La sezione Dancing Days di Romaeuropa rappresenta uno sguardo obliquo sul panorama della danza contemporanea, aprendo una panoramica fra le nuove generazioni di coreografi, la cui identità, ci racconta la curatrice Francesca Manica, risiede in un recupero delle tradizioni di provenienza e un dialogo costante con i maestri del passato, rimanendo però consci della propria spinta propulsiva e centrifuga.
Con quale identità ti approcci a questa direzione artistica, quale via hai cercato di far percorrere a Dancing Days
La mia ricerca volge verso giovani emergenti, concentrandosi su lavori di coreografi che hanno studiato contemporaneo o classico, o che provengono da background diversi come la street dance o la musica disco. Mi interessa capire come si riesce a creare un nuovo linguaggio partendo da un percorso di formazione ben definito.
Molti degli artisti scelti vengono dalla strada, si sono formati solo in seguito, sia a livello classico che contemporaneo. La maggior parte dei coreografi della rassegna ha lavorato con maestri come Mathilde Monnier, o Anne Teresa De Keersmaeker, però appunto non abbandonano un solido background identitario che viene da generi come l’hip hop, o la disco a livello professionale. Quest’anno c’è questa direzione, cerco però sempre di vedere, di capire quali nuovi linguaggi possono affacciarsi.
Tanti sono i maestri citati, all’interno del programma, come ispiratori, da Anne Teresa de Kaersmakeer a William Forsythe, quale credi sia il rapporto degli autori contemporanei con i grandi maestri del passato?
Il legame è molto forte anche se i giovani coreografi danno un apporto estremamente nuovo, che viene tradotto in qualcosa di diverso. Per esempio, nel lavoro di Leïla Ka vi è una componente molto teatrale ma è visibile anche un linguaggio hip hop. Nel lavoro di Cassiel Gaube è riconoscibile moltissimo il lavoro di Mathilde Monnier, o Anne Teresa De Keersmaeker, da cui emergono geometrie e formalismi. Il rapporto con i maestri dunque è molto importante, ma mi interessa soprattutto il punto di vista personale dell’artista.
Al centro della rassegna sembra esserci un desiderio di interrogarsi, quasi domandarsi quale sia il bagaglio di movimenti da cui ripartire e da cui ripescare
C’è un ritorno a tradizioni di famiglia, musicali. Un ritorno a ciò che viene dalla strada, dalla vita di periferia, con storie di violenza ma anche di rinascita. C’è il comune desiderio di tornare alle origini, trasformando il linguaggio, come nel caso del danzatore greco Andreas Hannes, ad esempio.
Nonostante faccia parte di Romaeuropa una certa tendenza multietnica, nel caso specifico di Dancing Days la selezione è interessante perché al centro delle scelte da parte dei coreografi c’è una particolare attenzione alla loro tradizione d’origine, come si è svolta la ricerca e l’incontro con i coreografi?
Quasi tutti sono incontri meravigliosi, molti perché nascono anche grazie alla rete Aerowaves, finanziata dall’Unione Europea, che lavora da 25 anni solo su finanziamenti europei. Un bando che riguarda non solo i paesi che fanno parte dell’Unione Europea, ma anche dell’Europa geografica, aperto a tutti i giovani coreografi. Di circa 600 video che arrivano ogni anno, ne scegliamo 20. Molti lavori cerco di andare a vederli di persona, nel passato grazie a Aerowaves ho incontrato Papadopoulos per esempio. Leila Ka per me è stato un bellissimo incontro, la conoscevo come danzatrice, ho seguito tutti i suoi percorsi personali e trovo che la sua sia una crescita sia a livello umano, che a livello lavorativo. Soa Ratsifandrihana è un’esplosione, averla vista danzare per Anne Teresa De Keersmaeker e poi vedere il suo lavoro, come si trasforma in scena è una delizia per gli occhi. Andreas Hannes ha una bellissima storia personale e d’artista, lui è dovuto partire, ma adesso vuole rientrare in Grecia perché ha tantissimo da dire e dopo anni di esperienza vuole aprire una casa di produzione per giovani artisti greci.
Come sono stati integrati gli spazi coinvolti negli allestimenti? Hanno avuto un ruolo attivo nel lavoro dei coreografi?
Direi di sì, gli artisti quando vengono a Romaeuropa devono necessariamente riflettere sugli spazi perché sono abituati a tutt’altro all’estero. Soa ad esempio ha dovuto modificare il suo spettacolo per lo spazio della Pelanda, che permette di giocare tantissimo, è uno spazio molto funzionale a questo tipo di spettacoli, perché si può trasformare.
In che modo vorresti che la sezione Dancing Days crescesse, quali sono i programmi per il futuro?
Sto proprio lavorando ora alla programmazione del 2023, vorrei inserire coreografi che lavorano sulle questioni di genere perché tanti non hanno voce, soprattutto nel Sud dell’Europa. La maggior parte delle persone che lavorano sulle questioni di genere vengono dal sud dell’Europa, ma lavorano al nord, non hanno mai avuto modo di presentare i lavori nei loro paesi di provenienza. Questo sarebbe il mio desiderio. Chiaramente senza precludere la parte coreografica, per me è fondamentale partire da lì.
Nata a Pescara nel 1995, diplomata al Liceo Classico G.D’Annunzio di Pescara nel 2014, consegue la doppia laurea in Filologia Moderna e Études Italiennes all’interno del progetto di codiploma fra l’Università la Sapienza di Roma e La Sorbonne Université di Parigi con una tesi dal titolo La Nuit des Rois di Thomas Ostermeier alla Comédie-Française: per una definizione di transnazionalità a teatro. , svolgendo inoltre ricerca archivistica presso la biblioteca della Comédie-Française. Scrive per diverse testate online di critica e approfondimento teatrale, occupandosi soprattutto di studiare gli intrecci fra i linguaggi e le estetiche dei vari teatri nazionali europei.