Ad Aristofane che a 17 anni, poco più esordiente, scrive la dissacrante commedia Acarnesi per protestare contro la guerra del Peloponneso, il Teatro delle Albe ha dedicato lo spettacolo in scena al Teatro Alighieri nell’ambito di Ravenna Festival, il 3 giugno scorso dopo il debutto a Pompei. A precedere l’evento anche un convegno di studiosi sull’attualità del commediografo e sulla sua influenza nel teatro di ricerca degli ultimi decenni.
Da Atene a Pompei a Ravenna: Aristofane trova casa è infatti il titolo dell’incontro organizzato nel pomeriggio di sabato alla Biblioteca Classense dove è tuttora conservato il Manoscritto 429 che tramanda 11 delle 40 commedie di Arsitofane, compreso il testo integrale di Lisistrata. Un approfondimento sull’opera che è stata affrontata da molteplici prospettive, in primis quella storica e filologica, con Floriana Amicucci che ha descritto le peripezie del manoscritto dal terzo secolo a.C., periodo in cui iniziano a circolare le opere di Aristofane, giunte nel decimo a Costantinopoli e stampate in Italia dall’editore Aldo Manuzio a partire dal 1498, poi in versioni differenti nel 1515 e 1516 da Bernardo Giunta, entrambi a Firenze, fino al 1712, a Pisa, in cui il testo viene acquistato dall’abate Gianbattista Canneti di Classe e arriva così a Ravenna.
Al grecista Alessandro Iannucci, dell’Università degli Studi di Bologna, invece, il compito di spiegarne il contenuto. Aristofane è ancora giovanissimo, tanto da non poter dirigere lo spettacolo al teatro di Dioniso dove Acarnesi è stata rappresentata per la prima volta, probabilmente intorno al 425, ma ci sono già i due pilastri delle sue commedie: la protesta contro la guerra e la satira feroce contro la classe politica corrotta, con ampio ricorso a volgarità, battute con riferimenti sessuali e utilizzo di escrementi in scena. “Un livore compatibile con la sua età anagrafica- spiega Mannucci – e quindi con l’irruenza degli adolescenti delle periferie, da Scampìa, dove si combatte una guerra quotidiana contro la malavita organizzata, a Pompei dove Marco Martinelli ha portato la riscrittura drammaturgica di Acarnesi. Stop the war!”.
La difficoltà nel rappresentare questo tipo di testo oggi, ha spiegato ancora Iannucci, sta piuttosto nel suo rimando stringente all’attualità, a personaggi, vicende, forme idiomatiche tipiche del suo tempo che ora non possiamo conoscere con certezza ma solo supporre e che di conseguenza rendono il testo poco accessibile, costringendo il lettore a un continuo rimando alle note che spiegano questo o quel passaggio.
La trama è nota: racconta di un contadino chiamato Diceopoli (città giusta) che, stanco della guerra e dei soldati che si avventano sui suoi campi, decide di prendere parte all’assemblea, dove tutti hanno il diritto di parlare, e propone un piano pubblico di pace. Ad aiutarlo c’è Anfiteo, un personaggio fantastico venuto da un altro mondo che però viene cacciato in malo modo dagli ateniesi, spingendolo a rinunciare e a decidere di tentare un piano di pace in privato tra la sua famiglia e gli spartani, che tuttavia gli provocherà il rancore dei concittadini.
Eppure, spiega Mannucci la commedia “è un ciclone di comicità dal punto di vista drammaturgico”. Diceopoli, che abita nelle campagne di Acarne, una suddivisione amministrativa dell’antica Atene, è rozzo in modo spassoso, tanto da presentarsi al mattino presto sulla collina di Pnice, quando non c’è ancora nessuno, portandosi appresso un carico di aglio e lamentandosi, nel modo tipico delle persone poco istruite, delle poche gioie che ha avuto nella vita e del fastidio che sta provando, tanto da elencare con una serie di verbi il suo daffare mentre aspetta l’inizio dell’assemblea con verbi molto coloriti (mi lagno, mi spetezzo, mi scoccio, mi strappo i peli).
