da Redazione Theatron 2.0 | 3 Lug 2023 | Approfondimenti, Uncategorized
Articolo a cura di Francesca Lupo
«I feel the cost of it pushing my body / Like I push my hands into pockets / And softly I walk and I see it, this is all we deserve / The wrongs of our past have resurfaced / Despite all we did to vanquish the traces» (Sento il costo di questo spingere il mio corpo / Come se infilassi le mani nelle tasche / E dolcemente cammino e lo vedo, questo è tutto ciò che ci meritiamo / I torti del nostro passato sono riemersi / Nonostante tutto quello che abbiamo fatto per far scomparire le tracce). Così canta Kae Tempest in Europe Is Lost, un brano del 2016 che Carlo Massari sceglie come seconda traccia su cui comporre la sua coreografia. Una coreografia, quella di Metamorphosis, costruita tanto sulla musica quanto sulle parole. Atti di metamorfosi contemporanea (questo il sottotitolo dell’opera che il performer confessa al pubblico e al critico Carmelo Zapparrata) va in scena il 21 giugno all’Arena del Sole durante la rassegna InChiostro, un palcoscenico estivo allestito nel chiostro, appunto, del teatro.
Lo spettacolo è inserito all’interno del progetto Carne / focus di drammaturgia fisica, una ricerca sulle connessioni tra il linguaggio della danza e del teatro, a cura di Michela Lucenti. Prodotto nel 2022 dalla C&C Company, di cui Massari è il direttore, lo spettacolo è un trittico (ognuno con il suo titolo, Larva – Blatta – Sapiens), che per questa replica andrà in scena privato del suo terzo atto. Accompagnato dalle parole pronunciate da Emmanuel Macron durante un recente discorso pubblico su argomenti come la pandemia da Covid-19 e il conflitto in Ucraina, Massari entra in scena assumendo una posa da Capo di Stato. Sorride a una fotocamera immaginaria mentre stringe la mano a qualche spettatore che fa alzare appositamente, mentre ancora la voce del presidente francese riecheggia.
Ha così inizio Larva, in cui il performer, vestito di una camicia bianca e un paio di pantaloni neri, sulle note prima del celebre Walzer n°2 di Shostakovich e poi della sopracitata Europe Is Lost, inizia una sua trasformazione. Da una coreografia lineare e vigorosa con ampi movimenti per l’intero palcoscenico, si passa a un corpo che quasi sembra non essere più in sé, inanimato. Le braccia si intrecciano, il corpo si piega in due come un foglio di carta, ciondola da una parte all’altra finché non si scaraventa al suolo e inizia a recitare alcune Beatitudini rivisitate, dal Vangelo secondo Matteo. Strisciando esce di scena e dopo un piccolo intervallo ha inizio Blatta. Una coreografia disperata, questa, tra cadute rovinose e capriole.
Massari questa volta indossa una felpa, la stampa di una bistecca cruda ricopre interamente la superficie del tessuto. Un paio di mutande bianche, i calzini e le scarpe richiamano a loro volta il bianco del grasso e il rosso della carne. Un’altra traccia audio, questa volta di un video informativo sul consumo di carne nel mondo e sui processi per portarla in tavola, intervallati dai versi di gallinacei, bovini, maiali, stereotipati e agghiaccianti. Movimenti disperati in cerca di una forma si reiterano in scena su due ultimi pezzi strumentali (uno di questi composto da sonorità come di campagna, di pascolo, con tanto di campanacci e muggiti che Massari non manca di mimare) finché l’umanità solo apparentemente perduta dell’uomo in scena fa capolino, trasformando lentamente un muggito nella parola mamma.
Lo stesso Massari definisce il progetto un «trittico inversamente evolutivo» durante il dialogo con Zapparrata, che durante la rassegna estiva è il mediatore nell’incontro tra il pubblico e gli artisti alla fine delle loro performance. «Si parte da una estrema costruzione fisica e vocale (le Beatitudini) e si arriva ad una incapacità fisica e vocale» che il pubblico del 21 giugno non avrà possibilità di vedere in scena. Sapiens è il titolo del terzo e ultimo atto in cui l’uomo protagonista, appena riappropriatosi della parola mamma, cerca di creare un pensiero ed esporlo, ma fallisce. D’altronde, che pensiero, che parola può ancora sopravvivere mentre intorno a noi si profila il disastro? Tempest scrive un commiato per l’Europa, Macron ricorda la data dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, Massari si appella all’apocalisse. Eppure, l’epilogo della replica del 21 giugno non è la morte. È la prima parola dell’essere umano, uguale in tutte le parti del globo: mamma. Comunque sia, con Blatta la replica del 21 giugno si conclude nel segno della nascita.
