Della solitudine di Cassandra. Intervista a Elisabetta Pozzi

Mar 18, 2025

Il mito di Cassandra lascia sempre una sensazione amara: l’essere investiti del dono di vedere con chiarezza e prima di chiunque la realtà di ciò che sarà, la condanna a non essere creduti, la solitudine e l’impotenza, la cecità dell’essere umano. In Cassandra o dell’inganno, regia di Massimo Fini, Elisabetta Pozzi attraversa e va oltre il mito, ponendo l’accento sui molti cavalli di Troia che, in maniera più o meno consapevole, abbiamo lasciato entrare nelle nostre vite. Ne abbiamo parlato con la stessa interprete.

Quali sono i cavalli di Troia che oggi stiamo lasciando entrare nelle mura della nostra società? E, soprattutto, esiste un elemento, un denominatore comune delle criticità del nostro tempo a cui abbiamo aperto le porte della città?

Il comune denominatore è l’incapacità di accorgerci di un processo che ci depaupera della nostra umanità. Ci troviamo all’interno di uno strano vortice che ci porta via, che ci stacca dal tessuto reale della nostra vita. In ogni epoca questo è avvenuto per ragioni differenti, ma il denominatore comune è sempre lo stesso. Se analizziamo la storia dell’ultimo secolo, dall’ultima grande guerra, abbiamo avuto la percezione di tranquillità, di benessere. In particolar modo dopo la Seconda Guerra Mondiale è penetrata nelle nostre case l’idea di un mondo che diventava più semplice da vivere mentre si svincolava anche dalle istituzioni, dal pensiero che la donna dovesse essere chiusa in casa, lavorare per la famiglia e nient’altro. Ha avuto inizio così un’era che si pensava avrebbe migliorato la nostra vita grazie al progressivo aumento del benessere, semplificando e rendendo tutto facile.

E invece mi sono resa conto in prima persona che ormai non abbiamo più la capacità, ad esempio, di addentrarci in una città senza l’uso di un GPS, abbiamo perso alcune facoltà che erano nostre, anche se bisognava dedicarci tempo e impegno. Facilitare in maniera esagerata la vita dell’essere umano non ha migliorato la situazione. La gente mi sembra sempre più fuori di testa, presa dalla smania delle cose da fare. Inseguendo l’obiettivo del benessere, della semplificazione della vita, ci siamo trovati in un’esistenza molto più complessa.

Fino allo scoppio del conflitto in Ucraina, la guerra per l’Europa era qualcosa di lontano. E anche adesso che ce la siamo ritrovata un po’ più vicina non ci sentiamo implicati, non ci riguarda più. Sì, magari facciamo delle donazioni, ma credo che piano piano la facilitazione, l’aver introiettato questo benessere, averlo fatto nostro e deciso di goderlo, ci stia disumanizzando, privandoci della capacità di rapportarci all’altro in maniera adeguata. Questa tendenza è cresciuta in maniera spaventosa negli ultimi anni, e sta raggiungendo anche ciò che prima era scampato a questa ondata di superficialità. Il cavallo di Troia è questo. L’abbiamo acquisito, abbiamo approvato il suo ingresso.

Volendolo o no, ad esempio, ci siamo ritrovati in mano lo smartphone e adesso non c’è possibilità di farne a meno. Lo trovo spaventoso, le persone sono inghiottite. Non che prima vedessi tutte queste persone dedicarsi alla lettura, però ci si scambiava due parole, si iniziavano delle piccole discussioni. Ci tengo a sottolineare che non è la nostalgia a parlare, è un problema di perdita della qualità specifica dell’essere umano, cioè la capacità di comunicazione interpersonale. Il dramma è che quello che noi abbiamo accettato per semplificare le comunicazioni tramite la tecnologia in realtà le sta appannando, le sta lacerando, minimizzando, involgarendo. Arriverà un momento in cui assisteremo a una mutazione perchè nell’arco del tempo una specie cambia, si modifica, però ciò che qui stiamo modificando è la qualità umana, le nostre capacità di immaginazione.

