«Il pronome personale è importante». Collettività e violenza in Wonder Woman e Zorro di Latella e Bellini

Mar 20, 2025

Di Chiara Molinari
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.

«Sono io il corpo del reato il luogo del delitto la scena dell’azione». Così recita la drammaturgia di Wonder Woman, primo spettacolo del dittico dedicato ai supereroi scritto da Antonio Latella e Federico Bellini, debuttato in Germania nel 2021, e ora in tournée nei teatri italiani fino a maggio. L’allestimento si apre con la disposizione, a ridosso del fondale, di quattro sagome disegnate a terra, composte da un mucchio di vestiti colorati: materia inerte che sembra segnalare l’avvenimento di un atto violento, prefigurando il conto di quattro vittime. 

Della fisionomia della vittima, però, non hanno nulla le quattro giovani interpreti – Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Rienzi, Chiara Ferrara e Beatrice Verzotti – che giungono sul proscenio esponendo al pubblico il loro corpo vivo, pulsante: con lo sguardo diretto agli spettatori, seduti in una platea illuminata a giorno e dunque chiamati a ricambiarlo, esibiscono infatti le ferite che un sistema pervasivamente patriarcale infligge a ciascuna donna per trasformarle in un urlo di rivolta e di condanna. 

È del 2015 – anno che coincide con la nascita del movimento transfemminista Non Una Di Meno in Argentina – la denuncia di stupro da parte di una ragazza peruviana ad Ancona, a cui fa seguito la vergognosa sentenza declamata all’unisono dalle interpreti: una giuria di sole donne dichiarò in Corte d’Appello (con un verdetto poi ribaltato in Cassazione) che il fatto non potesse sussistere data «la personalità tutt’altro che femminile, quanto piuttosto mascolina» della giovane. A supporto di quanto sostenuto, nel verbale si legge la surreale affermazione per la quale all’imputato «la ragazza neppure sarebbe piaciuta, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo “Vikingo”». 

La durezza del linguaggio e l’emotività traboccante da cui le quattro attrici si fanno attraversare investe la platea come un’onda violenta, che restituisce tutta la crudezza dell’avvenimento e trascina gli spettatori tra i «gironi infernali» affrontati da Nina: questo il nome di finzione attribuito alla ragazza, lo stesso della protagonista de Il gabbiano di Čechov, «che non sa mentire, non sa recitare». Dagli abusi vissuti durante la terribile serata al parco, tra decine di bottiglie di birra, passiamo allora alle stanze della questura, dove si susseguono domande umilianti sul vestiario indossato e sulle modalità in cui i rapporti sono avvenuti, illazioni sulla possibilità che lo stupro sia semplicemente una scusa inventata da una “ragazzina” per sfuggire alla punizione dei genitori. Si approda dunque alle aule di tribunale, dove le giudici, in una reminiscenza pasoliniana, vengono descritte come Eumenidi ritrasformate in Furie: l’episodio di cronaca dal quale la pièce prende avvio rende infatti esplicita la violenza intrinseca al diritto, lo iato che lo separa da un’idea e da una reale pratica di giustizia, così come la distanza incolmabile che si stende tra gli organi statali e i cittadini che questi dovrebbero tutelare. 

Nel convulso racconto a quattro voci, che alla violenza carnale subita stratifica la vittimizzazione secondaria da parte delle istituzioni e il “bla bla bla” dei media, emergono anche le molteplici linee di oppressione che s’intersecano nell’esperienza di vita di Nina, che non è solo donna, ma anche “straniera” – una «scaltra peruviana», come viene definita nella sentenza –: appare allora significativo che i poliziotti trovino necessario chiarire, prima ancora di credere alle parole della giovane, se “gli stupratori siano come voi o come noi”. 

Seguendo quelle stesse linee di oppressione, è dunque di un nuovo noi che si appropriano le attrici sulla scena, passando dalla prima persona singolare alla prima persona plurale nella narrazione, rendendosi corpo collettivo, quasi a ribadire che “se toccano una, toccano tutte”. La lotta diviene-donna, e Nina si libera delle pesanti spoglie di “Vikingo” in cui l’hanno costretta per riconoscersi come Amazzone, appartenente a un popolo di sole donne. Le Amazzoni, stirpe guerresca che ci è nota dalla mitologia greca, sono anche le compagne e le sorelle di Wonder Woman, celebre personaggio dei fumetti creato da William Moulton Marston. Prima supereroina femminile – e femminista – della DC Comics, la “donna meraviglia” cattura con un lazo magico i suoi antagonisti, costringendoli a dire il vero: non sorprende allora – ripercorrendo il «lavoro del detective» che Latella svolge insieme ai propri collaboratori per ogni spettacolo – scoprire che lo psicologo americano fosse anche l’inventore della cosiddetta “macchina della verità”. «Nostro creatore», lo definiscono le quattro interpreti in scena, scandendo versi concitati tra i fili dei microfoni: «Sono (…) Il poligrafo di carne il misuratore di ritmo cardiaco (…) Non ho aritmie blocchi emozioni Non sputo più sudore il mio corpo non mente Collegatemi pure non ho niente da temere sono io Wonder Woman». 

