È uno dei tre finalisti dei Premi Ubu 2023, insieme ad Alessandro Bandini e Alberto Malanchino, nella categoria Miglior Attore under 35. Tra di loro non sembra esserci rivalità e competizione ma una sincera amicizia. Si è fatto notare e ha lavorato, tra i tanti, con registi diversi per influenza come Carmelo Rifici, Leonardo Lidi e Leo Muscato. Modenese di nascita, nonostante l’origine fiamminga del suo cognome, stiamo parlando di Alfonso De Vreese, giovane attore dai modi gentili, con i capelli biondi e gli occhi chiari. Si definisce “casalingo, ma nomade per necessità”.
Fa parte di una promettente compagine di attori teatrali di nuova generazione di cui sentiremo parlare a lungo e, per questo, abbiamo avuto il piacere di intervistarlo e di conoscerlo un po’ più da vicino.
La prima domanda è rivolta per conto di tutte quelle persone che non ti conoscono o che non ti conoscono abbastanza: chi è Alfonso De Vreese oggi e che rapporto hai con la persona che sei stata fino a ieri?
Sono un ragazzo di trent’anni, che si affaccia alla vita adulta, felice di alzarmi ogni giorno e di fare quello che faccio. Però ho un sacco di paure e di insicurezze, che nel profondo mi rendono diffidente e pessimista. Cerco quindi ogni giorno di vivere sorridendo e giocando. La storia del bicchiere mezzo-pieno-mezzo-vuoto mi ricorda tutti i giorni che ci vuole un briciolo di fatica in più per essere felici.
Ho un rapporto abbastanza pacifico con il passato. Per questo però non tornerei mai indietro, non perché ci siano stati dolori, ma perché penso che più vado avanti, più sono contento della vita che sto facendo. E mi auguro che sia sempre così.
Da bambino giocavi con i Pokemon? Quali erano i tuoi giochi preferiti?
Non giocavo con i Pokemon, purtroppo. Né carte, né Gameboy; ma guardavo i Digimon in tv e volevo tutti i Lego del mondo. Ma i giochi più belli erano con mia sorella e i cugini sulla terrazza della nonna.
Una riflessione personale su ognuna di queste sezioni: dedicarsi alle proprie passioni, vivere la vita al massimo, costruirsi la propria vita con fatica e scoprire di più di sé stesso…
Dedicarsi alle proprie passioni: Ogni tanto le passioni coincidono con il proprio lavoro, ogni tanto no. Io credo che debbano sempre essere coltivate; anzi è fondamentale. Altrimenti arrivi a un certo punto nella vita e realizzi di aver perso tempo.
Vivere la vita al massimo: vivere costantemente al massimo penso che porti solo stress. La vita segue dei ritmi più naturali, a volte intensi, a volte quasi immobili.
Costruirsi la propria vita con fatica e scoprire di più di sé stesso: Mi piace molto quando a un mio amico napoletano scappa “faticare” al posto di “lavorare”. Credo che la fatica incida molto sul carattere e la vita di ognuno. Dipende tutto se si sceglie di connotare il faticare in modo positivo e da come si affrontano i NO o gli errori che viviamo.
Quali sono i consigli professionali che hai accettato e condiviso nella tua carriera e quali sono quelli che invece hai rifiutato?
Durante la mia formazione, ho avuto tanti insegnanti e in verità ho cambiato più volte idea sul perché volevo fare teatro.
Quello che più mi è rimasto è che il lavoro non è mai per sé stessi ma sempre per gli altri. Mi hanno insegnato a concentrarmi sulla generosità, sul fuori da sé, ad abbandonare il pudore e a sacrificare un po’ di sé stessi a favore di chi è di fronte a te in scena e in sala. Insomma che quello che conta è il concetto che siamo insieme: con il pubblico, con i compagni e le compagne di scena, con chi lavora dietro alle quinte e negli uffici.
