«Ho voluto la mia solitudine/ sono senza amore, mentre, barbaro/ o miseramente borghese, il mondo è pieno,/ pieno d’amore…/ e sono qui solo come un animale/ senza nome: da nulla consacrato,/ non appartenente a nessuno,/ libero di una libertà che mi ha massacrato». Così Pier Paolo Pasolini tratteggia in un componimento raccolto in Poesia in forma di rosa (1964) la propria condizione esistenziale, percorsa da una “diversità” erotica e politica che lo condurrà all’esito tragico del pestaggio all’Idroscalo di Ostia nella notte tra il primo e il 2 novembre 1975.
Il corpo di Pasolini è – in senso biografico e letterario – un corpo esposto e martoriato, un corpo che soffre e che dà scandalo, ma primariamente, secondo le parole di Stefano Casi, «il corpo dell’intellettuale è la sua opera». Il confronto che Lino Musella intraprende con Pasolini nel suo “assolo” Come un animale senza nome (con drammaturgia di Igor Esposito) – in scena al Teatro Vascello di Roma dal 28 al 30 novembre – si profila allora come un “corpo a corpo” con quello che è il corpus letterario dello scrittore bolognese: indossati un paio di occhiali spessi che rievocano la fisionomia pasoliniana, il corpo dell’attore di fronte al leggio sembra infatti eclissarsi “in favore” delle parole dell’intellettuale, scandite ritmicamente e accompagnate sul palcoscenico dalle sonorità elettroniche elaborate da Luca Canciello.
A costituire l’ossatura della pièce sono i versi di Poeta delle Ceneri (pubblicato postumo nel 1980), poemetto «bio-bibliografico» con il quale l’intellettuale si presenta al pubblico statunitense – al quale è noto principalmente per il suo cinema – in qualità di «poeta», ripercorrendo la propria vita e le proprie opere, dalla propria nascita in «una città piena di portici» all’avvicinamento al marxismo, fino a ribadire la propria “fratellanza” con Allen Ginsberg, artista che si pone come una «vivente contestazione» nell’America degli anni Sessanta.
Sono proprio i versi di Howl (1956) a riecheggiare durante lo spettacolo, quasi a rappresentare un modello umano e letterario per le linee programmatiche di quella che Pasolini immagina come una «vita futura»: «perciò io vorrei soltanto vivere/ pur essendo poeta/ perché la vita si esprime anche solo con se stessa./ Vorrei esprimermi con gli esempi./ Gettare il mio corpo nella lotta. (…) Non c’è altra poesia che l’azione reale».
Lo spettacolo-concerto ideato da Musella si articola allora in un mosaico di frammenti e citazioni, procede tramite rapide “incursioni” all’interno dell’intera opera pasoliniana – dalla poesia che recita «Io sono una forza del Passato» all’infiammato «Io so» del celebre articolo poi rinominato Il romanzo delle stragi e confluito in Scritti Corsari (1975) –, per restituire un ritratto di un intellettuale poliedrico e contraddittorio attraverso la sua stessa parola. Scomparso il corpo di Pasolini – dalla Storia, così come dalla rappresentazione –, è infine soltanto la sua voce a essere rievocata in maniera fantasmatica, grazie a una registrazione leggermente “distorta”, per affermare nel presente e nello spazio spoglio del palcoscenico la propria «disperata sfiducia nelle società storiche» e la propria «anarchia apocalittica».
In un vero “corpo a corpo” con il pubblico consiste invece L’ammore nun è ammore, secondo “assolo” di Lino Musella, approdato al Vascello nei giorni immediatamente successivi allo spettacolo pasoliniano, tra il primo e il 3 dicembre. Accompagnato, questa volta, dai cordofoni e dalle percussioni di Marco Vidino, Musella si cimenta con un altro testo originariamente non pensato per la scena, 30 sonetti di Shakespeare «traditi e tradotti» da Dario Jacobelli. Il dialetto utilizzato nella traduzione da Jacobelli, poeta napoletano prematuramente scomparso nel 2013, «attinge da una parte a una lingua teatrale e letteraria, dall’altra a contaminazioni contemporanee che vanno dallo slang al linguaggio di strada» – si legge nelle note di regia –, consentendo il paradosso della restituzione di «una teatralità ai versi del più grande drammaturgo al mondo».
Allo stesso modo in cui il testo dei sonetti si maschera, si camuffa e si trasforma, Musella si traveste, diviene donna anziana che si compatisce di fronte allo specchio, scugnizzo festante sul motorino: indossa abiti, parrucche e cappelli sgargianti che subito dismette, come per incarnare un personaggio ogni volta differente che possa dare voce ai sonetti, parlando di uno straziato sentimento di amore, dell’immortalità della poesia o della caducità della bellezza e dell’esistenza.
L’attore napoletano fuoriesce dallo spazio “canonicamente” pensato per la rappresentazione, scomparendo dietro le quinte, arrampicandosi sulla balconata e immergendosi bendato tra gli spettatori, facendosi letteralmente guidare da coloro che gli tendono una mano dal pubblico. Musella coinvolge la platea, la invita a indovinare le rime baciate, e sceglie pochi singoli spettatori ai quali “confidare” un sonetto segreto, determinando così una fruizione differenziata della medesima pièce da parte degli astanti.
Il contatto fisico e corporeo stabilito dall’interprete con il pubblico – che si esprime principalmente con lievi carezze – determina quella che Erika Fischer-Lichte definisce «irruzione del reale nella finzione»: se il teatro, etimologicamente, rappresenta un «medium pubblico», orientato sulla distanza dell’occhio, sulla vista», laddove lo sguardo rappresenta «il luogo in cui sorge l’illusione stessa», il contatto appartiene invece alla «sfera intima», che induce lo spettatore a essere sensibile non solo nei confronti del personaggio, ma anche «nei confronti dell’attore in quanto persona effettiva». Nella tensione tra «dimensione pubblica e intimità», gli spettatori vengono dunque riconosciuti nella loro presenza corporea come co-soggetti essenziali all’esperienza performativa e alla produzione di una comunità.
E a intensificare la funzione comunitaria e politica del teatro è ancora una volta Lino Musella che, il 29 novembre, Giornata Internazionale della Solidarietà con il Popolo Palestinese – prima di una replica dei suoi spettacoli al Teatro Vascello –, ha offerto al pubblico una lettura integrale del testo poetico Stato d’assedio di Mahmud Darwish, scritto nel 2002 durante l’assedio di Ramallah da parte delle truppe israeliane di Ariel Sharon. Versi che risuonano oggi con straziante attualità e che richiamano a una presa di posizione a un’assunzione di responsabilità collettiva: «Non lasciateci soli, non abbandonateci».
Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.