Dal 2 luglio si inaugura la nuova stagione estiva del Teatro dei Colori, che si protrarrà fino al 27 di agosto. Fondato nell’87 da Gabriele Ciaccia, il Teatro dei Colori rappresenta una straordinaria istituzione culturale del nostro paese: perenne rinnovamento interno, identità artistica imperniata sulle forme del teatro di figura, recupero delle periferie e una presenza capillare sul territorio in ben 15 regioni, sono gli elementi cardine di una compagnia che da quasi 40 anni scrive un capitolo fondamentale del panorama teatrale italiano. A raccontarci le novità e la storia della compagnia è Valentina Ciaccia, regista, drammaturga, artista e tutto tondo e ormai da molti anni figura centrale del Teatro dei Colori.
La vostra storia è tenuta insieme da un filo rosso che in qualche modo accompagna tutta la vostra produzione, tutta la vostra esperienza come compagnia, ed è la complementarità di centro e periferie. Da un lato la vostra idea di teatro esprime un’esigenza culturale e sociale molto forte, che è quella del recupero degli spazi anti-istituzionali del teatro, delle periferie, dei centri meno abitati, e dall’altro, rivendicate il ruolo istituzionale che rivestite, portando il vostro lavoro nelle piazze più prestigiose, nei capoluoghi, recuperando quello che è il mestiere del teatrante come compagnia di girovaghi. In che modo, in questi ormai 37 anni di esperienza sul campo siete riusciti a tenere insieme questi due aspetti?
Questa domanda è alla base del discorso problematico che si fa in questo momento tra le compagnie e i centri di produzione di teatro per ragazzi e di teatro di figura, che sono appunto quelli che si occupano di un teatro molto vero, molto vicino alle persone, perché arriva ovunque, in tutta Italia. Il discorso verte proprio sul capire come risultare efficaci per erogare quello che è un servizio culturale dedicato alle fasce di popolazione che sono quelle meno abbienti, quindi più bisognose di avere un supporto culturale, riuscendo al tempo stesso a mantenere un elevato grado di ricerca artistica e di preparazione culturale.
Il Teatro dei Colori in questo senso ha sempre avuto l’obiettivo di mantenere altissimo il livello di ricerca artistica e di preparazione interna della compagnia, facendo la scelta di portare avanti spettacoli di ricerca anche per i bambini, nelle varie forme del teatro di figura, pur arrivando veramente ovunque. Questo perché, essendo abruzzesi, siamo abituati a scavallare le montagne; chi invece ha fatto la scelta di andare verso prodotti di consumo e di cassetta, purtroppo si sta vedendo sconfitto davanti ai grandi blockbuster americani dei musical. Di conseguenza, se non hai una tua autenticità artistica, un tuo linguaggio, una tua tecnica specifica (come, per esempio, per noi la tecnica del Teatro su Nero), non sei riconoscibile e quindi hai poco da offrire.
Il Teatro dei Colori come porta avanti questo discorso? Sicuramente con un grande rinnovamento interno, nel senso che è una compagnia che arriva ai 37 anni di età avendo avuto all’interno generazioni di artisti che vanno, vengono, ritornano, fanno altre esperienze, in una grande libertà creativa. E soprattutto ha sempre dato spazio ai giovani, senza proclamare retoricamente questo principio, ma rendendolo un discorso anche di formazione professionale, sia per quanto riguarda il cast artistico che per quanto riguarda il cast tecnico. Insomma, siamo abbastanza ligi in questo senso e continuiamo ad insistere tanto sui territori, soprattutto abruzzesi, prova ne è la longevità delle nostre rassegne artistiche e anche dei nostri festival.
Dal 2 Luglio inizierà il Festival Fiabe al Parco a Pineto in provincia di Teramo, che quest’anno compie 20 anni e che non posso esimermi dal ringraziare per questa straordinaria e longeva esperienza progetto di coprogettazione artistica del festival. Ci tengo poi a definirlo festival, perché alcuni pensano che i festival siano solamente quegli eventi di tre giorni stracolmi di cose e che poi così come iniziano, finiscono in fretta. Un festival invece, secondo noi, si deve declinare anche in base alle necessità del territorio; in questo caso noi abbiamo ascoltato le necessità della città di Pineto che ci ha ospitati, e negli anni abbiamo deciso di allargare le maglie del festival proprio perché attorno a noi, e anche grazie a noi, sono nate altre iniziative.
Credo che questo sia molto importante perché ci deve essere un humus culturale in cui tutti gli operatori riescono a collaborare: questo discorso della competizione infinita nel settore dello spettacolo deve finire, non serve a niente, l’abbiamo visto e sappiamo che, al contrario, è più intelligente creare un’offerta culturale variegata e dilazionata nel tempo, sulla base delle esigenze di un determinato territorio. Non viviamo tutti a Milano e quindi se io sto in Abruzzo, quello che Milano ha inteso come festival, in Abruzzo lo intendiamo in un altro modo. Il rischio insito in queste definizioni è l’imposizione di canoni e format che non sono poi coerenti con la necessità dei territori e del pubblico. Perché poi ci sono anche spettacoli non solo per i bambini, quelli che sono gli spettacoli di teatro di figura noi li intendiamo, di fatti, come dedicati al bambino che c’è ancora dentro ognuno di noi, nel senso che è un altro tipo di arte, un altro tipo di linguaggio: sono dedicati alla nostra parte creativa e poetica, ecco.
A tal proposito, infatti, nella tipologia di strumenti e di riferimenti che mettete in campo, è evidente – come anche voi stessi rivendicate pubblicamente – il richiamo ad alcuni degli elementi e delle geometrie tipiche del futurismo e della Bauhaus.Ecco, mi chiedevo, un teatro che è pervaso da questa intenzione pedagogica, che ha un pubblico tendenzialmente molto giovane, che tipo di risposta ha dall’utilizzo in scena di questo tipo di elementi che possiamo definire “colti”, seppur riletti e ridimensionati per lo spettacolo dal vivo. Qual è il feedback che ottenete?
Ti voglio raccontare un piccolo aneddoto. Questa tecnica è nata nell’87 con il primo spettacolo del Teatro dei Colori che si chiamava Colori, immaginare l’immagine, del mio papà Gabriele Ciaccia, che vinse il primo premio attribuito dall’Osservatorio Critico dell’ E.T.I. Quando venne rappresentato a Milano, presso la Sala Fontana, c’era ancora il grande Bruno Munari che venne a vedere lo spettacolo. Ecco, in quell’occasione (ovviamente avevo quattro anni, quindi questo è un ricordo che ti riporto da mio papà) – era una matinée per le scuole – Munari venne a vedere lo spettacolo, e tra il pubblico c’era un bimbo che oggi definiremmo nello spettro autistico. Ebbene, questo bimbo ebbe una reazione eccezionalmente gioiosa alla visione dello spettacolo, che un po’ stupì anche le maestre, e Munari, molto semplicemente invece disse: “questo è quello che si deve fare con i bambini”. Certe volte noi adulti ci facciamo troppi problemi, mentalizziamo, quando invece l’intelligenza infantile in qualsiasi modo la si voglia declinare è estremamente duttile. I bambini sono molto reattivi e posso assicurare che questa tecnica funziona più con i bimbi che con gli adulti, perché i bambini sono più rapidi a capire le trasformazioni delle immagini rispetto agli adulti – d’altra parte, loro passano attraverso il linguaggio prefigurativo. Quando un bambino inizia a disegnare, le prime cose che proietta sul foglio sono linee, punti, cerchi, quadrati. Passa per la geometria.
Non è un caso che stia facendo questo paragone, perché Kandinsky, Klee e gli artisti del Bauhaus hanno studiato queste cose, sono andati ad osservare la creatività infantile, sono tornati indietro, all’origine, e da lì poi hanno sviluppato il concetto di arte non-figurativa, di arte astratta. Questo per dire che, è una cosa immediata per i bambini, e ciò che ci permette di continuare a riproporre questa tecnica è la sua inesauribilità, nel senso che le combinazioni sono infinite, non annoia mai non solo il pubblico ma noi stessi che la facciamo. Anche perché viene poi abbinata a dei movimenti di mimica che nel corso degli anni abbiamo sviluppato con una tecnica estremamente raffinata, così anche con delle basi di danza classica. Questa tecnica è collegata poi a un uso molto sapiente della musica, c’è un grande lavoro dietro con dei compositori che collaborano con noi. Quindi non è solamente pedagogia della scena, ma insisto a dirti che sono spettacoli veramente (questi in particolare del Teatro su Nero) tout public, perché gli stessi spettacoli li posso fare in matinée come in serale senza cambiare una virgola, e ti assicuro che il pubblico serale lo apprezza esattamente come un bambino di 6 anni, non cambia niente.
Questo fatto è estremamente sorprendente perché appunto siamo abituati a pensare che uno spettacolo per un pubblico di bambini debba avere meno contenuto, o comunque una riduzione, e invece ci sono strategie e forme che colpiscono indipendentemente dall’età, anzi, addirittura in certi casi sono colte maggiormente da un pubblico giovanissimo.
