“La democrazia è un’infezione dello spirito”. Sostiene l’uomo stanco, piegato, sofferente, protagonista di Mai Morti, andato in scena nell’ambito della stagione TPE 19.20 al Teatro Astra di Torino dal 15 al 17 ottobre 2019. Lui però è percorso dal virus antidemocratico del fascismo, che sembra minarlo e invece, lentamente, anziché annichilirlo, lo rianima e lo rende vivo.
La memoria di quando patria e onore avevano la forma esatta della camicia nera e di una X, quella della Decima Mas, il gruppo armato della repubblica di Salò comandato da Junio Valerio Borghese che si rese responsabile di anni di torture inenarrabili nei confronti dei partigiani. E sono proprio quelle torture, enumerate col petto gonfio d’orgoglio e la freddezza del burocrate fiero del proprio operato a dare forza al nostalgico sotto la cui giacca, da quasi due decenni, si nasconde Bebo Storti. Lo spettacolo, racconta Renato Sarti – autore del testo e anima del Teatro della Cooperativa milanese – ha debuttato nel 2001, e da allora continua a far dipanare sui palcoscenici il filo nero che lega le torture della Decima Mas al commerciante veneto che ha venduto le borse che si sarebbero disintegrate il 12 dicembre 1969 nella Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana insieme a decine di vittime innocenti. Un filo che passa anche per il massacro delle centinaia (ma altre fonti riportano migliaia) di vittime civili della strage dei copti a Debre Libanos, in Etiopia: soltanto una delle occasioni in cui l’armata coloniale italiana fece forza dei suoi sogni d’impero su cascate d’iprite, noto ai più col suggestivo nome di gas mostarda; e arriva alla “macelleria messicana” dei giorni del G8 di Genova, all’indomani dei quali lo spettacolo ha preso forma.
La necessità della memoria
C’è tutto questo e molto di più nel vortice temporale cui Storti dà vita e dentro cui le pagine “nere dentro e fuori” del più breve e drammatico dei secoli si concentrano e si tengono insieme. Dalla centrifuga rapida e spietata della narrazione di Storti resta però il precipitato chimico più inquietante, che ha il viso del presente. Ha le fattezze di un uomo stanco, ma vivo come non è stato mai. Cui non importa più il colore della camicia (bianca, nera, verde) ma che rivendica appartenenze con un orgoglio per anni rimasto sopito. Lo fa, a luci accese, davanti alla platea di un tempo in cui i testimoni uno dopo l’altro se ne stanno andando, occupata da ragazzi che, mentre i nostalgici si ripetevano “i nostri a Genova dovevano fare come noi allora”, stavano ancora nascendo. Una generazione per cui Piazza Fontana è soltanto un luogo, nella cui memoria la mano dell’assassino è spesso diventata quella delle Brigate Rosse (che non esistevano), nel cui vocabolario Ordine Nuovo non ha nessun significato, a cui certa politica può parlare di partigiani e repubblichini in termini di derby. Ed è davanti a questa realtà che sorge una domanda, a patto di accettare che le risposte possibili sono inquietanti. Come si racconta l’orrore a chi non lo ha vissuto?
Gli strumenti per raccontare
Bebo Storti (e Renato Sarti, che firma questa regia e numerose altre appartenenti a un genere che ancora porta il nome nobile di teatro civile) in questo caso scelgono di dar forma a quello che lo storico Giovanni de Luna, a fine messa in scena, descrive come un vortice che travolge tutto, ma più ancora optano per una forte scelta di campo. Quella che porta l’attore a svelarsi come tale al momento dei saluti, a rifiutare di prendere gli applausi con addosso la divisa pesante dei repubblichini. Quella dell’uomo che si fa vedere, più che intravedere, anche quando si nasconde sotto il personaggio. Che dovrebbe, vorrebbe essere disturbante e finisce con il non esserlo più, forse proprio perché somiglia troppo a chi ci è accanto tutti i giorni. Il “Mai morto” è nato per sconvolgere, per angosciare, per terrorizzare. Ma oggi appare fin troppo normale. Per chi è cresciuto con una solida cultura antifascista, senza lasciarsi fuorviare dalle distorsioni storiche, la rottura della finzione scenica è un sospiro di sollievo. Ci si appiglia con ogni forza alla consapevolezza che l’orrore cui si sta assistendo è recita, che dietro al braccio teso e al Sieg Heil su cui il sipario cala c’è un uomo che da anni veste la maschera grottesca dei grandi dittatori per essere sentinella del momento in cui si smette di accorgersi che stanno tornando, che a prescindere dai nomi sulle carte intestate dei ministeri le vie dedicate ai fascisti sono sempre di più, le riscritture storiche sempre più pervasive. Ma la rassicurazione, almeno sul palcoscenico del teatro Astra, arriva. C’è ancora chi ha la voce per urlare, ma lo fa per distinguere i colori. Perché Storti questa volta non vuole fare paura. Lui sa chi ha davanti, conosce la realtà che ha intorno. E ha scelto la via della didattica. Paradossale e scomoda, sì, ma chiarificatrice.