Di contro non ho ascoltato quelli che mi dicevano che era un mestiere di solitudine e che essendo il mondo competitivo, l’unico modo per “farcela” era essere lo squalo più grande. Non ho mai creduto che da soli non si potesse fare carriera o non si potesse crescere e creare cose belle, ma penso che a intraprendere questa via ci si trovi comunque tristi e rancorosi.
Cinque persone che senti di ringraziare e perché.
Carmelo Rifici, perché è stato il mio maestro, mi ha dato fiducia anche dopo la scuola e mi ha guidato a diventare la persona e l’attore che sono adesso.
Leonardo Lidi, ci siamo conosciuti da poco, è un artista che stimo e un grande amico. Sono certo che continueremo a “cercare” insieme.
Mia nonna, una persona a cui penso di assomigliare tanto.
Mio zio, mancato poco tempo fa e che ha sempre dato un valore immenso al rischiare, al superare i propri limiti, anche in modo scomodo.
La mia ragazza, che mi sta vicino nonostante il mio lavoro spesso ci costringa alla lontananza.
A teatro, come nella vita, l’altro è portatore di pericolo, di minaccia oppure di fiducia?
Entrambe le cose. Penso che il pericolo e la paura siano tratti belli dell’essere umano, anzi è proprio in nome della fiducia reciproca che apriamo cuore e anima, rischiando e facendoci del male. Naturalmente crolla tutto il senso del teatro se si sfocia nel massacro, se ci si concentra sulle sole relazioni tra artisti e operatori, dimenticandoci che siamo qui per lasciare qualcosa agli altri.
Che immagini, che ricordi hai del giorno in cui hai scoperto di essere stato candidato agli Ubu come miglior attore?
In verità stavo andando a dormire, stavo mettendo la sveglia per il giorno dopo e ho cominciato a ricevere messaggi da un sacco di amici, ho visto il post ufficiale dell’Associazione Ubu per Franco Quadri: ero elettrizzato e ci ho messo tantissimo per prendere sonno. Ho subito pensato: “comunque vada, già essere candidati è una soddisfazione incredibile, soprattutto insieme al mio migliore amico, Alessandro Bandini”.
Quali sono gli attori che, nelle precedenti edizioni del premio Ubu, nella tua categoria, ti hanno ispirato o stimi particolarmente?
Christian La Rosa. Lo avevo visto spesso a teatro, ho avuto la fortuna di lavorare con lui e spero l’avrò ancora. Mi ha dimostrato cosa vuol dire essere un attore poliedrico e senza paura, quanto è necessario non accontentarsi del proprio talento ma impegnarsi a esplorare fuori dalle proprie zone di comfort.
Spesso le attrici e gli attori sono sottoposti a grande stress e pressione. Puoi confermarlo? Ricordi qualche momento difficile che vorresti condividere?
La precarietà del nostro mestiere, il fatto che spesso si debba essere lontano dai propri affetti, i periodi ad alta intensità che si alternano a mesi di disoccupazione. Sono tutte cose che mi vengono in mente quando penso allo stress. Il lavoro di ricerca che si fa durante le prove è stressante allo stesso modo, perché ti mette di fronte ai nodi della tua vita e che non sempre sono facili da sciogliere.
Il viaggio più bello e il tuo viaggio ideale?
Sono stato in Islanda quest’estate. 10 giorni di viaggio in un’auto camperizzata in mezzo alle cascate, alle balene e alle foche. Non lo dimenticherò mai. Pochi esseri umani, tanti vulcani, distese di roccia e di erba.
Sogno di andare in Giappone, ma mi piacerebbe fosse un viaggio lungo, per vivere la vita metropolitana e le zone più naturali. Vorrei però tornare anche nel deserto, sono stato in Tunisia e vorrei esplorare i mondi caldi, con il tè alla menta e il silenzio.
Di tutti i personaggi che hai interpretato qual è quello che ti ha maggiormente entusiasmato e quello che ancora manca all’appello, che vorresti interpretare? E qual è quello che non vorresti mai interpretare?
