L’empatia a distanza di Clemence Debaig

L’empatia a distanza di Clemence Debaig

Clemence Debaig è una performer, coreografa e tecnologa, fondatrice del collettivo Unwired Dance Theatre, con base a Londra. Dopo l’approfondimento al lavoro Discordance della compagnia consultabile nella sezione di Videodanza, abbiamo avuto il piacere di conversare con Clemence, per indagare le motivazioni alla base della sua ricerca artistico-tecnologica. Di seguito le domande e risposte in inglese con sottostante traduzione e alla fine dell’intervista i link utili ai siti o alle performance citate. 

Arrivando sulla landing page del tuo sito la prima cosa che si legge è: Coreografando interazioni. Sei una coreografa e un’ esperta in UX (user experience), che ruolo ha il pubblico nelle performance che progetti?

Dipende dalla performance e dai temi che vogliamo esplorare… di solito mi piace arrendermi un po’ a ciò che farebbe il pubblico. Un buon esempio è uno spettacolo che stiamo ancora portando in tournée, Strings, per cui ho ideato una serie di wearable connessi ai telefoni degli spettatori che quindi sono in grado di manipolare il mio corpo a distanza. Sono i loro impulsi a creare il movimento e rivelare il resto della storia, quindi senza un pubblico questo pezzo non esisterebbe! Nasce dall’idea del sottile confine tra collaborazione e controllo: qual è il ruolo del pubblico e quello del performer? Qual è il ruolo del corpo e chi ha il potere su di esso? Discordance invece ha un approccio più da teatro immersivo,  lo spettatore è parte della scena, è nello spazio VR con noi e può anche interagire con gli altri membri del pubblico. 

Ci sono momenti in cui è libero di andare in giro, scegliendo se stare vicino al performer o meno… abbiamo visto spettatori volersi unire e far parte del movimento! Ma ci sono dei momenti in cui ha delle task specifiche da portare a termine. Per esempio, la seconda scena è incentrata sul modo in cui la società ci limita e gli spettatori partecipanti devono copiare i movimenti delle macchine che li circondano, o ancora verso la fine della performance devono rianimarmi avvicinandosi e toccando il mio corpo e solo grazie alla loro presenza sono in grado di arrivare ad una conclusione. Mi piace giocare con tutte queste possibilità di coinvolgere il pubblico, il ruolo che questo ha e come si inserisce nella storia, lo trovo molto entusiasmante.

Una delle tue performance in particolare, BOTHER, è descritta come “(…) un esperimento sociale, che esplora come il pubblico potrebbe reagire quando gli viene dato il potere di controllare il danzatore. Si comporterà in modo empatico, permettendo al danzatore di essere libero e felice? Oppure agiranno in modo più sadico, generando reazioni violente? Si preoccuperanno più della persona che hanno di fronte o del divertimento che traggono dalla performance?”. Raccontaci il feedback del pubblico, cosa hai raccolto da questa esperienza? Qual è la tendenza nell’ atteggiamento che emerge? Il pubblico degli anni ’20 ama avere il controllo di uno spettacolo?

Una delle tendenze più diffuse che ho notato è questo momento di realizzazione, da “Oh, questa è una performer e posso cliccare su questi pulsanti per farle fare qualcosa” all’improvviso “Aspetta un attimo, ho il potere di infliggere gioia o dolore alla performer di fronte a me!” e, sì, è un gioco, ma in realtà sta toccando argomenti molto seri. C’è sempre il momento in cui il pubblico si rende conto di non essere pronto a quel livello di coinvolgimento emotivo con l’opera. Ho visto che ci sono atteggiamenti diversi verso questo tipo di interazione, a seconda di quanto le persone si sentano a proprio agio con la tecnologia. Ho notato che i gamer, per esempio, vogliono spingerla ai suoi limiti e non sembrano preoccuparsi più di tanto del performer che hanno di fronte, capiscono le meccaniche di gioco e sono felici di esplorarle. 

Mentre ci sono persone meno esperte che si concentrano subito sull’aspetto umano e si sentono molto a disagio. Un’altra cosa che ho amato di questo pezzo è che diventa un’esperienza di gruppo: l’installazione ha due set di pulsanti e le persone iniziano a discutere, soprattutto tra amici, su quale sia lo stato emotivo in cui mettere il performer, così alcune persone che cliccano molte volte sul pulsante blu (che va verso la gioia) venivano fermate al grido di “No! È stanca, lasciala riposare!”.

Un tema ricorrente nel tuo lavoro è la distanza, l’isolamento del performer contrapposto al calore che può portare un pubblico lontano. Che puoi dirci a riguardo?

Ci sono tante cose da dire a riguardo, fammi pensare! Molto del mio lavoro riguarda l’uso della tecnologia per generare empatia, esplorando il modo in cui può unirci o allontanarci, portando un pensiero più critico su come la utilizziamo oggi. Mi piace creare quel confine invisibile che è la tecnologia, ma è il tipo di interazione che avremo che ci avvicinerà. Anche la pandemia ha avuto un grande impatto sul mio lavoro, le cose che stavo esplorando erano rilevanti anche a distanza, alla fine non importava che il performer fosse nella stessa stanza insieme al pubblico. L’ultima cosa che vorrei menzionare è che sono francese e vivo all’estero, nel Regno Unito, quindi ho sempre avuto legami a distanza, con i miei amici e la mia famiglia… Penso che questo abbia avuto un impatto anche sulla mia vita, il fatto che io cerchi di mantenere un certo livello di intimità è profondamente radicato in ciò che sono come persona.

