Dentro al dolore degli altri. Cosa chiediamo al teatro?

Mar 20, 2025

Di Sabrina Fasanella
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.

Un orrore inventato può essere davvero insostenibile
S. Sontag

L’epoca in cui viviamo è permeata dalla violenza, nelle sue declinazioni più varie e sempre più estreme. Usciti a stento dal Novecento – secolo della biopolitica, dell’atomica, della morte come progetto, ma anche della fine degli ostacoli al capitalismo, del progresso e della relativa, subdola violenza – raccogliamo i pezzi, mentre eventi (civili, militari, climatici) di portata sempre più ingestibile ci costringono a una presa di coscienza traumatica. La consapevolezza di essere, come specie, su di un treno in corsa sempre più vicino allo schianto è il rumore di fondo del nostro tempo, sempre coperto dall’illusione di benessere e onnipotenza, almeno in questa parte di mondo privilegiata da cui osserviamo e possiamo concederci il lusso dell’interpretazione.

In un saggio di recente pubblicazione intitolato Introduzione alla Realtà (Timeo, 2024), Edoardo Camurri cita il concetto di Thauma in Aristotele: «è una parola che Aristotele pone come l’esperienza fondamentale da cui si origina la filosofia, cioè il bisogno di comprendere criticamente la Realtà. (…) Ci troviamo dinanzi a qualcosa che ci resiste, anzi siamo messi spalle al muro di fronte alla resistenza assoluta, visto che Thauma, il termine utilizzato da Aristotele, è come prima cosa un subire, un patire l’esperienza stessa di essere vivi. Thauma è un angosciante stupore, un terrore, un orrore provato dinanzi a un mistero tremendo e affascinante. Verrebbe da dire che è un patire la meraviglia». La conoscenza stessa è violenza; è violento esistere. 
Un presente come il nostro, tempo accelerato di estremi, di shock perpetrati, di escalation continue amplifica a livelli massimi quel patimento che è parte dell’esperienza umana tout court.

Ciò che forse caratterizza principalmente il nostro tempo è l’inevitabilità della fruizione di questa violenza: siamo immersi in una tempesta mediatica che ci espone senza possibilità di scelta, senza deliberata volontà e dunque senza assunzione di responsabilità (tanto da parte di chi produce i contenuti quanto da parte di chi li fruisce) a un flusso ininterrotto di immagini, rappresentazioni spesso disintermediate della realtà – la cui definizione è sempre più inafferrabile. L’effetto è lo smarrimento, l’accumulazione, nel peggiore dei casi l’anestetizzazione.

Lo scoppio della guerra in Ucraina e l’assedio di Gaza ne sono esempio lampante: tutti abbiamo assistito, dapprima con voracità, poi con involontaria assuefazione, al fiume di immagini spietate provenienti da Bucha o da Gaza: ci hanno raggiunto sui nostri social, occupando spazi nati per altri scopi, abbattendo le barriere tra intrattenimento e cronaca, confondendosi con i contenuti commerciali o quelli dei nostri parenti e amici, assottigliando come forse mai prima i confini tra realtà e relativa rappresentazione. Nel caso di Gaza, le immagini disintermediate provenienti direttamente dai luoghi dell’orrore sono state in molti casi le uniche immagini possibili, essendo quei territori interdetti alla stampa internazionale.
Interrogarsi dunque sulla violenza come oggetto di rappresentazione, di costruzione drammaturgica e performativa, non può prescindere da una riflessione su chi siamo, in cosa siamo immersi, da cosa proveniamo noi spettatori quando ci sediamo in platea.

In una recente intervista rilasciata a Irene Graziosi, la giornalista e reporter di guerra Francesca Mannocchi, raccontando il proprio lavoro dai teatri di guerra degli ultimi anni, solleva una questione cruciale: l’assunzione di responsabilità rispetto alle scelte che il professionista dell’informazione compie nel suo lavoro di mediazione tra la realtà e la testimonianza. Dove finiscono quelle immagini? A chi arrivano quelle informazioni e con quale effetto? Quanta guerra, quanta morte mostrare è la domanda che si pone prima ancora di pensare alla costruzione narrativa. 