Sì, poi la sensibilità ovviamente si modifica e voglio farti un esempio. L’ultimo spettacolo prodotto da noi, dal titolo La Sinfonia dei giocattoli, è dedicato ad una grande artista, Sonia Delaunay che purtroppo si sta dimenticando; io come donna cerco sempre di parlare di storie di donne quando faccio spettacoli di drammaturgia di parola, ma soprattutto di far vedere quelle che sono state le artiste del Bauhaus, del Dada, perché ci sono state tantissime donne in questi movimenti, ed è come se ci fosse una specie di oblio della memoria. Infatti, Sonia Delaunay che appunto si chiama in realtà Sonia Terk, poi ha sposato Robert Delaunay, che era un bravissimo pittore anche lui, ed è stata un po’ messa in secondo piano, è diventata la moglie di -, quando invece no, era un’artista a tutto tondo. Quindi abbiamo voluto dedicare proprio a lei questo spettacolo riprendendo alcune sue forme disegnate appunto per i bozzetti di costumi che noi abbiamo rifatto esattamente in scena con le stesse geometrie, mettendole in movimento.
Lo spettacolo ha debuttato a dicembre dello scorso anno, e ha partecipato anche come spettacolo conclusivo delle manifestazioni a Lecce per la Giornata Mondiale della Marionetta di UNIMA, che quest’anno era organizzata da Teatro Le Giravolte. Eravamo in una chiesa del barocco leccese, quindi è stato il nostro momento dello spirituale nell’arte, come direbbe Kandisky, chiusi in questo luogo meraviglioso con la musica elettronica a palla, con quelle geometrie; è stata un’esperienza pazzesca che a ripensarci mi fa venire i brividi, e c’erano i bambini che magari si emozionavano e ridevano in alcune scene, e gli adulti che si emozionavano in un modo diverso, magari qualcuno addirittura commuovendosi, per un ricordo di infanzia che è dentro di loro. Quindi è bello fare anche spettacoli in cui la stessa immagine la si legge in modi diversi, in base anche a quello che tu sei, quello che è il tuo vissuto, le tue esperienze, ed è uno spettacolo che io chiamo uno spettacolo semplice, perché dopo tutto quello che abbiamo visto negli ultimi anni ho notato che i bambini sono un po’ in ansia e quindi cerco di fare spettacoli che diano stimoli culturali percettivi e che siano meno pesanti, meno didascalici, meno didattici, perché hanno bisogno di essere un po’ accolti questi bimbi, di essere un po’ non solo divertiti, ma stimolati a livello del sogno, della creatività, dell’immaginazione.
Beh, anche lì c’è una missione pedagogica fortissima che accompagna questa intenzione.
Sì, poi adesso siamo anche a lavoro sul nuovo spettacolo che sarà pensato principalmente per un pubblico adulto, dedicato al genio olandese di Maurits Escher e che invito caldamente a venire a vedere. Tornare dopo tanti anni a fare un teatro di figura programmato per gli adulti, con una forte presenza di nuovi strumenti tecnologici, rappresenta una grande sfida in Italia, quando invece in Europa è una cosa normale. Quindi piano piano alcuni fra noi, fra programmatori e produttori di teatro di figura stanno cercando di riportare anche questo livello in Italia, perché il teatro di figura in generale vive un momento di grande rinnovamento, di grande stimolo. Io credo che sia in questo momento il settore del teatro che ha più da dire per quanto riguarda la ricerca, anche per la naturale compromissione con le nuove tecnologie, per esempio con la scenografia in digitale che, per il teatro di figura, è normale e rientra all’interno dell’alveo delle tecniche, non è una cosa posticcia, e quindi torneremo moltissimo anche sulla multimedialità.
Quindi è già in qualche modo, per natura, il teatro più adatto a intercettare tutta una serie di novità dal punto di vista tecnologico.
Assolutamente. Se ci pensi bene forse è la forma più antica che esista di teatro, e mi occorre ricordare in questo momento il grande professore Nicola Savarese, che è venuto a mancare giusto ieri, che è stato mio professore, mio grande mentore, come tanti altri della mia generazione. È stato forse il primo a portare in Italia un insegnamento di certe tecniche importanti dell’Oriente, dalle quali noi ci siamo tutti quanti abbeverati, abbiamo capito tante cose, perché ovviamente anche nella tecnica del Teatro dei Colori c’è tanto di Oriente, c’è Giappone, c’è Kabuki, ci sono tante cose e, secondo me, è una linea lunghissima ininterrotta con l’Oriente. È forse l’unico teatro che può inglobare le nuove tecnologie senza esserne inglobato, senza esserne mangiato vivo, perché ha le spalle larghe, è riuscito a trasformarsi in ogni modo possibile, in ogni momento possibile nel mondo, e quindi può integrare anche le nuove tecnologie senza alcun problema.
Un altro vantaggio è poi quello della lingua, che insomma gioca a suo favore, nel senso che essendo un teatro di immagine più che di parola, ha la possibilità di essere compreso e replicato in ogni modo.
Sì, è universale, io ci tengo molto a creare una differenziazione tra quello che è l’universalità di un gesto artistico e invece fare qualcosa che diventa nazional-popolare, banale, omogenizzato. No, noi siamo universali, non siamo banali, perché c’è questo rischio a volte, per arrivare a più persone si rischia di banalizzare il proprio discorso artistico, invece no, bisogna essere umili, studiare tanto, e arrivare all’universale, spesso proprio sintetizzando, disseccando le modalità, le tecniche, i linguaggi, e allora diventa universale.
Oltre che un teatro universale, voglio sottolineare un’altra piccola cosa. Quest’anno eravamo presenti con La Sinfonia dei Giocattoli al Festival internazionale dei Burattini e delle Figure -Arrivano dal Mare! a Ravenna, che è un festival storico e importantissimo del teatro di figura che quest’anno ha compiuto 50 anni, organizzato da Teatro del Drago, dedicato appunto alla figura femminile all’interno del teatro di figura, sia per quanto riguarda i temi e le vicende, ma soprattutto per quanto riguarda chi fa teatro, dalle drammaturghe alle animatrici, alle costruttrici di pupazzi. Quindi il nostro spettacolo, dedicato appunto ad un’artista donna, Sonia Delaunay, rientra all’interno di tutto questo discorso. Credo che sia importante anche sottolineare questo, perché il teatro di figura sta diventando sempre di più un teatro al femminile, perché, d’altra parte, ci dobbiamo ricordare anche che è nato in Italia grazie a Maria Signorelli, che è stata la prima iniziatrice in Italia del teatro di figura, quindi noi ci richiamiamo a questa lunga tradizione di “pupazzare”.
D’altra parte, il teatro di figura è sempre stato per alcuni un teatro di serie B, e tutte le cose di serie B sono sempre quelle che fanno le donne, fino a che poi non diventano famose e importanti, come per esempio era la fantascienza, oppure la scrittura cinematografica. Sono quelle cose particolari dove le donne hanno più cura e più amore, perché nel costruire un pupazzo, cucire un costume, realizzare una piccola marionetta, la cura del femminile è molto presente.
A volte si rischia di sovrapporre la figura della donna alla figura dell’artista, o della madre alla figura della donna. Invece è bene che tutti questi ambiti convivano. E la cosa meravigliosa è che Sonia Delaunay, come artista, ci insegna che anche la maternità può diventare un ambito dell’arte, dell’espressione artistica, come qualsiasi altro ambito della vita, e questo credo che sia forse l’unica artista che l’ha dimostrato in un modo così forte fino adesso.
Con il Teatro dei Colori in questi anni avete intrapreso un’altra sfida di grande spessore, vale a dire la concorrenza a Capitale della Cultura con la città di Pescina in Abruzzo. Il cuore del progetto, riassunto dallo slogan “La cultura non spopola” insiste sull’importanza di portare la cultura non solo nei grandi centri, ma soprattutto nelle zone e a quelle fasce di popolazione che spesso hanno meno opportunità.
Abbiamo partecipato a questa corsa incredibile della Capitale della Cultura perché il Teatro dei Colori si trova proprio a casa sua, a proprio agio, nel borgo di Pescina, da tantissimi anni all’interno del Teatro San Francesco, dove c’è il Centro Studi Internazionale Ignazio Silone. Organizziamo spettacoli di prosa dedicati a Ignazio Silone, in collaborazione con il Centro Studi ormai da molti anni, per esempio c’è lo spettacolo Il Segreto, tratto da Il Segreto di Luca (di Ignazio Silone), che è un monologo che recita mio papà, che ormai va avanti da quasi 15 anni. Noi veramente ci spendiamo in ogni modo per i borghi del territorio abruzzese, e abbiamo dei rapporti preferenziali appunto con Pescina, con Celano, con Tagliacozzo, dove ci sono delle comunità meravigliose legate appunto a istituti scolastici che cercano di resistere in ogni modo possibile al problema dello spopolamento della montagna. A tal proposito, abbiamo da poco ricevuto l’approvazione per il progetto Colori d’estate, che, per l’appunto, durante la stagione estiva riempirà le piazze dei centri storici di Avezzano, Celano, Trasacco e della stessa Pescina.