Performance ibride, approfondiamo questo concetto. Mi piacerebbe ce ne dessi una definizione e ci dicessi se pensi sia la naturale evoluzione delle performance dal vivo.

Sì, credo che sarà il futuro della performance dal vivo. Lo definirei come consentire al pubblico di fare esperienza della performance attraverso diversi media. La visione di base che in questo momento abbiamo a riguardo è che ci sia qualcosa che accade in una location e al contempo in diretta streaming online, ma credo che si possa andare molto molto oltre, ci sono altri media e altri tipi di esperienza che possono essere esplorati. Penso che dovremmo lavorare verso l’ideazione di queste diverse esperienze piuttosto che avere dei ripensamenti… Come portiamo un pubblico da remoto all’interno della performance, come farlo sentire presente e come possiamo creare un senso di compresenza tra un pubblico in prossimità  e uno da remoto? Possiamo fare molto con la realtà virtuale ma siamo solo all’inizio. 

Credo che l’ostacolo maggiore al momento sia il dover creare più performance in una, equivale a duplicare il lavoro! C’è anche bisogno di diverse competenze quindi i teatri sono cauti nel portare questo tipo di performance nelle loro sedi… e come artisti indipendenti non possiamo finanziarle del tutto. Più tecnologia significa più rischi e questo campo sta scoprendo sé stesso in questo momento, non c’è ancora molta esperienza a riguardo. Oltre a questo poi, non si tratta solo di gestire e ideare la performance, c’è anche la questione del marketing, come vendere diverse fasce di biglietti, come spiegare al pubblico il modo in cui faranno esperienza della performance… tutto questo è molto complesso ed essendo una UX Designer posso apprezzarlo!

Parliamo di danza. Trovo particolarmente interessante Body Shape Generator. Qual è la direzione della tua ricerca sul movimento, attualmente? È legata alla nozione di corpo digitale? Trovi nella tecnologia il tipo di stimoli che cerchi come danzatrice?

Il modo in cui mi approccio al movimento in questo momento con Unwired è molto al servizio della storia che raccontiamo, abbiamo un forte approccio narrativo con il lavoro. Questo mi aiuta a mettere in moto le cose, anche in pezzi come Strings, dove è tutto improvvisato, ho una struttura precisa, so quale vocabolario di movimento e quale texture voglio usare in ciascuna sezione e mi baso sul punto in cui ci troviamo nella musica per passare da una all’altra. Detto ciò, negli ultimi tre anni ho lavorato molto come solista… non per scelta ma per necessità. La pandemia ha avuto un impatto importante in questo. Mi ero lasciata un po’ alle spalle il ruolo da performer per concentrarmi come coreografa, regista e tecnologa, ma poi è arrivata la pandemia e mi sono detta “Ho un corpo! Lo userò per farci qualcosa!”. 

Anche prima di Unwired lavoravo a coreografie per cast più grandi… ora non me lo posso permettere, quindi ho finito per lavorare con me stessa. Ad esempio, l’idea originale per Strings era quella di lavorare con 3 danzatori, coordinando l’ensemble dei corpi, ma alla fine ci sono solo io a dirigermi da sola online, quindi un approccio veramente diverso! Direi che prima della pandemia ero un po’ più interessata a come la tecnologia ci potesse aiutare a generare movimento in un certo modo, adesso più all’aspetto dello storytelling. Lavorare con la realtà virtuale aggiunge un strato in più alla creazione di corpi e alla loro rappresentazione.

Abbiamo lavorato molto sul tipo di rappresentazione virtuale che vogliamo dare al corpo, se debba essere un avatar, e se sì che forma dargli. Al contempo, sto anche insegnando e ricercando alla Goldsmiths University e uno dei miei moduli si  chiama tecniche di motion capture e digital embodiment, quindi quello che insegno ai miei studenti è proprio guardare il corpo in movimento! Non sono dei danzatori ma sto portando la mia pratica di danza nel modo in cui concepiscono il corpo in movimento e la normatività della tecnologia. Durante l’estate sono stata al Choreographing Coding Lab e ho sperimentato un po’ con il machine learning. Non sono per niente un’esperta ma abbiamo cominciato a inserire alcuni set di dati mocap in un modello, per vedere se potesse generare una coreografia… diciamo che questo tipo di tecnologia non esiste… ancora!

Clemence Debaig
Strings – Clemence Debaig

English Version

Landing on your website, you first notice the phrase: Choreographing interactions. You are a choreographer and a UX expert, so what role does the audience have during the performances you design?

It depends on the performances and themes we’re trying to explore… I usually like to surrender a little bit to what the audience would do. One good example of that is a piece we’re still touring, Strings, where I have designed a series of wearables that are connected to the audience’s phones so they are able to manipulate my body from a distance. That input is what is going to create movement and uncover the rest of the story, so without an audience, this piece doesn’t exist! It’s made from this idea of a fine line between collaboration and control: what’s the place of the audience and the performer? What is the place for the body and who has an agency over it? Discordance on the other hand has more of an immersive theatre approach, where the audience is part of the scene, it is in the VR environment with us, interacting with the other audience members in VR as well. 

There are moments where they’re just free to go around, choosing whether to be closer or not to the performer… we’ve seen audience members actually wanting to join in and be part of the movement! But there are also moments when they have really specific tasks to achieve. The second scene, for example, is all about how society is restraining us and the audience has to copy the movements the machines surrounding them are doing, or again towards the end of the performance they have to reanimate me by approaching and touching my body and due to their presence I am able to come to conclusion. So I like to play with all of these possibilities on how you bring the audience in, what role they have to play and how that fits into the story, I find it really exciting.

