da Aniello Nigro | 29 Gen 2017 | Theatropedia
Sdraiato su di un carro, sono in balìa di continui colpi alla schiena, conto le pietre e le buche corrispondenti alle botte che subisco percorrendo una strada del 1530. Dietro al carro, dove io mi sono accomodato, si sentono rumori di buoi al trotto e ruote lignee rotolare e sbattere a intervelli irregolari, sono molti i buoi e le ruote che ci seguono, faccio evidentemente parte d’una vera e propria carovana.

A esservi sincero non so bene cosa trasportino, credo siano dei carri pronti a dar vita, una volta giunti in qualche paese, ad un mercato. Sono strani, hanno sei ruote e su di essi sono stati costruiti dei locali di legno, come se fossero delle piccole case. Mi trovo qui perché ho chiesto di vedere del teatro e qualcuno mi ha fatto accomodare su questo carro misterioso che ha chiamato: pageant. Incuriosito, tento di aprire la tendina che nasconde l’interno del locale posticcio ma proprio mentre mi accingo a scostarla sento un urlo che arresta il lento trotto del bue. Siamo giunti alla meta, una località anglosassone, Coventry. Appena vistoci arrivare la gente si dimena felice e accoglie la carovana con un festoso brusìo. Scendo e noto che tutti i carri si son fermati in fila, uno dietro l’altro. Incomincio a capire che forse quel che sta per avere luogo è qualcosa di più d’un semplice mercato. Ogni carro ha su di sé una sorta di casa dipinta che, subito dopo essere arrivati, alcuni membri del gruppo di viaggio, assestano con molta cura. Che fossero carri allegorici come quelli dei nostri odierni carnevali? Chiedo a un componente cosa sta succedendo, mi risponde che si sta preparando la rappresentazione di un dramma liturgico atteso in città da giorni. È teatro.
Difatti, dopo il dominio della religione cristiana, il teatro romano e quello greco, divenuto sempre più laico, in poche parole, si estinse. La sua sparizione fece sì che l’unica forma di spettacolo concessa e, a quel punto, conosciuta, fosse quella di tipo religioso e le piccole scenette comiche, che pure alcuni attori professionisti, a dispetto del “Teatro di Stato”, mettevano in scena, non avevano la stessa attrazione. Il teatro di tipo religioso, che già esisteva ai tempi degli antichi romani, il teatro che era messo in scena nelle chiese e nelle processioni, divenne, in sostanza, l’unico possibile. È dunque lapalissiano pensare che in quest’epoca, gli unici copioni richiedibili erano quelli che trattavano di eventi religiosi, in particolar modo dei fatti salienti della vita di Cristo (se si eccettuano delle piccole farse del Tardo Medioevo). E non ci stupisce sapere che, ovviamente, il teatro aveva molto seguito soprattutto nei periodi coincidenti alle festività pasquali e a quelle natalizie. All’inizio i drammi religiosi si svolgevano all’interno d’una chiesa, poi gli autori si spinsero ad una trama più complessa e realistica e questo comportava maggiore spazio sia per la messinscena e sia per il pubblico sempre più numeroso e interessato. La soluzione? Trasferire lo spettacolo fuori dalla Chiesa. Era il messaggio che contava: e più lo spettacolo sembrava realistico meglio si raggiungeva lo scopo dello stesso.
Abbandonata la carovana, “m’immergo” nella realtà di quella cittadina. In piazza c’è gente che scalpita: un’allegria diffusa alternata a brusìi di chiacchiere interessate all’evento che di lì a poco sta per iniziare. Ci sono dei cartelli che indicano delle fermate, mi dicono che tra poco in quei punti ci sarà la rappresentazione teatrale e che devo sbrigarmi a trovare la mia stazione da dove assistere a tutto lo spettacolo. In pratica a ogni stazione si ferma un pageant e parte la scena specifica di quel carro-palcoscenico una performance che poi si ripete a ogni stazione, come una vera e propria Via Crucis. Lo spettacolo da queste parti, in questi tempi, si appropria dell’intera cittadina e cambia per un giorno le sue abitudini. È una vera e propria festa aggregativa.
Mentre penso a dove posizionarmi per gustare lo spettacolo arriva già il primo carro, è quello dove io ero disteso poco prima, appena s’arresta si sentono dei tamburi suonare e da un foro di quella sorta di casa dipinta d’un rosso fuoco, detta mansion (appunto), fuoriesce un’enorme vampa, a questo artifizio il pubblico reagisce strabiliato, impaurito e sorpreso, partono delle voci, si bisbiglia, nemmeno poi così a voce bassa, che quello sia l’inferno. Dal piano superiore della casa poi vengono fuori i dannati, che con dei balzi felini si gettono giù in strada, l’effetto è molto avvincente per la verità. Le voci che si sentono dal piano inferiore della mansion, un luogo adibito principalmente a camerino e deposito di scene, sono disumane da disturbare parecchio lo spettatore e rende la scena di terrore ancor più realistica. La storia è di quelle che mettono in guardia dalla paurosa e straziante vita ultraterrena che un cristiano potrebbe avere se nella vita terrena non si comportasse da corretto fedele. E come in tutte le storie, il finale è lieto, l’ultimo carro, infatti (come sempre) rappresenta l’esatto contrario, il paradiso fatto di scene celestiali, nuvole, angeli e cherubini che squillano le trombe: l’auspicabile salvezza dell’uomo.

Nel Tardo Medioevo quindi il Teatro è in stretta relazione con la città. Anche se non in tutti i luoghi le esibizioni erano itineranti, da sfilata. Il carattere processionale dell’evento era presente nel Regno Unito, in Belgio, Olanda e soprattutto in Spagna. In Italia, Francia, Svizzera e Germania, ad esempio, gli spettacoli erano svolti in un unico posto, senza i pageants, con l’utilizzo dimansion stabili. All’inizio si usava prevalentemente il sacrato della chiesa, poi s’incominciò ad adibire a teatro le piazze o diversi siti della città che avessero un’unica attitudine, l’essere spaziosi: un po’ come oggi si fa per sistemare i circhi. Un’altra soluzione molto usata prevedeva, laddove c’erano, l’utilizzo degli antichi teatri greci e romani.