Così nascono progetti culturali veramente coraggiosi, e a Pescina è fondamentale la presenza del Centro Studi Internazionale, perché eleva l’ambito culturale grazie alla presenza di molti studiosi che arrivano e rimangono lì, sul territorio. In questo modo un piccolo borgo è riuscito ad arrivare tra le dieci finaliste, e già per noi quella è stata una vittoria, un traguardo significativo, storico, perché tu competi con città eccezionali: non ci credevamo nemmeno noi, insomma. Siamo felicissimi che adesso sia stata proposta l’Aquila, che è sicuramente una città più grande, che ha tantissime offerte culturali in più rispetto a Pescina da manifestare, da erogare, però ecco, anche Pescina, essendo rimasta tra le dieci, adesso è seguita in modo particolare anche dal Ministero, e avrà la possibilità, con dei fondi appositi come le altre finaliste, di creare comunque delle progettualità importanti, in cui noi siamo protagonisti, e che partiranno dall’autunno in poi.
Nel venire a contatto con la vostra realtà emerge una coerenza di fondo nelle attività che proponete, nel modo in cui lo fate, perché la questione della cultura che non spopola porta con sé l’esigenza di dire non solo a parole che è importante occuparsi di periferia, ma di farlo concretamente, con un gesto politico molto forte, specie nel momento in cui poi si decide di concorrere per un progetto così ambizioso.
Nel fare questo noi rivendichiamo l’importanza del ruolo istituzionale che rappresentiamo. Noi siamo una compagnia riconosciuta dal Ministero, da sempre, dalla fondazione nell’87, e quindi con grande impegno; essere riconosciuti significa per noi avere dei fondi erogati dalle tasse degli italiani che le pagano, motivo per cui sentiamo il dovere di elevare il linguaggio artistico e di erogare un servizio culturale di alto livello. E io rivendico proprio questo, che l’istituzione è stare nei territori, nei territori che sono più difficili, come può essere l’Abruzzo, come può essere la Sicilia, perché l’istituzione non può essere solamente il teatro nazionale, e forse invece proprio noi che siamo sul territorio, piano piano, stiamo dando un’altra veste anche all’immagine istituzionale della cultura.
In linea generale mi sembra di notare che le compagnie, quelle che hanno avuto un percorso simile al nostro, siano riuscite a formare all’interno dei loro ranghi figure professionali e artistiche che lavorano all’interno dell’arte, in tanti settori diversi, dall’arti visive, alla musica elettronica, passando da un imprinting all’interno di una compagnia teatrale. E questo io credo che sia importante, perché è anche una formazione artistica, organizzativa, manageriale, che ti aiuta poi a creare una continuità di generazioni di persone che si preoccupano di questi ambiti. Penso che questo sia anche una cosa che vada riconosciuta un po’ a tutti noi. Noi, per esempio, come Teatro dei Colori lo abbiamo fatto molto, non solo per quelli che sono stati i nostri allievi, che poi adesso sono nel cinema, televisione, eccetera, ma proprio perché c’è una continuità anche di capacità tecniche che si trasmettono, e credo che questo sia importante, è il saper fare.
Per concludere, a maggior ragione per realtà come la nostra, credo che sia fondamentale avere un’identità artistica originale a avere le idee chiare perché, non essendo noi blasonati e non venendo da un settore culturale particolarmente rinomato come quello della prosa, non possiamo permetterci di fare salti nel vuoto o voli pindarici; proprio questo ci ha insegnato però a lavorare con i piedi per terra e quindi a saper resistere un po’ a tutto. Noi non ci spaventiamo della crisi del settore culturale perché noi come settore ci siamo sempre stati in crisi, in un certo senso abitiamo questa crisi. Siamo da sempre un settore sottofinanziato, poco visibile e quindi adesso che la crisi sta diventando purtroppo sistemica, e ovviamente me ne dispiace, il settore del teatro di figura un po’ se la ride perché noi siamo sempre stati in crisi; eppure, siamo sempre sopravvissuti grazie alla forza delle idee e dei progetti che portiamo avanti.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.
“Nella baracca dei burattini canta l’anima del nostro popolo” diceva Petrolini ed è difficile dargli torto ancora oggi. Negli ultimi anni il teatro di figura ha vissuto una rinascita. Basti pensare aLa classedi Fabiana Iacozzilli, a Natale in casa Cupiello per attore solo cum figuris con Luca Saccoia, arrivato finalista come miglior spettacolo ai premi Ubu, a Rosso del gruppo Uror, lavori diversissimi che animano i festival e che fanno dell’uso di marionette e manichini il medium artistico con cui parlare al mondo del mondo. Un’arte che si fonda sul sapere materico e artigianale, con una drammaturgia che si snoda su più livelli per rivolgersi a un pubblico di età non definita. In seno a questa prolifica realtà (per cui si rimanda al ciclo di ricerche Teatro di figura, immagini di vita), la compagnia sarda, Is Mascareddas, attiva sul territorio sardo, italiano e internazionale da più di 40 anni, è stata premiata con l’Ubu speciale 2023. Per la prima volta una realtà totalmente isolana ha raggiunto questo traguardo e nella motivazione per la tenace attività di Is Mascareddas, compagnia composta da Donatella Pau, Tonino Murru e la loro meravigliosa schiera di marionette, si legge:
“Per gli oltre 40 anni di lavoro nel teatro di figura, che Tonino Murru e Donatella Pau hanno sempre pensato – fra tradizione e innovazione – al pari e al crocevia degli altri linguaggi performativi e artistici, diffondendo tale visione scenica tout public a partire dalla Sardegna, in tutta Italia e nel mondo attraverso progetti via via più sperimentali. Per il loro spazio-museo, che custodisce una biblioteca sul teatro d’animazione fra le più significative in Europa e una straordinaria collezione di marionette e burattini, nel 2022 posta sotto tutela dalla Soprintendenza. Soprattutto, per l’impegno politico e di pensiero, oltre che poetico e artistico, e per la tenacia della resistenza portata avanti in condizioni non sempre facili dal 1980 dentro e fuori il palcoscenico”.
Siamo volati a Cagliari per intervistarli e parlare della loro storia, dei loro modelli, per riflettere su cosa voglia dire fare teatro di figura oggi, in una società digitalizzata e spesso poco propensa alla meraviglia.
Quando avete capito che il teatro di figura sarebbe stato il vostro?
TONINO MURRU: Beh, potrei dire da subito, fin da quando è stata creata la compagnia. Io sono un autodidatta, ho fondato la compagnia possedendo solamente un retaggio dei giochi di tipo teatrale che facevo da bambino, che era quello del circo, quello di giocare alla messa. Prima di dedicarmi al teatro ho lavorato in un’ officina meccanica, un lavoro molto pesante e molto duro. Ho iniziato a fare teatro intorno al 1978, quando ho conosciuto una compagnia che si chiamava La Calesita. Erano venuti in Italia in seguito al colpo di Stato in Cile del ’73, arrivando a Roma nel ’75, poi in Sardegna nel ’78 grazie a Corrado Gai, che è stato uno dei fondatori storici del teatro di Sardegna. E questa scintilla che loro mi iniettarono nei 3 mesi che ho lavorato con loro, mi ha portato poi nel 1980, con un po’ di intraprendenza, a fondare la compagnia.
DONATELLA PAU: Mi sono innamorata del teatro di figura da subito. Vista la mia formazione artistica, mi sono resa conto che è un’arte veramente totale, cioè quella in cui potevo definire la forma, capire da dove questa iniziasse, ma senza sapere dove finisse. Qualsiasi oggetto, qualsiasi immagine può diventare teatro di figura. L’importante è che ci sia teatro, ma non ci sono dei limiti, la sperimentazione è veramente ampia, puoi usare tantissimi materiali e puoi concepire anche spettacoli in cui non si parla tanto. È un teatro visuale. Questo è l’aspetto più intrigante per me.
Quali sono state e quali sono i vostri maestri/maestre? Quali sono state e sono le vostre ispirazioni?
D.P.: È una domanda complessa. Io provengo dal liceo artistico e ho avuto dei bravi maestri. In primo luogo, il mio professore Primo Pantoli e la mia professoressa di storia dell’arte Paola Spissu Bucarelli. Al tempo il liceo artistico era una scuola che apriva e dava degli input artistici, quindi in questo senso posso affermare di aver avuto enormi stimoli creativi. Poi ho incontrato Natale Panaro, che è stato il mio maestro per quanto riguarda la scultura lignea. Molto importante è stato l’incontro con Walter Broggini, perché non avendo la Sardegna tradizione di marionette, ci interessava capire cosa fosse l’arte dei burattini a guanto.
Fin da subito io e Tonino abbiamo cercato un confronto e siamo andati a vedere cosa succedeva nel mondo del teatro di figura. Non in Italia, bensì all’estero, dato che, una volta che esci dalla Sardegna, tanto valeva andare veramente “fuori”. Abbiamo perciò avuto una formazione “europea”. “Gli occhi” ce li siamo fatti anche attraverso i Festival, come il Festival mondiale delle marionette, che si tiene ancora oggi a Charleville-Mézières, in Francia. La prima volta, nell’81, ci siamo arrivati in autostop. Al tempo venivano presentati spettacoli da tutto il mondo, per cui andare a una rassegna del genere voleva dire avere veramente una panoramica di quello che succedeva nel teatro di figura. Abbiamo frequentato il Festival per vari anni, ma gli stimoli sono arrivati anche da tante altre occasioni, da persone che hanno frequentato il nostro laboratorio in Sardegna, come Karin Koller, la nostra regista con cui abbiamo creato tantissimi spettacoli. Senza considerare ovviamente maestri come Peter Brook e Kantor, per noi imprescindibili.
