I Maniaci d’Amore tornano a Milano. In scena dal 15 al 17 marzo a Campo Teatrale con “Il desiderio segreto dei fossili” spettacolo vincitore del Festival I Teatri del Sacro. Il duo torinese, composta da Francesco d’Amore e Luciana Maniaci, torna a indagare i desideri umani, la morte in vita, l’immobilità latente di individui e società e stavolta lo fa attraverso un bizzarro apologo fantastico, capace di penetrare a fondo, seppur in modo lieve e spiazzante, nelle pieghe del nostro presente. Una riflessione potente, camuffata da commedia strampalata.
Il paradiso è un luogo in cui non succede niente o per caso quello è l’inferno? E noi dove viviamo, nel primo o nel secondo? “Il desiderio segreto dei fossili” è una distopia comica, un sortilegio teatrale, una piccola crudeltà offerta con tutto il cuore, dai territori ristagnanti del desiderio soffocato, del sud, del nostro paese, della vita oggi, qui, per sempre.
Qual è il desiderio segreto dei fossili per Maniaci d’Amore?
In un film di Tarkoski, “Stalker”, i protagonisti scoprono una Zona, nel loro paese, in cui i desideri si realizzano. Non quelli espressi però, bensì quelli reali, anche quando sono estremi, feroci. Così un uomo che aveva chiesto la ricchezza torna a casa e trova la famiglia carbonizzata in un incendio.
I desideri veri portano sempre a una rivoluzione radicale e così spesso preferiamo lasciarli marcire e sostituirli con desideri superficiali. Più soldi, più fama, più forma fisica. I desideri veri ci portano a scoprire parti di noi che non vorremmo scoprire mai, la nostra cattiveria, le nostre pulsioni, la nostra natura. Quindi il desiderio segreto dei “fossili”, dei fossilizzati – che nel nostro immaginario sono tutti coloro che sono governati dalla paura e la cui vitalità è spenta, soffocata – è non avere desideri.
Ma questo non può mai accadere. Perché a volte “la vita ti cambia la vita”.
Questo spettacolo ha vinto il premio “Teatri del Sacro 2017”: cos’è sacro per voi?
Per noi la cosa più sacra è sempre stata la libertà. Libertà di esprimerci e così di trovare noi stessi il più possibile al di là dei ruoli sociali e di tutta quella merda sull’importanza del futuro.
Il tardo-capitalismo ci fa credere che ogni cosa che si fa, si fa per un futuro lontano, in un’ottica di costruzione di certezze, per la “pensione” in senso lato. Anche l’amore. Si costruiscono relazioni per essere al sicuro nel futuro, nell’età adulta, nella vecchiaia. L’amore è diventato un investimento a tasso variabile. Le relazioni umane dovrebbero aiutarci ad esprimerci. Ma in un mondo che è solo competizione e investimento, anche i ruoli sociali sono fallaci.
Spesso spettatori e operatori ci chiedono se noi due siamo fidanzati. No, non lo siamo. Siamo colleghi? Siamo amici? Non potremmo mai definirci così. Già solo il linguaggio è molto limitante, molto forviante. Non siamo una coppia in senso sentimentale eppure siamo una coppia affettiva. Vallo a spiegare…
E’ come se i ruoli dettassero i confini dentro il quale saturare ogni nostro sentimento. Ma noi crediamo nei rapporti d’amore a prescindere dai ruoli sociali. Un’altra forma di libertà che difendiamo è quella artistica. Scriviamo quello che sentiamo urgente per noi in quel momento e basta. Senza ragionamenti di attualità, di opportunità, di ministero.
Lo facciamo per non smarrire noi stessi e le nostre verità. Tutta questa libertà è sacra.
Per la prima volta nella storia di Maniaci d’Amore c’è un terzo attore in scena con voi: qual è stato l’apporto di David Meden e perché avete scelto proprio lui?
E’ stato fondamentale, salvifico. Non è un caso che nello spettacolo rappresenti letteralmente un terzo Personaggio che rompe gli equilibri degli altri due (noi due) e che venga vissuto al contempo come un portatore di vita e come causa di disastri. David è stato questo per noi. Abbiamo dovuto cominciare a ragionare in tre e per tre e lui è stato bravissimo nell’entrare a passo leggerissimo nel nostro mondo e zitto zitto a sconvolgere le nostre certezze come un gigante in una stanza di porcellane. Ci ha fottuti, insomma.
“Il desiderio segreto dei fossili” è la terza tappa della Trilogia all’Insù ( dopo “La crepanza” (prod. Teatro della Tosse di Genova) e “La casa non vuole” (radiodramma per RadioRai3) e avete già alle spalle la pubblicazione “Trilogia del gioco” con Editoria&Spettacolo. Nella creazione dei vostri spettacoli a che punto nasce il testo?
Da subito, diremmo. Ma in realtà vengono due cose prima: la vita e il pensiero. Qualcosa ci accade, ci modifica. Proviamo ad approcciarlo, a ragionarci su. Anzi meglio, a parlarci attorno, perché non si tratta di analisi ma di produzione di pensiero. Poi scriviamo. Tanto, troppo. Cancelliamo, modifichiamo. Finché non arriva un blocco e allora ci mettiamo in piedi, chiediamo ausilio al teatro e lo spettacolo trova la sua forma, di parole, movimento e spirito.