Come sempre è meglio inoltrarsi in una piazza di quegli anni per capirne l’effetto, ergo con circospezione cerco di farmi spazio tra la classica folla di questo tempo. Mi trovo in uno spiazzo di una cittadina francese, sta per andare in scena la storia di una santa, è una trama conosciuta dagli spettatori che già commentano alcune scene, parlano di una scena terribile quando qualcuno con una tenaglia cava dei denti a una povera santa, qualcuno mi suggerisce il titolo: Il martirio di Sant’Apollonia. Quel che vedo inizialmente è un piano inclinato di legno posto a centro scena e pronto, evidentemente, a essere occupato da qualche personaggio della vicenda. Assiepato tra la folla in piedi, sento sopra la mia testa rumori di tavole di legno battute, sono dei passi: mi trovo nella parte inferiore di una mansion. È incredibile faccio parte dell’impianto scenico, sì, sono in pratica avvolto da una serie di mansions a due piani, costruite come delle capanne e disposte su una linea curva. Di queste strutture lignee una parte, quella superiore, è destinata essenzialmente alla recitazione e l’altra, quella inferiore, agli spettatori. Non si riesce a distinguere bene il limite della platea con quella della scena, anche perché alcuni spettatori si sono accomodati in qualche piano superiore.
Intanto comincia lo spettacolo, un attore spiega con un libro in mano e una bacchetta, la disposizione e il significato dellemansion, tutti lo chiamano l’indicatore. Questi sarà sempre presente anche durante la rappresentazione, indica agli attori di scendere quando arriva il loro momento e a volte spiega le azioni più complesse al pubblico. Nella prima mansion, a simboleggiare il Paradiso, ci sono degli angeli, nella seconda dei trombettieri che annunciano l’inizio della vicenda, in seguito da una scaletta che collega il piano superiore della mansionscende l’Imperatore che va ad assistere ad un’esecuzione. Entra così in scena quel piano inclinato: alcuni figuri legano il corpo di una donna, Sant’Apollonia, un altro con un grosso arnese di ferro, simile a delle tenaglie esegue la terrorizzante pantomima del cavadenti. C’è sbigottimento, mi anticipano che alla fine la santa si lancerà nell’ultima mansion che rappresenta l’inferno, laddove, nel piano inferiore, è sistemata ben in vista una grande testa di mostro che caccia fiamme e, nel piano superiore, dei terrificanti diavoli. Fischi, applausi, mugugni di disapprovazione dimostrano che questa congiunzione tra pubblico e attori, questa contiguità tra il recitato e la realtà, funziona per davvero. Il coinvolgimento è totale.
Lo spettacolo del Tardo Medioevo non si vede, si vive. Le scene sono impressionanti tanto da rimanere bene in mente. Si configurano probabilmente anche come un’ottima propaganda religiosa e il teatro resterà per anni asservito alla funzione liturgica, un espediente di grande effetto. Un effetto impresso da Jehan Fouquet nel suo meticoloso disegno. Il Martirio di Sant’Apollonia dell’artista francese, sarà una testimonianza di notevole importanza per lo studio teatrale di quell’epoca spesso misteriosa e arcana. Una fotografia di quel teatro che relegava un intero paese con i suoi abitanti in una nuova dimensione facendo dimenticare il mondo e le sue problematiche, per un giorno, anche il cittadino, si sentiva protagonista.
da Aniello Nigro | 29 Gen 2017 | Theatropedia
Siamo nel 1050 in India e ci troviamo in una sala rettangolare, molto simile a quella di una chiesa, lunga 30 metri e larga 15, divisa in parti uguali. La gente è seduta in terra, in una sua metà, attende che di lì a poco dall’altra parte avvenga qualcosa di annunciato, uno spettacolo. È un pubblico composto immerso in un brusìo d’attesa. Quando gli spettatori arrivano, notiamo che per prima cosa si fermano vicino a una colonna e poi si siedono con compostezza. Le colonne della sala sono colorate, e ogni colore indica i posti riservati per casta: bramini, guerrieri, artigiani, servi. D’un tratto il brusìo s’arresta, entra qualcuno su quello che crediamo essere il palcoscenico: è uno stregone, si dimena e credo stia mettendo in atto un rito propiziatorio. Alla fine della sua performance la gente impressionata resta ammutolita. In seguito si alza un cantante e prende in maniera naturale e decisa a cantare di qualcuno, un personaggio. Finita l’esibizione, infatti, entra un attore con dei braccialetti e degli orecchini vistosi che contraddistinguono convenzionalmente una tipologia di personaggio e inizia ad interpretare qualcosa mimicamente. Solo ora notiamo lo spazio scenico della sala: è diviso anch’esso (come la sala) ulteriormente in due parti uguali, la parte verso il pubblico è quello che noi chiameremmo palco, la parte retrostante, dietro a due porte, fa da retroscena e tra questa parte e lo spazio scenico c’è posizionata, stranamente, l’orchestra.

Soffermandoci però sull’esibizione di quell’attore restiamo davvero colpiti, si muove così preciso, sinuoso, quei gesti sembrano essere frutto di anni di studio ed hanno insiti un significato che noi non conosciamo ma che il pubblico in sala sembra conoscere bene. Tutta la scena è accompagnata dalla musica, i dialoghi seguiti da grossi tamburi e spesso intervengono i cantanti per rafforzare il racconto. Siamo impressionati.
Alla fine dello spettacolo mi avvicino all’attore, Abhishek, dicono si chiami così, sono curioso, gli chiedo se esistono maestri che insegnano quell’arte, di come egli è arrivato ad essere così bravo. Da come risponde, capisco che davvero in India l’attore è un professionista, già negli anni 1000. Mi dice che quella gente va per vedere soprattutto la bravura dell’attore e non per seguire una trama, è quello lo spettacolo. La prima cosa che è insegnata a una persona che vuole fare quel mestiere sono le quattro risorse fondamentali dell’attore. Gli chiedo di svelarmele ma egli dice che non c’è nessun segreto e che tutti gli spettatori le conoscono e, anzi, sono i metri di giudizio per giudicare le performance. Anche il pubblico quindi ha una sua competenza. Abhishek chiama un suo ammiratore che timidamente s’avvicina lo guarda paterno e poi gli fa cenno di dirmi le quattro risorse fondamentali che un attore deve avere, il suo ammiratore con la scrupolosa memoria di uno scolaretto, mi dice che l’attore ha a sua disposizione: il movimento e la gestualità; la parola e il canto; il costume e il trucco; la penetrazione psicologica.
Abhishek nota il mio stupore davanti alle parole del suo spettatore e solo con lo sguardo riesce a farmi capire che vuole che lo segua. M’incammino così con lui e mi dice: “Ora ti farò conoscere il mio maestro”. Sono curiosissimo e ansioso, entriamo in una saletta vuota, lui si ferma e con gesti rispettosi si gira incantato e proferisce una sola parola, rotta quasi dall’emozione: “Eccolo”. Indica un libro, si chiama Nātyaśāstra (in sanscrito, Trattato sulle arti drammatiche) scritto tra il 200 a.c. e il 200d.c. daBharata Muni, un leggendario autore che secondo la tradizione ricevette il libro, addirittura, daBrahmā, il dio della creazione dell’universo. Da come Abhishek spiega sommariamente il contenuto del testo potrei direi che possa essere definito l’equivalente della Poetica d’Aristotele per gli occidentali, solo che il Nātyaśāstra è molto più particolareggiante sulle regole della recitazione, della musica e della danza. Se lo si legge si scopre che lo scopo del dramma in scena è quello di giungere a quello che viene definito in sanscrito rasa, cioè un puro piacere poetico, dissociato dall’estetica dell’esperienza, dalla verosimiglianza della scena o dal carattere dei personaggi come avviene invece nel teatro occidentale.