One of your performances in particular, BOTHER, is described as “(…) a social experiment, exploring how the audience will react when given the power to control the dancer. Will they behave empathetically, allowing the dancer to be free and happy? Or will they act in a more sadistic way, generating violent reactions? Will they care more about the person in front of them or the entertainment they get from the performance?”. Tell us about the audience feedback, what have you recollected from this experience? What is the attitudinal pattern that emerges? Does the audience of the 20s like to be in control of a performance?

A: What I have identified as a pattern is mainly this moment of realization, from “Oh this is a performer and I can click on these buttons to make her do something” to suddenly “Wait a minute, I have the power to inflict joy or pain to the performer in front of me!” and, yes, it is gamified but, it is actually tapping onto very serious topics. There’s always the moment of realization when the audience feels like they weren’t ready for that level of emotional engagement with the piece. I can see there are different attitudes towards this type of interaction depending on how comfortable people are with technology. 

I noticed that gamers, for example, want to push the limits of it and they really don’t appear to care as much for the performer in front of them, they understand the gamified mechanics and they’re quite happy to just explore that, while you might have people who are less tech-savvy that are gonna focus on the human instantly, and feel very uncomfortable. What I also loved about this piece is that it becomes a group experience: I have two sets of buttons in the installation, and you can see that people start arguing, especially friends, about which state to put the performer in, so some people clicking many times on the blue button (that goes towards joy) are being stopped by saying “No! They’re tired, give them a break!”

A recurring theme in your work is distance, the isolation of the performer as opposed to the warmth that a distant audience can bring. What about it?

There are a few things about it, let me uncover that! A lot of my work is about using technology to generate empathy and what I find interesting about tech is exploring how it can help bring us together or take us apart, bringing some more critical thinking around how we use technology today. I like to create that invisible boundary that is the tech but is the type of interaction we’re gonna have that will bring us closer. 

The pandemic has also had a big impact on my work, and the things I was exploring were just really relevant to do remotely as well, at the end of the day it didn’t matter that the performer was in the same room as the audience. The last thing I would mention is that I am french and live abroad in the UK so I always had these connections with my friends and family that are remote… I think this is impacting my life as well, the fact that I’m trying to keep that level of intimacy with friends and family is deeply rooted in who I am as a person.

Hybrid performances, let’s delve into this concept. I’d like you to give us a definition of it and tell us if you think it is the natural evolution of live performance.

I think it should be the future of live performance, yes. I would define it as enabling audiences to experience the work through different media. The basic view we have of it at the moment is that we have something happening in a venue and there’s a live stream of it online,  but I believe this can go much much further, there are other media and other types of experiences that can be explored. I think we need to work towards designing those different experiences rather than having an afterthought… How do we bring remote audiences into the work, how do you make them feel present and how do we get a sense of presence between in-person and remote audiences? There’s a lot we can do with VR but we are just at the premise of it. 

I think the main blocker at the moment is that you have to create several performances in one, it’s like duplicating the work! You also need different skill sets so theatres are a little bit cautious in terms of bringing this into venues… and as independent artists, we can’t fund all of that. More tech means more risks and the field is discovering itself at the moment, there’s no big knowledge yet. On top of that, it’s not just about running and designing the performance, there’s also a really big question about marketing, how to sell different tiers of tickets, how to explain to audiences how they’re gonna experience the work… all of that is actually really complex and being a UX Designer I can appreciate it!

Let’s talk dance. I find Body Shape Generator particularly interesting. What is the direction of your research of movement, currently? Is it linked to the notion of the digital body? Do you find in technology the kind of stimuli you’re searching for as a dancer?

The way I’m approaching movement at the moment with Unwired is very much at the service of the story we’re telling, we have a really strong storytelling kind of approach with the work. That helps me put things in motion, even in pieces like Strings, where everything is improvised, I have some clear structure, I know what movement vocabulary and texture I want to use in each of the sections and I rely on where we are in the music to switch from one to another. That being said, I have done a lot of solo work in the last 3 years… not by choice but by necessity. The pandemic has had a big impact on that. I was leaving the performer role a bit behind me, focusing on being a choreographer and director and technologist, but then the pandemic hit and I was like “I got a body! I’m gonna do something with it!”. Even before creating Unwired, I was choreographing for bigger casts… right now I can’t afford it, so I ended up working with myself.

The original idea for Strings was working with 3 dancers, for example, coordinating the ensemble of bodies, but then it ended up being just me directing myself online, so a really different approach! I’d say that pre-pandemic I was a little bit more interested in how technologies would help us generate movement in a certain way, but it has evolved more into the storytelling aspect of it. Working with VR adds another layer of making up bodies and their representation. We’ve been working a lot on what visual representation we want to give to the body, whether it is an avatar, and if it is what shape we wanna give it. In parallel, I’m also lecturing and researching at Goldsmiths University and one of my modules is called motion capture techniques and digital embodiment, so looking at the body in movement is pretty much what I teach my students about! They’re not dancers but I’m bringing my dance practice into the way they understand the body in movement and the normativity of the tech. Over the summer I went to the Choreographing Coding Lab, experimenting a little bit with machine learning. I’m not a machine learning expert at all, but we started plugging some mocap data sets into a model, trying to see if we could generate choreography… let’s say the tech is not there… yet!  