Dichiarate di aver tratto ispirazione, per quest’ultimo lavoro, da Florenskij, Copi, Genet e Pirandello: da quali testi avete attinto e in quale misura?
Florenskij dice che alcuni guardano Dio da una tenda sotto gli alberi, altri da un terrazzo immenso che gli permette di guardare il cielo con agio. Ognuno a proprio modo, tutti ci provano. Nei “Fossili” parliamo di un paese senza desiderio di guardare in alto… Ma nonostante tutto, qualcuno ci prova. Ci arriva per vie curiose, addirittura a partire dal sentimento d’amore per un personaggio televisivo.
E’ nel tentativo di raggiungere qualcosa di diverso, di più alto di noi, che nasce la rivoluzione. Dalla mancanza di desiderio nasce il desiderio. Dalla tendenza all’inorganico di Freud si struttura la coazione a ripetere e al contempo la possibilità di rompere la coazione a ripetere. C’è chi parla di volontà. Ma noi non crediamo nella volontà. Crediamo in un grande punto interrogativo, in delle risorse nascoste e inaspettate, che portano al cambiamento.
Copi nel suo stile parte sempre dall’incontro di opposti. Dall’inaspettato. Che noia leggere, vedere a teatro cose che ti aspetti. I nostri spettacoli hanno spesso un doppio binario narrativo, due mondi paralleli. Non lo facciamo apposta. E’ che vediamo la vita come una scatola cinese. Ognuna ne contiene un’altra, senza fine. Anche Copi lo fa.
Genet crea dei rapporti innovativi tra i personaggi a partire da ruoli apparentemente standard, e poi gioca col meccanismo del teatro, un altro modo di creare sorpresa che nei “Fossili” è molto presente.
Pirandello lo abbiamo nominato per i Sei personaggi, riferimento abbastanza chiaro nel nostro spettacolo, quando ci concentriamo sulla “serie tv” rimasta senza sceneggiatori. E poi perché c’entra sempre, fa sempre figo, dove lo metti sta, dalle tesine di maturità sul nucleare a quelle sul fascismo.
Nella prefazione alla raccolta Trilogia del gioco scrivete: «Ecco la domanda che tutti i teatranti si pongono. O perlomeno la domanda che ci poniamo noi. Da sempre. Cioè da quando ci siamo conosciuti, nel 2007, per caso, a Torino, a centinaia di kilometri dalle nostre case. Perché facciamo tutto questo?»
Qual era la risposta nel 2007? È rimasta immutata?
Questa domanda può essere approcciata da così tante angolature per arrivare poi al centro, che la risposta si racchiude meglio nella domanda in sé. Ma proviamoci. C’era un tempo in cui rispondevamo “Ci siamo salvati la vita a vicenda”, per poi capire che questa cosa non era vera. Che ce la saremmo potuta salvare in tanti altri modi perché eravamo due singoli che sarebbero stati sempre in lotta. C’era chi diceva che alzarsi ogni mattina è un gesto di resistenza politica. Noi aggiungeremmo: alzarsi con la voglia di vivere. Viviamo molto male i periodi in cui tutto sembra inutile, anche se sono fondamentali per celebrare l’esistenza.
Dunque noi siamo sempre stati in lotta. Viviamo la nostra guerra personale per dire chi siamo al mondo, per essere allegri la mattina quando facciamo il caffè e per essere d’aiuto agli altri. Il destino ha voluto che questo lo facessimo insieme e che lo facessimo attraverso il teatro.
Quando abbiamo iniziato volevamo dire le parole che avevamo nel cassetto sedendoci su uno sgabello in un locale. C’era un freddo piemontese a cui non eravamo abituati, eravamo poveri e bohémien in modo anacronistico. E con venti euro vivevamo una settimana. Eravamo molto confusi su come si facesse a relazionarsi agli altri, a provare empatia per una sofferenza che non fosse esclusivamente e narcisisticamente la nostra, a smettere di aspettarci che la vita ci dovesse qualcosa. Poi la sacralità del teatro ci ha travolto. Ha sottolineato l’importanza del ruolo che avevamo scelto. E ci ha coccolato. Ci ha aiutato nella cura di noi. E noi abbiamo fatto altrettanto. Crediamo infatti senza falsa modestia di essere stati utile al teatro come il teatro lo è stato per noi. Adesso chissà. Quando penseremo di non esserci più utili a vicenda – noi e il teatro – smetteremo.
[embedyt] https://www.youtube.com/watch?v=HZDAYiWwLgo[/embedyt]
IL DESIDERIO SEGRETO DEI FOSSILI
Campo Teatrale – Milano
Dal 15 al 17 marzo
Una produzione Maniaci d’Amore/I Teatri del Sacro
Con Francesco d’Amore, Luciana Maniaci e David Meden
Regia e drammaturgia Francesco d’Amore e Luciana Maniaci
Per approfondire:
- Il desiderio segreto dei Maniaci d’Amore – Mario Bianchi
- La città e il desiderio – Michele Pascarella
- La distopia comica dei Maniaci d’Amore – Andrea Pocosgnich
- Il dubbio di Amleto – Matteo Brighenti