Corpi spezzati: L’appuntamento ossia la storia di un cazzo ebreo

Apr 12, 2024

Fabio Cherstich porta al Franco Parenti L’appuntamento ossia la storia di un cazzo ebreo, con Marta Pizzigallo, Francesco Maisetti e Giuseppe Sigalini, trasposizione teatrale del breve romanzo Un cazzo ebreo (2021) di Katharina Volckmer che, insieme al regista, ne firma anche l’adattamento. Sul palco due dischi di fibra trasparente che richiamano le lampade Discovery di Ernesto Gismondi fanno da filtro e restituiscono, diffranto, il corpo seduto di una donna in giovane età.

La vicenda si svolge durante un appuntamento presso lo studio del dottor Seligman, un chirurgo estetico di fede ebraica, immobile su una sedia che dà le spalle al pubblico per l’intero arco della pièce. Qui sta per trovare soluzione il desiderio di una giovane donna di disfarsi di un corpo che non le rassomiglia, per poter finalmente vestire i panni maschili che le appartengono fin dalla nascita, dotandosi di un cazzo.

la storia di un cazzo ebreo
© Luca Dal Pia

Così, nell’intimità del meno ospitale dei luoghi, l’anonima protagonista si abbandona in un torrenziale flusso di coscienza che trasuda dolore, ironia dissacrante e una rara puntualità nello smascherare le ipocrisie della società borghese di cui fa parte. Due in particolare le ipocrisie attorno a cui si articola il testo. 

La prima riguarda l’esperienza della denazificazione vissuta da una giovane tedesca nata molti anni dopo la guerra. Tra qualche sogno erotico proibito verso il defunto Führer – inventato all’occorrenza per terrorizzare lo strizzacervelli di turno – e i ricordi d’infanzia (in cui un’intera classe di trenta bambini tedeschi era costretta a cantare Hava Naglia in ebraico per testimoniare il debito infinito verso gli ebrei), la protagonista racconta la verità ben più scomoda di un popolo che, nonostante Norimberga, non ha mai fatto davvero i conti con la dimensione soffocante del suo passato. 

«Non siamo mai stati in lutto», confessa al medico ebreo, «Semmai ci comportavamo assecondando una nuova versione di noi stessi – istericamente non razzisti in qualsiasi circostanza, e pronti a negare sempre qualsiasi differenza. Eppure non abbiamo mai restituito agli ebrei lo status di esseri umani né abbiamo permesso che interferissero con la nostra interpretazione della storia, fino ad arrivare a quel triste cumulo di pietre che è stato messo a Berlino per commemorare le vittime dell’Olocausto. Ce l’ha presente, dottor Seligman? Io mi domando, seriamente, ma chi vuole essere ricordato in quel modo?». Nessuno, potremmo rispondere oggi, e la storia recente dà ragione a Volckmer delle sue parole dato il tentativo riuscito del governo di Israele di scrollarsi per sempre dalle spalle il titolo di vittime.

la storia di un cazzo ebreo
© Luca Dal Pia

Ma la questione dell’eredità nazista fa in realtà da cornice ad una seconda ipocrisia, vero fulcro della storia, ovvero quell’irrimediabile condizione, data per scontata, di avere un corpo.

Esistono molti modi di avere un corpo, possiamo esserne soddisfatti, possiamo scendere a patti con esso, rifiutarne un pezzetto oppure lo possiamo aborrire del tutto; e proprio come una Prinçesa della Slesia, la giovane donna espone il dramma di nascere in quello sbagliato, doppiamente sbagliato. Sbagliato non solo per sé stessa, ma anche per la società che abitiamo, vale a dire un corpo di donna. 

Perché ad una lettura più attenta, sembrerebbe quasi che il desiderio di diventare uomo non risponda ad un particolare trasporto verso l’universo maschile, quanto al rifiuto di tutte quelle sovrastrutture in cui, ieri come oggi, cerchiamo di ingabbiare quello femminile.

Dall’imposizione di determinati colori, abiti, modi di fare e di apparire, fino alla gravidanza come obiettivo, passando per i tabù della sessualità, ciò che Volckmer denuncia non è la fatica dell’essere donna in sé, ma di dover essere quel tipo di donna. Quale? Quello che, in un modo o nell’altro, permetta all’altra metà del mondo dotata di cazzo di non sentirsi mai sminuita o in pericolo, di sopportare livelli accettabili di stravaganza, di rimanere in controllo. In altri termini, per la protagonista la dimensione del maschile sembra aprirsi solo in quanto negazione di un femminile violentemente predefinito.

Solo un uomo nella vita della giovane protagonista sembra sfuggire a questa doppia morsa che mortifica in primis la sfera maschile. In fila al bagno degli uomini incrocia K, un pittore sospeso come il suo nome con cui contrarrà una dolcissima e straziante storia d’amore, segnato nel profondo da una tristezza incurabile che lo porterà al suicidio.

Nelle notti insieme, passate a dipingersi vicendevolmente il volto con gli acrilici di lui, accarezzano l’idea di non essere anime sole; ma alla richiesta di K di restare insieme per sempre la giovane protagonista realizza di non poterlo amare nel modo in cui il suo corpo di donna le permette. Decide così di fuggire quella notte stessa, mentre il sonno avvolge ancora K, e nel momento esatto in cui abbandona la stanza dell’albergo, segnando la fine di lui, segna anche la fine di lei. Quelle due persone non esisteranno più, e un cazzo ebreo le darà la forza di scegliersi davvero per la prima volta. 

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