Trailer di Strings
Trailer di Bother

DISCORDANCE / Unwired Dance Theatre – L’ibridazione di una performance digitale

DISCORDANCE / Unwired Dance Theatre – L’ibridazione di una performance digitale

L’artista

L’Unwired Dance Theatre è un collettivo di artisti fondato e diretto da Clemence Debaig dal 2021, con l’intenzione di ricercare nell’ambito delle digital dance performance. Il gruppo progetta esperienze giocabili e spettacoli immersivi, in cui il focus principale è l’interazione tra tecnologia e arte e la partecipazione del pubblico, sia esso in remoto, in prossimità e/o in virtual stage, gallerie, musei e location non convenzionali. Il lavoro del collettivo mette in discussione il senso di empatia, soprattutto quando mediato attraverso la tecnologia e la connessione remota. Tra le tecnologie principalmente impiegate troviamo wearable technology (come smart clothes, motion tracking suit, VR headset etc.) e l’XR.

Clemence Debaig è un’artista di danza, UX/XR designer e tecnologo creativo, con base a Londra. Il suo background, che unisce l’esperienza come danzatrice e un Master in Ingegneria Meccanica e Design Industriale presso l’Università di Tecnologia di Compiègne (Francia) oltre a una precedente carriera come designer UX, porta una prospettiva unica nell’ambito della coreografia di esperienze interattive e partecipative. Negli ultimi anni il suo lavoro è stato presentato in varie location ed eventi, tra cui Ugly Duck London, Kallida Festival, Oxo Tower, Tramshed e Open Online Theatre. Nel 2012 crea l’Atelier du Lampadaire, un collettivo artistico multidisciplinare con sede in Francia che coinvolge ballerini, attori, software engineers, architetti e designer. Il suo scopo era quello di creare performance interattive all’intersezione di quelle discipline. 

Dall’inizio della pandemia si concentra sul riunire artisti e spettatori in remoto, esplorando nuove forme di lavoro interattivo dal vivo online, tra cui progetti con telepresenza, wearables technology, Mocap e VR. Debaig è anche docente presso la Goldsmiths University di Londra, dove insegna tecniche di motion capture, digital embodiment, teatro immersivo e design dei servizi. Porta avanti una ricerca tra la Goldsmiths a Londra, l’Università di Lasalle a Singapore, Mavin Khoo, il Creative Associate della Akram Khan Dance Company e l’ Alexander Whitley Dance Company. Il progetto mira a esplorare come la tecnologia di camera-less motion capture possa consentire la collaborazione virtuale tra danzatori in luoghi remoti. La sua ultima creazione, di cui è designer e performer, è DISCORDANCE, una performance ibrida di danza.

L’opera

DISCORDANCE è una performance di danza che avviene in diretta contemporaneamente in due città e combina performer dal vivo, motion capture, tecnologia VR e teatro immersivo. Danzatori da Londra e New York si collegano in tempo reale da un teatro in uno spazio virtuale, in compresenza di partecipanti dal pubblico che indossano dei visori per VR e degli spettatori in un teatro. DISCORDANCE è supportato da Open Online Theatre Fest22, il festival ibrido della IJAD Dance Company e dalla venue del Rich Mix di Londra e ha debuttato lo scorso 25 Novembre. 

Performance ibrida

La performance può essere fruita in tre modi. Se si sceglie di partecipare di persona in teatro, un danzatore sul palcoscenico danzerà in prossimità mentre gli altri performer da New York si uniranno da remoto nello spazio virtuale, proiettato sullo sfondo. Alcuni spettatori a teatro, per un massimo di quattro, potranno richiedere di utilizzare dei visori per la realtà virtuale ed interagire direttamente nello spazio virtuale. La partecipazione attiva del pubblico è incoraggiata tramite l’implementazione di attività interattive nella stanza virtuale. Si può infine partecipare seguendo la diretta streaming dell’evento, tramite qualsiasi device, e osservando quello che accade nel mondo virtuale e sul palcoscenico. Ancora da concretare, invece, la possibilità di poter fruire lo spazio virtuale tramite un visore personale e una solida connessione internet, comodamente da casa. Lo spettacolo espande l’esperienza di uno spettacolo di danza tradizionale combinandola con il potenziale interattivo delle tecnologie immersive. Il pubblico può scegliere il proprio livello di immersione e partecipazione e ogni formato intreccia le immagini di ogni luogo virtuale e fisico, rendendo DISCORDANCE una vera esperienza ibrida. 

Discordanze

DISCORDANCE esplora i temi della multi-identità e della ricerca di connessione umana. Durante la performance, i partecipanti intraprendono il viaggio di un personaggio alla scoperta di sé stesso, cercando di integrarsi con ciò che lo circonda ma rendendosi conto che solo la sua diversità lo aiuterà a connettersi con gli altri. Durante il suo corso si attraversano diversi ambienti virtuali, dai più naturalistici, come un campo di erba alta, ai più industriali e astratti, da luoghi chiusi, come caverne buie, a pedane con vista su un desertico cielo viola. Il design degli avatar varia da figure umanoidi a presenze poligonali più sintetiche, a differenziare i danzatori dai membri del pubblico.