Leggendo il Nātyaśāstra ci si stupisce della maniacalità o potremmo dire meglio, della meticolosità con cui l’autore specifica lo scopo e la tecnica per giungere alla risoluzione finale della messinscena. Ci risulta davvero difficile spiegarlo brevemente, si richiede un’attenzione “indiana” per poter comprendere la loro antica arte segreta del teatro. Per questo solo con un ardire tecnico e una curiosa pazienza potremmo cercare di dipanare il tutto nel breve tempo che ci concediamo a questa lettura.
Il Nātyaśāstra specifica i nove rasa possibili da poter esteriorizzare che sono: erotico, comico, patetico, furioso, eroico, terribile, odioso, meraviglioso e tranquillo. In seguito specifica i corrispondenti bhāva (che definiremo stati d’animo) per giungere ai succitati rasa (che potremo definire volgarmente, e forse impropriamente, generi teatrali): piacere, allegria, dolore, rabbia, forza, paura, avversione, ammirazione e pace. L’attore-autore della performance deve inscenare un evento che può avere anche molti stati d’animi (o bhāva) colleganti con i vari rasa ma deve stare attento a mantenere un equilibrio tra questi e far prevalere sempre uno su tutti il rasa della rappresentazione che può essere solo uno. Il teatro si configura quindi come una mimesi del mondo e quindi dei rasa che lo compone ed essendo il Teatro un evento rappresentativo del mondo svolto nel mondo e a sua volta il mondo per forza di cosa una parte del teatro, imitando le azioni della società nella loro universalità piuttosto che nella loro attualità, il teatro risulta essere per il pubblico più “reale” rispetto al mondo vero e proprio perché depauperato della sua complessità rende una parte di essa lampante. Per questo dopo aver apprezzato l’equilibrio della vita fatta dei tanti stati d’animo si concede al teatro l’unica sua attitudine tecnica la prevalenza di un solo rasa.

Questa può essere la fortuna o la sfortuna di un attore perché se non rende comprensibile quale sia il rasa predominante della performance non viene considerato un buon interprete e il pubblico indiano sembra essere davvero molto preparato, possiede una virtù in particolare: è un ottimo giudicatore. Il ruolo del giudizio competente del pubblico è fondamentale per questo teatro che è possibile proprio grazie ad un interlocutore attento ed è fautore inoltre principale dell’evoluzione attoriale sviluppatasi già negli anni 1000 in una maniera ineccepibile.
Non mi resta, non ci resta che lasciare quel luogo teatrale che sembra collegare l’arte della rappresentazione ai suoi primordi, quando questa aveva una stretta relazione col sacro. Prima di avviarci verso altri luoghi ci viene da fare un veloce parallelo con l’odierno teatro e la prima cosa che ci sovviene è la sostanziale differenza di pubblico per cui vien da esclamare: “Ci fosse oggi, dalle nostre parti un pubblico così…”. Però distogliamo l’attenzione da questo pensiero e ci affrettiamo a lasciare l’India e i suoi anni 1000 definitivamente, anche perché presto arriverà il dominio religioso islamico, che com’è successo con il propagarsi del cristianesimo per il teatro occidentale, porterà all’abolizione di questo tradizionale e straordinario patrimonio culturale e l’involuzione quindi è dietro la porta.
da Aniello Nigro | 29 Gen 2017 | Theatropedia
<<Melius est, pauperes edere de mensa tua, quam istriones>>, quel che dice questo ammonimento del Basso Medioevo latino fa intendere quanto difficile fosse il mestiere del teatrante in quell’epoca: <<È meglio alla tua mensa dar da mangiare ai poveri che agli attori>>. In effetti, nel 700 d.c. quello che nei primi secoli dell’Impero romano sembrava essere il seme di un’evoluzione teatrale deluse le aspettative e, invece di migliorarsi, involse fino alla sua fine. Essere attore nell’epoca bizantina divenne sempre più difficile. Se nei primi anni della Costantinopoli capitale dell’impero romano (dal 330 al 1202/1261 al 1453), in giro per la città si potevano ritrovare teatri costruiti sui modelli di quelli greci e romani, ippodromi in stile Circo Massimo, a cominciare dalla fine del 600 la varietà degli spettacoli si affievolì sempre di più perché contrastati dalla religione cristiana. Nel 692 gli attori erano numerosissimi ma nel Concilio della Chiesa di Roma tenutosi in quell’anno a Costantinopoli gli ecclesiastici decretarono la messa al bando degli spettacoli teatrali. Fu deciso, inoltre, che sia gli attori professionisti che le loro consorti dovevano essere espulsi dalla chiesa. E, addirittura, se qualcuno ospitava degliistriones rischiava in prima persona delle punizioni, gli attori erano visti alla stregua dei ladri, delle meritrici, e furono privati di numerosi diritti civili.

Il silenzio increscioso dell’arte teatrale d’improvviso è interrotto in una strada principale di Costantinopoli del 700. Sentiamo voci lamentevoli proferite in cori che si avvicinano lentamente, sono molto simili a quelle delle litanie liturgiche, un abitante dell’epoca mi fa capire che è una folla di gente che sta cantando o biascicando, non si capisce bene per la verità, delle frasi suggerite dal sacerdote: “La processione!”. Già, ecco cosa è rimasto di teatrale nell’era bizantina, e quando quella folla di persone ci passa davanti, salta agli occhi e alle orecchie qualcosa di strano. I sacerdoti interpretano frasi, recitano azioni della Passione di Cristo. Da un’iscrizione di uno di questi leggo la parte iniziale di una loro lettura drammatica: <<Ora, alla maniera di Euripide, vi racconterò la Passione che ha salvato il mondo>>. Alla maniera di Euripide? Ma qui si parla di teatro? Non abbiamo detto che fosse bandito? Hai capito questi ecclesiastici che furbi? Il teatro è vietato agli attori ma non ai sacerdoti che interpretano. Non fu quindi, l’arte in se per se bandita ma i significati della stessa che spesso erano pagani. Hanno sostituito il bisogno di quell’arte oramai divenuta popolare con altre espressioni e con la stessa veicolano i loro messaggi. Qualcuno, ironicamente, potrebbe dire che non c’è niente di scandaloso basta ricordare che in fondo le arcaiche origini del teatro ci dicono che i primi attori erano molto simili ai sacerdoti. Ma sarebbe ovviamente solo sarcasmo.