Il conflitto messo in atto per essere creduta, per portare avanti la propria verità, parte allora da minuscoli oggetti tradizionalmente associati a un lavoro domestico, trasmesso ed ereditato dalle nostre madri: dall’ago e dal filo. La drammaturgia di Bellini e Latella li risignifica e ne trasfigura qualunque connotazione oppressiva, al punto che «con un filo e un ago si scrive la storia si lasciano segni indelebili del nostro esserci sempre state (…) con un ditale si può addirittura vincere una battaglia». Ed è così che le quattro attrici indossano, uno dopo l’altro, gli abiti e le collane – realizzati da Simona D’Amico – abbandonati in fondo alla scena, dai cromatismi simili al costume della supereroina e dai richiami tribali: donano loro nuova vita e un nuovo senso, restituendo corpo a ciò che sembrava perduto, e facendosi così «grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce». 

Attraversando il palcoscenico in una danza magnetica, in cui il roteare del lazo della verità si mescola ai passi e alle parole di Un violador en tu camino, performance ideata dal collettivo teatrale cileno LasTesis per diffondersi nelle piazze di tutto il mondo come inno di protesta contro l’ordine patriarcale, le attrici dischiudono allora un nuovo immaginario, una narrazione altra rispetto a quella istituzionale che svilisce, normalizza e spettacolarizza la violenza di genere. Con un dito rivolto verso gli spettatori, a indicare che “la vergogna deve cambiare lato” – come ci ricorda il processo a porte aperte per il recente caso di Gisèle Pelicot –, le interpreti ci chiamano in causa intonando la canzone tradotta in italiano: «La colpa non era mia, non c’entra dove stavo né com’ero vestita/ Lo stupratore sei tu / Le guardie /I giudici / Lo Stato/ Il Presidente/ Lo Stato oppressore è un macho stupratore/ Lo stupratore sei tu». 

Ispirata agli scritti della scrittrice e attivista argentina Rita Segato, la coreografia, una volta sconfinata nelle strade, ha reso accessibili le sue teorie femministe a una moltitudine di persone che difficilmente vi sarebbero entrate in contatto. Con lo spettacolo scritto da Latella e Bellini, l’organizzazione di questa rabbia torna dunque a farsi teatro: un teatro politico, perché connette e avvicina la comunità della sala alla «lotta di ogni giorno» delle donne e dei movimenti che scendono in piazza.

Fortemente politico è anche il tema della povertà, attorno al quale è costruito il secondo spettacolo del dittico originariamente pensato per i palchi tedeschi, Zorro, in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano fino al 16 febbraio. Non è un caso che l’allestimento sia specificamente pensato per una città in cui la forbice tra i redditi di chi la abita si rende sempre più ampia: il testo di Latella e Bellini intende allora entrare in risonanza con l’architettura e la memoria scenica dello spazio, che Paolo Grassi e Giorgio Strehler concepirono come modello di “teatro d’arte per tutti”, inaugurato nel 1947 proprio con la messa in scena de L’albergo dei poveri di Gor’kij. Con una simile sensibilità, durante la messinscena di Hamlet al Teatro Melato – spettacolo diretto dal regista campano e vincitore del premio Ubu nel 2021 –, Federica Rosellini, nei panni dell’inquieto Principe di Danimarca, si aggirava tra aste ricoperte dai costumi degli storici allestimenti di Strehler e Ronconi. 

Ph Masiar Pasquali

La politicità dell’argomento scelto per lo spettacolo impone una problematizzazione di ordine estetico: come è possibile parlare di povertà al caldo di una sala teatrale, nel momento in cui dei professionisti pagati si rivolgono a una platea di spettatori paganti? In un saggio dedicato alle possibilità di un’opera d’arte impegnata e significativamente intitolato Impegno, Adorno scrive infatti: «È un’usurpazione e quasi uno schernire le vittime parlare come queste, come se si fosse uno di loro. È permesso di recitare ogni parte ma non quella del proletario». Consapevoli di questa delicatissima contraddizione, Latella e Bellini interpellano allora nella loro drammaturgia molteplici forme sperimentate nella storia e nella pratica di un teatro che si autocomprende come fait social: con citazioni, considerazioni metatestuali e metateatrali, vengono dunque evocati Brecht, Beckett, l’avanspettacolo, il teatro documentario, la Commedia dell’Arte. La rappresentazione, i cui meccanismi e le convenzioni – parola che assume un valore centrale nel testo – sono resi trasparenti al pubblico, viene quindi interrogata nell’istante stesso del suo farsi, sistematicamente smontata e decostruita, perché l’allestimento sfugga all’irrigidimento e alla duplicazione della violenza che sussiste nello “stato vigente di cose”.

