Articolo a cura di Gabriele Ragonesi
È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile. Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci. Il montaggio opera dunque sul materiale del film (che è costituito da frammenti, lunghissimi o infinitesimali, di tanti piani-sequenza come possibili soggettive infinite) quello che la morte opera sulla vita.
Pier Paolo Pasolini, Riflessioni sul piano-sequenza, 1967
Dunque è possibile che da una parte questa sia una nascita e che dall’altra siamo in prima fila per assistere agli ultimi colpi di coda. Forme di vita e forme di morte attraversano quotidianamente la retina. La loro collisione continua dà vita alle forme infrarealiste: L’occhio della transizione.
Roberto Bolaño, Déjenlo todo, nuevamente. Primo Manifesto Infrarealista, 1976
Distese temporali, geografiche, sociali, separano il corsaro Pier Paolo Pasolini dal selvaggio Roberto Bolaño. Deserti caldi e labirintici come le piane del Sonora attraversate dai detective, le cui sabbie coprono i cadaveri delle donne uccise a Santa Teresa; e ancora il deserto asfissiato dal sole sulla via di Damasco, che folgora il San Paolo rimasto Appunto per un film pasoliniano.
Sono questi due dei deserti che abitano gli spettacoli di Fabio Condemi, Ultimi crepuscoli sulla terra, suo lavoro più recente prodotto dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico attorno al corpus bolañiano, e Questo è il tempo in cui attendo la grazia, del 2021, adattato dalle sceneggiature pasoliniane insieme a Gabriele Portoghese, andati in scena nel mese di maggio al Teatro Vascello.
Lavori distanti nel tempo, come lo sono gli autori e le aree del mondo da cui sono tratti i testi che proposti in dittico evidenziano una stessa postura da parte del regista nei loro confronti: di Bolaño, Condemi sembra preferire il suo più aperto contrasto con il Realismo magico dell’America latina, architettando una suite i cui strumenti sono alcuni dei suoi racconti più pulp e i suoni le note più torbide e oscure della sua opera-mondo, 2666. L’orchestra di un deserto labirintico (che d’altronde, è protagonista anche del manifesto dello spettacolo), scandito da tappe, le «oasi d’orrore in un deserto di noia» dell’epigrafe baudelairiana che Bolaño dedica a 2666.
Il Pasolini sul palco di Portoghese è il poeta che da germoglio disperso in un’altra oasi, un tumulo di terra e piante sul palco vuoto («- lui, sconosciuto, piccolo santo, / granello perduto nel campo.»), diviene corpo attraverso le sceneggiature dei suoi film. L’autore si genera assieme al suo Edipo, si fa sperma nell’estasi araba del Fiore delle Mille e una notte, dispersa nel cielo bianco del Film su San Paolo e diviene infine carne, creatura, uomo.

Spettacoli ad un primo livello antologici, ma modellati, approcciati e restituiti in una narrativa che procede svicolando e aprendo sguardi su angoli sommersi dalla densità delle sabbie per Bolaño e determinando una circolarità esistenziale poetica nel caso delle sceneggiature di Pasolini.
Ai deserti letterari, Condemi sembra programmaticamente rispondere con l’estrazione e la ridisposizione chirurgica del montatore: di Bolaño, Condemi sceglie, e fa sua, parte della materia più caratterialmente filmica, dove la prosa è gravida non solo di immagini da vecchio cinemascope, ma di riferimenti cinematografici accolti in pieno dallo spettacolo: come il sorriso di Jean-Paul Belmondo in fuga di A bout de souffle evocato come reminiscenza dall’altero ego letterario dell’autore nel racconto, fissando il gusto per una grammatica cinematografica già seminale in Questo è il tempo in cui attendo la grazia fin dal processo di scelta dei materiali dai quali sono escluse le sceneggiature non propriamente cinematografiche, come Teorema e Porcile, deliberatamente ibridate da Pasolini con la forma drammaturgica e romanzesca, a favore di luoghi del testo in sintesi con lo sguardo della macchina da presa: lo sguardo schizza in alto con l’eiaculazione dei giovani al fresco dell’ombra degli alberi del Fiore, abbandonando come un’eco lontana sul palcoscenico desertico le parole di Portoghese, mentre sala ed estasi si innalzano in alto, nel cielo caldo della via di Damasco dove si disperdono oltre i bordi di un quadro della macchina da presa.
I versi leopardiani del Pastore errante dell’Asia cantati alla notte del Sonora dalla veggente Florita Almada di 2666 si fanno sempre più lontani, andando ad abitare il Campo Lunghissimo delle oscurità labirintiche, mentre l’obbiettivo della camera viene occupato dal grande atlante circolare del mondo, sempre più pulsante ed enorme per essere abbracciato da qualsiasi diaframma.
La dialettica fra deserto e montaggio matura da modulo, a categoria formale fino a definizione di poetica, assumendo la riflessione proposta da Pasolini in Empirismo eretico, nella sua dissertazione sul piano sequenza, frequentata più o meno consciamente in Questo è il tempo in cui attendo la grazia, diventa programmatica in Ultimi crepuscoli sulla terra.

La necessità di morte di Pasolini, l’azione coatta che il montaggio opera sulla vita, si traduce nelle sincronie di azioni sulla scena di Bolaño, nell’accumulazione e nei contrasti d’immagine. Il corpo del poeta perduto nel campo di Portoghese, seminato dal montaggio germoglia nelle centinaia di cadaveri delle donne uccise a Santa Teresa, nel nauseabondo elenco necrotico degli atti giudiziari che compongono La parte dei delitti di 2666.
La necrosi non cessa però di voler essere vita, accostata al racconto del fantasma e il suo grottescamente romantico post-mortem necrofilo; giovani sono i corpi martirizzati di Santo Stefano e San Paolo, le stesse membra fresche e atletiche dei ragazzi del Fiore e di quelle affamate di vita, di poesia, arse dal realismo che scorre nelle viscere dei ventenni maledetti di Bolaño, per il quale giovane è anche il corpo del neofascista, legato in scena, seminudo, con i muscoli tesi.
Attraverso la generazione di senso, il Bolaño sulla scena di Condemi è quello infrarealista, il poeta dimenticato dalla fama del romanziere, che tuttavia ha affermato fino alla fine di aver scritto sempre e solo poesia. Solo il montaggio regala un corpo all’uomo che non riesce a riconoscersi nello specchio della prigione politica cilena del dopo golpe; è una massa che cala sulla scena assieme a quell’atlante, la cartina che fa da sfondo ad una delle sue foto più famose, il governatore del deserto minoico intraducibile dalla sola retina.
Il montaggio, da Pasolini a Bolaño, dona un corpo alla poesia. L’ansia di morte trasmuta sulle scene le forze del passato, troppo grandi anche per i loro stessi deserti. Forze che soffiano nei cunicoli dei labirinti, che abbandonano e devastano i loro stessi tumuli. I Corpi esistono oltre i metri di terra, tele bianche che disegnano, proiettano, esprimono e traducono «forme di vita e di morte».

La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.