Danzare la resistenza. Moving Into Dance di Robyn Orlin

Nov 13, 2022

Moving Into Dance – We wear our wheels with pride and slap your streets with color…we said “bonjour” to Satan in 1820…va in scena al Teatro Vascello di Roma, per la 37° edizione di Romaeuropa. Lo spettacolo si caratterizza per la sapiente fusione di linguaggi artistici: la danza, la musica, il teatro e le arti digitali si sovrappongono e si intrecciano per raccontare l’arte come forma di resistenza all’ingiustizia sociale. 

È dalla rielaborazione di un ricordo che muove l’intero spettacolo, lungo le strade di Durban nella regione del KwaZulu-Natal dove la coreografa Robyn Orlin osserva con lo stupore dell’infanzia, i risciò zulù. La pratica disumanizzante del risciò e la politica dell’apartheid (rimasta in vigore in Sudafrica sino al 1991), sono espresse in teatro come forme di resistenza all’omissione della memoria storica e alla sua rimozione collettiva. Il corpo e la voce sono strumenti per la rivoluzione culturale, la musica e la videoarte assumono una precisa valenza simbolica: rifondano l’identità collettiva, costruendo un immaginario il cui spazio si definisce nell’oscillazione tra realtà territoriale e globalità della realtà virtuale. 

Quando l’azione musicale irrompe nel foyer spezza il silenzio, saturo di attesa, del pubblico intento ad entrare in teatro, per ricordarci che il teatro è una festa, è esperienza della libertà, del ritmo. Lo spettacolo inizia in uno spazio vuoto in cui si muovono i danzatori con i loro colorati abiti quotidiani; poi il buio in sala e il canto di Anelisa Stuurman che fa vibrare i corpi, la musica afro-strumentale di Yogin Sullaphen che sviluppa una narrazione la cui espressione corrispondente è danza visibile.

La coreografia condensa l’espressività simbolica del comportamento animale ritualizzata nei movimenti dei danzatori-zulù, avvolti in stoffe colorate e adornati da maschere tradizionali dell’Africa meridionale. Ogni maschera assume significato in relazione al messaggio che esprime, che veicola. La scrittura coreografica si avvale anche di un testo letterario per schernire, con pungente ironia, la civiltà occidentale e le sue vili preoccupazioni, invitandola a salire sul risciò. Così avviene la dolorosa metamorfosi dell’uomo in animale da soma, la riproposizione di una visione del mondo che si fonda sul dualismo oppressi oppressori.

Mentre partecipiamo al rito da una posizione privilegiata e quasi divertita, proviamo un profondo disagio nel guardare corpi neri nitrire e scalpitare, vicini ma distanti, così diversi da noi che sediamo correttamente e indossiamo abiti in grigio fumo di Londra. Coinvolti e responsabili per questa diversità improvvisamente straziante. 

L’origine Sudafricana, la condizione dell’artista nomade, la video proiezione futurista di sé, sono espresse in un’inebriante e fantasiosa successione di azioni luminose in cui trova spazio la sacralità rituale delle maschere, dei personaggi che si raccontano presentandosi al pubblico, in un gioco continuo di rimandi e spostamenti di senso e di linguaggi.
Assistiamo a una mediamorfosi, in cui chi agisce si osserva agire sullo schermo della scenografia, determinando un continuo mutamento di ambiente e di percezione.

Le figure bidimensionali rimediano la tridimensionalità dei corpi e lo stesso processo si riversa sugli spettatori: ci osserviamo, riflessi in uno specchio-schermo e la relazione si capovolge: siamo visti da noi stessi mentre osserviamo coloro che agiscono. Non possiamo più essere l’umore di fondo dello spettacolo, ne siamo protagonisti. Ma l’euforia di esserci lascia presto il posto al turbamento, la gioiosa sonorità delle voci cede al rumore derisorio e beffardo delle ruote dei risciò, l’invocazione si rivolta in lamento. L’ultimo canto suggerisce una domanda: Quante voci può avere un corpo? di quante memorie è archivio? Suggerisce una possibilità: «Schiaffeggiamo le vostre strade con il colore» con la forza trasformatrice dell’arte.

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