Nel 2011 va in scena Corpo e cultura, interpretato da Massari e Chiara Taviani, ex codirettrice della C&C Company. Durante un’intervista un giornalista per abbreviare li chiama quelli di C&C, da lì il battesimo. Ed effettivamente corpo e cultura sono due parole chiave fondamentali per leggere l’opera del 2011, Metamorphosis del 2022 e la stessa poetica della compagnia. Corpo e cultura parlava di «come la cultura possa trasformarsi attraverso i corpi da cui viene rappresentata e come, viceversa, i corpi possano prendere forma attraverso la cultura da cui vengono attraversati». A distanza di molti anni Massari stesso fa riferimento a questo lavoro per raccontare Metamorphosis. Si tratta di un’indagine su come la contemporaneità agisca sul corpo umano, come la attraversi, la pervada, deformi. Gli atti sono tre proprio perché tre sono i passaggi, perché metamorfosi è movimento, parola che racchiude un processo.
Massari cita Kafka: basta una notte perché Gregor Samsa diventi uno scarafaggio, ma le spoglie d’insetto sono la fase finale di un processo che probabilmente l’ha sempre visto uno scarafaggio, ovvero un povero impiegato senza spina dorsale, umiliato e succube del sistema. «Un’evoluzione naturale del suo corpo rispetto a quello che la sua mente già poneva in essere». Come può allora il corpo umano non barcollare, non perdere l’equilibrio e cadere ripetutamente davanti allo sfacelo ampiamente predetto e in parte già avvenuto? Come una mosca in una stanza con le finestre chiuse, non riesce a distinguere la libertà dal vetro. Metamorphosis colpisce come colpì chi assistette alla prima proiezione de L’uscita dalle officine Lumière: un guardarsi allo specchio. È così che ci sentiamo, che ci muoviamo? Sono questi i suoni che emettiamo mentre l’apocalisse, giorno dopo giorno, ci pervade?
La vitalità del linguaggio della C&C Company si esprime sin dal nome. Corpo e cultura, danza e parola: sono questi i principali strumenti di Massari, sia in Metamorphosis che nella sua intera produzione. Che sia in scena da solo o con altri performer (come Chiara Taviani), che crei per sé o per gli altri (Right per Opus Ballet, 2021), Massari non cede a un solo linguaggio, e in questo caso il corpo e la parola sono i due strumenti principali in scena, che coesistono armonicamente, senza gerarchie. Massari viene dal teatro musicale e dalla prosa, ma il suo percorso artistico l’ha portato a un’ampia sperimentazione dei vari linguaggi della scena, tra queste la collaborazione in compagnia con la già citata Chiara Taviani, proveniente dalla danza classica, e l’incontro con Michela Lucenti. Coniugando coreografia e drammaturgia, Massari indossa il presente. Il suo corpo danza sulle direttive del presidente francese, sulle pesanti pietre di Tempest, sulle percentuali di consumo di carne nel mondo, sui campanacci di mucche al pascolo. Transdisciplinarietà dei linguaggi, corpi attraversati da responsabilità, dal divenire degli eventi. Una cifra stilistica che ha la potenza dell’immediatezza, che realizza in pieno l’obiettivo prefissato di «parlare di società alla società».
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
da Anna Cavallo | 11 Mag 2023 | Interviste, Uncategorized
Amore, dialogo tra le culture e tra le diverse generazioni di artisti dell’arte di figura, attraverso la memoria storica e l’apertura alla sfida delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale. Si concentra su queste tematiche, declinandole anche al di fuori dell’ambito artistico, la 48esima edizione di Arrivano Dal Mare!, festival internazionale del teatro di figura, che si svolge fra Ravenna e i paesi di Longiano, Gambettola e Gatteo, dal 19 al 28 maggio.
Diretto da Roberta Colombo e dai fratelli Andrea e Mauro Monticelli, il titolo di quest’anno, che si richiama al poeta e scrittore americano Raymond Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? “vuole essere un richiamo al bisogno di cura, di attenzione e di lentezza come approccio all’opera d’arte, in antitesi alla frenesia in cui siamo immersi” come racconta la direttrice artistica in questa intervista. Una riflessione attraverso spettacoli per adulti e famiglie, mostre e masterclass su quello che può essere il compito delle arti di figura in un contesto storico in cui le parole più ricorrenti sono quelle di emergenza, guerra e crisi.
