Collapse è uno show che mette insieme danza e circo e che si muove partendo dalla storia e dalle relazioni di un gruppo di artisti: Francesco Sgrò, Pino Basile, Luca Carbone, Leonardo Cristiani, Enrico Seghedoni. Ha la funzione e il potere magico di uno specchio che riflette le immagini di chiunque voglia prendere contatto con le proprie forme, scrutando i colori e le dimensioni riprodotte sulla sua lucida superficie. È anche una scatola che si apre capovolgendosi, lasciando uscire dal suo interno tante palline bianche. Collapse è la dimensione del crollo, il collasso, la fine che non necessariamente corrisponde a qualcosa di negativo in virtù del principio fisico dell’energia ovvero che nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.
E l’energia muove ogni cosa, dalla danza al pensiero, ogni cosa è movimento, arriva e finisce mentre si manifesta. Promosso e prodotto da Spellbound Contemporary Ballet, in collaborazione con Fabbrica C, con la direzione di Francesco Sgrò. Abbiamo incontrato il coreografo per un’intervista al Teatro Vascello di Roma al termine dello spettacolo mentre i tecnici smontavano l’allestimento scenografico e qualcuno commentava il disturbo fastidioso di alcuni bambini incontenibili presenti nel pubblico. Nonostante l’evidente stanchezza e sofferenza fisica, il suo è un racconto paziente e introspettivo che è andato avanti stoicamente, quasi come se il tempo si fosse fermato, in sospensione nell’aria al chiuso del teatro.
Come nasce e si sviluppa la drammaturgia di Collapse?
La drammaturgia di Collapse è una drammaturgia fisica. Il principio da cui siamo partiti è quello di usare gli esseri umani per dar vita a degli oggetti di qualsiasi tipo. Dopodiché abbiamo cominciato a inserire gli oggetti e una serie di conseguenze derivanti dal loro utilizzo hanno condotto alla fine dello spettacolo con la sua evoluzione. Siamo partiti ponendoci in relazione con questi oggetti sferici morbidi, le palline bianche che ci accompagnano durante tutta la performance e abbiamo cercato di dare loro un senso e un valore che fosse qualcosa di diverso dal semplice gioco. Da questo arriva la composizione di disegni sul pavimento, generalmente molto difficile da far vedere al pubblico, ma non al teatro Vascello di Roma dove si è visto invece molto bene. Dall’utilizzo degli oggetti in modo non scontato è arrivato il resto.
Lo spettacolo incontra la danza e il circo e cerca di metterne in evidenza le loro caratteristiche. In alcuni momenti si può vedere uno spettacolo che lavora su un registro fisico di movimento, in altri uno spettacolo dove, a tratti, entra anche l’intrattenimento. Mi interessava mantenere le due facce di queste due arti che sono molto distinte, seppur in alcuni tratti collimano e la drammaturgia dello spettacolo nasce proprio da questo. Ci siamo fatti trasportare, abbiamo messo tanti oggetti e abbiamo iniziato a manipolarli. Da qui abbiamo avuto l’intuizione di usare le luci muovendole verso il basso e verso l’alto, in orizzontale. La ricerca che abbiamo fatto è stata quella di mostrare come gli oggetti possano utilizzare gli esseri umani per fare determinate cose, il contrario di quello che succede nella vita dove siamo noi che utilizziamo gli oggetti. Non c’è una storia vera e propria, non c’è la storia di un personaggio è la storia di persone che si incontrano e di un pubblico che vede dal buco della serratura per gran parte dello spettacolo e poi si ritrova in mezzo a questa pioggia di oggetti.
Sempre con riferimento alla drammaturgia, nel momento viene usato un testo strutturato, un breve racconto, all’interno dello spettacolo, la pallina bianca, in bocca al performer ne interrompe la comprensione. Le parole inizialmente chiare e comprensibili sono diventate suoni indistinti è indecifrabili. Questo fa parte di una sorta di processo creazione/distruzione?