Come nasce la drammaturgia di un vostro lavoro? C’è un modus operandi, o creandi in questo caso, solito, oppure vi fate ispirare da un’esigenza che cambia?
T.M.: Noi partiamo sempre e comunque da una nostra necessità. A partire dall’argomento ci facciamo venire un’idea. All’inizio della nostra carriera abbiamo chiesto una mano per scrivere i testi, per esempio a Karin Koller. Successivamente anche Donatella si è dedicata a curare la drammaturgia. Tuttavia la fase di creazione del testo e della regia è sempre aperta a spunti e suggestioni di terzi. Lo spettacolo nasce in parte nelle prove e quindi si affida anche alla capacità e alla coscienza degli attori burattinai, perché i burattinai non possono prescindere dall’essere anche degli attori. Sta poi alla capacità del regista chiudere tutto il cerchio.
D.P.: Come dice Tonino in primis da una necessità, da un’idea da un pensiero da svolgere e sviluppare. Nel caso del burattino a “guanto” il nostro teatro si esprime nella sua massima creatività e drammaticità nel personaggio che abbiamo inventato “Areste Paganòs”. Non è stato facile crearlo, perché mentre i burattini di tradizione degli altri Paesi e delle altre regioni sono sempre sagaci, un po’ fuori dagli schemi e divertenti, creare un burattino “sardo” è stata una sfida. Perché tutti i tratti, tutte le imprecazioni, tutte le esclamazioni della nostra regione sono estremamente serie. I sardi sono sempre introversi e silenziosi, a fogu aintru (“con il fuoco dentro”, ndA). Cercavo degli aspetti a cui agganciarmi per creare questa figura-personaggio sardo, ma non ne trovavo di adatti a una marionetta. E allora la nostra ricerca si è indirizzata verso il carnevale, in particolare la maschera di Ottana. Il suo volto infatti è una maschera fissa ma con la parte superiore che diventa un berretto morbido. Veste una bella camicia bianca plissettata come quelle maschili del costume tradizionale sardo, e un gilè di pelo di pecora. Il suo nome rimanda alla sua natura selvatica, che lo fa somigliare ad una capra-muflone, e come tutti gli eroi burattineschi riesce a risolvere conflitti e metter pace.
Areste è il protagonista di storie scritte da noi e ispirate alle problematiche della faida, balentia (valore, intraprendenza ndA) e banditismo, argomenti molto importanti e presenti alcuni anni fa in Sardegna. Abbiamo lavorato molto con la musica, cioè come fonte di ispirazione, con lo spettacolo sul jazz, sulla lirica, dei veri e propri varietà musicali. Abbiamo poi iniziato a indagare sulle artiste e artisti che prima di noi avessero creato dei pupazzi e lì nasce il personaggio di Giacomina, ispirato ai pupazzi di Tavolari e Anfossi, con la musica di Gavino Murgia, sino ad arrivare a “Venti contrari”, con i pupazzi delle sorelle Coroneo e la musica di Tomasella Calvisi. In questi ultimi esempi i personaggi hanno ispirato direttamente la drammaturgia.
Dal momento che mi parlate di filoni, di volontà di costruire una tradizione che non c’è, vorrei capire cosa vuol dire fare teatro di figura in Sardegna.
T.M.: Noi abitiamo in Sardegna, noi viviamo in Sardegna e quindi è qui che dobbiamo lavorare. È chiaro che il teatro non può essere una forma di pagamento finto, nel senso che uno non può limitarsi a farlo per un proprio diletto, perché altrimenti non è teatro. Bisogna perciò produrre qualcosa di bello, forte, ma anche vendibile. Penso per esempio a uno spettacolo premio Ubu come il Macbettu di Alessandro Serra, che ha tutte queste caratteristiche. Diventa fondamentale dunque non perdere mai di vista che si vive di questo lavoro, quindi lo spettacolo deve essere forte, “inquietante”,deve porre dubbi; deve essere un intrattenimento sì, ma possibilmente il più colto possibile, raffinato, non deve cadere nella cialtroneria. L’obiettivo è quello di inventare uno spettacolo adatto ai bambini, ai bambini e alle loro famiglie, dal momento che un bambino non va da solo a vedere uno spettacolo. In fondo, come si è soliti dire, “se uno spettacolo piace a un bambino, sicuramente piacerà anche agli adulti; non è sempre vero il contrario”. Bisogna perciò ragionare su un doppio linguaggio. Il teatro di burattini vive affinché lo spettatore si senta emotivamente coinvolto. Nonostante le difficoltà, questo è ciò che ha tentato di fare Is Mascareddas.
Abbiamo inoltre cercato di entrare per tanto nel giro delle feste popolari qui in Sardegna, ma non ci siamo riusciti a pieno. Perché? Perché da una parte c’è la cultura dominante, la cultura della classe dominante, come diceva Karl Marx, che tendenzialmente vuole portare avanti l’idea che tutti vivano felici e contenti, possibilmente senza dire niente. Senza conflitti. Senza scontrarsi col sistema imperante in quel momento. Quindi per evitare ciò, noi partiamo da noi, da sardi che lavorano in Sardegna, per arrivare a un pubblico diverso. Per noi, fare il teatro di figura da sardi in Sardegna serve ad arrivare a più persone possibili, far girare i nostri spettacoli in Italia, in Europa. Spettacoli con dei messaggi sociali e politici, con un testo. Potevamo fare spettacoli senza testo ed economicamente sarebbe stato più conveniente, ma non l’abbiamo fatto. Saremmo potuti andare in “continente”, ma non avremmo fatto l’attività culturale che abbiamo fatto qui. Anche se nella nostra regione se non veniamo valorizzati se non dalla Soprintendenza, per cui veniamo considerati dal punto di vista antropologico-artistico. È difficile, ma è quello che vogliamo fare. Non ci siamo accontentati, ci siamo posti il dubbio. E questo ci ha salvato la vita. Avere la pazienza di non accontentarsi.
D.P.: Siamo stati criticati da qualcuno perché non abbiamo usato la lingua sarda. Ma non ci interessava tradurre un testo in sardo ma semmai parlare e portare in scena argomenti e storie interessanti della nostra terra. Come ho già detto prima quando raccontavo di Areste Paganos, che è riuscito a portare le sue storie oltre l’isola e quindi parlare e farsi capire dai pubblici di tutta Italia. I nostri burattini sono sardi? Non lo so. Alcuni dicono che sono sardi perché hanno dei nasoni, ma non saprei. Noi siamo sardi e viviamo qui. Indaghiamo sulla sonorità e portiamo la sardità senza forzature, senza folclore e senza mai utilizzare lo stereotipo sardo. Abbiamo sempre e solo utilizzato la materia che potevamo trovare interessante a livello teatrale.
Nella motivazione per l’Ubu si parla di impegno politico, quindi cosa vuol dire per voi impegno politico?
D.P.: Noi non facciamo teatro politico. Il teatro è anche politico. Il teatro è vita. Il teatro deve assolutamente mettere dei dubbi, non deve dare delle risposte, deve fare in modo che lo spettatore possa riflettere su qualcosa. Ci sono stati dei momenti in cui abbiamo fatto quasi uno spettacolo propriamente politico, come “Il soldatino del Pim Pum Pà” di Mario Lodi che sembrava una sorta di “manifesto del partito comunista”, ma è un caso particolare. Di certo non abbiamo mai fatto un teatro che ammiccasse al commerciale. In questo senso abbiamo sempre cercato di raccogliere anche le istanze che venivano dal popolo, perché è una prerogativa del teatro dei burattini, ma ci siamo sempre messi l’obiettivo di portare argomenti che potessero far ragionare. Per esempio abbiamo fatto uno spettacolo sulla morte, pensato per i bambini: non sono temi prettamente politici, ma in una società in cui alcuni temi, come la morte e il sesso, sono tabù, noi abbiamo cercato di indagare anche questi aspetti a modo nostro.
T.M.: La premessa è necessaria, fondamentale: la politica o la fai o la subisci. E anche quando la fai la potresti subire lo stesso, tra l’altro. Il primo libro che ho letto di burattini riportava questa frase: Per sconfiggere un’ipocrita non conosco strumento migliore di una marionetta. Bisogna studiare approfonditamente l’arte dei burattini per farli parlare in modo diretto e chiaro di argomenti sociali. Bisogna praticare questo, rivedere quello, capire come si può interpretare quell’argomento scelto nello spettacolo. Che cos’è la sagacia del burattino? Perché un burattino a guanto? Perché è il più attoriale. Però il problema è sempre che cosa dici. E poi anche come lo dici. Questa è la politica. La politica del lavoro che fai, per cui devi costantemente studiare e approfondire. Per crescere continuamente. E non desistere.
