Articolo a cura di Francesca Lupo
Entrare in un giardino o in un parco cittadino dà l’impressione di compiere un lunghissimo viaggio in pochi secondi da una parte all’altra del pianeta cambiando radicalmente odori, colori, percezioni. Il traffico e l’asfalto scompaiono e sembra impossibile immaginare che oltre gli alberi la vita metropolitana continui a svolgersi tranquillamente. Il palcoscenico montato all’interno dell’Orto Botanico di Palermo è avvolto dalla vegetazione e dal buio di una fresca sera di settembre e a contrastare il vocio prima che lo spettacolo inizi ci sono solo le cicale. Il 2 settembre la programmazione della seconda edizione del Metamorphosis Festival, diretta da Sabino Civilleri, ospita The Waste Land and Other Poems – Ciò che vide Tiresia, uno spettacolo firmato dalla regia di Claudio Collovà. In scena lo stesso regista interpreta i versi del poeta americano accompagnato dalla musica de La Banda di Palermo, dalla pianista Ornella Cerniglia e dal compositore Giuseppe Rizzo, che si esibisce in live electronics.
La Banda (in questa replica composta da Giacco Pojero, fisarmonica e voce, e Nino Vetri, sassofono e voce, insieme a Marco Monterosso alla chitarra elettrica, Simone Sfameli alla batteria e Luca La Russa al basso) fa il suo lento ingresso in scena insieme a Collovà e alla pianista. È lei ad aprire lo spettacolo sulle note dei Notturni di Chopin, che trasportano lo spettatore, stregato dalla soave malinconia delle note, in un’atmosfera concertistica. Collovà inizia a recitare a memoria i versi dell’intero poema (e di altre due poesie, in apertura Ritratto di signora e nell’epilogo The Hollow Men) in duetto con il live electronics di Rizzo. Cerniglia e La Banda di Palermo sono sempre in scena, con lo sguardo rivolto al regista, in attesa del segnale in cui dovranno inserirsi. E anche il pubblico aspetta trepidante finché suonano il loro primo brano, April. I musicisti vengono interpellati in determinati momenti del flusso travolgente dei versi, come se interpretassero i desolati personaggi del poema. È difficile rimanere seduti mentre le loro sonorità coinvolgono il pubblico, il quale sussurra i testi a memoria, tiene il ritmo mentre una dopo l’altra le sette melodie intonate fanno capolino durante la performance. C’è chi chiude gli occhi per immaginare meglio gli odori, l’acqua, le rocce, il pub, gli uomini vuoti che la voce e gli strumenti in scena raccontano. Eliot scriveva di come il mondo si palesava ai suoi occhi dopo il primo conflitto mondiale e le sue primaverili parole apocalittiche sono purtroppo molto vivide anche in questa sera di settembre. Ecco che i toni cupi dei versi sembrano neutralizzarsi alla fine dello spettacolo/concerto: tra l’ultimo brano de La Banda e quello di Cerniglia al pianoforte, Collovà riprende fiato dalla lunga interpretazione e si alza dalla sedia. Si avvicina a Pojero alla sua sinistra, si guardano e sorridono, fa lo stesso con Cerniglia. Un’ultima l’intesa tra esseri umani tutt’altro che vuoti, bensì commossi da un lungo lavoro.
The Waste Land and Other Poems aveva precedentemente debuttato il 9 agosto al Segesta Teatro Festival, ma non è la prima volta che il celebre poema di Thomas Stearns Eliot, edito nel 1922, è oggetto delle attenzioni degli artisti. Collovà racconta di un lungo rapporto con il poema, che si traduce in spettacolo teatrale per la prima volta nel 2001 al Teatro Bellini di Palermo: una decina di attori traducono in azioni le suggestioni provocate dai versi che raccontano la terra desolata intorno a loro e dentro se stessi. Anche in questa prima edizione tra gli interpreti si scorgono Pojero e Vetri, che allora avevano già incuriosito lo sguardo registico di Collovà. Sono numerosi i grandi autori della letteratura mondiale che attraversano la sua produzione, da Kafka a Büchner, da Shakespeare a Eliot appunto e le loro parole, la loro presenza nel teatro di Collovà non smettono mai di riecheggiare. La replica del 2 settembre 2023, racconta, «non è una evoluzione dello spettacolo ma una forma diversa del mio lavoro su Eliot e su La terra desolata. Le connessioni sono tante ma la forma è completamente diversa; non sono evoluzioni l’una dell’altra ma sono forme diverse perché diverso è comunque il contatto con questo poema». È proprio del regista tenere uno spiraglio sempre aperto nei confronti dei materiali di riferimento, che siano autori interi o singole opere, alimentando una riflessione che non può mai esaurirsi: «Mi piace molto tornare sulle cose che ho sviluppato in passato, che sono costate tanta fatica. Non sono spettacoli che vengono consumati per me: magari vengono consumati per il mercato ma per me rimangono sempre fonti importanti di ritorni, di lavoro, di revisione. Mi piace lavorare così più che passare da uno spettacolo ad un altro».