Collapse arriva proprio da questo: l’utilizzo degli oggetti che arriva sempre a una fine. Nella ricerca che abbiamo effettuato, arrivava il momento in cui tutti gli oggetti andavano fuori controllo. La parola Collapse, viene utilizzata non tanto per quello che viene detto realmente. La voce c’è ed è un linguaggio come tutti gli altri, come la danza e il circo e non sempre racconta una storia definita, non so se ogni persona del pubblico ricorderà esattamente tutto quello che abbiamo messo in scena. Viene utilizzata quindi come mezzo, a volte come suono, a volte come accompagnamento di un numero. Questa scelta l’abbiamo fatta provandola, perché ci è piaciuto molto utilizzare la voce, insieme anche a un sottofondo musicale, per accompagnare un numero che normalmente è sempre accompagnato soltanto da una musica molto intensa se vogliamo. Ci piace utilizzare la voce proprio perché non è la classica voce che ti vuole raccontare una storia ed è così che si arriva ad un punto in cui è di nuovo l’oggetto che fa scomparire questa voce che diventa semplicemente un suono che continua ad accompagnare quel numero.
In Collapse sembra che venga riportato sul palcoscenico e nell’edificio teatrale il linguaggio della strada, l’entertainment di cui parlavi prima, l’intrattenimento negli spazi aperti, la giocoleria, il mimo…Quanto la strada ha influenzato questo e il tuo lavoro in genere?
Il circo ha delle caratteristiche molto precise,: richiama verso di sé il pubblico come gli artisti di strada che a loro volta derivano un po’ dal mondo circense. Quest’ultimo è sempre stato diviso tra i tendoni e la strada, le sfilate. Nel nostro spettacolo è molto presente questa forma di esibizione quasi da strada perché è una delle caratteristiche di quello che facciamo e che a sua volta è una delle caratteristiche del circo contemporaneo. Ma anche lì non c’è lo stesso identico utilizzo, abbiamo cercato di trasformarlo, di uscire, di coinvolgere e di andare verso il pubblico.
Si ritrova quell’energia tipica degli spettacoli di mezz’ora di intrattenimento, ma cercando di portare il pubblico all’interno di un’altra cosa più sensibile. Enrico è il portavoce di questo, appartiene a questo spettacolo principalmente perché lui lavora molto sul palco e lavora a contatto con il pubblico. Mi piacciono gli spettacoli che si allungano sulla platea e che dopo, ritornano da dove sono partiti. Sembra un modo anche per condividere quell’energia con il pubblico. Tutti abbiamo lavorato in strada. È inevitabile andare verso gli spettatori ed è tutto molto scritto, non c’è spazio per l’improvvisazione con una partitura rigida ma che riesce ad aprire sul pubblico e a trovare questi piccoli momenti.
Emerge dallo spettacolo anche l’elemento della fantasia, penso ai fuochi d’artificio ricreati con le palline bianche. Gli oggetti in scena vengono utilizzati per descrivere ricordi, immagini e sensazioni. Quali sono le tue riflessioni sulla fantasia e, insieme, sul gioco?
La fantasia è una di quelle cose che, nel momento in cui la chiami, non esiste più. È veramente uno stato mentale in cui puoi essere trasportato da qualcosa come uno spettacolo. Può essere ricreata da soli in qualche modo, c’è chi lo fa con la musica, chi con un libro, ci sono tanti modi. La fantasia è la base di quello che c’è dentro questo contenitore che è Collapse. Fantasia nel trovare qualcosa che è semplice, piccolo e cercare di vedere tutte le varie possibilità che si trovano intorno. La fantasia penso che sia un muscolo che va allenato. È un allenamento a stare nel magico e nel nostro spettacolo cerchiamo di portare tutte le persone dentro.
Cerchiamo di far vedere delle cose che non si riesce immediatamente a riconoscere perché non c’è un linguaggio tradizionale, ma dopo un po’, stando nel luogo magico di Collapse, si riescono a seguire in qualche modo. Questo sviluppa per forza la fantasia perché non avendo appigli essa deve muoversi per andare a trovare dei collegamenti. Mi piace sviluppare questo in ogni persona. Non è uno spettacolo che spiega una singola e determinata storia, anzi chissà quante ne sono venute fuori questa sera da ogni persona presente in sala, ce ne saranno state tante per ognuno di loro.
La dimensione ludica è servita anche per descrivere le emozioni presente con il simbolo delle emoticons disegnate sui sacchetti di carta?
L’elemento ludico è fondamentale. Tutto quello che facciamo è gioco. Le emozioni arrivano all’interno dello spettacolo e cerchiamo di raccontarle senza essere scontati; per andare all’eccesso di questa cosa ad un certo punto cerchiamo di raccontarle essendo scontati come non mai, mediante qualcosa riconoscibile da tutti. Oggi le nostre emozioni sono diventate le emoticons. Leonardo mi ha proposto di usare le emoticons ed è incredibile notare come la gente possa riconoscerle immediatamente e divertirsi. In realtà le emozioni nello spettacolo derivano da tutta un’altra cosa. L’omino di cartone, che fa ridere tanto, per me è un personaggio triste, è un personaggio leggermente velato di nostalgia. È anche un po’ l’appiattirsi della persona che si copre di qualcosa che è altro da sé.