Parto da Amleto che ancora manca all’appello. Un po’ cliché, ma ammetto che prima o poi sogno di giocare dentro quelle parole.
Jessica in Come nei giorni migliori di Diego Pleuteri, regia di Leonardo Lidi. È un ruolo molto vicino al mio quotidiano. Ma l’infinito che vive nella relazione con Billy (Alessandro Bandini) è per me commovente.
Forse quello che non vorrei interpretare è Romeo, perché ho sempre preferito Giulietta. Ma non si sa mai, magari è solo un mio pregiudizio.
Qual è la tua opera di Shakespeare preferita e perché?
Sogno di una notte di mezza estate. Provo un grande affetto perché è una delle prime che ho conosciuto e una delle ultime che ho fatto e per cui sono stato in tournée.
Quali sono i personaggi più controversi che hai interpretato e cosa hanno lasciato in te? Cosa hai imparato da loro?
Clemm in Uomini e no di Santeramo, diretto da Carmelo Rifici, un capitano nazista crudele e caotico, quasi infantile. O Macbeth, sempre diretto da Carmelo Rifici. Ho una grande passione per i ruoli negativi, non solo penso siano divertenti da esplorare, ma penso abbiano molto da insegnare su quanto è confusa la linea tra il bene e il male, e diventa molto chiaro, sfondata la membrana del pudore e della morale, il principio di relatività. Inoltre gli antagonisti godono di una libertà estrema e ci sono poche cose più soddisfacenti di avere un assaggio di quella potenza sul palco.
Molte, troppe sono questioni fondamentali che destano preoccupazione nel settore del teatro. Secondo te cambierà qualcosa o è già iniziato il cambiamento?
Sì, tutte le cose sono in movimento. Il mio disagio è quando vedo il mondo ostacolare in tutti i modi il cambiamento, oppure, al contrario, spazzare via tutto quello che riguarda il passato, sia le cose buone sia le cose cattive, in nome di un progresso che però rimane senza radici. In entrambi i casi purtroppo c’è sempre una perdita di complessità.
Continua questa frase: se potessi cambiare qualcosa nel teatro, sarebbe…
Il rapporto col pubblico, soprattutto quello giovane. Ma credo sia un problema culturale: il ruolo che il teatro ha nella società e nell’economia di oggi è marginale. Le scuole vengono a teatro solo se uno spettacolo rientra nel programma didattico. Il settore di spettacolo dal vivo ottiene una percentuale minima dei finanziamenti statali. La nostra categoria non è tutelata. Eppure a me capita sempre di sentir dire da chi torna a teatro dopo anni o da chi schiva le sale teatrali da tutta la sua vita: “ma io pensavo di annoiarmi, invece è bellissimo”.
Come ti senti riguardo a tutta quella mascolinità tossica che continua ad imperversare? Che rapporto hai con il tuo lato femminile?
È un argomento molto vasto e difficile da sintetizzare. La tossicità va sempre condannata, quello che penso è che per una reale risoluzione, per un mondo dove non ci siano differenze, dove tutti abbiano gli stessi diritti e le stesse opportunità ci vorrà molto tempo. Per fortuna ci sono sempre più donne e sempre più uomini che lottano per cambiare il mondo. Il limite più grande sono i confini che abbiamo dentro la testa.
E per quanto riguarda il futuro, provi paura o curiosità? Qual è il futuro di Alfonso De Vreese?
Ammetto di avere un po’ di paura, ma la curiosità vince sempre. Quest’anno continuerò a lavorare a Brescia e a Torino e sono molto contento di ciò. Il lavoro con Leonardo Lidi mi porterà a Spoleto quest’estate e poi in futuro spero di avere altre occasioni nel cinema perché ho avuto una bellissima esperienza con Joe Wright l’anno scorso e ora mi piacerebbe mettermi alla prova anche in quel mondo.

Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.