La musica è un linguaggio che ha sempre accompagnato lo studio sul poema di Eliot. Nella prima “forma” del 2001 Pojero e Vetri erano gli unici musicisti («ad un certo punto si accendeva una luminaria dove c’era scritto “The Waste Band”»). Successivamente è stato coinvolto il resto del gruppo tanto che i primi dischi da loro pubblicati raccolgono molti brani scritti appositamente per le piéces. È difficile dopo tanti anni di collaborazione discernere la genesi, il pensiero originario di un’idea, di una canzone, tanto che gli stessi versi di Eliot sembrano legati a doppio filo con le note de La Banda di Palermo. Tra Collovà, Pojero e Vetri intercorre «una grandissima complicità umana. Abbiamo fatto tanti viaggi insieme, abbiamo lavorato su una quindicina di titoli teatrali. Poi ci siamo anche un po’ persi di vista nel senso che io ho intrapreso una strada diversa, loro hanno viaggiato. Siamo felici di esserci ritrovati». Il trasformismo dei due musicisti è innato come la loro creatività, in grado di donare ai personaggi una profonda sincerità. La teatralità si scorge anche durante i loro concerti, nelle immagini che creano con le loro sonorità, nelle numerose lingue in cui compongono i testi, nell’alternarsi di voci acute e gutturali, buffe e spaventose. «Io penso che le nostre espressioni artistiche siano sempre in movimento, non siamo molto fossilizzati in una espressione che si ripete».
La collaborazione con Giuseppe Rizzo va avanti da quasi sei anni, in maniera continuativa in tutte le sue ultime produzioni. «Lavora su dei paesaggi sonori che non sono paesaggi descrittivi, ma che hanno a che fare con le sensazioni o le necessità di tempi musicali che esprimono sempre comunque un sentimento: qualcosa di cui tu senti la necessità che avvenga al di là della parola, sotto la parola, accanto alla parola, in modo che favorisca anche il lavoro sulla parola». Quello di Rizzo e Collovà durante lo spettacolo è un vero e proprio duetto, un montaggio istantaneo di live electronics e di voce, sonoro e di senso. «Nello spettacolo Giuseppe suona con me perché lui è sempre con me [..]. Quando io parlo entra in gioco Giuseppe e spesso mi costruisce il passaggio sonoro sul quale pronunciare quelle parole». La composizione di Rizzo è frutto di un continuo confronto con Collovà sulle immagini e le suggestioni che ad entrambi evocano i versi del poema, delineando sì dei precisi momenti in cui accordarsi ma senza imbrigliare l’interpretazione dal vivo in una esecuzione sempre uguale ad ogni replica. I suoni di Rizzo «influiscono su di me e sul modo in cui io decido di recitare, siamo insieme».
Anche Ornella Cerniglia ha già collaborato ad altri precedenti studi su The Waste Land. Segue al pianoforte gli arrangiamenti di alcuni brani de La Banda di Palermo, ma ha anche molti momenti solisti. Chopin è dichiaratamente citato da Eliot nel suo poema, per questo vengono inserite le esecuzioni di alcuni Notturni in momenti salienti dell’interpretazione di Collovà. Il pianoforte «ha una funzione quasi asettica, pulitrice, come se tutto il chiasso delle parole, delle immagini, tutto il frastuono della musica ad un certo punto si chetasse in questo suono. Nel caso di Chopin sono brani che hanno sempre a che fare con la malinconia, con il mondo perduto, con qualcosa che non c’è più, con la nostalgia, con la rabbia rispetto alla nostalgia».
The Waste Land di Eliot è indubbiamente un’opera complessa, composita, ricca di riferimenti spesso difficili da cogliere. Un susseguirsi di immagini mitiche, letterarie, numerose stratificazioni di senso da interpretare. La voce di Collovà è una delle vie possibili da percorrere verso il poema. «A volte lasciare allo spettatore la possibilità di immaginare senza vedere ha una forza che se non è superiore è almeno pari a quando fai vedere le immagini. [..] Non c’è niente da capire ne La terra desolata, o meglio, c’è tanto da capire se la si studia, [..] se si guarda a tutti i riferimenti eccetera, ma è importante trasmettere delle immagini che non abbiano la comprensione come primo obiettivo: sentire la musicalità, balzare da un luogo all’altro. [..] La musica che ha tre forme diverse in questo spettacolo [..] per me è un’arte che ha sempre suscitato immagini». Suscitare immagini piuttosto che mostrarle sembra un’impresa ardua nel nostro presente, che di figure invece sembra ingordo. Siamo ancora capaci di crearle da soli? È ancora possibile immaginare una terra desolata quando si presenta quotidianamente davanti a noi?

La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.