Coreografia: Clemence Debaig
danzatrice a Londra: Clemence Debaig
danzatrice a New York: Lena Adele Wolfe 
musica: Christina Karpodini 
avatar design: Clemence Debaig
3D design e world building: Joseph Ibbett 
drammaturgia: Brendan Andolsek Bradley
con il supporto di: Noitom Mocap, Goldsmiths University, OnBoardXR, Barnard The Movement Lab al Barnard College of Columbia University, NYC 
pubblico: spettatori a teatro, partecipanti in VR, spettatori in streaming 
spazio: stanza virtuale, teatro, piattaforma streaming

Hunter Filmed / Oona Doherty – L’estasi, il trauma e la catarsi di Belfast

Hunter Filmed / Oona Doherty – L’estasi, il trauma e la catarsi di Belfast

L’artista

Oona Doherty, classe 1986, è una coreografa irlandese originaria di Belfast. Inizia la sua educazione presso il St. Louise’s Comprehensive College di Belfast, per poi proseguire alla London School of Contemporary Dance, University of Ulster e la LABAN London con un master in Contemporary Dance Studies. Dal 2010 lavora con compagnie internazionali quali T.R.A.S.H. dance/performance group, Abbattoir Fermé, Veronika Riz e United Fall/Emma Martin. La sua ricerca coreografica cerca di giocare con le barriere tra corpo e spirito, tra pubblico e scena, creando delle “esperienze cinetiche”. Come l’artista stessa condivide: “Sono motivata nell’esplorare stati di pura onestà metafisica. Nel riportare il sesso, il punk, l’amore e il chi al corpo, alla scatola nera, al cubo bianco e all’Irlanda”. Fra le sue coreografie, che hanno vinto numerosi premi, ricordiamo il solo Hope Hunt and the Ascension into Lazarus del 2015, Hard to be Soft – A Belfast Prayer del 2018 e Lady Magma – the birth of a Cult nel 2019. Ambito di ricerca per la coreografa è anche il campo delle arti visive, con installazioni video e sonore: la sua esposizione  Death of a Hunter è stata presentata presso la Golden Thread Gallery di Belfast, la Lothringer 13 Halle di Monaco, l’ ADC Gallery di Ginevra e il Kanal – Centre Pompidou di Bruxelles. Oona Doherty vince il Leone D’argento alla Biennale Danza nel 2021, per l’approccio creativo poco ortodosso, il lavoro degno di nota con non danzatori e l’impegno con le comunità locali. Il suo lavoro, conferma il direttore Wayne McGregor, “(…) riesce a raggiungere e a parlare a quanti di solito non vanno a teatro”.  

Luca Truffarelli è un fotografo e videomaker che vive e lavora a Dublino. Dal 2011 sperimenta nel campo delle arti visive e negli ultimi anni si dedica a lavori di danza contemporanea e teatro come video maker, visual/set e sound designer e collaboratore artistico.

L’opera

In Hunter Filmed, i due artisti traducono la performance Hope Hunt & The Ascension Into Lazarus della Doherty e un’installazione sonora che interpreta un incidente in macchina, dalla mostra personale della coreografa Death of a Hunter, in un corto onirico e crudo. “Il Covid stava durando più del previsto, così abbiamo trovato una soluzione e abbiamo creato un corto che parlasse delle stesse tematiche (della performance e della mostra, ndr)”, spiega la Doherty. Hunter Filmed è un’esplorazione della decadenza urbana raccontata dal punto di vista frenetico dei performer. Ispirandosi a Irréversible di Gaspar Noé, lo sguardo di Truffarelli ci conduce verso performance dal carattere di una allucinazione, cercando di riportare nello spettatore la sensazione del danzatore nel performare il pezzo. Belfast, la città che ha ospitato le riprese del corto, è protagonista assoluta, rappresentata dalle sue strade e dalle voci dei suoi abitanti, appartenenti per la maggior parte alle classe operaia di giovani definiti “smicks”, concetto non traducibile ma paragonabile all’italiano “tamarro” o “coatto” e spesso usato con tono dispregiativo. In questo senso i movimenti dei danzatori accompagnano i cambiamenti di tono delle voci in sottofondo, alternando sinuosità a brusche interruzioni. 

Ed è proprio agli smicks che si riferiscono le parole che aprono il corto, “I am flesh, I am flesh”, primo tra i versi composti dai due creatori per inquadrare l’atmosfera aspra che rimarrà invariata per tutta la durata della scena. I racconti che sentiamo come in lontananza dipingono i quotidiani affanni della famiglia media di Belfast, culminando nell’immagine dell’incidente stradale: “Abbiamo trovato un fantastico sfasciacarrozze a Belfast e abbiamo usato lo stesso audio dell’installazione, ma riprendendo questo obitorio per macchine. Sembrava un posto dove le macchine vanno per morire.” 

durata: 36 minuti
performer: Ryan O’Neill, Sati Veyrunes
pubblico: chiunque possieda un device con connessione internet
Regia: Oona Doherty, Luca Truffarelli
Scrittura: Oona Doherty, Ryan O’Neill
Coreografia: Oona Doherty
Committenti: Art Night and Fact, 180 Studios

Download and run Zoom/Lucinda Childs & (LA) HORDE – Costruire dialogo e scrivere movimento

Download and run Zoom/Lucinda Childs & (LA) HORDE – Costruire dialogo e scrivere movimento