«È una domanda che ci poniamo da questa parte del mondo, perché la guerra è questo: sono i corpi carbonizzati che trovi girando l’angolo, il cadavere di un civile che trovi per caso in una casa diventata base militare, morto di stenti, i corpi ancora non trascinati via per le strade di Bucha appena liberata, le fosse comuni. Penso che lo spettatore non vada risparmiato. Noi dobbiamo avere pudore nel mostrare quelle immagini, ma tra la pornografia del dolore e il dovere di testimonianza ci sono vari gradi di separazione. (…) Volevo che le immagini di questo film (Lirica Ucraina, il suo ultimo documentario ndr) fossero feroci come lo è la guerra (…). Volevo che alla fine di questo racconto lo spettatore e la spettatrice si alzassero dicendo “ho fatto esperienza della guerra”».

Ma se ci sediamo in una platea di un teatro, se decidiamo attivamente di vivere quell’esperienza mediata dall’arte, cosa cerchiamo? Quale sentimento speriamo di provare? A dicembre del 2023 Antonio Rezza riporta sul palcoscenico del teatro Vascello di Roma alcuni lavori del suo repertorio, tra cui il ventennale Fotofinish. Il clima in quella platea variegata ed eterogenea è di grande favore verso l’artista romano la cui cifra drammaturgica prima che performativa e fisica è di per sé un’indagine violenta della violenza stessa del reale, con la sferzante forza di un’ironia caustica e unica. Come scrive Simone Nebbia: «(…) il Minotauro, a guardia del Cerchio dei Violenti, che si morde a vederli, la sua violenza non ha pace e su di sé sfoga tutta l’ira che asciuga la sua forza. In questo girone dell’istinto irrazionale stanno i violenti, contro il prossimo e contro sé stessi, qui sono coloro che non hanno il freno della ragione e vivono l’esplosione espressiva che tutto, sé compreso, coinvolge. In questo girone è concepito il teatro di Antonio Rezza e Flavia Mastrella».

Se il gioco scenico di Rezza è tutto orientato allo spettatore e a riprodurre, per decostruirli, i meccanismi violenti del mondo, lo spettatore specie in quell’occasione sembrava cercare quella provocazione, godendo con sottile masochismo di quella manipolazione che lo ha fatto prelevare con la forza dal suo posto e ritrovare riverso sul palco alla mercé del mattatore. Eppure proprio in quell’occasione si parlò di molestie: un gruppo di spettatrici più giovani, con una sensibilità diversa, raccontarono sulla rivista under25 Generazione quel momento dello spettacolo, denunciandone la spregiudicatezza, in qualche modo l’abuso di potere, il superamento dei limiti della sfera di intimità considerati accettabili da quella generazione. Al di là dell’interessante questione sollevata riguardo la censura e i limiti della libertà espressiva di un artista, che hanno trovato spazio in un ampio dibattito sulle pagine di diverse riviste, colpisce la spaccatura della platea. Per qualcuno, la provocazione di Rezza supera il limite di ciò che oggi (a differenza di vent’anni fa, quando lo spettacolo ha debuttato)  è socialmente consentito. Per qualcun altro, forse proprio la precarietà in cui si ritrova mettendosi “nelle mani” di Rezza è il motivo per cui sceglie di andare a teatro. 

In ogni caso, l’esperienza dell’arte performativa è fatta di presenza, di per sé antidoto a quella passività in cui Susan Sontag riconosce l’origine dell’assuefazione alla violenza cui ci costringe lo stress mediatico contemporaneo. «La gente non si assuefà a quello che le viene mostrato – se così si può descrivere ciò che accade – a causa della quantità di immagini da cui è sommersa. Ѐ la passività che ottunde i sentimenti». (S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Ed. Nottetempo 2003).