Tanti, anche quest’anno, gli ospiti internazionali: dalla burattinaia spagnola Paz Tatay, in scena con La muerte de Don Cristobal alla belga Tof Théâtre di Alain Moreau, con Dans L’Atelier, oltre alla masterclass sul teatro d’oggetti tenuto dall’israeliano Ariel Doron. Dedicato al pubblico degli adulti lo spettacolo visionario di teatro d’oggetti Plastic Heroes, sul tema della guerra e il macedone Alex Mihajlovski, artefice della marionetta “Barti” che l’ha reso famoso a livello internazionale, mentre dalla Germania arriva la mostra interattiva di esposizione sulla stori del teatro di figura interamente in digitale ideata da Annette Dabs e allestita al Mar di Ravenna, dal titolo Puppets 4.0-Museo senza mura.
Il teatro di figura non è nato come teatro per ragazzi. Qual è la sua storia, con particolare riferimento alla famiglia Monticelli da cui è nata la compagnia del Teatro del Drago e quali sono state le innovazioni che hanno introdotto?
Il teatro di figura è un’arte come la prosa, la danza e la lirica. Non può essere definito un teatro per ragazzi benché quest’ultima sia una sua importantissima componente, che grazie alla riforma scolastica ispirata al metodo di Maria Montessori ne ha valorizzato le potenzialità educative e pedagogiche. Ci stiamo muovendo a livello internazionale con Unima e con Aps perché il suo status di arte venga riconosciuto anche a livello legislativo.
Il teatro di figura fin dalle origini ha profonde connessioni con la commedia dell’arte e con personaggi quali Arlecchino e Pulcinella che sono giunti fino a noi grazie al teatro popolare. Ecco, direi che sicuramente quella di arte popolare definisca molto meglio l’essenza del teatro di figura, dato che i suoi spettacoli si tenevano nelle piazze dove venivano rappresentate le opere di Shakespeare o Moliére nella versione con le marionette, prima che queste venissero portate in scena nei teatri delle città. In Italia ci sono quattro tradizioni: le marionette, i burattini, i pupi siciliani e le guarattelle napoletane, tutti presenti alla rassegna di questa edizione accanto a teatro d’ombre e teatro degli oggetti.
Tornando alla famiglia Monticelli, tra le più importanti dedite alla costruzione di marionette in Italia insieme alle famiglie dei Colla e dei Cuticchio solo per citarne alcune tra le più conosciute, è originaria di Cremona, città molto vivace culturalmente, soprattutto per la musica, grazie allo Stradivari. Ed è qui che Ariodante, nato nel 1822, inizia a costruire marionette e a rappresentare i suoi spettacoli. Dopo la restaurazione asburgica è costretto a trasferirsi in Piemonte, dove inizia una produzione molto interessante come testimonianza storica, per il suo legame con gli eventi risorgimentali che vengono narrati proprio attraverso l’arte della marionetta e che, come ho avuto io stessa modo di constatare leggendo i copioni del periodo, c’è una forte contaminazione con il linguaggio popolare.
Dopo un periodo a Fiorenzuola d’Adda i Monticelli si trasferiscono a Salsomaggiore, essendo artisti itineranti e senza fissa dimora, sempre alla ricerca di ingaggi per poter sbarcare il lunario. Dopo la seconda guerra mondiale arrivano in Romagna. La società italiana post bellica ha subito un mutamento radicale, come la produzione artistica del teatro di figura che adesso ha un nuovo target a cui rivolgersi: quello dei turisti e delle famiglie che vanno a trascorrere le vacanze al mare, che ammirano gli Stati Uniti e i nuovi personaggi come Topolino e Minnie.
All’epoca Enrico Novelli, giornalista, fondò il Corriere dei Piccoli, dove venivano disegnati i personaggi per ragazzi in voga all’epoca, che successivamente, grazie alla collaborazione con Zacconi e la Duse, venivano portati sul palco in versione marionetta. Comincia così a svilupparsi il filone del teatro di figura pensato per i ragazzi, dove si è orientato il mercato nei decenni successivi e che nell’immaginario collettivo è tuttora quello con cui viene identificato maggiormente. Anche la famiglia Monticelli si è adeguata a questo filone, ma ha introdotto importanti innovazioni.
La più importante avviene negli anni ’80 del secolo scorso, quando ad Otello, discendente della terza generazione, subentrano Andrea e Mauro che introducono la tecnica dell’animazione a vista di pupazzi che si muovono e occupano tutto il palcoscenico. Il primo spettacolo ad utilizzare questa novità è Nosferatu nel 1986. Ben presto inizia anche il rito dell’apertura del retro del palco al pubblico, altra novità impensabile per la tradizione burattinaia. Sono elementi che connotano sempre di più il teatro di figura come arte che accentua la sua capacità di parlare dell’uomo e della sua doppiezza, attraverso la coesistenza sul palco della marionetta e dell’attore che la anima, della semplicità con la quale si può entrare o uscire da un personaggio, di alternare luce e ombra, di interagire con il pubblico che guarda. Così come è notevole la sua capacità di entrare nel mondo contemporaneo e parlare di temi di attualità come la guerra, come si vedrà nella masterclass tenuta da Ariel Doron e della sua dedica al film Kill Bill, lui che, israeliano, nella guerra ci è cresciuto.