Gli artisti

Nata nel 1940, Lucinda Childs si appassiona al teatro e alla danza già dall’infanzia. Il suo incontro con il danzatore e coreografo Merce Cunningham determina la svolta artistica decisiva nella sua vita, che più tardi l‘avrebbe portata a unire le forze le forze con il collettivo artistico che includeva Yvonne Rainer, Steve Paxton and Trisha Brown alla Judson Dance Theater. Inaugura la sua carriera coreografica nel 1963 con il solo Pastime, fondendo la logica della destrutturazione al vocabolario classico che intanto stava apprendendo. Istituisce la propria compagnia nel 1973, sviluppando uno stile di danza minimalista. Nel 1976 prende parte ad Einstein on the Beach, opera diretta da Bob Wilson e composta da Philip Glass, performando coreografie di  Andy de Groat,  che le fa vincere un Obie Award. Dance, creato nel 1979, è il suo primo balletto collettivo in larga scala, seguito da diversi lavori in collaborazione con altri artisti come Available Light nel 1983 con le scene di Frank Gehry. Lucinda Childs detiene il grado di Commandeur nell’ordine delle Arti e delle Lettere in Francia. Nel 2017 riceve il Leone D’oro dalla Biennale di Venezia e il Samuel H. Scripps American Dance Festival award alla carriera. È inserita nella Hall of Fame del National Museum of Dance di Saratoga Spring e nel 2021 riceve una laurea onoraria dall’Università Côte d’Azur. 

(LA)HORDE è un collettivo fondato nel 2013 dagli artisti Marine Brutti, Jonathan Debrouwer e Arthur Harel. Insieme, mettono in discussione i codici di varie discipline artistiche, specialmente l’arte contemporanea e le arti performative. Alla testa del Balletto Nazionale di Marsiglia dal settembre del 2019, hanno creato lavori coreografici, film, installazioni video e performance che si sviluppano sempre attorno al corpo in movimento. Dall’interazione e accostamento di questi media diversi, sviluppano scenari e azioni con particolare interesse verso le tematiche contemporanee. (LA)HORDE collabora con comunità di individui ai margini della cultura mainstream: tra i performer si contano persone sui settant’anni, non vedenti, fumatori, teenager o così via. Contro ogni forma di gerarchia o appropriazione culturale, il loro approccio concreto è basato sulle relazioni interpersonali e sulla cooperazione. Il corpo è il cuore della loro ricerca e negli ultimi anni sviluppano un interesse nell’ indagare gli effetti dell’arrivo di internet sulla danza, che ha portato i membri del collettivo a definire il fenomeno della post-internet dance.

L’opera

Download and run Zoom è un cortometraggio che documenta la collaborazione a distanza tra l’artista americana e il Balletto Nazionale di Marsiglia durante il 2020 e 2021. Tra i committenti il Manchester International Festival, che lo inserisce nella serie Postcards From Now: un progetto che unisce le prospettive di cinque artisti provenienti da campi diversi – danza, musica, visual art, teatro, animazione – sviluppatosi durante il primo lockdown globale del 2020. Chiede agli artisti di declinare a piacimento la domanda what happens next? (e adesso che succederà?), riflettendo sul potenziale dell’arte e della creazione durante un’emergenza sanitaria.

Il primo lockdown 

Nel 2020 Lucinda Childs e il Balletto Nazionale di Marsiglia si ritrovano ad essere separati dalle restrizioni per gli spostamenti proprio durante quello che sarebbe dovuto essere il periodo di ripresa di Tempo Vicino, performance di repertorio messa in scena dalla Childs per la prima volta nel 2009. Inizia così un periodo di collaborazione digitale, atta ad esplorare come la distanza imposta dalla pandemia faccia crescere inaspettate possibilità di interazione creativa. Tramite video call, la coreografa progetta esercizi a distanza per i danzatori costretti nelle loro case, guardandoli fare “improvvisazioni selvagge”, raccogliendo idee per un suo nuovo progetto. “Ho pensato: come posso farlo su Zoom? Non è stato progettato per quello che ho bisogno di fare” – esordisce la Childs all’inizio del corto. Ma presto il collettivo di artisti si renderà conto che il lavoro dev’essere portato a termine e che, in qualità di creativi, quello offerto dalla quarantena è un periodo di riposo ma anche un’occasione per mettere alla prova le proprie abilità e adattarsi a una nuova cornice. 

Le improvvisazioni

Le prime immagini del cortometraggio mostrano le sperimentazioni dei danzatori del Balletto Nazionale di Marsiglia nell’utilizzo della finestra di Zoom: assoli in cui solo una parte del corpo è inquadrata, duetti con un invisibile partner sostituito da una una camicia, ma anche esperimenti collettivi, in cui tutti i danzatori condividono lo schermo in un mosaico di volti e corpi. 

Il debutto 

A maggio è finalmente possibile il ritorno in sala per la compagnia, seguita da Lucinda in remoto, e nella parte finale del cortometraggio assistiamo al debutto della performance ad Aprile 2021. Il processo di costruzione, così peculiare viste le circostanze, diventa spunto per rinnovare la performance. L’originale fondale bianco è adesso sostituito dalla proiezione della chiamata zoom di Lucinda, che veglia sui suoi performer da molto più vicino di quanto la prossimità avrebbe mai potuto permettere.

durata: 18 minuti
con: Lucinda Childs, (LA) HORDE e i danzatori del Balletto Nazionale di Marsiglia
pubblico: chiunque possieda un device con connessione internet
commissionato da: Manchester International Festival, Brooklyn Academy of Music, Théâtre du Châtelet and Esplanade – Theatres on the Bay.