Emilia Agnesa, sarda trapiantata a Roma. Drammaturga, autrice e attrice teatrale, diplomata in drammaturgia all’Accademia Nazionale Silvio d’Amico. Laurea specialistica in lettere antiche, insegnante abilitata di latino e greco. Collabora come autrice con diverse compagnie nazionali e internazionali.
Con La Sinfonia dei giocattoli, ultima produzione di Teatro dei Colori, prosegue la ricerca della storica compagnia abruzzese tra teatro di figura e arte figurativa. In questo lavoro è predominante il riferimento a Sonia Terk, donna dalla grande caratura artistica, che seppe battersi per l’uguaglianza di genere nel mondo dell’arte. Una scelta che porta con sé la volontà del Teatro dei Colori di proporre una riflessione sul riconoscimento dei diritti delle donne in ambito personale e professionale, oggi più che mai necessaria, nel confronto con pubblici di tutte le età. I “Libri neri” di Sonia Terk, importantissimi per ricostruire il percorso di ricerca compiuto dall’artista sui colori, i loro accostamenti e i loro effetti percettivi diventano, per La Sinfonia dei giocattoli, un riadattabile modello compositivo: le storie vengono montate e smontate in scena. Come sempre accade nelle opere del Teatro dei Colori, oltre alle raffinate tecniche corporee e di manipolazione di Teatro su Nero, nonché alla percezione visiva dello spettacolo, importante spazio è riservato anche alla drammaturgia sonora. Ne La Sinfonia dei giocattoli, si aggiungono al cast di compagnia anche giovani allieve della scuola del Teatro dei Colori, in linea di continuità con l’azione di trasmissione del sapere teatrale compiuto da diversi anni dalla compagnia.
Ne abbiamo parlato con Valentina Ciaccia, regista in pectore del Teatro dei Colori.
Con La Sinfonia dei giocattoli prosegue la ricerca di Teatro dei Colori tra teatro di figura e arte figurativa. In questo lavoro è predominante il riferimento a Sonia Terk, donna dalla grande caratura artistica, che seppe battersi per l’uguaglianza di genere nel mondo dell’arte. Che valore ha, oggi, assumere una donna come Sonia Terk quale ispirazione per uno spettacolo come il vostro, ideato per essere tout-court e abbracciare le sensibilità di spettatori e spettatrici di ogni età?
Ritengo necessario inserire la narrazione di una genealogia femminile all’interno dei miei spettacoli. In questo periodo si parla molto del femminile nella fiaba, altro tema che abbiamo affrontato spesso (ad esempio nello spettacolo La Cerva Fatata tratta da Il Cunto de Li Cunti di Basile) ma si dimentica che sono esistite artiste, scienziate, filosofe, scrittrici, che nel giro di poche generazioni sono state cancellate o sminuite. Questa dimenticanza di sistema è intollerabile, e diventa particolarmente importante garantire alle bambine e alle ragazze modelli a cui ispirarsi, specialmente nell’ambito creativo. In questo senso Sonia è un modello potente. Un’artista a tutto tondo, che ha saputo unire la più spericolata ricerca e sperimentazione artistica, con la capacità molto concreta, ad esempio, di creare costumi e vestiti d’alta moda.
Ricordata oggi, dai più, solo perché moglie di Robert Delaunay, in realtà la sua identità artistica è ben delineata, significativa, e ritengo inaccettabile si confondano le opere dei due a discapito della parte femminile della coppia. Il fatto, inoltre, che lei abbia integrato anche l’esperienza di madre, all’interno della sua ricerca artistica, è particolarmente interessante, e ci ricorda che le maternità si esprimono sempre in modo sfaccettato, e sono esperienze tanto più significative quando una donna decide di viverle in modo davvero coerente con il proprio essere, senza rinunciare, in questo caso, alla sua parte creativa, di artista, valorizzandola. Trovo commovente che Sonia abbia creato da una coperta patchwork per il figlioletto, la prima base di griglia di assemblaggi di forme e colori, su cui poi ha lavorato per tutta la vita. Per noi la fase creativa è inscindibile dall’incontro con l’infanzia, anche solo con quella che custodiamo dentro di noi.
I “Libri neri” di Sonia Terk, importantissimi per ricostruire il percorso di ricerca compiuto dall’artista sui colori, i loro accostamenti e i loro effetti percettivi, diventano per LaSinfonia dei giocattoli un riadattabile modello compositivo: le storie vengono montate e smontate in scena. Che influenza hanno avuto I “Libri neri” sulla composizione drammaturgica e sull’impianto visivo?
Da sempre disegno i miei storyboard su taccuini di cartoncino nero, trovare i Libri Neri di Sonia è stato come incontrare una vecchia amica. Ma come sai, da sempre ci ispiriamo agli artisti delle avanguardie, dal Bauhaus al Futurismo. L’analisi sulle progressioni percettive del colore, sui pattern visivi legati alla forma, le lunghe elucubrazioni sul timbro e la vibrazione del colore, sono per noi concetti di fondamentale importanza. Lavoro costruendo e dipingendo gli oggetti dei nostri spettacoli in funzione dell’illuminazione scenica e della chimica del colore. Ragionare soprattutto su questo, ha conferito allo spettacolo una logica drammaturgica assolutamente astratta, che segue solo le dinamiche del gioco, in cui si abdica volutamente ad un arco narrativo lineare, ispirandoci anche a Munari e a Winnicot.
La scena per noi è drammaturgia, e quindi il concetto di giocattolo, di gioco creativo, della manipolazione delle figure, è la base semplice e potente su cui tutto è costruito. Siamo un teatro di figura e immagine contemporanea. Non a caso abbiamo organizzato negli anni mostre della nostra collezione artistica, che è nata ovviamente con le creazioni di mio papà Gabriele Ciaccia. Possiamo dire che il nostro stile è questo, passare in 2 minuti di spettacolo dall’astrazione totale alla costruzione di scene dal carattere prefigurativo, dal pensiero creativo al pensiero logico, dallo skcetch alla scena di atmosfera fatta di luce e colore, dal mimo a vista all’effetto di totale magia, e di sparizione nel nero. I bambini, anche piccolissimi, colgono tutto con estrema facilità e totale comprensione, perché parliamo la loro lingua fantastica. Sarà per questo che anche gli adulti ridono e si commuovono e fanno gridolini…Abbiamo il vizio di far ricordare a tutti quanto è bello giocare.
Dalla musica classica fino a quella elettronica: in questo lavoro la componente musicale ha una grande rilevanza, che ruolo ha avuto nel processo creativo?
Ogni mio spettacolo parte da un suono, da una memoria sonora del corpo. Io stessa sono musicista e compongo la coreografia dei movimenti degli animatori esattamente come una danza. In questo spettacolo la Kindersinfonie è venuta a trovarci, e già una partitura che non si sa bene a chi attribuire ci sta particolarmente simpatica. Da qui sono arrivati brani tutti pieni di campanelli, raganelle, e poi suoni di sintetizzatori modulari, musica 8bit, fino all’elettronica tedesca e francese. Sarà che ho voluto giocare soprattutto con i brani della mia infanzia, e da bambina ascoltavo questo… quando si dice l’importanza dell’ambiente e degli stimoli percettivi.
Lo ammetto, niente mi gasa di più che sentire la gioia dei bambini entusiasti, che ad un certo punto devono assolutamente trasmettere il coinvolgimento anche fisico che questo tipo di spettacoli crea. Il fatto che ci siano poche o zero parole aiuta, tanto le parole che si ascoltano, dopo un po’, sono le loro, e sono sempre quelle giuste. Noi sul praticabile ridiamo come matti nell’ascoltare i loro commenti partecipati e pieni di emozione. Una volta un’amica mi ha detto che creo piccoli rave, aveva ragione, spesso ci sono brani che è normale ascoltare in un festival di musica elettronica, ed è troppo divertente lo stupore dei docenti, e la gioia del pubblico infantile.
In questo spettacolo, oltre ai mimi e manipolatori del cast del Teatro dei Colori, sono coinvolte anche giovani allieve. La vostra compagnia si impegna da sempre nel tramandare la propria arte teatrale alle generazioni più giovani. Che tipo di apporto dà alla creazione la presenza di artiste in formazione?
La scuola del Teatro dei Colori è multifocale, la nostra formazione abbraccia competenze fisiche, vocali e drammaturgiche. Cerchiamo di fornire ai nostri allievi una base molto ampia, che permetta loro di incontrare tante altre tecniche e tradizioni, ma soprattutto chi entra in compagnia sa che non smetterà mai di studiare e di formarsi. Lo chiamiamo il modello dell’Attore, dell’Attrice Culturale. Avere in compagnia per la prima volta una delle bimbe del nostro festival “Fiabe al Parco” – la ricordo con le treccine – è stato emozionante, conservo esattamente il frame del suo viso alla fine di uno spettacolo, quando mi ha detto di voler fare quello che facevo io. Qualche giorno fa mi ha raccontato che una bimba incontrata alla fine di uno spettacolo le ha detto la stessa cosa. Ma la cosa più bella è che dopo essersi diplomata in accademia, lo scorso anno, ha portato con sé un altro paio di matti, e mi ha praticamente obbligata a scritturarli, aveva ragione lei, sono eccezionali.