Che il teatro di figura sia straordinariamente versatile e adattabile alla realtà di oggi lo dimostra anche la sua capacità di integrarsi con le nuove tecnologie e con la dimensione virtuale, come si avrà la possibilità di vedere al festival. Accanto ad artisti storici come Sergio Diotti e la festa dedicata ai 30 anni del Fulesta e Bruno Leone e il suo Pulcinella fino al giovanissimo Collettivo Komorebi di Erika Salamone con lo spettacolo per le famiglie Happy B-Day to Me con proposte altamente innovative dal punto di vista tecnico. Così come ampio spazio sarà dato al tema dell’inclusività attraverso il progetto Sixth Sense Theatre dedicato a spettatori ipovedenti e curato dall’ artista e ricercatrice ucraina Kateryna Lukianenko.
Proprio a proposito di questo: le tecnologie hanno avuto un impatto positivo su questo tipo di teatro, che però all’inizio è nato come arte artigianale e tramandato grazie alle famiglie di burattinai e pupari. Come pensi si evolveranno le scuole negli anni a venire?
La parte materiale è fondamentale, per cui l’artigianalità non credo sarà mai superata del tutto, dato che l’intera filiera è all’interno della formazione artistica di quel particolare gruppo o compagnia teatrale o famiglia, dove chi costruisce è spesso vicino a chi anima. La costruzione delle marionette e burattini è uno step essenziale, per cui è improbabile un totale superamento della dimensione digitale rispetto a quella artigianale, ma certamente le nuove tecnologie e il progresso della chimica permetteranno l’utilizzo di nuovi materiali per costruire e apriranno nuove possibilità.
Che legame c’è secondo te tra il teatro delle marionette e la drammaturgia visuale portata avanti da artisti come Marzia Gambardella che si ispira a Philippe Genty e che peraltro è una tua grande ammiratrice?
Con Marzia ci siamo conosciute e abbiamo lavorato insieme ed è stata ospite al Festival anni fa. Genty è stato un maestro anche per me, nella sua poetica danza e figura di uniscono e vorrei davvero poter lavorare ancora su questo. C’è un gran bisogno di sinergia collettiva tra artisti per dare più dignità al nostro lavoro. Il teatro di figura ha uno dei linguaggi più completi che ci siano ma anche una grande fragilità. Penso al lavoro della nostra ospite Kateryna Lukianenko, in cui il sesto senso unisce gli altri cinque per un lavoro a 360 gradi sul corpo e, ne sono convinta, potrebbe essere uno di quei linguaggi in grado di riportare la gente a teatro. Soprattutto perché lo spettacolo teatrale aiuta le persone a stare concentrata sul presente.
A proposito della vostra collaborazione con Cantieri Danza invece cosa ci puoi dire?
Io e Selina Bassini siamo entrambe nel direttivo delle Artificerie Almagià, dove si tengono molti dei nostri spettacoli. Ci conosciamo da anni e condividiamo la stessa utopia, io nella figura lei nella danza, e speriamo entrambe in una futura maggiore unità di queste due discipline, ci piacerebbe affrontare questo discorso, magari proprio con Marzia Gambardella, perché qui in Italia le discipline artistiche sono ancora molto separate.
Ci saranno come hai detto, anche spettacoli in cui si parlerà della guerra. Che tipo di approccio ha il mondo della fiaba rispetto a questo tema?
Dipende dal target a cui ti riferisci. Sono forme di guerra anche la violenza assistita o il bullismo. Dopo il Covid la gente è diventata più nervosa, più tesa. Per questo, diciamo, c’è bisogno di ascolto, di cura. Dove c’è la cura non c’è la guerra. Riguardo la guerra in Ucraina, è vero, è un evento drammatico che avviene vicino a noi, ma era lo stesso anche con la guerra nei Balcani appena trent’anni fa e non dimentichiamo i tanti altri conflitti in corso di cui però non si parla. Noi lavoriamo con artisti iraniani, afghani, turchi, libanesi, russi e ucraini e posso testimoniare che nessuno di loro vuole la guerra, che viene sempre decisa dall’alto, anteponendo l’economia ad altri valori. Il teatro ne deve parlare, creare uno sguardo attento a ciò che sta succedendo senza giudicare in modo superficiale.
Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.
da Edoardo Borzi | 14 Apr 2023 | Bandi, Opportunità, Uncategorized
Un progetto ricco e ambizioso, carico di un patrimonio artistico ed emotivo che vuole essereun tentativo di recuperare l’antica cultura artigiana del teatro. Si tratta di Le lacrime della Duse. Il patrimonio immateriale dell’attore:non un semplice progetto formativo, ma come avveniva una volta nelle più vitali esperienze del teatro di tradizione e di ricerca del Novecento, Le lacrime della Duse punta a preservare e valorizzare il patrimonio immateriale dei saperi teatrali.
Il progetto, curato dalla Compagnia Mauri Sturno, è finanziato dal MIC ed ha coinvolto l’Università di Roma La Sapienza che fornisce il supporto logistico e una consulenza culturale attraverso il CREA – Nuovo teatro Ateneo e il progetto “Per un teatro necessario – Residenze didattiche universitarie” della Sapienza Università di Roma, diretto dal Prof. Guido di Palma.
Come nasce l’idea? Nel 1954 durante una tournée in Sud America Memo Benassi, allievo devoto della Duse che con lei interpretava Oswald negli Spettri di Ibsen, si accorse che il giovane Glauco Mauri, neo diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, lo spiava dalle quinte. Qualche giorno dopo lo chiamò in camerino. Il vecchio attore che a 63 anni aveva appena interpretato Osvald disse al giovane attore: “Vorrei che tu tenessi questa giacca con cui recitavo Osvald. Ora non posso più indossarla, mi viene stretta”. Il giovane attore, stupito, ringrazia commosso ma sull’uscio della porta viene fermato. Benassi si alza e dice: “Tienila da conto. Vedi questa spalla? Qui la Duse versava le sue lacrime”. Era un gesto antico legato alla tradizione. Era il riconoscimento che l’invisibile artigianato del vecchio attore aveva trovato un erede. Oggi la giacca è stata donata da Glauco Mauri a Roberto Sturno. In omaggio a questa antica pratica pedagogica il progetto si intitola Le lacrime della Duse.
“Ho ricevuto la giacca di Osvald dalle mani di un grande allievo della Duse Memo Benassi – racconta Glauco Mauri – È uno dei ricordi più commoventi del mio apprendistato. A mia volta l’ho data a Roberto Sturno e vorrei che questa trasmissione dei saperi immateriali dell’attore non si interrompa ma continui nel calore dei rapporti umani di cui questo meraviglioso mestiere non può fare a meno. Il Teatro, come tutte le arti, contribuisce – diceva Brecht – all’arte più grande di tutte: quella di vivere”.
L’arte dell’attore è un sapere che si acquisisce per contatto. L’apprendista nella tradizione spiava in quinta gli attori esperti, sera dopo sera, cercando di rubare il mestiere. Questa pedagogia non esiste più, ma sarebbe necessario ritrovarla. Oggi uno spettacolo si produce in una ventina di giorni e in queste condizioni non c’è tempo per sperimentare o accompagnare i processi creativi degli attori ma solo per replicare ciò che già si sa. Inoltre, l’attuale sistema del teatro italiano impedisce la circuitazione degli spettacoli che si esauriscono in una manciata di rappresentazioni. Così viene meno l’addestramento che replica dopo replica perfezionava gli spettacoli e arricchiva di esperienza.
Per questo la Compagnia Mauri Sturno si fa promotrice di un’azione di recupero e valorizzazione delle memorie, della trasmissione dei saperi immateriali legati al lavoro dell’attore. Mejerchol’d sognava un luogo dove fosse possibile per gli attori creare dei frammenti di scene per studiare in un luogo protetto, svincolato dalle urgenze produttive, forme sceniche e soluzioni interpretative. L’Università può offrire questa opportunità.
“La cultura teatrale non può essere affidata solo alla scrittura e tantomeno ai video – afferma il Prof. Guido Di Palma – essa vive principalmente nella presenza e nelle relazioni delle persone che la agiscono. Per questo le residenze didattiche universitarie sono pensate come un luogo di scambio. Passato e presente s’incrociano in uno spazio protetto affinché i saperi teatrali non vengano dimenticati e possano essere rivivificati nell’incontro tra generazioni. Per questo, nel quadro della Terza Missione universitaria la Sapienza sostiene il progetto Le lacrime della Duse”.
Il progetto è articolato in due fasi:
- formazione teatrale e drammaturgica per giovani attori under 35 condotta dalla Compagnia Mauri Sturno
- un ciclo di incontri dal titolo Artigiani di una tradizione vivente con grandi attori e attrici della tradizione teatrale del Novecento condotti da Guido Di Palma.