Intanto però nell’Europa occidentale, con la caduta dell’impero romano d’occidente e la cessazione dell’ordinamento politico e amministrativo dello stesso si pone fine all’arte rappresentativa sovvenzionata dall’Impero: il teatro classico. Le compagnie dei mimi, non avendo più ragione di esistere, si dissolsero e i più convinti si trasformarono in cantastorie, menestrelli, acrobati, giocolieri, equilibristi. Le scenette erano sempre quelle degli anni avanti Cristo, rozze, lascive, discendenti dirette dei Fescennini e delle Atellane. Questi liberi attori girovaghi ebbero successo soprattutto nel 900, e crebbero di numero, questo lo si capisce proprio perché si hanno molti editti emanati dalla chiesa contro i mimi, histriones e ioculatores in quel periodo. Insomma la battaglia era tra la chiesa e l’arte rappresentativa e dovunque la chiesa cristiana arrivava, tramite i romani, distruggeva ogni figura di “libera informazione” e di rappresentazione. Nell’Europa Settentrionale ad esempio vi erano dei narratori di storie a più voci che raccontavano delle imprese degli eroi nordici e, siccome questi erano depositari anche della storia e della cronologia della tribù a cui egli appartenevano, gli scop, così erano detti, nutrivano molta considerazione dagli abitanti della zona. Bene, in seguito alla progressiva conversione al cristianesimo delle tribù nordiche, intorno al VII e VIII secolo, la chiesa si schierò contro di essi e finirono di essere trattati allo stesso modo dei mimi, cioè uomini non meritevoli di avere diritti civili e per questo marchiati infami.

Lo scopo della Chiesa era chiaramente quello di direzionare tutte le attenzioni extraquotidiane su di essa. Questo lo faceva non solo emanando editti contro le tradizioni pagane, ma stando attenta a sostituire l’evento tradizionale, a cui la gente era legato, con quello religioso appropriandosi così delle feste preesistenti. Per questo motivo gli studiosi affermano che la data di nascita di Gesù fu fissata al giorno 25 dicembre solo nel 300 circa, proprio per sostituire le feste pagane svolte in quel periodo dell’anno. Allo stesso modo si fece con la Pasqua che andava a sostituire le feste della fertilità che si tenevano nei mesi primaverili. Come si è, però, già detto l’arte rappresentativa, non veniva del tutto eliminata ma cambiata di senso, l’evento pagano diveniva religioso e il religioso recitava il permesso, cioè, appunto, la storia della Passione di Cristo, la sua nascita, la resurrezione. Questa pratica fu così perfezionata che nel 900 si sviluppò quello che poi sarà chiamato il dramma liturgico che nasce da un testo in primis il Quem quaeritis, un dramma in forma dialogata che raccontava dell’incontro delle tre Marie con l’angelo al sepolcro di Cristo.
Si potrebbe però, per ironia della sorte esclamare: “Chi di religione colpisce di religione perisce!”. Difatti, nell’aria d’oriente dominata dai romani, dopo la morte di Maometto (632), il nascente impero dell’Islam, da questo evento generato, esercitò una pressione politica e militare contro l’Impero. Il suo dominio si espanse rapidamente dall’Arabia alla Persia, al Nordafrica, alla Spagna, spingendosi fino alla Francia dove fu arrestato da Carlo Martello nella battaglia di Poitiers (732). L’avanzata ottomana portava con sé novità e proibizioni nel campo artistico e scientifico, una delle quali era il divieto assoluto dell’arte rappresentativa, di conseguenza con la conquista di Costantinopoli del 1453, da parte degli islamici ottomani, anche la forma liturgica di teatro sparì da quelle zone. L’attore in quei siti non esisteva più.

Solo in alcune zone governate dai musulmani: Turchia, India, Indonesia, Giappone, permisero un’unica forma di teatro, quella delle ombre. L’attore non ha più le sembianze solide di carne ed ossa, non ha nemmeno la somiglianza legnosa di un burattino, l’attore diventa l’ombra del suo passato che proietta immagini, create da sagome principalmente di cuoio, su di uno schermo bianco. Il grandioso teatro classico greco e latino che aveva comunque resistito alle mille difficoltà imposte dall’impero bizantino sopperì a favore di quello misero e spartano delle ombre.
L’attore, seppur mai riconosciuto come uomo dignitoso, nei primi anni d’impero romano aveva comunque trovato un suo ruolo all’interno della società, alla fine del primo secolo invece si ritrova di nuovo senza ruolo e peggio ancora bandito.
da Aniello Nigro | 29 Gen 2017 | Theatropedia
Muovendo coscienziosi passi tra le sterpaglie di un bosco dell’Etruria meridionale del 390 a.c. siamo alla volta di un villaggio che prende il nome di Fescennium, ci stiamo dirigendo verso questo luogo perché in questi tempi di semina dei campi, si svolge un evento, per così dire, teatrale. Invero in quest’epoca gli eventi non sono così puntuali, avvengono quasi all’improvviso nelle feste dedicate a dei loro particolari dèi campestri. Fatto sta che sento delle grasse risate provenire da molto vicino, segnale che siamo giunti, probabilmente, allo scopo della giornata. Infatti, ecco un capannello di persone che in modo chiassoso ride e si dimena, al centro di quel capannello due uomini con delle tuniche buffe e rozze, vestiario che sembra imitare il chitone indossato dagli attori del Teatro greco, gridano fonemi spesso incomprensibili. Sono due histeres, così mi dice un uomo che in disparte, forse per timidezza, guarda la recita buffa e grottesca dei due. Gli “attori” in scena emettono dei rumori che potrebbero definirsi frizzi e lazzi ma ciò che noto è che quello che stanno mettendo in scena è qualcosa di osceno. La cosa è molto evidente: perché sulle tuniche ci sono simboli fallici e poi i loro gesti non sono propriamente gentili, anzi, si toccano continuamente le parti basse vantandosi uno della forza virile, interpretando probabilmente un “uomo” che si “complimenta” delle sue prestazioni sessuali, l’altro mostrando la sorpresa alla virilità del primo, interpretando molto probabilmente una “donna”.