Io dirigo la scuola del Teatro di Genova e negli ultimi due anni abbiamo avuto dei problemi spaventosi perché questi ragazzi – non tutti ma molti – hanno una grande difficoltà a immaginarsi, immaginare sé stessi come altro da sé, immaginare un altro mondo. Se il gioco del far teatro è finzione, è il “far finta di” – io faccio finta di essere una principessa, come si faceva da bambini, o un principe, un guerriero, un soldato – questa formula non si può più usare perché i giovani non sono in grado di “far finta di”. È una sensazione per me davvero di grande pena – lo ripeto – per la perdita di questa meraviglia che è l’essere umano, cioè la capacità cognitiva dell’uomo di mettere insieme i pezzi, di scrivere, di leggere, di disegnare, di inventare mondi. L’acquisizione di questo mondo facilitato, più leggero, più semplice, in realtà ha confuso e ha messo al tappeto l’essere umano.

Lo spettacolo prende le mosse dalle parole di alcuni grandi autori, da Eschilo a Seneca, da Ghiannis Ritsos a Wislawa Szymborska, fino a Augè e Baudrillard. Esiste oggi un profeta, una Cassandra contemporanea che ha ravvisato i segnali di questa mutazione che tu descrivi degli esseri umani?

Gran parte degli autori di fantascienza – penso ad Orwell, Wells, Bradbury, Huxley – avevano già percepito ciò che poteva accadere. La scomparsa della realtà, per esempio, è un tema molto interessante, già sviluppato da molti scrittori nel secolo scorso. Nel loro immaginario un mondo tecnologico e virtuale si trasforma in una realtà altra che si sovrappone al reale e fa perdere il contatto con esso, con quello che succede. Tanti dei problemi attuali derivano dal fatto che i canali attraverso cui passa l’informazione non possono essere decifrati con facilità, tanto che non è possibile capire quali siano le notizie vere. Ed è un meccanismo meraviglioso – lo dico in senso satanico -, è fantastico sapere con precisione come rendere la gente del tutto priva di possibilità di giudizio.

Cosa sappiamo davvero di ciò che sta combinando Trump? Se diamo retta alla maggior parte dei media, sta prendendo provvedimenti che sembrano appartenere ad un film distopico: l’annessione del Canada agli Stati Uniti, il muro in Messico, far diventare Gaza un resort. Poi ti capita di leggere una testata d’altro genere e capisci che queste sono fake news. Viene meno la capacità di discernimento e in questo modo l’essere umano viene sottomesso. Il dissenso è nella pratica impossibile ormai: su cosa si può dissentire se non si sa che statuto di verità ha quella notizia?

Su Cassandra grava la pena di conoscere senza poter essere mai creduta. Esiste un antidoto alla sua condanna? C’è un modo oggi per accorgersi del cavallo di Troia e spezzare questo meccanismo di perdita della qualità umane?

Bisogna rimanere il più possibile autonomi, cercando le vie per realizzare se stessi. Realizzarsi vuol dire restare vivi, accendersi, riuscire a comunicare davvero, non diventare liquidi. Questa è la paranoia che, più o meno intorno al 2011, ho cominciato ad avere e che mi ha spinto a discutere con Massimo Fini, uno dei pochi intellettuali che ancora ragiona in maniera lucida. Il mito di Cassandra ci domanda: “è possibile che si diventi così ciechi da non vedere ciò che abbiamo di fronte?” Cassandra, sapendo di non poter essere creduta, rimette la scelta ad ognuno di noi e questo è il suo dono per un futuro diverso. Il futuro lo si crea in un istante, nel momento preciso in cui si decide di prendere in mano una situazione, di tentare una via diversa. Sto leggendo spesso notizie di gruppi di giovanissimi, soprattutto nel nord Europa, che ricominciano a incontrarsi evitando l’uso di tecnologie di ogni genere, ricominciano a vedersi, a studiare insieme, a parlare, a giocare, ad andare a sentire musica. Credo che da noi prima che si possa arrivare a questo passerà molto tempo, se mai si arriverà all’idea del rifiuto di questa trappola. Come da testo, torna la metafora dell’essere umano che «è ormai diventato un minuscolo ragno al centro d’una immensa tela che si tesse ormai da sola, e di cui è l’unico prigioniero».

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