(il calendario degli incontri e gli ospiti verrà fornito a breve)
Un bando di respiro nazionale seleziona dunque un numero di attori e attrici per un massimo di 15 persone che sono invitate a lavorare sulla base di una serie di scene teatrali scelte in funzione dei partecipanti in modo da consentire un lavoro approfondito sulla costruzione dei personaggi. Nell’arco degli otto mesi in cui si terranno gli incontri, Glauco Mauri e Roberto Sturno si relazioneranno con gli allievi attraverso una didattica esperienziale dove docenti e discenti cercheranno insieme le soluzioni più appropriate a ciascuna situazione scenica. Nel corso del progetto che si articolerà da giugno a dicembre, sono previsti anche incontri tenuti da grandi attori della scena teatrale italiana che saranno presto annunciati. Scopo degli incontri è come sempre tramandare l’arte dell’attore stando a loro stretto contatto.
I materiali per partecipare al bando, dovranno pervenire a mezzo mail all’indirizzo bando@lacrimedelladuse.it entro e non oltre le ore 12.00 del 24 maggio 2023.
I partecipanti saranno selezionati su insindacabile giudizio di un’apposita commissione presieduta dalla Compagnia Mauri Sturno. Dopo una prima selezione sulla base del materiale inviato, gli interessati saranno convocati a mezzo posta elettronica per un colloquio con dimostrazione di lavoro. La frequenza alle attività è obbligatoria e a titolo gratuito. Le attività si svolgeranno presso il Nuovo Teatro Ateneo. Ai partecipanti verrà rilasciato un attestato di partecipazione.
Il bando, in italiano, inglese e francese è scaricabile al seguente link: https://www.lacrimedelladuse.it/il-bando/
da Edoardo Borzi | 13 Mar 2023 | Uncategorized
La panchina di un parco, tre ragazzi alle periferie dell’esistenza, la noia della provincia. Una pistola nelle mani sbagliate, un bersaglio casuale e un colpo fatale. Poi il buio e il silenzio. Odore di sangue e di ergastolo, al tramonto di un noioso giorno d’estate.
In vista delle rappresentazioni sceniche del 13 e del 14 marzo ore 21 presso il Teatro Marconi di Roma ad opera della Compagnia Habitas entriamo anticipatamente nella dimensione drammatica di Quel noioso giorno d’estate, testo scritto dall’autore e regista teatrale Niccolò Matcovich con cui abbiamo riflettuto intorno alla genesi drammaturgica dell’opera e alle cause socio-culturali che hanno guidato le azioni dei tre giovani ragazzi protagonisti, realmente esistiti e trasfigurati in dramatis personae attraverso la mediazione intimistica dello stesso drammaturgo che dal principio finale scava a ritroso nella storia personale dei ragazzi coinvolti in questo brutale affare di cronaca. Una commedia nera che trova l’accezione più violenta nella dimensione puerile e ludica della rappresentazione quotidiana di una gioventù alienata, vittima e al contempo boia di sé stessa, costretta a sottostare a quel cinico gioco di sopraffazione fisica e mentale che oscilla fra la noia e il dolore.
“Il primo dato fondamentale è che Quel noioso giorno d’estate nasce da un fatto di cronaca nera reale. Negli Stati Uniti tre ragazzi minorenni hanno compiuto un delitto così come si racconta nel testo. Alle domande delle polizia sul perché avessero commesso quel gesto hanno risposto per noia, per gioco, per divertimento come è scritto nel prologo. Questa storia mi ha sconvolto, e assecondando l’istinto, la mattina di piena estate in cui lessi quell’articolo iniziai a scrivere subito il testo perché avevo bisogno di capire come fosse possibile che tre ragazzi minorenni dessero quelle motivazione per un fatto così grave. Motivazioni che trovavo grottesche, surreali. L’operazione che ho voluto compiere è stata di mettermi io nella testa di questi tre, anziché giudicarli nella riproduzione di un processo o di un circolo mediatico esterno; ho provato a stare in questi tre corpi e da lì sono scaturite tutte le dinamiche e i motivi che portano a un gesto violento, qualsiasi esso sia. Giocando a tessere le vite di questi personaggi sono nati problemi di estrazione culturale provenienti dalle famiglie di base. Si evince da subito che sono tre ragazzi abbandonati a sé stessi di cui uno è adottato senza sapere chi siano i suoi genitori; gli altri due fratelli, che hanno perso il padre vittima di un omicidio, anche loro nascono da un dolore al quale si aggiunge una madre depressa, sotto psicofarmaci. Questi ragazzi, che dai fatti di cronaca sono statunitensi, ho voluto riportarli in una periferia italiana per renderli più vicini a noi, da ciò viene fuori questa storia di provincia. Ma non perché queste cose accadono in provincia e non nelle grandi città, ma di provincia in senso profondo. Queste sono tre anime provinciali messe al confine col mondo, anime periferiche. Da qui il tema di questo razzismo fintamente giocoso più o meno latente in ciascuno di noi.”

