La decisione di Ken Loach di caricare tutta la sua filmografia su YouTube ha fornito un’ulteriore occasione di riflessione sul diritto d’autore e sul suo destino. Apparentemente, il grande Regista ha voluto sfidare le leggi del copyright (poste a sua stessa tutela) per sposare l’emergente cultura della conoscenza come bene comune.
Certo ci si può chiedere quanto sia giusto farlo attraverso Google-YouTube, colosso della Rete detentore di un potere economico e pubblicitario quasi monopolista. Il cantante Prince, per esempio, ha perpetuato in vita un approccio totalmente restio alla libera circolazione delle sue opere, proteggendo i propri diritti di privativa con tutti i mezzi a disposizione.
Rai e Mediaset, similmente, dopo un periodo di parziale tolleranza verso il potere di Youtube hanno deciso di puntare sullo sviluppo dei siti aziendali, spingendo gli utenti a cercare i video di loro interesse sulle rispettive piattaforme invece che su YouTube. Mediaset lo ha fatto attraverso una rigidissima campagna di protezione del copyright online, la Rai, invece, attraverso il mancato rinnovo, due anni fa, del contratto di scambio video-proventi pubblicitari stipulato con YouTube (perdendo peraltro entrate ingentissime).
Le nuove tecnologie hanno trasformato in radice i sistemi di protezione della proprietà intellettuale dominanti nel secolo scorso, e raramente il diritto è riuscito a star dietro a queste trasformazioni.
Il clamoroso fallimento della catena internazionale Blockbuster, che negli anni ’90 aveva fatto esplodere l’home video e minacciato di annientare il cinema, rimanendo invece schiacciato da Internet vent’anni dopo, è stato il sigillo definitivo della svolta. La fine dell’indispensabilità pratica dei supporti materiali che un tempo veicolavano la commercializzazione delle idee artistiche (VHS, CD, DVD etc.) ha totalmente mutato i termini della questione: prima, per dire, si acquistava un album di canzoni (o addirittura un CD singolo) perchè era l’unico modo di ascoltare quei contenuti, e quindi a “costare” (almeno agli occhi dei consumatori) era in primo luogo il supporto fisico indispensable. La pirateria, poi, era fenomeno alquanto marginale a causa della scarsa fedeltà delle copie analogiche.
Oggi, dove quasi tutto è rinvenibile gratuitamente online, e dove la copia digitale si caratterizza per un’assoluta fedeltà all’originale, chi compra il supporto lo fa quasi solo per fanatismo, collezionismo o purismo, mentre chi “scarica” legalmente decide di pagare i diritti altrui pur sapendo di poter in teoria risparmiare. Nell’impossibilità di controllare il libero flusso di dati digitali, l’editore è quindi costretto a chiedere al consumatore una forma di volontaria collaborazione economica e soprattutto di rispetto per lo sforzo autoriale come valore in sè. In questa prospettiva, la retribuzione della produzione artistica o scientifica è raccontata come il necessario incentivo al suo sviluppo: senza il ritorno economico l’artista non può creare, e senza il premio del brevetto lo scienziato non si impegna!
Di fronte al declino del commercio artistico, si sono levate da più campi ipotesi e possibilità di reazione. La proposta più estrema è forse quella contenuta nel saggio di Boldrin e Levine “Abolire la proprietà intellettuale” (Laterza 2012), in cui si afferma che “copyright e brevetti costituiscono un male inutile perché non generano maggiore innovazione ma solo ostacoli alla diffusione di nuove idee”, e si propone quindi un sostanziale ripensamento del sistema puntando sui vantaggi compensativi di una libera circolazione delle idee. In coerenza con tale visione è senz’altro la pratica del copyleft, con la quale gli autori decidino di diffondere gratuitamente le loro produzioni, seppur a determinate condizioni.
In maniera meno manichea, poi, altri interpreti hanno invitato a un approccio realista: quando un libro è diffuso gratuitamente online, si dice, lo scrittore perde il ricavo in termini di royalties ma guadagna popolarità, prestigio e quindi anche la possibilità di partecipare a conferenze ed eventi con fini di lucro. Ed è anche questo, in fondo, il motivo per cui i cantanti moderni puntano sempre più sulla musica dal vivo, e sono loro stessi a pubblicare i loro brani in Rete per non rimanere indietro e non farsi schiacciare dalla concorrenza.
Ma la crisi del diritto d’autore tocca anche i suoi sistemi di vertice, e in particolare la Siae (Società Italiana Autori ed Editori), autentico gigante istituzionale che in Italia detiene il monopolio di raccolta e ridistribuzione dei proventi. La direttiva europea Barnier (26/2014) ha incentivato la liberalizzazione del mercato dei diritti d’autore, ma non è stata ancora recepita dal nostro Paese. Malgrado ciò, è cronaca di questi giorni lo scontro fra chi difende il monopolio Siae (Mogol su tutti) e chi all’apposoto accusa la Società di scarsa trasparenza e scarsa capacità di confrontarsi con le sfide dell’era digitale. Il riferimento è soprattutto alle startup come Patamu, che ha imbastito una vigorosa campagna anti-Siae aprendo un portale alternativo, e Soundfree, nata in Inghilterra da padri Italiani, che ha recenemente (e rumorosamente) accolto fra i suoi ventimila iscritti anche Fedez e Gigi D’Alessio.