«Un pigiama party, un’assemblea femminista, una serata, un happening, un esperimento». Così Silvia Gallerano definisce il progetto Svelarsi – andato in scena all’Auditorium Parco della Musica di Roma dal 10 al 17 gennaio –: una chiamata rivolta a «un pubblico esclusivamente di donne (cis, trans e non binarie)», a tutte coloro che si sentono e si definiscono tali.
Costruito a partire da una serie di laboratori e residenze sul tema della nudità – avviati cinque anni fa attorno all’esperienza de La Merda, lo “scandaloso” monologo scritto da Cristian Ceresoli e interpretato dalla stessa Gallerano –, Svelarsi si propone come un percorso di ricerca e di scrittura collettiva, in cui l’incontro e il confronto con una platea femminile dischiude la possibilità di un rispecchiamento, di un momento di autocoscienza, in cui il personale si scopre, ancora una volta, politico.
Articolandosi in “capitoli” che indagano il rapporto di ognuna delle protagoniste – Giulia Aleandri, Elvira Berarducci, Smeralda Capizzi, Benedetta Cassio, Livia De Luca, Chantal Gori, Giulia Pietrozzini, e Silvia Gallerano (in veste di “coordinatrice”) – con il proprio corpo e con la propria sessualità, lo spettacolo sembra ripercorrere le tappe di un itinerario che attraversa l’umiliazione e l’autoumiliazione, per sfociare nella consapevolezza e nel riconoscimento dell’intima potenza insita nella propria femminilità, al di fuori dei canoni socialmente imposti e profondamente introiettati.
Quel corpo che si manifesta totalmente spoglio sul palcoscenico viene infatti dapprima esposto e raccontato nella propria “imperfezione” – perfettamente “fisiologica” – fatta di peli, cellulite, seni cascanti: è un corpo che viene manipolato, costretto con corde e con pellicole trasparenti, marchiato con segni rossi, nei punti ritenuti “critici”, quasi fosse necessario “correggerli” e “rimodellarli”.
Ed è soltanto abbandonandosi a quella che viene descritta come danza del corpo meraviglioso che le catene di uno sguardo patriarcale – dentro e fuori di noi – vengono simbolicamente spezzate, per riscoprire la potenzialità elastica, elettrica, insostituibile che appartiene a ogni corpo: quell’unità minima che non può – e non deve – esserci sottratta.
«Crescere in un corpo di donna e amarlo» è il significativo titolo di una sezione del saggio di bell hooks Comunione – recentemente tradotto per il Saggiatore – in cui la pensatrice e attivista afroamericana incoraggia a «offrire a noi stesse quello sguardo di approvazione che speriamo di vedere negli occhi di qualcun altro», sottolineando l’importanza del ruolo giocato dai genitori, oltre che dai «mass media e dalla pressione del gruppo dei pari» nel consolidare quell’indottrinamento che conduce le donne «ad avere paura della propria carne, a pensare che vada in qualche modo alterata per essere accettabile o desiderabile».
Indottrinamento che viene perpetuato di generazione in generazione anche attraverso la trasmissione di un sapere implicitamente teso alla propria sopravvivenza, riassumibile nelle parole pronunciate dalle attrici nel momento in cui interpretano le loro stesse madri: «nelle situazioni di conflitto, cerca di essere accondiscendente».
Le protagoniste dibattono allora tra loro sulla possibilità di disporre liberamente del proprio corpo, discutendo con amara ironia argomenti come la depilazione, la chirurgia estetica e la maternità, tentando di districarsi dall’invadente imperativo «produci consuma produci» e di discernere il loro più profondo desiderare da un bisogno eterodiretto. È nel passaggio drammaturgico al capitolo sul senso di colpa che la platea, invitata dalle attrici che si mescolano tra le spettatrici, si trasforma compiutamente in assemblea: in sala riecheggiano le confessioni sul cruccio che ci assale “ogni volta che usciamo senza lasciare pronto qualcosa di buono per cena”, sul tormento che ci accompagna “per aver scambiato il nostro molestatore per un benefattore”, sull’impotenza che ci perseguita nel riconoscere “il nostro privilegio di donne bianche e occidentali che possono realizzare o assistere a uno spettacolo in un teatro”, mentre prosegue l’oppressione delle donne iraniane e non si arresta il genocidio in Palestina.
La distanza tra performer e spettatrici si sgretola infine non appena la voce di una delle interpreti si rompe nell’emozione: «mi sento in colpa ogni volta che una donna muore per mano di un uomo» – afferma, per poi subito correggersi con veemenza –, «anzi non mi sento in colpa, sono arrabbiata, siamo arrabbiate».
Nel passaggio dall’«io» al «noi», il senso di colpa cede allora il passo al sentimento generativo della rabbia, che richiama all’azione e alla trasformazione, avvolgendo con un grido l’intera platea. È così, dunque, che dalla mortificazione si approda a una sorta di liberazione, che permette di comprendersi come appartenenti a un corpo collettivo, con la dichiarazione – pronunciata da Silvia Gallerano –: «Sarò enorme (…) Non vi sembrerò più piccola. Sarò sconfinata».
Lo spettacolo può chiudersi così in un momento di festa, in un ballo sul palcoscenico insieme al pubblico, che dopo gli applausi viene invitato a sostare ancora, prendendo parte a una piccola riunione spontanea: perché la pratica dell’autocoscienza, dello scambio e dello svelarsi possa esondare dal contesto performativo e ce ne si possa riappropriare nello spazio e nel tempo della vita quotidiana.
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.