Continua Niccolò Matcovich: ” La chiave è stata di cercare nel torbido però con una forma ludica, perché questi personaggi sono ragazzi minorenni che intrattengono relazioni molto da adolescenti e quindi il gioco è una componente importante nelle citazioni cinematografiche o dei videogiochi. Ho cercato di creare un sottobosco che non fosse di giudizio nei confronti di questi tre ma di osservazione e di comprensione. Tanto che quando abbiamo fatto lo spettacolo, uno degli scopi che volevano raggiungere e che abbiamo raggiunto era quello di creare un’empatia fra questi tre e il pubblico. Il pubblico non deve permettersi di giudicarli così come non ci permettiamo noi di giudicarli. Se nel finale tutto quanto crolla per questo atto così tragico allora lì arriva più che il giudizio, il patto: è come se il pubblico ricevesse quel colpo di pistola. Non siamo più nell’ambito del giudicante ma nell’ambito dell’impatto emotivo che secondo me è più interessante ricreare teatralmente.”
con
Federico Antonello
Francesco Aricò
Riccardo Pieretti
testo e regia
Niccolò Matcovich
scenografia
Davide Bakunin Germano
assistente scenografia
Federica Foschia
ufficio stampa
Marta Scandorza
grafica
Eleonora Danese
INFO E PRENOTAZIONI
habitas51@gmail.com
tradizione.info@gmail.com
da Redazione Theatron 2.0 | 13 Mar 2023 | News, Uncategorized
Il Nuovo Teatro Sanità chiude i battenti. La sala di piazzetta San Vincenzo, che ha illuminato con la luce dell’arte e il bagliore della cultura uno dei vicoli più scuri del quartiere Sanità, dopo nove anni di lavoro teatrale, non svolgerà più attività di pubblico spettacolo.
«Il 7 novembre scorso la stagione del nostro teatro è stata sospesa a causa di lavori di adeguamento, che le autorità ci hanno indicato come necessari per proseguire l’attività – spiega il collettivo artistico ntS’ – e ci siamo immediatamente attivati.
Nonostante i tentativi già fatti negli ultimi anni per adeguare la sala secondo la normativa per il pubblico spettacolo, la particolarità della struttura del ‘700, il fatto che il bene fosse di proprietà del Comune di Napoli ma nella disponibilità della Curia e le conseguenti difficoltà burocratiche derivate da questa situazione, non ci hanno consentito di raggiungere il risultato.
Abbiamo sempre tenuto al corrente le istituzioni della nostra situazione, cercando più volte aiuto e un tavolo di incontro, cosa che purtroppo non è avvenuta. In questi anni abbiamo lavorato nella massima trasparenza, senza sottrarci ad ogni possibile risoluzione della questione.
Ma dopo quattro mesi di sospensione delle attività, la mancanza di azioni concrete da parte delle istituzioni, ci costringe ad annunciare la chiusura definitiva. Il nostro palcoscenico che è stata la casa di molti artisti e che ha dato la possibilità a tanti giovani che desiderano fare questo lavoro di formarsi e trovare uno spazio che li accogliesse, non potrà più illuminarsi. È un silenzio che fa calare il buio. Dobbiamo purtroppo, lucidamente, constatare che questa è una decisione da considerarsi definitiva».
L’associazione Nuovo Teatro Sanità, in collaborazione con Parrocchia Santa Maria Della Sanità, per il momento, continuerà la sua azione nel quartiere attraverso l’attività laboratoriale, cercando di potenziarne la portata, offrendo corsi gratuiti anche per gli adolescenti, ossia per quella fascia d’età che finora è rimasta scoperta.