Sul palcoscenico si muovono quindi quattro attori, Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni, Isacco Venturini (“contrappunto” maschile al quartetto di Wonder Woman), che, vestendo alternativamente i panni del Povero, del Poliziotto, del Muto e del Cavallo, costruiscono sette differenti scene, definite come “quadriglie”. Ed è un’intensa interpretazione di una selezione di brani musicali – avviata da Un ragazzo di strada de I Corvi –, eseguita dallo stesso Venturini alla chitarra, ad accompagnare e scandire il passaggio da un “quadro” all’altro.

La quadriglia – afferma il regista in un’intervista confluita nel programma di sala – è infatti un ballo che prevede lo scambio di ruoli, e in Francia veniva danzata «per raccogliere denaro per i poveri». Con costumi dai colori sgargianti – anche in questo caso ideati da Silvia D’Amico –, che rimandano allo stile iconico di Elvis Presley, gli interpreti accolgono gli spettatori nell’atrio del teatro, immobili su un piedistallo, come statue di supereroi, quasi fossero in attesa di qualche moneta. Latella racconta infatti come a ispirare la pièce sia stata la visione di «due senzatetto che chiedevano l’elemosina vestiti da Zorro, mentre da un registratore ai loro piedi uscivano le note della sigla del celebre telefilm». 

Lo spazio scenico concepito da Annelisa Zaccheria – che insieme alle luci, a cura di Simone De Angelis, contribuisce a definire l’immaginario «violentemente pop» dello spettacolo – è dominato da una cabina telefonica e da un cactus che rimanda alla California, luogo per eccellenza in cui “convivono lusso e indigenza”, ma anche sfondo delle gesta compiute da Don Diego de La Vega, personaggio creato dalla penna di Johnston McCulley, che nasconde la propria personalità proprio dietro alla maschera di Zorro. Nella pièce di Latella, però, l’eroe mascherato – e l’idea di giustizia sociale da lui incarnata –, non comparirà mai, proponendosi come un Godot beckettiano, atteso invano dai protagonisti sul palcoscenico. Se Don Diego de La Vega era immaginato come un aristocratico che giunge in aiuto dei più deboli, lasciando al suo passaggio il marchio inconfondibile della sua “Z”, nello spettacolo è un altro personaggio a dipingersi una maschera nera sul volto e ad appropriarsi dell’ultima lettera dell’alfabeto: lo Zanni, figura dell’astuto servitore nella Commedia dell’Arte. Nel lungo monologo finale, attraverso la voce e l’interpretazione di Paolo Giovannucci, sono allora gli “ultimi” a parlare, una prima persona al plurale che collettivamente si presenta al pubblico: «Siamo Z (…) Siamo inutiliz. Miserabiliz. Siamo dannosiz. Siamo senzatettoz».

Nella fluidità dei ruoli sociali, nel continuo rimescolarsi delle identità sul palcoscenico, appare allora necessaria – proprio come in Wonder Woman – la ricerca di un nuovo noi, a cui appartenere e con cui rivendicare il proprio diritto a una vita degna. Nella prima emblematica quadriglia, il Povero dialoga beckettianamente con il Poliziotto che indossa una “divisa che divide”, affermando in maniera significativa: «Il pronome personale è importante, quindi le chiederei di non essere generico. Non tutti i noi sono noi, e nell’essere noi non tutti i noi si definiscono noi, come non tutti i voi si danno del voi». La maschera dello Zanni – chiarisce Bellini nel programma di sala –, allora, «lascia intuire, con incredibile preveggenza e forse desolante disincanto, che ogni rivoluzione credibile deve per forza partire dal basso, da chi per natura ed estrazione sociale non può che conoscere molto bene la fame, la miseria, il dovere del riscatto». 

«Se c’è un povero che ha preferito spendere i suoi spiccioli per assistere a questa merda piuttosto che mangiare un tramezzino, alzi la mano!», chiedono dunque gli attori a bordo palco. E se è verosimile che in nessuna replica nessuno spettatore potrà rispondere sentendosi interpellato, altrettanto certo è che le platee dei teatri – e gli stessi palcoscenici – siano attraversati da numerosissime persone che faticano a vivere del proprio stipendio e ad arrivare alla fine del mese. 

Nella città in cui solo pochi mesi fa un ragazzo di diciannove anni, Ramy Elgaml, perdeva la vita durante un brutale inseguimento dei carabinieri, e nel Paese in cui – negli stessi giorni in cui lo spettacolo è in scena – uomini e donne formano code infinite di fronte agli Uffici Immigrazione in attesa di un documento, e talvolta vi muoiono per il freddo, il susseguirsi dei dialoghi dello spettacolo di Latella e Bellini ci raggiunge fuori dalla sala, domandandoci allora in quale collettività vogliamo riconoscerci e quale altro mondo possibile vogliamo immaginare.

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