Non c’è dubbio, stiamo assistendo a un fescennino, citato per la prima volta dallo storico Tito Livio nella suaHistoriae. Una composizione spesso improvvisata di frasi oscene, volgari doppi sensi e contornata da una mimica gretta che sembra piacere molto alla popolazione di quel villaggio. A me, tra l’altro, sembra di aver vissuto quest’epoca in tempi più recenti, chissà perché?! Ma quella scenetta che poco fa abbiamo visto non è cosa di secondo piano essa ha un’importanza capitale nella nascita del dramma latino, anzi si può dire che è uno dei semi dello stesso. Infatti, le prime rappresentazioni svoltesi a Roma dal 364 a.c. fino allo sviluppo del teatro romano, erano opera di attori etruschi, con i loro fescennini e di attori osci, con le loro farse atellane.

Per non lasciare, dunque, nulla d’intentato, mi sembra doveroso spostare la nostra attenzione anche sulle atellane, dopo un cammino di tre giorni siamo adAtella, una città osca di notevole importanza. Non è difficile capire dove dirigersi per vedere una fantomatica farsa del luogo. Qui già nel 390 a.c. sono molto organizzati, ci sono, infatti, piccoli gruppi che si sono uniti come minuscole compagnie girovaghe di teatro e alcuni già da un anno frequentano Roma. Basta chiedere e, difatti, prontamente, alcune persone, appena scoperto il nostro interesse, ci invitano ad andare in una sorta di campo incolto e all’improvviso indossando in fretta e furia delle maschere saltano su un carro e incominciano a improvvisare una scena mentre altri amici ci offrono del vino: è bene accettare, altrimenti qui si offendono. Guardo con molta attenzione la messa in scena mentre quelli intorno a me non sembrano poi così attenti: commentano, fanno chiasso, come se sapessero le battute anticipatamente.
Anche in questo spettacolo, seppur drammaturgicamente più complesso del fescennino, il tema sembra girare sempre su facili battute a scopo sessuale. Erennio, un amico del luogo, mi fa praticamente da sottofondo con le sue anticipazioni drammaturgiche, conosce i personaggi, perché sono sempre gli stessi ad agire in storie che partono da piccoli, brevi, canovacci: c’è Maccus il mangione sciocco, Pappus il capro espiatorio, un vecchio stupido, Bucco che parla sempre a vanvera e il Dossennus il gobbo astuto che spesso l’ha vinta.
Erennio e altri suoi amici sembra, però, stia aspettando un personaggio su tutti: Kikirrus maschera teriomorfa di un gallo. Tutti infatti dicono nella loro lingua: “mo che arriva Kikirrus siente!”. Ed infatti giunto Kikirrus la gente ride anticipatamente, a me sembra di vedere Pulcinella ma non dico nulla, lascio in silenzio il campo mentre frasi lascive mandano in visibilio il pubblico, gridano parole sconce, si lanciano in manifestazioni quasi orgiastiche… meglio allontanarsi, mentre nella mia mente ancora penso di aver vissuto già queste scene… Che fossero i miei coevi tornati a quest’epoca? Chissà?
Di sicuro ci conviene, per ora, figurarci nell’Urbe, il 13 settembre 166 a.c., siamo nel periodo dei Ludi romani, le festività per eccellenza della Repubblica. Davanti a noi vediamo una folla di persone che accorre verso una struttura in legno, una grossa piattaforma, non voglio esagerare ma sono circa diecimila le persone assiepate in un grossa cavea montata pochi giorni prima per l’occasione. L’ingresso è gratuito perché finanziato dallo “Stato” e si vede, anche perché c’è un apposito ingresso per le autorità dove entra solo chi è fornito di un biglietto speciale, noi lo chiameremmo “omaggio istituzionale”. Ad andare in scena è una commedia: L’Andria di PublioTerenzio Afro, un giovane autore d’origine cartaginese. Fuori alcuni frequentatori del teatro già sparlano del presunto autore straniero che non può che essere una copia del più famoso commediografo di quei tempi Tito Maccio Plauto. Ciò che si nota è che a differenza del pubblico attico, quello romano è molto più disordinato, caciarone e tra l’altro non proprio interessato, sarà perché il teatro qui a Roma non è associato a manifestazioni religiose e per di più l’offerta spettacolare è molto più ampia. Nello stesso giorno infatti vanno in scena spettacoli di mimi, giocolieri, funamboli, combattimenti tra gladiatori e bestie feroci (Venatonies), corse dei cavalli, battaglie navali (Naumachie). La gente ha dunque l’imbarazzo della scelta e, soprattutto, sceglie l’offerta più spassosa: il pubblico romano esige il divertimento non la catarsi del Teatro greco. Ecco perché, molto probabilmente, dei tragediografi Quinto Ennio, Marco Pacuvio e Lucio Accio non è giunto a noi nulla.

Finalmente entriamo nel luogo teatrale, inizia lo spettacolo, per mio stupore noto che il dramma latino manca di un coro, come quello greco, e che alcune battute e azioni sono accompagnate dalla musica, cantate (cosa che non accadeva nella commedia ellenica). I gesti, poi, sono davvero molto convenzionali ed eccessivi perché devono essere visibili a una folla di diecimila persone ed anche la voce ha bisogno di maschere amplificate con delle bocche aperte all’esterno tipo megafono per essere sentita da ogni spettatore. Anche se, l’amplificazione, non sempre serve, in quanto, attorno a me c’è un gran baccano: non è molto educato il pubblico romano. C’è chi si alza continuamente e va a comprare carrube, asparagi, funghi, uova, vino dagli appositi venditori posti davanti al teatro, qui c’è un uso smodato del consumare un prandium (pasto frugale) durante lo spettacolo, chi abbandona per andare a vedere un altro genere di spettacolo, chi parla di tutt’altro. Tutto questo mentre in scena c’è una commedia detta del genere palliata che a differenza della commedia togata prende ispirazione da vecchie storie della commedia nuova greca soprattutto di Menandro, Difilo, Filemone. E, soprattutto, nella palliata eraconcesso di rappresentare i servi più intelligenti dei padroni mentre nella togata, che parlava spesso degli usi e costumi dei romani, era severamente vietato e questo non è cosa di poco conto, poiché spesso le commedie latine hanno come perno della storia un personaggio su tutti: il servo astuto (servus callidus).
Alla fine, storditi dall’esperienza “teatrale”, capiamo che evidentemente solo chi è in prima fila può capire davvero lo spettacolo. Ci accingiamo così a uscir fuori, dietro coloro che hanno avuto questa fortuna e, ascoltiamo i commenti, dicono che: a differenza di Plauto, Terenzio ha musicato di meno la sua commedia e che è meno poetica, usa un linguaggio quotidiano che rende la storia troppo complicata e questo per un pubblico avvezzo alle opere farsesche risulta troppo rivoluzionario.