Lo scoglio filosofico con cui si scontra l’idea stessa di messa in scena della violenza è l’inevitabile rischio di estetizzazione della stessa, che in alcuni casi può porre problematiche dal punto di vista etico e retorico. La recente messa in scena di Giorgina Pi dell’ultimo lavoro di Bernard Marie Koltès, Roberto Zucco, parabola emblematica della violenza, soffriva di tale involontaria tendenza all’estetizzazione: l’uso della luce e del colore, richiamando un immaginario effettivamente contemporaneo alla vicenda, strizzava l’occhio ad un’estetica glamour che ha finito per chiudere in una bella scatola vintage la vicenda, depotenziandone il racconto simbolico del presente.

Aggiunge lucidamente Sontag, nelle stesse pagine citate, riferendosi alla fotografia ma descrivendo uno spaccato ancora profondamente attuale: «L’attività fotografica è governata da una caccia alle immagini più drammatiche (così spesso le si definisce) che è del tutto normale in una cultura in cui lo shock è divenuto uno dei più importanti criteri di valore e incentivi al consumo. “La bellezza sarà convulsa, o non sarà”, proclamava André Breton, definendo “surrealista” questo ideale estetico. Ma in una cultura radicalmente riorganizzata dai valori del mercato, la pretesa che le immagini siano stridenti, clamorose e rivelatrici appare più che altro un segno di elementare realismo e di fiuto per gli affari. Come attirare altrimenti l’attenzione sul proprio prodotto o sulla propria arte? Come lasciare altrimenti un’impronta, quando si è costantemente esposti alle immagini e sovraesposti a una manciata di immagini viste e riviste di continuo?».

Queste parole, scritte all’indomani dell’attentato dell’11 settembre 2001, uno degli eventi contemporanei più visivamente impressi nella memoria collettiva, risuonano come monito più che mai attuale anche in un discorso esplicitamente artistico, nella misura in cui non è possibile considerare il sistema in cui agisce l’arte performativa avulso dalle leggi del mercato. Anche l’arte è inevitabilmente un prodotto, soggetto ai condizionamenti e alle oscillazioni del sistema capitalistico. 

Il paradosso che potrebbe riscontrarsi nello spettatore, accanto all’assuefazione con cui siamo portati ad elaborare l’altrimenti insostenibile quantità di sollecitazioni provenienti dalla realtà («lo shock può diventare familiare, lo shock può esaurirsi», dice Sontag), è una dipendenza da questa violenza: una ricerca esasperata dell’esperienza della violenza in un contesto “protetto” come quello dell’arte, sublimato dalla bellezza. Per esorcizzarla, o forse anche per quel sottile inconfessabile piacere voyeristico che inevitabilmente proviamo davanti al raccapricciante. E forse anche molto al di là del concetto classico di catarsi.

Francesca Mannocchi parlando del rapporto tra lettore/spettatore e cronista, dice che «deve diventare un luogo di conflitto. (…) Sempre più la riflessione su come scrivere e per chi scrivere agisce sul lavoro che facciamo: il rapporto tra scrittore e lettore, regista e spettatore, deve essere un rapporto di grande reciprocità: come diceva Roland Barthes, un rapporto negoziale. Di cosa hai bisogno? Cosa chiedi alla mia testimonianza? Non è consegnare un pezzo di verità, è testimoniare un pezzo di realtà per qualcuno che deve farsene qualcosa. Quella realtà deve diventare pubblica opinione e quindi cittadinanza attiva, altrimenti non serve a niente».

Sono le stesse domande che animano questa e molte altre riflessioni sull’arte performativa: cosa chiede lo spettatore, oggi, al teatro? Di cosa ha bisogno? E ancora: perché sceglie l’esperienza teatrale nella sua intrinseca violenza? Dove può o deve riportarci l’esperienza artistica? Più che “davanti“ al dolore degli altri, abbiamo più che mai bisogno di chiedere all’arte di portarci dentro al dolore degli altri. O per meglio dire, dentro al nostro, attraverso quello dell’altro. L’esperienza artistica così diventa l’elevazione all’ennesima potenza dell’esistenza stessa: patire la meraviglia con un’intensità più alta del consueto, che proteggendo la nostra umanità, ci permetta di sentire e comprendere il presente e il nostro rapporto con esso. 

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