria cinematografica, riscuotendo forse ancora più successo: si pensi nell’ambito delle storie di J.R.R. Tolkien alle performance del pioniere della performance capture Andy Serkis e le successive dell’attore britannico Benedict Cumberbatch nei panni del drago Smaug.


VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=sXN9IHrnVVU

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