La figura di Terenzio ne esce un po’ come quella di Euripide nel Teatro ellenico, contestato soprattutto per le innovazioni che apportò al teatro. In effetti, quel che si riscontra tra il celebrato teatro plautino e quello terenziano è che mentre il primo rimane fedele ai canoni della fabula palliata di Aristofane e Menandro, dove sono continui i giochi meta-teatrali, in cui l’autore-attore interviene direttamente rivolgendosi al pubblico e ponendo in evidenza così l’illusorietà dell’azione scenica, il secondo nasconde l’autore per mettere in scena uno spettacolo quanto più naturalistico e oggettivo possibile. Egli era molto più attento alla vicenda che ai personaggi, per questo deviava spesso il pubblico con le false piste per accrescere la suspense dell’intera trama. A sentire parlare ancora questi romani acculturati, sembra proprio che d’ora in poi Terenzio non avrà vita facile, lo accusano di aver offeso la memoria del nomenLivio (Livio Andronico), il primo drammaturgo latino (che a dire il vero non fece altro che tradurre le più importante opere greche), che gli preferivano Luscio Lanuvino e che Plauto fosse tutt’altra cosa: “una spanna sopra”. Eppure l’autore dell’Asinaria, non fu certo ligio alla Commedia Nuova, anzi, apportò delle innovazioni rivoluzionarie, come ad esempio: l’opportunità di far recitare a diversi attori i diversi personaggi e non più esclusivamente a tre attori, come avveniva nella commedia nuova; spesso si dice che addirittura in alcuni spettacoli abbia provato a far recitare senza maschere; l’accompagnamento musicale anche nel dialogo, con l’inserimento di vere e proprie canzoni, quindi, di conseguenza, l’accrescimento dell’importanza psicologica dell’accompagnamento musicale. Evidentemente le innovazioni a Terenzio non gli si perdonavano perché non propriamente romano ma berbero e figlio di umilissima famiglia.
Giunti a questo punto accresce la voglia di vedere una tragedia romana, quella che qui chiamano fabula crepidata ma almeno a queste persone pare non interessi e ci fanno cenno di non conoscere eventi di tragedie che, per la verità, restano in quest’epoca quelle greche con l’unica differenza di essere state tradotte in latino. Il maestro di questo sarà Lucio Anneo Seneca ma dovremmo fare un altro salto temporale e spostarci nella Roma del 54 a.c. ed ora si è fatto proprio tardi e, poi, sarebbe comunque vano visto che le tragedie di Seneca non furono nemmeno mai rappresentate a Roma semplicemente perché la maggior parte dei romani pensava solamente a divertirsi e di tragedie non ne volevano sentire parlare, figurarsi recitare.
da Aniello Nigro | 17 Dic 2016 | Theatropedia
Abbiamo già detto di quanto importante sia la Grecia per la nascita del teatro moderno, luogo in cui s’innestano le sue radici ultramillenarie. Per cui mi sembrava doveroso prima di lasciare i luoghi sacri di quest’ultimo, con la benedizione di Melpomene e Talia, soffermarmici. E se i lettori lasciano per un attimo la razionalità del tempo e concedono a chi vi scrive il beneplacito della licenza poetica propongo un’intervista impossibile con Aristotele, il massimo studioso degli usi e costumi dell’epoca, uno dei padri della filosofia occidentale. Per questo, con un’elucubrazione fantasiosa e poetica, ci accingiamo a invitarlo a rispondere ad alcune domande e considerazioni sul vecchio e sull’odierno teatro ovviamente con il massimo rispetto che si deve a una figura di tale grandezza.
THE: Salve, devo dirle che l’imbarazzo è grande e palese: trovarsi di fronte a lei è davvero un onore e un merito che non tutti possono permettersi. Non so nemmeno con quale titolo chiamarla. Per questo mi conceda di usare una parola che dagli studi delle medie l’accompagna, filosofo. So che il tempo è ridotto, per questo vado subito al sodo. Aristotele, letteralmente, significa: finire bene. Come ci vede messi? Come siamo finiti?
ARI: (ride prima sommessamente poi sempre più evidente) Mi lasci ridere per favore.
THE: Prego, si figuri.
ARI: Veda, lei, non dovrebbe chiedere: “come siamo finiti?” Si tratta di sostanza, cioè a me piace parlare di ciò che è in sé e per sé. Lei dovrebbe chiedermi se siete finiti o no? E allora potrei risponderle sì, siete finiti; il come non m’interessa.
THE: Noto una vena polemica.
ARI: Le posso chiedere un’altra cortesia? Non mi parli con frasi fatte da giornalisti di quarto ordine. Io osservo, ascolto, e davvero trovo rumorose certe domande ovvie di questa scoperta “mille-cinquecentesca” del giornalista.
THE: Mi scusi. Noi siamo qui, per mezzo di Theatron 2.0, un sito internet che si occupa principalmente di teatro…
ARI: Ah, internet, me ne hanno parlato, quella cosa che in sostanza non è, non c’è, eppure c’è e c’è molto.
THE: Sì, quella cosa. Ci occupiamo principalmente di teatro. Ovviamente, istintivamente, appena la s’incontra c’è una domanda che sorge spontanea: può parlarci, proprio lei che le identificò, delle tre unità aristoteliche di tempo, di luogo e d’azione? Sa il teatro per secoli ha discusso sull’utilità o meno delle sue tre unità.
ARI: Il teatro discute? Che mistero è, il teatro ha preso vita?
THE: No, per teatro qui s’intende il mondo del teatro.
ARI: Capito. Ho capito che io e lei non possiamo andare d’accordo sul lessico. Comunque… vorrei sfatare questa fandonia che riportate anche sui vostri libri di testo. Non ho mai parlato di unità. Queste sono le vostre interpretazioni di comodo ed io ho trovato anche l’autore di questo fraintendimento: un certo Ludovico Castelvetro, un filologo modenese del 1500 che tradusse a modo suo la mia Poetica. L’ho apostrofato come si meritava: “Chiamale le unità castelvetriane, non mettere in mezzo me, cialtrone!”. Pensi che lui invece continuò ad asserire che quel che tradusse era l’unica verità che io avessi scritto: al che non ho potuto che consigliargli un corso di greco accelerato.
THE: Quindi lei non ha mai scritto delle peculiarità della messa in scena del Teatro greco?
ARI: Io nella mia vita mi sono sempre limitato, e non c’è limite in questo, di analizzare le cose per quelle che sono in un dato momento e non sul loro perché o sul come devono essere. Ne posso studiare le cause, quello sì, che è l’unica cosa di cui un filosofo dovrebbe occuparsi. (indica di seguirlo) Venga con me.
THE: Dove andiamo?
ARI: Venga, vede? Quella è Atene. Oh meglio, per lei, era Atene, siamo nel 334 a.c. e lei non mi sembra propriamente di quel tempo.
