Chiedendo al lettore di immaginare una cassetta degli attrezzi, Ludwig Wittgenstein afferma che «quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole». Prolungando questa metafora, si potrebbe considerare il linguaggio utilizzato da Edward Albee nel suo celeberrimo Chi ha paura di Virginia Woolf? (1962) alla stregua di un cacciavite: un utensile maneggevole e verosimilmente innocuo, in grado però di smontare pezzo dopo pezzo – e pagina dopo pagina – il complesso sistema di ipocrisia e apparenza della borghesia americana.
Ironia, calembour, scherzi sadici e storielle mortificanti sono dunque le armi imbracciate per lo sfrenato gioco al massacro in cui le due coppie protagoniste – quella più anziana di Martha e George e quella più giovane di Honey e Nick – si lanciano durante una nottata di alcool ed eccessi. L’intera azione drammatica sembra coincidere pienamente con quello che nelle Ricerche filosofiche (1953) Wittgenstein definisce un «gioco linguistico». Il significato di ogni espressione verbale si lega infatti alla molteplicità infinita di contesti nei quali può essere utilizzata, e le «regole» che permettono di comprendere e di partecipare alla conversazione vengono di volta in volta create e intessute dai parlanti: è «guardando gli altri giocare» che un gioco si impara. Il lessico ludico è lo stesso che viene messo in campo da Martha per descrivere la contorta complicità che la unisce al marito: «George che (…) sa imparare i nostri giochi con la stessa rapidità con cui io ne cambio le regole».
L’invito a casa dei due giovani ospiti si annuncia allora come una sfida a decodificare i criteri secondo i quali si sviluppa la loro comunicazione: «una volta che si ficca il naso qui dentro, non si può tirarlo fuori appena si ha voglia. Bisogna restarci per un po’». Quello che sembrerebbe un discorso privato fuoriuscito dai cardini di qualunque riservatezza assume dunque i caratteri di una resa dei conti pubblica, durante la quale l’infelicità e la frustrazione di ciascuna delle due coppie sembra essere validata attraverso il confronto e il rispecchiamento nell’altra.
«Recitare in teatro» è uno dei più emblematici giochi linguistici individuati da Wittgenstein, ed è proprio il processo artistico nel suo farsi che viene messo in scena nell’ultimo spettacolo di Antonio Latella tratto dal testo di Albee. Le pesanti tende verdi che circondano la scena propongono un’ideale prosecuzione del sipario e circoscrivono una sorta di cerchio magico – o per meglio dire, stregato – in cui il ritmo della scrittura dell’autore americano viene tradotto in danze sensuali, in musica per il pianoforte e in quella prodotta, quasi per incanto, da oggetti appena sfiorati. La scelta registica di Latella consiste nello svincolare la crudeltà dei dialoghi dalla componente etilica: nonostante per l’intera nottata l’armadietto dei liquori sia a disposizione dei protagonisti, i bicchieri tintinnano vuoti e nessuno berrà un solo goccio. È allora la parola stessa – priva di qualunque “sostegno” o “giustificazione” esterna – ad avere il potere di creare e distruggere, umiliare ed esorcizzare.
La fedeltà con cui il regista campano si approccia all’opera originale, risulta così radicalmente trasformata, e la pura aderenza al testo riverbera in maniera inattesa inquietanti riferimenti alle attuali vicende mondiali: «l’Occidente, gravato da zoppicanti alleanze e appesantito da una moralità troppo rigida per potersi adattare al mutar degli eventi – legge infatti ad alta voce George (interpretato da Vinicio Marchioni) –, finirà, un giorno, per crollare».
È tuttavia lo scavo nella dimensione linguistica che consente a Latella di caricare gli elementi scenici di una nuova pregnanza. Lo stesso titolo dell’opera è infatti un gioco linguistico, una deformazione della canzoncina infantile Who’s afraid of the big bad wolf? (Chi ha paura del lupo cattivo?) che, chiamando in causa una delle più grandi scrittrici del Novecento, riecheggia come un enigma da sbrogliare per tutta la durata dello spettacolo.
«Ogni volta che entra la morte, bisogna inventare, mentire, ricostruire. La morte la puoi vincere solo con l’invenzione», scrive Virginia Woolf, con parole che sembrano suggerire la chiave attraverso la quale interpretare l’allestimento. Esattamente questa è infatti la strategia adottata da Martha e George, che “concepiscono” e creano linguisticamente un figlio per sopperire al senso di inadeguatezza sociale connesso all’impossibilità di averne uno. L’invenzione di un universo altro è – sorprendentemente – anche ciò che tiene uniti i due coniugi protagonisti di Lappin e Lapinova (1939), un breve racconto della scrittrice inglese: il loro matrimonio regge finché la costruzione di un regno ideale, abitato dai conigli con cui si identificano, viene condivisa da entrambi. «Senza quel mondo – si domanda la giovane donna – come sarebbe riuscita a sopravvivere durante quell’inverno?».
Latella pone in costellazione e stratifica i significati in una scena di forte impatto visivo che attinge a reminiscenze lynchiane: Honey (Paola Giannini), soprannominata “coniglietto” dal marito (Ludovico Fededegni), si aggira lentamente per il salotto indossando una perturbante testa di coniglio. L’immaginario associato a questi piccoli animali, legato all’idea di tenerezza e prolificità, muta rapidamente volto e si irrigidisce, proprio come la lepre impagliata che compare nelle ultime pagine del racconto di Woolf. È l’incubo della sterilità – dalla quale sono accomunate entrambe le coppie – a gettare allora la sua ombra nel salotto degli Washington.
Se in Lappin e Lapinova il tradimento dell’intesa verbale e gestuale da parte del marito determina l’allontanamento irrimediabile tra i due protagonisti, nel testo di Albee il requiem con il quale viene simbolicamente “ucciso” il figlio e spazzata via la finzione appare invece come un vero e proprio sortilegio: abbandonato il perverso gioco linguistico, tra i due coniugi rimane soltanto la mutezza del dolore, che concede però lo spazio per una rinnovata vicinanza.
Chi ha paura di Virginia Woolf? è allora la domanda che il regista ci pone e ci invita a intendere in senso pienamente letterale: il grande lupo cattivo che Martha (Sonia Bergamasco) ammette di temere un attimo prima che si chiuda il sipario è forse proprio quella «donna che insegnò alle donne ad uccidere (…) un’idea di madre, quella che vedeva nella donna “l’angelo del focolare”».
Allo stesso modo in cui lascia scoperti gli ingranaggi di un pianoforte fatto a pezzi al centro della scena, Latella prosegue allora la destrutturazione del sogno americano avviata da Albee, svelando quali siano i meccanismi – linguistici e non solo – che lo sostengono.

Nasce a Brescia nel 1994. Dopo un periodo trascorso a Monaco di Baviera, si laurea in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, approfondendo il pensiero estetico di Adorno. Si diploma al Master in Critica giornalista presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma con una tesi dedicata al teatro di Pasolini nella visione di Antonio Latella. Attualmente scrive di teatro, cinema e letteratura sulle riviste online Tre Sequenze e Bookciak Magazine.