Avere la certezza che il sapere si tramanda è il sale del lavoro teatrale, che si rinnova nei corpi, nei sogni, nei desideri dei giovani, e mantiene giovani tutti gli altri, compresi gli animatori con più esperienza. L’insegnamento è la prova che si sa padroneggiare davvero qualcosa, ed ascoltare anche altri insegnare, con le mie parole, con le parole che io ho ascoltato da mio padre e dalle altre generazioni della compagnia, è magico, è un incantesimo di lunga vita. E poi, i nostri laboratori fisici sono conosciuti per essere belli tosti! Ma è da questa gioia del lavoro che nascono progetti incredibili, siamo già al lavoro sul prossimo!
LaSinfonia dei giocattoli ha debuttato alla fine del 2023. Qual è stata la risposta del pubblico e quali sono i prossimi appuntamenti?
Lo spettacolo ha avuto un tempo lungo di studio preliminare, e sono felice del fatto che sia davvero adatto a tutte le età e a tutte le sensibilità. Le prime repliche dedicate al nostro pubblico di casa, sono state organizzate mescolando volutamente i cicli scolastici, ma anche il pubblico adulto. La costruzione drammaturgica è pensata per avere vari livelli di lettura e di fruizione, concedendo concetti e significati anche agli adulti, senza creare sottotesti incomprensibili per i bambini. Lo spettacolo è programmato in tutta Italia, in teatri piccoli e grandi. I prossimi appuntamenti dopo l’Abruzzo, la Toscana e il Friuli sono in Campania, Emilia, Veneto, Puglia… la nostra tournée come sempre tocca tutta l’Italia, sui nostri canali ci sono man mano tutte le date aggiornate.
Ci tengo in particolare a ringraziare le Giravolte di Lecce che ci hanno voluti come spettacolo conclusivo per la manifestazione annuale di Unima per la Giornata Mondiale della Marionetta nel mese di marzo. Oltre a La Sinfonia dei Giocattoli ci trovate in giro con i nostri cavalli di battaglia: Storie di Kirikù, Carnàval, La Cerva Fatata e con tante altre novità anche nella prosa e ricerca.
La Sinfonia dei Giocattoli Gioco Simultaneo per Sonia Terk Delaunay
ed ispirato alle opere di Man Ray, Victor Vasarely, Joseph Albers Drammaturgia Visiva, Regia Mimica, Coordinamento Musicale, Drammaturgia scenica e testuale Valentina Ciaccia Una produzione Teatro dei Colori Spazio Scenico Gabriele e Valentina Ciaccia con Valentina Franciosi Produzione Gabriella Montuori Luci e suono Boris Granieri Con gli animatori e mimi Valentina Franciosi Andrea Tufo e le giovani allieve Raffella Alfidi Elsa Gaelle Pochini Da una tecnica del Teatro Nero di Gabriele Ciaccia Sulla partitura La Sinfonia dei Giocattoli di Haydn – Mozart e sulle partiture di Erik Satie e le musiche elettroniche di Brian Eno, Nick Cave e Warren Ellis, Ruby My Dear, Tangerine Dream.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
Il Teatro dei Colori, storica realtà abruzzese, costituita nel territorio di Avezzano, porta avanti dal 1987 una attenta e capillare attività di produzione teatrale dalla spiccata vocazione internazionale, attorno alla quale si radunano artisti provenienti da tutta Italia. Nel territorio della Marsica, all’ombra del Monte Velino, si concentra una ricerca innovativa rivolta alla dimensione percettiva dello sguardo e del suo spettro d’azione. Il prestigio a livello nazionale di Teatro dei Colori, come compagnia di produzione riconosciuta nell’ambito del Teatro di Figura e del Teatro Ragazzi, ne assicura una presenza costante sui palcoscenici italiani, con tournée che toccano – numeri preservati anche in periodo pandemico – mediamente oltre 15 regioni e con la circuitazione simultanea di 5 diverse produzioni, tra debutti e spettacoli di compagnia ormai noti al grande pubblico.
La ricerca di Teatro dei Colori pone l’attenzione e attinge da realtà teatrali complesse e lontane, come quella del teatro su nero, che affonda le sue radici nel teatro cinese antico, per venire poi recuperato dai grandi maestri burattinai giapponesi di inizio novecento. Carnàval, un teatro musicale per mimi e figure, spettacolo di teatro sul nero che da quattro stagioni incanta spettatori di ogni età, il cui focus sono movimenti e fluttuazioni, dando spazio alla dimensione cromatica, veicolo di significazione su cui tornare a riflettere, ha fatto tappa il 26 giugno a Vercelli nell’ambito dell’EUROPUPPET 2022.
La Cerva Fatata, dopo il debutto all’interno della rassegna il Cancello delle fiabe di Formia, sarà nel programma de I Teatri del mondo, fra i festival più attesi del teatro ragazzi che, da quest’anno, torna ad avere una apertura maggiore a realtà internazionali, ma anche ad eccellenze italiane, come la ricerca portata avanti dal Teatro dei Colori di Gabriele e Valentina Ciaccia.
Lo spettacolo, prendendo avvio dal celebre racconto di Basile contenuto nel Cunto de li Cunti, rielabora il linguaggio barocco dell’autore napoletano per adattarlo ad un pubblico di bambini, senza dimenticare tuttavia la musicalità tipica della lingua partenopea, oltre che un’attenzione specifica al tema della metamorfosi, metafora potente per i bambini che tornano di fronte ad un teatro costretto al cambiamento dalla contemporaneità, ma che riesce a rimanere fedele a se stesso. La protagonista della storia, iniziando a raccontare, si trasporta da una piazza fino all’interno del folto del bosco, territorio inesplorato che per la compagnia rappresenta un punto di partenza stimolante, attorno infatti alla suggestiva cornice del Parco della Pace si concentra ilFestival Fiabe al Parco, organizzato da Teatro dei Colori in collaborazione con il comune di Pineto, che giunge quest’anno alla sua 18° edizione.
Il Festival ha preso avvio il 29 giugno e si concluderà il 30 agosto, all’ombra dei pini di una delle riserve più ambite fra le mete estive della costa abruzzese, un angolo nascosto in cui a due passi dal mare i bambini imparano il linguaggio del teatro a contatto con la natura, dando un significato profondo e connotato al concetto di site-specific. L’occasione diventa dunque un appuntamento, atteso da famiglie e bambini, una fidelizzazione al teatro costruita attraverso la collaborazione felice del microcosmo circostante, che permette ai giovani spettatori di comprendere il teatro come esperienza completa.
Dopo il debutto il 29 giugno con Il Soldatino di Stagno, tratto dalla fiaba di Hoffmann, occasione per raccontare le venature delle trasformazioni attraverso il teatro di narrazione, la rassegna prosegue con il Teatro dei Colori che con La cerva fatata il 5 luglio gioca in casa, raccontando le selve di Basile attraverso la tangibilità del luogo.
Non si ferma la già ricchissima proposta culturale di Teatro dei Colori che ad agosto inaugura il progetto Castello in Fiaba al Teatro Piccolomini di Celano, nelle vicinanze del Castello di Celano, bene tutelato dalla Sovrintendenza Nazionale e meta turistica di rilievo. A Pescina invece, borgo storico di importanza nazionale e sede del Centro Studi Internazionale Ignazio Silone, prosegue la sezione “SUMMER” di Itinerari dell’Arcobaleno.
La compagnia torna anche con Storie di Kirikù, il 9 luglio al Festival del Teatro della Sanità a Napoli, il 10 luglio al Teatro dei Piccoli Open Air e poi ancora ad Amalfi e Ravello. Spettacolo di teatro di figura, basato sulla tradizione della grande marionetta africana, giunto ai vent’anni di attività, con un cast e una storia rinnovata che racconta le vicende di un piccolo bambino africano, il cui coraggio e voce superano anche la barriera del ventre materno.
Parma, Benevento e Celano accoglieranno rispettivamente il 14 luglio, il 21 e il 28 agosto, Mu Lan e il Drago, spettacolo con tecnica mista nero ispirato al Teatro opera cinese.
Collegati dal fil rouge di un’esperienza visiva, fortemente identitaria dal punto di vista cromatico e ottico, il Teatro dei Colori continua a riflettere sull’ascendenza dello sguardo dello spettatore, che nell’età infantile trascende esegesi superflue ma si concentra sulla dimensione puramente sensoriale della scena.