THE: Eh già.
ARI: Vede tutta quella gente?
THE: Sì e quanta!
ARI: Sta per iniziare uno spettacolo.
THE: Ah ci sono le Grandi Dionisie.
ARI: Theatron, ricordati che ogni cosa ha una sua evoluzione, siamo nel 334 a.c., no nel 500 a.c., Il Teatro ha seguito il suo corso, oggi lo si fa anche in altri eventi festivi, non si deve aspettare le Grandi Dionisie perché possa andare in scena uno spettacolo, il teatro ha in questi anni una propria dignità.
THE: Mi scusi. Non sapevo. Certo che quella gente è davvero appassionata al teatro se già all’alba sono lì ad aspettare che inizi lo spettacolo. È un po’ come fanno certi fans ai giorni nostri che aspettano dalla sera prima il cantante famoso che dovrà esibirsi.
ARI: (lo guarda in cagnesco) Ai giorni vostri si attende il nulla, cosa c’è da attendere se si sa già a che ora arriverà l’artista? Lì ad Atene lo spettacolo inizia all’alba.
THE: Ah già. Vero. Però dev’essere interessante, la scenografia la fa l’ambiente del momento, maestosa, le nuvole vere, la luce del giorno, il vento…
ARI: Quello da fastidio, ha sempre dato fastidio.
THE: …già anche ai nostri tempi… vero, quello da fastidio.
ARI: Vede, vede che ressa: sta arrivando Eusochilo.
THE: Chi è? Un drammaturgo che partecipa al concorso drammaturgico?
ARI: È un attore.
THE: Quindi anche un drammaturgo.
ARI: No, ho detto che è un attore.
THE: Scusi, filosofo, non vorrei contraddirla, ma io ho studiato, stavolta credo di non sbagliare se le ripeto che è dunque anche un autore. Perché nell’Antica Grecia erano gli stessi drammaturghi a recitare le loro opere.
ARI: Lei ha studiato troppo o troppo poco. Si è fermato nel 400 a.c. evidentemente. Nel 335 a.c. gli attori sono dei veri e propri divi, hanno acquisito una loro importanza autonoma. Tanto è vero che i più bravi e famosi vengono chiamati per recitare più di una tragedia. Eusochilo reciterà in tre tragedie in questo concorso.
THE: Caspita. Beh! Però non può negare che ha un suo seguito. Ci sono persone che si dimenano, gridano a me davvero sembra di stare ad un concerto di una rockstar.
ARI: Se le fa piacere questo paragone non posso negarglielo. Stanno per andare in scena: vede gli organizzatori lo scortano…
THE: …i bodyguard…
ARI: (guardandolo stranito) …lo scortano fin dietro la skené. 
THE: La…?
ARI: La skené, quell’edificio in legno, Lo vede? Là dopo l’orchestra. Lì ci sono gli attori che cambiano le maschere, i trucchi e i costumi.
THE: I camerini!
ARI: No, non sono quelli che voi chiamate camerini.
THE: Abbia pazienza ma il luogo dove gli attori si cambiano i costumi di scena e si truccano sono quelli che noi chiamiamo camerini.
ARI: La skené è anche la scenografia per loro. Io ho studiato i vostri tempi ma lei i nostri li deve un po’ rivedere. Comunque sbrighiamoci se vogliamo assistere allo spettacolo, altrimenti ci perdiamo il prologo.
THE: Ah, vuole vedere lo spettacolo. Non so se… quanto dura?
ARI: Cinque ore.
THE: Sta scherzando?
ARI: Io non scherzo! Non siamo ad uno spettacolino degli anni 2000. Vi seguo sa: Un atto veloce, indolore, non più di un’ora e via. Chissà poi cosa ci avrete da fare a casa?
THE: Eh, caro filosofo in quei tempi che vedo non c’è la televisione, il cinema, internet. Oggi si è alla ricerca di qualcosa di più intuitiva. Mi meraviglio dovrebbe convenire con me, lo dice nelle sue teorie bisogna valutare l’evoluzione.
ARI: Già l’evoluzione della specie. Lei trova che i suoi contemporanei siano forniti di intuito?
THE: Beh, non tutti… magari… non tutti… pochi… ma…
ARI: A cosa servono le cose intuitive se si propongono a gente con poco intuito? Non è meglio che si formi l’intuito prima?
THE: Hm…
ARI: Ma non mi deve rispondere l’importante è che si domandi. Voi pensate continuamente che quel che studiate siano verità storiche, non pensate mai che sono delle interpretazioni. Se lei scende lì nella cavea e chiede delle unità aristoteliche nessuno sa cosa siano, nemmeno le diranno che è vero che ci siano le scene che avvengono in un solo luogo, il tempo della tragedia limitato alle ventiquattrore dell’azioni che debbono essere consequenziali. Perché non è vero. Ci sono delle commedie in cui varie azioni avvengono in luoghi diversi. Il tempo limitato c’è, spesso, per una questione di comodo, il coro è sempre in scena e per giustificarlo bisogna avere un tempo limitato. Ma questo nel 334. a.c. lo si vede come una esigenza immodificabile, perché è un tempo proprio del teatro senza il quale quello che vedrebbero non si chiamerebbe più teatro.
THE: Capisco. Credo che sia stato chiaro.
ARI: Gliel’ho fatto vedere il teatro, no? Ora io non so come lei lo racconterà. Sono certo che sia quello che ho visto io ma non posso essere certo di quello che ha visto lei.
THE: Questione di percezione.
ARI: Credo di sì.
THE: Bene, prima di lasciarla però le volevo chiedere una considerazione sul teatro contemporaneo, anche se qualche cosa è già trapelata. Lei ha detto che ci segue. Cosa ha visto del e nel nostro teatro, quali differenze con quello che lei ha invece sperimentato direttamente?