«Abbiamo creato un centro culturale in una zona dove non c’era nulla e dove spesso manca anche l’illuminazione: dove l’unica luce accesa, il più delle volte, è quella del teatro – continua il collettivo artistico ntS’. Abbiamo aiutato a crescere una nuova generazione di attori e drammaturghi che vincono premi importanti in tutta Italia, abbiamo ottenuto in pochissimi anni il riconoscimento ministeriale della nostra attività nel quartiere. Come collettivo artistico, siamo riusciti a raggiungere risultati insperati. Questo ci fa credere di aver lavorato bene. Eppure ora ci sentiamo invisibili. Siamo ad una battuta d’arresto pesante e viviamo la frustrazione di non poter essere noi a risolvere la situazione. Vorremmo non dover spegnere le luci, ma per farlo abbiamo bisogno di un intervento istituzionale immediato e concreto. Ci hanno definito spesso “il teatro della Legalità”: noi crediamo molto nelle istituzioni ed è a loro che chiediamo una mano. Ora sono solo le istituzioni a poter decidere se esisterà ancora il Nuovo Teatro Sanità».
Il collettivo artistico ntS’ ringrazia tutti coloro che in questi mesi hanno cercato di aiutare con gesti e azioni concrete per scongiurare la chiusura del teatro: «Non sempre le belle storie hanno un lieto fine. Noi come artisti e gruppo organizzativo esisteremo sempre, offriremo sempre una proposta culturale innovativa che guarda ai giovani; continueremo a fare formazione gratuita per i ragazzi e le loro mamme nella Chiesa dell’Immacolata e San Vincenzo. Continueremo a creare aggregazione e proveremo a reinventare la nostra identità. Gli spettacoli li faremo altrove, in altri luoghi, in altre “case”. Purtroppo ad oggi dobbiamo annunciare che le nostre poltrone resteranno vuote. Nella Chiesa dell’immacolata e San Vincenzo, dove da dieci anni opera il Nuovo Teatro Sanità, la magia dell’incontro tra le persone nella forma sacra e professionale del teatro non ci sarebbe mai dovuta essere e non ci sarà più».
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
da Redazione Theatron 2.0 | 13 Feb 2023 | Uncategorized
Chiamata alla formazione per associazioni, collettivi e compagnie teatrali. FAI IL TUO TEATRO! è un percorso di formazione con una proposta didattica unica nel suo genere.
I docenti dell’edizione 2023 saranno: Mimma Gallina (Ateatro), Giorgio Andriani e Antonino Pirillo (Cranpi, Teatro Biblioteca Quarticciolo), VittoriaNPodrini (Happennino), Danilo Mancini (Sailor Danny), Marina Saraceno (Urbino Teatro Urbano, Festa del Teatro Ecologico di Stromboli), Francesco Mentonelli (Urbino Teatro Urbano, Marche Teatro), Stefano Perocco di Meduna e Tullia Dalle Carbonare. Con le incursioni di Giulia Alonzo e Oliviero Ponte di Pino (Trovafestival). Il percorso è ideato e organizzato dal Centro Teatrale Universitario Cesare Questa dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo nell’ambito del festival Urbino Teatro Urbano. FAI IL TUO TEATRO! si svolgerà dal 2 al 9 luglio 2023 in orario mattutino e pomeridiano, in spazi diversi del centro storico di Urbino ma tutti facilmente raggiungibili a piedi.
Il percorso formativo è rivolto a chi voglia:
• costruire un teatro sul proprio territorio, là dove un teatro manca, non funziona o ha perduto il suo valore comunitario;
• organizzare un festival;
• avviare o consolidare un percorso artistico di compagnia teatrale;
• progettare un’attività culturale che coinvolga una comunità locale;
• recuperare una festa tradizionale da riscoprire nella memoria locale.
I partecipanti potranno frequentare 4 diversi percorsi di alta formazione tenuti da docenti, esperti e professionisti di chiara fama, oltre ad entrare in contatto con esperienze affini e significative del panorama culturale nazionale, tracciando connessioni e immaginando scambi. Il percorso intende dotare i partecipanti degli strumenti teorici e pratici per realizzare il loro progetto. Al contempo, mediante un approccio didattico di tipo laboratoriale, essi verranno supportati nella definizione della propria strategia di crescita anche attraverso il confronto con percorsi simili per obiettivi e presupposti. Verrà inoltre favorita la creazione di reti e collaborazioni attraverso lo scambio di esperienze, prospettive e pratiche.
DESTINATARI
Associazioni, collettivi, compagnie teatrali, centri teatrali universitari, altri gruppi di operatori culturali giuridicamente definiti o in via di definizione, provenienti da esperienze di diversa natura. Non sono ammesse candidature individuali.
La candidatura dovrà pervenire nelle forme indicate nel presente bando entro le ore 14:00 del 1 maggio 2023. Ogni candidatura ricevuta oltre questo termine non verrà presa in considerazione. La candidatura al bando, corredata del materiale richiesto, dovrà essere inviata alla mail formazione@urbinoteatrourbano.it specificando nell’oggetto “CANDIDATURA FAI IL TUO TEATRO 2023”.
Leggi il bando completo.
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