Aristofane non ha scelto a caso questo tipo di personaggio, come ha puntualizzato nell’intervento successivo, Martina Treu, docente di Arte e Drammaturgia nel mondo classico. “Nel 1994 – racconta – il Teatro greco di Siracusa ha ospitato una versione di Acarnesi diretta da Egisto Marcucci nell’ambito di Inda–Istituto Nazionale Dramma Antico. Il contadino si lamenta dei suoi campi rovinati dalla guerra, mentre la città di Atene è stata salvata. Ripensandoci adesso, trovo ci sia Si per Ravenna un rimando di spiazzante attualità, pensando alla recente alluvione di fronte alla quale si è scelto di tutelare, per motivi economici, il centro e sacrificare le campagne. In generale, durante la guerra, sono i contadini i primi ad essere danneggiati con i saccheggi e il crollo del mercato agricolo”.
La comicità del personaggio non toglie nulla alla drammaticità di quanto viene denunciato dal commediografo, tanto che l’opera è preceduta da un prologo con gli angeli della morte che raccolgono i cadaveri. Come i cittadini ateniesi sono rappresentati come gazze o come esseri senza testa, così Aristofane ci mostra la disonestà dei sostenitori della guerra capaci di manipolare persone poco abituate a riflettere”.
Subito dopo Treu ha precisato che la rappresentazione di questa turbolenta e surreale assemblea è andata in scena nello stesso anno in cui in Italia debuttava in politica un controverso personaggio pubblico, capace nell’arco di poco più di vent’anni di mutare radicalmente il mondo della comunicazione.
Maddalena Giovannelli, docente di Storia del Teatro all’Università della Svizzera Italiana, invece, ha parlato della parte scenica “In Acarnesi troviamo una prima parte, in cui si realizza la pace desiderata da Diceopoli e nella seconda le contraddizioni che la realizzazione del piano comporta. Il compito del comico è appunto questo, svelare le contraddizioni, così come lo è quello di ricorrere al travestimento, altro elemento caratterizzante della comicità. Vi deve ricorrere il protagonista per sfuggire al coro degli Acarnesi guerrafondai andando a chiedere aiuto al tragediografo Euripide, dal quale trova vestiti da straccione. Ma anche un cittadino poverissimo che è costretto a vendere le figlie travestite da suini. Sia nell’una che nell’altra modalità il teatro si rivela una escape strategy per Aristofane.
La funzione del coro e la sua centralità nell’opera di Martinelli come in molte opere di rottura del teatro contemporaneo sono infine state messe a fuoco da Lorenzo Donati, critico teatrale della rivista Altre Velocità. “Il coro nel teatro greco è lo specchio di ciò che siamo e ci interroga sui nostri comportamenti. Con il teatro borghese, sosteneva Hans Thies Lehmann nel suo Teatro post-drammatico del 1999, è venuto meno il coro perché è venuta meno la collettività”. Il teatro di Martinelli e di questa ampia area del post drammatico, ha quindi voluto riappropriarsi di questo elemento cardine, che si realizza mettendo in campo diversi talenti, diverse visioni, ma soprattutto che lavora attraverso la moltiplicazione del senso”. E ancora, a proposito di Inferno ed Eresia della felicità, afferma che “qui il Coro è l’unione di visioni differenziate e polifoniche”. Questo concetto di coralità inteso anche come unione di pezzi diversi, lo si trova ad esempio nell’opera Pescicani – Quel che resta di Bertolt Brecht della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo del 2003, in cui il regista, procedendo con un movimento inverso rispetto a quella che è la sua funzione, quella di dare ordine e organicità, mette in sequenza scritti biblici, politici, opere letterarie e cinematografiche ed altre di mero divertimentificio, interrompendo così la linearità narrativa. Andando verso una drammaturgia policentrica, che procede per accumulo di pezzi divergenti, col desiderio di ricondurli ad una unità. Si tratta di un teatro in cui “c’è tensione, combattimento, ma anche desiderio di mediazione” e in cui la presenza del coro è essenziale.

Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.