Breathless Puppets / Khan & Azhari – Quando la danza è proibita

Breathless Puppets / Khan & Azhari – Quando la danza è proibita

Gli artisti

Nato nel 1974 nel distretto sud di Londra da famiglia di origine bengalese, Akram Khan è un danzatore e coreografo noto per la sua ricerca che combina danza contemporanea e Kathak, tradizionale tecnica indiana. Inaugura la sua carriera a tredici anni, diretto da Peter Brook nello spettacolo Mahabharata.Già da giovane, infatti, trova nella danza il suo modo di comunicare, o come egli stesso ama definirla, la sua voce. Il training nella tecnica Kathak incontra la danza contemporanea durante gli anni adolescenziali, portandolo a completare gli studi presso la Northern School of Contemporary Dance. Inizia a coreografare i suoi primi assoli durante gli anni ‘90 e nel 2000 fonda la Akram Khan Dance Company.

In più di vent’anni di attività, la compagnia vanta un vasto repertorio tra Kathak e moderno e numerose collaborazioni con artisti internazionali e ensemble, tra cui Sacred Monsters, duetto di Akram Khan e Sylvie Guillem, o il balletto Giselle coreografato per l’English National Ballet. Il coreografo ha inoltre ricevuto numerosi premi internazionali tra cui due Olivier Award, per la performance DESH nel 2012 e XENOS nel 2019. La Akram Khan Company è un associate artist del Sadler’s Wells Theatre e Mountview Academy of Theatre Arts di Londra, e del Curve Theatre di Leicester.

Naaman Azhari nasce in Francia ma frequenta anche il Libano in giovane età. Completa gli studi nel Regno Unito, dove sviluppa un particolare interesse per l’animazione digitale, in particolare il Rotoscoping. Il suo primo corto d’animazione The Sunshine Boy riceve il Vimeo Staff Pick nel 2017. Due anni dopo, il secondo corto The Magic Boat riceve una nomination BAFTA per miglior corto d’animazione.

Breathless Puppets

L’opera

Breathless Puppets è un corto che vede la collaborazione tra i due artisti, l’uno a curarne la coreografia e l’altro la regia e animazione. Tra i committenti il Manchester International Festival, che lo inserisce nella serie Postcards From Now: un progetto che unisce le prospettive di cinque artisti provenienti da campi diversi – danza, musica, visual art, teatro, animazione – sviluppatosi durante il primo lockdown globale del 2020. Chiede agli artisti di declinare a piacimento la domanda what happens next? (e adesso che succederà?), riflettendo sul potenziale dell’arte e della creazione durante un’emergenza sanitaria.

Il duetto

Protagonisti della storia sono Nick e Karim, due giovani aspiranti danzatori alle prese con i preparativi per l’audizione a una scuola prestigiosa. La disapprovazione delle loro famiglie, che non considerano la danza un vero lavoro, rende loro la vita complicata. Ricorrente è la frase “Dance is Haram, termine arabo che indica qualcosa di proibito o illegale. Ciò li obbliga a mantenere segreti i loro appuntamenti, fino a separare del tutto le loro vite. Solo la pandemia riuscirà a farli tragicamente riunire, ma non sotto le luci dei riflettori. La coreografia di Khan si concentra sull’uso delle mani, disegnando gesti e forme abilmente ricalcati dall’animatore. Le due figure danzano intersecandosi, creando effetti di sovrapposizione e incastro. 

Dalle parole del coreografo: «Il progetto è una risposta al Covid-19 […] parla di due uomini che sono amici, della loro storia e come questa influisce sul loro futuro […] riflette sulla vita. La vita non è mai chiara, riconosci alcune sue parti, pensi di esserne in controllo ma in realtà non è così».

L’animazione

Azhari adopera il rotoscoping, processo che consiste nel tracciare manualmente ogni frame di un filmato. L’artigianalità della tecnica dà come risultante delle linee dal carattere dinamico e ondulante, che seguono alla perfezione il disegno tracciato dalle coreografie di Khan e che ne sottolineano il carattere etereo e sfocato. Lo stile si mantiene minimale per tutta la durata del corto, riducendo gli sfondi a un neutro bianco o nero, aggiungendo di rado oggetti di decoro. 

I colori giocano inoltre con le linee narrative del racconto: se il bianco rappresenta la realtà, il nero sembra descrivere una dimensione onirica e virtuale. La lineart è sottile e essenziale, per porre l’accento solo su determinate parti del corpo. Ecco allora apparire il contorno bianco su sfondo nero solo delle braccia e della testa dei danzatori, mentre il loro corpo è tutt’uno con lo spazio che li circonda. 


durata: 16 minuti
performer: Akram Khan Hannes Langolf Ashton Hall Robbie Ordona
pubblico: chiunque possieda un device con connessione internet
tecnica: animazione per rotoscoping
suono: composizione originale di Vincenzo Lamagna

Prune. Flat. / Robert Whitman – La linea sottile tra reale e virtuale

Prune. Flat. / Robert Whitman – La linea sottile tra reale e virtuale

L’artista

Robert Whitman è un artista visivo nato a New York nel 1935. Dopo la laurea in Letteratura e Teatro all’Università del New Jersey, inizia a studiare Arti visive alla Columbia University. Farà parte della scena avanguardista teatrale newyorkese di fine anni ‘50 e inizio anni ‘60, organizzando insieme ai colleghi artisti Jim Dine, Red Grooms, Allan Kaprow e Claes Oldenburg una serie di happening alla Reuben Gallery, che ridefinirono la relazione tra spazio, performer e spettatore. Il suo interesse verso le nuove tecnologie in relazione alle immagini in movimento lo conduce a diventare una delle figure chiave dell’Expanded Cinema, un movimento che tenta di sorpassare i limiti del cinema tradizionale tramite proiezioni multiple e esperimenti sensoriali. Dal 1964 realizza installazioni che collegano oggetti di uso quotidiano con proiezioni di film: vediamo ad esempio un box doccia all’interno del quale viene proiettata l’immagine di una donna che si lava dietro una tenda trasparente (SHOWER, 1964). 