Noi l’abbiamo messo in tono scherzoso perché lui fa il giocoliere con le palline e anche lì abbiamo voluto creare un contrasto. Lui vuole le palline, ne vuole tante perché, metaforicamente, sembra essere più bravo chi ne ha tante e tutti noi siamo un po’ stufi di questo. Ho provato a giocare anche con questo simbolo di felicità e quindi le emozioni sono contrastanti, il pubblico si diverte ma per noi quello in realtà è il momento topico ed emblematico dello spettacolo. Mi piace molto che alcuni capiscono e altri semplicemente si divertono perché in fondo facciamo tante cose buffe, mi piace che l’emozione non sia una e una soltanto. Mi piace che il bambino ride e l’adulto sta fermo a guardarlo, rimanendo toccato da questa figura. Ci sono tante emozioni anche perché ci sono rapporti di amicizia che si sviluppano da anni e con loro lavoro da tanti anni.
C’è anche un passaggio dedicato al misticismo che emerge, rappresentato dal simbolo del dubbio, il punto interrogativo. La tua è una ricerca, un’interpretazione, entrambe le cose o lasci al pubblico il compito di trovare qualcosa guardandosi dentro, come in uno specchio? Che rapporto hai con il misticismo o con il cosiddetto senso della vita?
Il misticismo arriva perché era necessario che ci fosse all’interno dello spettacolo, non gli attribuiamo un valore così profondo. A quel punto dello spettacolo è anche un po’ una resa nel cercare di trovare un significato univoco alla situazione. Con il pezzo che ha fatto Leonardo ci siamo resi conto che era assolutamente necessario all’interno di Collapse qualcosa che non avesse un chiaro significato, qualcosa che portasse verso qualcos’altro di più grande: è quasi una danza arcaica, un rapporto molto sensibile con gli oggetti ma profondamente fisico e spirituale. Mi sembra che questo spettacolo ne avesse bisogno perché, essendo molto fisico, abbiamo voluto che volasse più alto, verso qualcosa di non definito che arriva poco prima del finale proprio perché per noi non c’è una spiegazione che possa essere detta a parole, e nonostante ciò ha la sua ragion d’essere per affrontare questo bizzarro atto creativo.
Personalmente con il misticismo ho un rapporto quasi di paura perché mi spaventa il non riuscire a controllarlo, all’interno della scena, perché non ne conosco bene i limiti. Mi interessa molto vederlo in altri contesti, sto imparando con l’età sempre di più a lasciargli spazio. Guardandomi e ritornando indietro al mio passato, invece, tutto ciò che era scritto per il pubblico era preciso, riconoscibile e chiaro. Il misticismo non è chiaro per il pubblico quando lo vede rappresentato, mi piace che assuma un significato proprio per noi. È un po’ la resa del significato, un significato che non c’è e non ci vuole essere.
Nello spettacolo c’è una interazione che muovendo dal divertimento, sul finale, sembra quasi diventare rabbia. È un richiamo che arriva dalla società e che ha influenzato il vostro spettacolo?
In realtà quello è proprio un po’ la fine della storia che è la nostra storia come gruppo di persone. Comprende sicuramente anche tutta l’umanità, perché siamo piccoli pezzi di umanità che ci sono lì dentro ed è un piccolo riassunto della nostra relazione di gruppo esplicitata in tre minuti sotto forma di gioco. Sono i fuochi artificiali che diventano un gioco fra di noi, che si trasformano in palline carine che passano e che diventano ad un certo punto violenza. Non vuole essere una violenza negativa, è un po’ quella violenza del ragazzino che fa la bravata, non è una violenza totale e si trasforma in un gioco con il pubblico in quanto è un passaggio di energia. La violenza è parte della società, è parte di noi. In qualsiasi modo ognuno la esplicita è presente semplicemente perché le relazioni di qualsiasi tipo ti possono portare anche a questo. È venuto fuori da sé perché Collapse è uno spettacolo che si basa sulle relazioni tra di noi, le relazioni di aiuto fisico, di aiuto. È un piccolo passaggio e non vuole essere in realtà una contestazione o una forzatura quasi a volerlo mettere apposta. È semplicemente qualcosa che è arrivato all’interno della creazione e noi l’abbiamo preso e portato con noi.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.