ARI: Il teatro ai miei tempi era catartico, istruttivo, dignitoso. Ci sono state ere, anche in tempi non lontani, in cui l’evoluzione del teatro greco ha accresciuto queste qualità. Oggi però, tranne in alcune eccezioni che non hanno successo, l’evoluzione pare essersi arrestata per dar vita ad una involuzione. Lo spettacolo odierno pare che spesso accontenti il pubblico, lo accomodi, non lo scuote. Per di più vedo un teatro, quello che voi ritenete il più importante, che si autocelebra, non esistono autori, attori, quel ruolo moderno del regista o meglio non li fanno esistere. Niente. Non nasce un nuovo teatro e né si celebra il vecchio come si dovrebbe. Gli artisti si autodefiniscono demiurghi per cui quasi come nuove sacre entità si fanno egli stessi autori, attori e registi di se stessi. Il teatro oggi, mi dispiace dirlo, non ha più senso proprio perché lo avrebbe. Recita se stesso celebrandosi davanti ad un pubblico amico, forzato ed incompetente.
da Aniello Nigro | 17 Dic 2016 | Theatropedia
Atene, 522 a.c., all’incirca il 21 marzo di quell’anno: siamo in un agorà di Atene, si parla tra amici e si discute di chissà chi sarà ad aggiudicarsi il concorso delle Grandi Dionisie, la festa di inizio primavera. Scherni, boccacce, urla e risate sono il segno passionale che fanno intendere che davvero, a quella gara, le dieci tribù dell’Attica ci tengono molto. In cosa consiste il concorso? È un concorso “teatrale”, vince il rappresentante di una delle dieci tribù che meglio esegue un inno ditirambico scritto da sé, è una gara tra i poeti tragici. In questi anni però l’evoluzione “artistica” delle interpretazioni ditirambiche ha portato cambiamenti tecnico-strutturali evidenti, come l’aggiunta di un attore che si staglia dal coro, grazie all’intuizione di Tespi. Ed è per questo che il dibattito si fa più avvincente: si discute, infatti, di Tespi, Cherilo, Pratina, Frinico, cioè di veri e propri drammaturghi riconosciuti per il loro ruolo sia di poeta che d’attore mascherato. Al concorso è l’autore a parteciparvi con tre tragedie più o meno collegate tra loro, tragedie spesso basate su trame mitologiche, anche perché discendenti dirette del mito di Dioniso.
Il teatro, quindi, grazie alle Grandi Dionisie accresce il suo fascino e il suo interesse. E le esigenze intorno all’evento si distaccano sempre da più da quelle sacre legate a Dioniso, per interessarsi anche della vera e propria spettacolarizzazione. Così nel 501 a.c. gli organizzatori, interessandosi all’autore Pratina, aggiungono alle tre tragedie partecipanti, un nuovo genere di sua creazione: il dramma satiresco, perlopiù una parodia comica e dissacrante dei miti.
Al concorso “teatrale” di questa festa primaverile parteciparono anche i tre drammaturghi più noti della tragedia greca, grazie ai quali gli studiosi del teatro sono riusciti a basare la loro conoscenza di quest’ultimo: Eschilo, Sofocle e Euripide. Anche se bisogna dire che le opere ritrovate dei tre sono solo un campione delle oltre mille tragedie scritte in quel secolo da tanti altri autori mai conosciuti.
Figuriamoci ora di essere lì, sul declivio d’un colle, seduti sul theatron (una gradinata di legno) a guardare una rappresentazione tragica di Eschilo, saremmo coinvolti dalla monumentale spettacolarità fatta di doppi cori, personaggi mitologici, terrificanti, bighe tirate da cavalli e danze movimentate; insomma, un flusso continuo di spettacolarizzazione. Questo ci stupirebbe tenendo conto di quel che eravamo abituati a vedere, ovvero un solo attore mascherato che si cambiava continuamente di ruolo e controbatteva le sue battute con il coro. Difatti, Eschilo, apporta davvero delle grandi innovazioni alla rappresentazione, non ultima quella dell’aggiunta di un secondo attore, elemento che rende la trama più fruibile e credibile. Una novità che segna un punto di non ritorno, un’utile regola drammaturgica da rispettare a beneficio della propria opera.
Dopo la rappresentazione tragica di Eschilo, il pubblico attico rimane stupito, conscio che quello che ha visto rivoluzionerà il modo di intendere quella forma di teatro che sembra sempre di meno un ditirambo. Se Eschilo da una parte magnifica il teatro, poco dopo Sofocle lo drammatizzerà psicologicamente, facendo attenzione alla caratterizzazione dei personaggi (che diventano molto più complessi), aggiungendo un terzo attore e riducendo l’importanza del coro, che da qui in poi sarà escluso dall’azione tragica e interpreterà più il ruolo di spettatore giudicante che di attore agente della trama.
Ma arriviamo al 468 a.c., marzo. Il popolo ateniese non sa che di lì a poco sarà partecipe di una sfida epocale: al concorso drammatico delle Grande Dionisie parteciperanno Eschilo e Sofocle, per la prima volta sfidanti. Lo spettacolare contro il drammatico, l’incantevole contro l’umano. Uno scontro tra titani, padri del teatro classico, fondamenta di tutto il teatro moderno. Ansia, stupore, senso di giustizia, pianti, tutto questo si ode all’interno della cavea. Sofocle vince il primo scontro tra i due grazie alle sue innovazioni ma, in realtà, a vincere è quel pubblico che nemmeno immagina chi ha di fronte.

Tra gli spettatori di quell’edizione così particolare, quasi sicuramente, era presente un ventitreenne molto interessato, Euripide. Un giovane molto attento al teatro, tanto da analizzarlo fino a fondo e trovare in esso qualcosa che turbava il suo acerbo impeto drammaturgico. Ed infatti, di lì a poco Euripide sarà considerato il ribelle del teatro dell’epoca. L’autore ateniese sperimenta molto con la sua drammaturgia. I suoi testi, i suoi spettacoli fecero grande scalpore, perché in essi i personaggi acquisirono un’espressività molto più realistica e quotidiana e questo era considerato come irrispettoso e poco adatto per la tragedia. Per giunta i suoi personaggi osavano criticare spesso il senso di giustizia degli dei, attribuendone la causa delle miserie umane. Euripide, forse inconsapevolmente, stava operando un distacco netto tra la tragedia e i ditirambi di origine sacra. La sua struttura drammaturgica, spesso confusionaria, sciolta, poneva le basi per la sperimentazione futura di nuovi generi teatrali, che sfoceranno nella tragicommedia e nel melodramma. Euripide dimostrò che era possibile una drammaturgia avulsa dagli eventi mitologici, che il caso fosse una forza più potente di quella divina nell’intreccio della trama, che anche i miti minori o storie inventate di sana pianta potessero avere una propria dignità drammatica. Questa silenziosa rivoluzione drammaturgica fu, ovviamente, un successo per Euripide che riscosse molto interesse negli anni e questo spiega il numero relativamente ampio delle sue opere rimaste ai posteri, diciassette a differenza delle sette degli altri due tragediografi.
Eschilo, Sofocle ed Euripide, sono per questo l’origine della drammaturgia. Essi, in un ipotetico albero genealogico del teatro, supponendo che vi sia già la terra fertile della sua origine, del mito e del rito, s’impiantano come le radici di tutto quello che sarà il teatro negli anni a venire ed il fatto che ancora oggi ad Atene, Siracusa, negli anfiteatri greci, nei teatri classici, risuonino le parole dei tre è segno che il cordone ombelicale con la loro tradizione è indissolubile.