In questi lavori, l’inconsistenza delle proiezioni unita alla materialità dell’ambiente e degli oggetti crea una forma ibrida che rende difficile determinare cosa sia reale e cosa sia effimero. Nel 1966, con gli ingegneri Fred Waldhauer e Billy Klüver, e l’artista Robert Rauschenberg, Whitman ha co-fondato l’organizzazione Experiments in Arts and Technology (E.A.T.). Partecipa così, insieme a John Cage, Öyvind Fahlström e Lucinda Childs, alle 9 Evenings: Theatre & Engineering , una serie di dieci spettacoli messi in scena quello stesso anno  presso il 69th Regiment Armory di New York, uno spazio espositivo per mostre e intrattenimento. I suoi lavori sono ricchi di immagini e atmosfere sonore, facendo dialogare performer, film, video, suono e oggetti di scena in ambienti di sua creazione. Dagli anni ‘60 ad oggi ha presentato più di 40 lavori tra Stati Uniti ed estero. Negli ultimi anni, ha continuato a  collaborare con ingegneri e scienziati per installazioni e opere che incorporassero le nuove tecnologie, tra cui laser e vetri ottici, per poi specializzarsi nell’uso performativo dei mezzi di comunicazione, come i telefoni cellulari.

L’opera

Prune. Flat. (traducibile con “Potare. Piatto.” ndr), presentato per la prima volta alla cineteca di New York nel 1965, è una performance silenziosa che integra azioni, oggetti e immagini. La scena è composta da una parete bianca, due sedie poste una di fronte all’altra e due corde che scendono dall’alto.  Il tema chiave di Prune. Flat. è la discrepanza tra immagine proiettata e presenza scenica, e differisce dai lavori di altri artisti visivi per la puntuale precisione e per la peculiare estetica. Tre performer si muovono tra azione in tempo reale e filmata, appiattendosi contro l’immagine e generando nuove immagini di forma ibrida. 

Prune. Flat.
Robert Whitman

PARTE 1: IL TAGLIO DELLA FRUTTA

La performance si apre con il filmato di un proiettore in azione. Si passa poi all’immagine ravvicinata di un pompelmo, tagliato da un coltello. Dal suo interno, rotolano via quelle che sembrano sferette di metallo. Segue un pomodoro, che due mani stanno per affettare. Due giovani performer, che indossano un grembiule bianco e un fazzoletto in testa, entrano dalla sinistra e dalla destra della scena, scivolano sulla parete dando le spalle al pubblico, diventano esse stesse schermo mescolandosi nelle proiezioni di luce. Raggiunto il centro, proprio nel momento del taglio del frutto, sono investite da una pioggia di glitter dalle sfumature violacee, che erano contenuti all’interno del pomodoro. Altre immagini di tagli si susseguono sulle due figure umane, ora con l’intervento di una nuova esperienza sensoriale: dal video ci accorgiamo di un ventilatore che fa volare via tutto ciò che esce dai frutti. Le performer, abbattendo ogni logicità spaziale, sembrano reagire al vento come se questo fosse reale, davvero percepibile. 

PARTE 2: IL DOPPIO VIRTUALE

Le performer siedono ora sulle sedie, mentre alle loro spalle è proiettato un ambiente che sembra boschivo. Una terza performer entra in scena, accogliendo su di sé la proiezione di un filmato che la ritrae. In un gioco di sovrapposizione, vediamo il colore del suo vestito cambiare, mentre interagisce con il suo doppio virtuale. Le due figure sembrano adesso inseguirsi, farsi lo sgambetto per sfuggire l’una dall’altra, in una serie di azioni quali sedersi, o spogliarsi e fare una doccia. La scena sullo sfondo si anima di paesaggi che esplorano il macroscopico (un paesaggio urbano frenetico) e il microscopio (la ripresa di tessuti e mucose del corpo umano, un prato e i suoi fili d’erba) ma anche il surreale (il volo di una donna).

PARTE 3: IL RIFLESSO DELLA LUCE

Protagonista della parte finale della performance è la luce, o la sua assenza. Una performer in scena, utilizzando le corde appese al soffitto, inizia a dondolarsi. Al buio della sala, risaltano solo i vestiti bianchi che brillano sotto la luce blu, dando l’impressione di sfidare le leggi della gravità. La performance continua e trova la sua conclusione nell’esplorazione di azioni sceniche tra performer e spazio circostante, mentre sullo sfondo passano i filmati delle stesse sequenze di azioni, ora imitando la scena, ora anticipandone l’andamento.Con Prune. Flat., l’artista suggerisce la duplice idea di realtà e rappresentazione della stessa, nutrendo l’occhio dello spettatore su più livelli. Ne risulta un tempo immediato, dilatato dall’immagine proiettata, e uno spazio virtuale, reso tangibile da corpi in carne ed ossa.

La ripresa è del 2017
durata: 24 minuti 
performer: Clarisse Chanel, Paula Pi, Malika Djardi 
pubblico: frontale 
spazio: parete bianca con oggetti di scena 
suono: muto supporto 
filmati: pellicola 16mm a colori