Dopo il successo riscosso al Festival Internazionale del Teatro MESS, il nuovo lavoro firmato da Alessandro Serra, Tragùdia. Il canto di Edipo, con Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini, Felice Montervino, inaugura la tournée italiana.
La pièce si presenta come una riscrittura del mito di Edipo, in un intervallo narrativo che abbraccia Edipo Re e Edipo a Colono, per richiamare sullo sfondo i fatti de i Sette contro Tebe e dell’Antigone. Ma per restituire un’idea dello straordinario lavoro che è Tragùdia, occorre fare un passo indietro sulle intenzioni che ne innervano la struttura. Non di rado le note di un regista consegnate al pubblico fungono da semplice ornamento di uno spettacolo. Per Il canto di Edipo le cose stanno diversamente e vale la pena soffermarsi su di esse.
«Macerie. In un’epoca di macerie non c’è altra possibilità che lavorare su ciò che resta, soffiare sulle ceneri per riattivare il fuoco. Ciò che resta della tragedia: parole senza suono. Ciò che resta della polis: una società di estranei. Ciò che resta del rito: una drammaturgia spenta. Ciò che resta di un mito: una storiella venuta a noia. Ciò che resta di un eroe: un personaggio fuori fuoco. Il canto di Edipo si edifica sulle macerie».
Ricostruire il senso della tragedia
Alla luce degli interrogativi che pone, l’operazione che Alessandro Serra mette in scena nel riscrivere il suo Edipo è “arcaica” nel senso etimologico del termine, vale a dire di ricerca di un principio (archè) e di un sentimento originario della tragedia. Ma come recuperare questa distanza?
Un ateniese del V secolo ha ben noto il mito di Edipo, respira il senso del sacro che avvolge le feste delle Grandi Dionisie, partecipa del rito collettivo della polis che si ri-conosce a teatro. Oggi, naturalmente, nessuna nozione scolastica su chi sia Sofocle e cosa abbia scritto potrebbe sostituire la pluralità di elementi in gioco nell’esperienza teatrale che ne avevano i Greci. Allora si comprende la questione che anima il lavoro di Serra: «Come rendere Sofocle accessibile a tutti? Come elaborare il lutto per la perdita della polis e del sacro?»- La risposta di Tragùdia è radicale e pone una questione profonda sul come fare teatro oggi con il modello della tragedia.
Se della tragedia restano unicamente le parole, e se della tragedia mancano anzitutto suoni, movimenti, il rito e il senso del sacro, per mettere in scena Edipo serve edificare su ciò che manca.
Ritorno alle origini: il rito sacro, il suono, il coro, il canto
Non appena entrato in sala, lo spettatore è avvolto da un profumo di incenso tanto invadente da risultare una semplice trovata scenografica. È, in realtà, uno di quei pochi elementi capaci oggi di richiamare alla mente il contesto di una chiesa e, con essa, un assopito senso di sacro. La laicità della città continua a esistere là fuori e ci attende a fine spettacolo, ma adesso siamo a teatro in un rito collettivo. E la tragedia ha bisogno del sacro.
Al recupero della dimensione religiosa si accompagna la ricerca del suono al di sopra della parola. Non è allora un caso la scelta di far parlare i personaggi in lingua grecanica (dialetto neogreco oggi diffuso principalmente in alcune zone della Calabria e della Puglia). Il grecanico, di cui durante la pièce leggiamo la traduzione su uno schermo, ostacola lo spettatore nel suo bisogno di comprensione della parola, di significato dei fatti, costringendolo piuttosto a porre l’attenzione sulla musicalità del verso. È così che, più o meno nota che sia la trama di ciò che ci passa sotto gli occhi, veniamo inghiottiti dalle sonorità di una lingua antica, vicina al greco di Sofocle ma ancora vibrante perché viva e parlata, straordinariamente capace di rispondere ai vari livelli ritmici ed emotivi che il canto e la recitazione richiedono. Salvino Nucera, che ha curato la traduzione della riscrittura di Serra, ha d’altronde insistito sulle alternative ritmiche e musicali che il grecanico proponeva verso per verso.
Scivola così la ridondanza di parole di una storia nota e si dischiude la musica della tragedia. A farsene carico in scena sarebbe improprio dire che siano gli attori: è piuttosto il coro. Tutt’altro che delegato a componente secondaria (come spesso accade nelle messe in scena contemporanee del teatro classico), in Tragùdia la funzione del coro in quanto fulcro della tragedia – vale a dire come attore e spettatore insieme – è centrale. Questo è concepito in scena come organismo compatto da cui si sganciano gli attori per vestire per brevi intervalli le sembianze dei personaggi del mito, per poi fondersi nuovamente nella matrice del coro, in un meccanismo che ricorda il primordiale distacco del satiro.
La centralità del coro si manifesta inoltre nella predominanza del canto sulla recitazione. Le linee vocali curate da Bruno De Franceschi, brillantemente sostenute dalle attrici e dagli attori, accompagnano e all’occorrenza esaltano con puntualità il susseguirsi dei quadri in scena. A connotare questi ultimi concorre un sorprendente utilizzo drammaturgico delle luci e del buio, combinato con la scelta di richiamare i cromatismi dell’arte vascolare attica (nero, rosso, bianco). Ne risulta un susseguirsi di immagini di grande impatto estetico, cui fa da sostegno una scenografia semplice – costituita da tre pannelli di fondo – ma capace di adattarsi all’evoluzione dei fatti in scena.
In buona sostanza, Tragùdia rappresenta uno dei tentativi contemporanei più audaci, radicali e ben riusciti di mettersi in dialogo con la forma teatrale più ricca e influente della tradizione occidentale. Per mettere in scena oggi la tragedia classica occorre intercettare l’esigenza emotiva che stava alla base della sua ricezione, e per questo, una menzione al lavoro di questo cast è assolutamente necessaria.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.