La Tournée estiva di Teatro dei Colori:
26 giugno:Carnaval, un teatro musicale per mimi e figure, EUROPUPPET 2022, Palazzo dei Musei Varallo Sesia Vercelli
3 Luglio: La Cerva Fatata in Prima Nazionale, IL CANCELLO DELLE FAVOLE – Formia (Latina)
5 Luglio:La Cerva Fatata, FIABE AL PARCO – Pineto
9 Luglio:Storie Di Kiriku’ – FESTIVAL DEL TEATRO NELLA SANITÀ – Napoli
10 Luglio:Storie Di Kiriku’ – TEATRO DEI PICCOLI OPEN AIR – Napoli
14 luglio: Mu Lan e il Drago – Parma
15 luglio:Il Segreto – PARMA
17 luglio:La Cerva Fatata – FESTIVAL TEATRI DEL MONDO – Porto Sant’Elpidio
4 agosto:Storie Di Kiriku’ – AMALFI PUPPETS
5 agosto: Storie Di Kiriku’ – Ravello
21 agosto:Mu Lan e il Drago – FESTIVAL CASTELLO IN FIABA – Celano
28 agosto: Mu Lan e il Drago– BENEVENTO CITTA’ SPETTACOLO
Nelle programmazioni estive del territorio in concerto con i Comuni di Celano, Pescina Pineto, il Teatro di Colori ospiterà le Compagnie: NATA con IL SOLDATINO DI STAGNO, TIEFFEU con FIABE AL TELEFONINO, LA BOTTEGA TEATRALE con PINOCCHIO, GLI SBUFFI con HANSEL, GRETEL E LA CASA DA MANGIARE, BERTOLT BRECHT con IL MAGO DI OZ, TEATRO INVITO con CENERENTOLA FOLK, TEATRO EIDOS con PULCINELLA E IL MISTERO DEL CASTELLO, TEATRO PAT con FLORINDA E L’ORCO.
Nata a Pescara nel 1995, diplomata al Liceo Classico G.D’Annunzio di Pescara nel 2014, consegue la doppia laurea in Filologia Moderna e Études Italiennes all’interno del progetto di codiploma fra l’Università la Sapienza di Roma e La Sorbonne Université di Parigi con una tesi dal titolo La Nuit des Rois di Thomas Ostermeier alla Comédie-Française: per una definizione di transnazionalità a teatro. , svolgendo inoltre ricerca archivistica presso la biblioteca della Comédie-Française. Scrive per diverse testate online di critica e approfondimento teatrale, occupandosi soprattutto di studiare gli intrecci fra i linguaggi e le estetiche dei vari teatri nazionali europei.
Dal 7 al 10 luglio si terrà la 39esima edizione del festival La Macchina dei Sogni, intitolata “Il paese dei balocchi”, che si articolerà in tre luoghi emblematici della città di Palermo: il Teatro di Via Bara all’Olivella, il Museo Archeologico Regionale Antonio Salinas e il Monte dei Pegni di Santa Rosalia a Palazzo Branciforte. Teatro e Museo interagiscono nel segno della “rappresentazione”, che per entrambi costituisce una funzione primaria.
Il linguaggio poetico e teatrale ha consentito una diversa fruizione degli spazi museali, creando percorsi emotivamente coinvolgenti, restituendo un rapporto vivo e dialogante con le opere d’arte e con la loro storia. Sotto questa luce si può leggere il programma di quest’anno, che ancora una volta parte da Palermo per guardare oltre l’orizzonte cittadino. Al Museo Archeologico Salinas andranno in scena gli spettacoli di teatro di figura delTeatro del Drago di Ravenna, della Compagnia Carlo Colla & figli di Milano, della Nuova Accademia Teatrale di Bibiena di Arezzo, della Compagnia Granteatrino/Casa di Pulcinella di Bari, dell’Associazione Casa delle Guarattelle Bruno Leone di Napoli. Il programma di spettacoli delle compagnie, che con il loro lavoro rappresentano l’Italia e le sue molteplici forme del teatro di figura (marionette, burattini, pupazzi, guarattelle, ombre), si completerà con il progettoPiccoli Dei.
Nel teatrino di via Bara all’Olivella, la compagnia Figli d’Arte Cuticchio presenterà lo spettacolo di pupi Aladino di tutti i coloriespressamente pensato per i bambini ma che, nell’incanto del teatro dei pupi, si nutre dell’appassionata partecipazione del pubblico di ogni età. Mimmo Cuticchio, unendo l’essenzialità espressiva con il massimo delle sollecitazioni fantastiche, piomba sull’attualità recuperando tracce di storie senza tempo, sfruttando appieno la tecnica dell’improvvisazione, una prassi teatrale che utilizza tanto negli spettacoli tradizionali quando in quelli del nuovo repertorio.
A Palazzo Branciforte, dove la storia si coniuga con l’archeologia, noto anche come Monte dei Pegni di Santa Rosalia, in cui hanno trovato collocazione permanente i pupi più antichi della famiglia, Mimmo Cuticchio creerà un percorso teatralizzato, un’azione scenica che coinvolgerà allo stesso tempo narratore, opere e visitatori. I pupi esposti saranno protagonisti e costituiranno il centro e l’alveo dell’azione da cui si dipaneranno i racconti e i ricordi di Cuticchio, che ripercorrerà la storia della sua famiglia di opranti, intrecciata a quella del Teatro dei Pupi dall’Ottocento ai giorni nostri.
Così il Maestro Mimmo Cuticchio, Direttore Artistico del Festival, commenta in una nota la 39esima edizione de La Macchina dei sogni:
«Quando nel 1984, per festeggiare i cinquant’anni di attività artistica di mio padre Giacomo, realizzammo la prima edizione de La Macchina dei Sogni, non potevo immaginare che quell’avventuroso viaggio sarebbe continuato fino a superare i miei cinquant’anni di attività teatrale. Mio figlio Giacomo all’epoca aveva due anni, una foto lo ritrae in braccio a me, accanto a mio padre. Oggi, alla 39esima edizione del festival, in braccio a me c’è nuovamente un bimbo di due anni, mio nipote Mimmo, figlio di Giacomo.
Il primo è cresciuto dentro La Macchina dei Sogni condividendone temi e incanti, il secondo spero assorba, negli anni a venire, tutta la magia e l’entusiasmo che il festival sprigiona, condividendoli con il numeroso pubblico di tutte le età. La Macchina dei Sogni ha sempre privilegiato il teatro di figura – dall’Opera dei pupi alle molteplici forme della narrazione – pensato per un pubblico misto di bambini e di adulti che desiderino ritrovare l’infanzia che è in loro.
Ma l’edizione di quest’anno, intitolata Il paese dei balocchi, è decisamente dedicata ai bambini. In un’epoca così difficile e delicata come quella che stiamo vivendo, con una pandemia non ancora del tutto scomparsa e una guerra alle porte d’Europa, che rischia di degenerare in un conflitto mondiale, si delinea chiaramente un’emergenza infanzia. Sono i bambini, infatti, a pagare il prezzo più alto di questa catastrofe, che condiziona pesantemente la loro crescita, il loro immaginario, pregiudicando il diritto a vivere in un mondo di pace e di benessere. Insicurezza, sfiducia e paura per l’incerto futuro sono sentimenti con i quali ci confrontiamo quotidianamente e ai quali non sfuggono i nostri figli e nipoti. L’impegno rivolto alle nuove generazioni è il presupposto necessario per rifondare una civiltà in declino, la condizione indispensabile per assicurarne lo sviluppo e la sua stessa sopravvivenza. Nel mio piccolo, sento pressante il bisogno di fare la mia parte.
Come si sa, l’Opera dei pupi, per la drammaticità degli argomenti che tratta, è un genere di teatro storicamente rivolto soprattutto a un pubblico adulto; tuttavia, da diversi anni, parallelamente agli spettacoli della Storia dei paladini di Francia, almeno una nostra produzione nell’arco di un triennio è dedicata ai bambini. Da L’infanzia di Orlando alleprime imprese di tutti i paladini, da Aladino di tutti i colori fino all’ultimo nato, Alì Babà e i 40 ladroni, sono tanti gli spettacoli che abbiamo realizzato per i bambini, in una prospettiva “pedagogica”, che tiene in considerazione le differenze sociali e culturali presenti nella nostra società. L’intento di questi spettacoli è quello di far vivere ai più piccoli il teatro come luogo nel quale sia possibile maturare una coscienza civile, per imparare a rispettare le differenze, a convivere con tutti e a risolvere i conflitti attraverso il confronto, l’accoglienza e la valorizzazione delle diversità, che diventano ricchezza per tutti.
Il paese dei balocchi ci rimanda al Pinocchio di Collodi, all’episodio in cui i bambini si imbarcano sulle carovane per raggiungere il luogo fantastico in cui è possibile giocare ed essere felici ad ogni ora del giorno. Ma un paese del genere è un luogo utopico, che non può esistere in un mondo in cui è giusto rispettare delle regole e accettare l’alternanza del gioco con l’impegno comune volto a far crescere la società. Questo ci insegna lo straordinario racconto di Collodi. E allora, con la nostra “Macchina dei Sogni” vogliamo interrogarci insieme a voi e insieme a quanti più bambini possibili, su cosa sia oggi “il paese dei balocchi” e cosa possiamo fare, anche noi teatranti, per far si che un’utopia, pur restando tale, possa servire a migliorare il mondo che consegneremo agli adulti di domani».
Per approfondire ulteriormente il lavoro di ideazione e organizzazione della 39esima edizione de La Macchina dei sogni e la proposta artistica in programma abbiamo intervistato Elisa Puleo, anima storica della compagnia Figli d’Arte Cuticchio.