Antifascismo 2.0
Da questo spettacolo si può uscire profondamente perturbati. E non è raro che accada. Ma, se ci si arriva sapendolo, potrebbe accadere che ci si stupisca. Che, usciti dal teatro, ci si aspettasse di esserlo di più. Ed è inevitabile soffermarsi a chiedersi quale sarebbe stata la giusta scelta. È utile che un ragazzo che non conosce esca angosciato, o perversamente affascinato, da quello che ha visto? Che l’antifascismo, in un momento storico in cui nelle piazze si dice che “il saluto romano è sacro”, abbia bisogno di ribadirsi è un fatto. Come farlo resta però il grande interrogativo. Esiste il pericolo che il cattivo non sia più riconosciuto come tale anche dopo che ha enumerato un campionario d’orrore di cui non si accenna a vedere la fine? Qual è oggi la funzione dell’antifascismo chiamato a farsi corpo scenico, sapendo – chiosa acutamente nell’incontro finale lo storico De Luna – “di essere chiamato a farsi tramite di una conoscenza storica chiamata a combattere con modalità più seduttive” dove mostro ed eroe coincidono?
In un tempo condannato all’opacità, allora, anche piazza Fontana non è solo un exemplum dell’orrore di mano fascista, ma piuttosto l’esempio di quando anche ciò che rassicura e da fiducia, come lo Stato, condanna e tradisce se stesso, proteggendo e difendendo per decenni i cancri di cui è incistato con una catena di menzogne dove sono le vittime a pagare, non soltanto le spese dei nove processi. Ed è ancora De Luna a chiarire che “questa opacità è pericolosa, perché una democrazia vive della sua trasparenza”.
Così la democrazia raccontata come infezione sembra di nuovo tutt’altro che lontana, e resta da chiedersi: ha davvero ancora senso osservare messe in scena con questo contenuto? Riflettendo cioè su cosa ci sarebbe piaciuto vedere, quanto ci sarebbe piaciuto essere sfidati, infastiditi, lasciati scomodi dal gesto artistico? Analizzare quanto scenicamente risulti riuscita una particolare scelta registica o efficace un’interpretazione. In un momento storico come quello attuale, in cui la realtà ha travalicato ogni (lungimirante) idea autorale, qualsiasi orpello scenico non può che scomparire dentro “le cose per come sono successe”, che ci stupisca o meno. E ancora: la fame d’essere ulteriormente stupiti potrebbe essere già una resa al meccanismo di spettacolarizzazione che ha reso, è ancora De Luna a sintetizzare “I colpevoli eroi e gli eroi colpevoli”. Da quanto e di quanto si è superato il limite fisiologico del segreto di stato, dell’ombra che ogni istituzione cova in sé, per cadere (irrimediabilmente?) nell’abisso del patologico? E quando abbiamo smesso di accorgercene? Sei mesi dopo Piazza Fontana si parlava di strage di Stato. Oggi, fuori dai comitati della memoria, nelle classi dei licei, non ci si ricorda più cosa vuol dire. E la colpa non può essere di chi non c’era. Ma è di fronte a questo stato di realtà che bisogna chiedersi quale è il modo giusto di rispondere, e di tornare ad agire, sapendo che “c’è un fango che si annida nei gangli vitali della democrazia. Sta a noi non lasciarlo diventare cancro”.
Articolo a cura di Chiara Palumbo
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