La 39esima edizione della Macchina dei sogni è intitolata il “Paese dei Balocchi” ed è dedicata ai bambini come simbolo di ripartenza. Perché avete scelto questo tema?
Il tema riprende il concetto del Paese dei Balocchi di Collodi senza però la simbologia negativa entro cui l’autore ascrive porzioni di senso. Per noi rappresenta la spensieratezza, un posto in cui con animo da fanciullo si può accogliere tutto quello che viene proposto con leggerezza, spettacoli e momenti belli. Il nostro Paese dei Balocchi è il Teatrino dei Pupi, dove si continuano a fare spettacoli da oltre cinquant’anni ma anche il Museo Archeologico che è, invece, un luogo di cultura, perché custodisce la storia della Sicilia. E poi Palazzo Branciforte, che per noi è un pezzo di cuore, uno spazio stupefacente che non ha età, capace di scaraventarti nella Palermo d’altri tempi, quando la gente si recava a Santa Rosalia per impegnare dolorosamente i propri oggetti personali. L’asse che collega questi tre punti focali della cultura palermitana è, per noi, l’emblema del Paese dei Balocchi nella sua accezione positiva.
Per la programmazione di La Macchina dei Sogni avete scelto di far interagire il Teatro e Museo, due luoghi attraverso i quali la società puo’ conoscersi e riconoscersi nella dialettica tra passato e presente.
E.C: In effetti sia nel teatro che nei musei si rappresenta qualcosa: nel teatro si rappresenta lo spettacolo dal vivo, al museo si rappresenta la storia. Questi due luoghi hanno in comune la parola “rappresentazione”. L’idea che si ha oggi del museo, non è di un luogo ammuffito, statico ma di un luogo vivo in cui poter interagire direttamente con la storia per mezzo degli oggetti. Ecco perché è già il terzo anno che facciamo questa operazione.
Al Monte dei pegni di Santa Rosalia, infatti, luogo che custodisce i vostri pupi, Mimmo Cuticchio proporrà un percorso teatralizzato rievocando la vostra storia e creando nuovi punti di contatto con l’Opera dei Pupi. Come si articolerà questo percorso?
Si tratta di una sorta di fil rouge: anche a Palazzo Branciforte c’è un progetto di conoscenza che si articola in nuovi punti di osservazione con cui guardare gli oggetti esposti, i pupi, che attraversa il periodo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, viaggiando nei ricordi che Mimmo Cuticchio ha trasposto in forma drammaturgica. Si farà la storia del Teatro dei Pupi. Una tradizione che, purtroppo, negli ultimi 50 anni, è stata sottovalutata, considerata spettacolo per bambini, fatto folcloristico, non forma teatrale dall’elevato spessore culturale. Noi abbiamo il diritto e il dovere di dire che per noi il Teatro dei Pupi è il grande teatro dei siciliani, il primo teatro che i siciliani hanno conosciuto e che fino agli anni Cinquanta ha rappresentato per adulti e bambini l’unica modalità di acculturazione.
Il percorso che proponiamo a Palazzo Branciforte è un modo per fare conoscere questo luogo meraviglioso, restaurato in maniera conservativa dal grande architetto Gae Aulenti. Mentre installavamo la nostra mostra ci sembrava che il Monte dei Templi, dove sorgeva il Monte dei Pegni, fosse ancora popolato da quell’energia, dalle anime inquiete e sofferenti che lo hanno attraversato. Negli stessi giorni in cui si tiene La Macchina dei Sogni, a Palermo viene organizzato il Festival di cinema e cortometraggi Sole Luna. Abbiamo stipulato con l’organizzazione una collaborazione per cui il festival ospiterà sei corti dedicati al Teatro di Figura. Stringere relazioni per noi è importante per innescare processi virtuosi sul territorio: abbiamo stretto una collaborazione anche con il Teatro degli Spiriti e il Teatro Atlante di Palermo.
La longevità de La Macchina dei Sogni, giunto alla 39° edizione, suscitando ancora un importante successo di pubblico è un traguardo per voi e per l’intero settore…
Inizialmente nessuno di noi, e neanche Mimmo Cuticchio che è stato l’ideatore di questo festival, pensava che La Macchina dei Sogni potesse avere vita così lunga. Prima che il festival nascesse come evento che si rinnova di anno in anno, Mimmo era solito organizzare delle rassegne che però non avevano la grande continuità che La Macchina dei Sogni è riuscita a garantire. Il festival è partito da un’idea di Mimmo per omaggiare i 50 anni di attività di suo padre, Giacomo Cuticchio, che per lui rappresentava la vera macchina dei sogni. Oggi siamo arrivati alla 39° edizione e abbiamo già festeggiato i 50 anni di attività di Mimmo. A pensarci mi commuovo, mi rendo conto di quanta acqua sia passata sotto i ponti.
Abbiamo lavorato a lungo nella precarietà, facendo un grande investimento perché eravamo convinti che la città, e con essa il quartiere L’Olivella, meritasse di essere conosciuta e di essere apprezzata anche dagli stessi palermitani. Quando Mimmo comprò il teatrino, questa zona doveva essere completamente smantellata secondo il piano regolatore del periodo. Mimmo è stato veramente lungimirante, ha capito che le cose potevano cambiare e il tempo gli ha dato ragione, perché adesso è un polo culturale importante.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
All’interno del Festival La Macchina dei sognidi Palermo, venerdì 8 luglio andrà in scena lo spettacoloSe Pinocchio fosse Cappuccetto Rosso, ideato e prodotto dalla compagnia NATA, Nuova Accademia del Teatro d’Arte, che dal 1988, anno della sua fondazione, ha sviluppato un lavoro di ricerca sul teatro di figura e in generale su tutte le forme di contaminazione teatrale. Gli spettacoli prodotti e distribuiti dalla compagnia, si caratterizzano per il loro collocarsi nel solco della tradizione con lo sguardo sempre rivolto al futuro, gettando un ponte tra teatro d’attore e teatro di burattini, tra atmosfere da favola e realtà storica. Lorenzo Bianchini ci introdurrà in questo mondo di sogni e speranze raccontandoci di due tra i più amati personaggi della narrativa per l’infanzia.
Se Pinocchio fosse Cappuccetto Rosso è uno spettacolo che unisce due classici della narrativa in un gioco di rispecchiamenti e combinazioni di parti e di ruoli. Come nasce l’idea di creare una miscela di storie e personaggi?
Lo spettacolo Se Pinocchio fosse Cappuccetto Rosso è un valido esempio della principale caratteristica della compagnia Nata: la fusione di vari linguaggi. La composizione stessa della compagnia si avvale di artisti di diversa formazione, musicisti, attori e burattinai, che lavorano insieme costruendo burattini, creando narrazioni e componendo musiche. Tutto questo rifluisce nel linguaggio composito dello spettacolo, nel mescolare fiabe e personaggi nella prospettiva del gioco e del lavoro pedagogico con i bambini. L’idea di base dello spettacolo nasce a partire dal concetto di “insalata di favole” introdotto da Gianni Rodari nel suo libro Grammatica della fantasia che permette di fondere storie diverse. Nel gioco di due personaggi che decidono di scambiarsi i ruoli, Cappuccetto Rosso e Pinocchio possono incontrarsi e vivere un’avventura che accomuna entrambi. Ci siamo chiesti: cosa succederebbe se Pinocchio entrasse dentro la storia di Cappuccetto Rosso? Ne viene fuori uno spettacolo leggero, comico, dedicato al pubblico di tutte le età, con dei momenti tipici delle trovate e dei lazzi del teatro di burattini e dei momenti più sognanti e poetici, vicini alla nostra tradizione e alla nostra poetica.
La vostra è una poetica dell’incontro, di tradizioni e sperimentazioni teatrali, in cui il repertorio classico di narrazione è animato da moderne tecniche di rappresentazione che coinvolgono il lavoro del burattinaio con il burattino e dell’attore con il personaggio.
Uno dei fondatori della compagnia era un burattinaio, l’altro attore e regista. Ci portiamo dietro la tradizione del teatro di burattini e del teatro d’attore. Storicamente la compagnia NATA, fin dalla sua fondazione nel 1988, ha creato spettacoli in cui i burattini di legno interagivano con esseri umani in carne ed ossa. Ad oggi i nostri spettacoli si caratterizzano per questo rapporto un po’ magico tra pupazzi e umani, come se davvero gli oggetti potessero muoversi e parlare, prendere vita in una dimensione di sospensione della realtà. Nel nostro percorso artistico abbiamo prodotto spettacoli di narrazione, teatro danza, teatro di figura. Nel caso di Se Pinocchio fosse Cappuccetto Rosso è palese a più livelli il confronto/scontro tra due diverse storie, due immaginari. Pinocchio come burattino è una testa di legno classica, il resto dei personaggi è formato da pupazzi in gommapiuma che prevedono un’altra tecnica di costruzione e di animazione.
Un’altra originale caratteristica dello spettacolo è l’esecuzione di musica dal vivo, con la colonna sonora in presa diretta e le canzoni ideate come parti integranti della drammaturgia. Io sono un musicista ed ho nello spettacolo parti inerenti al mio ruolo, eppure ho imparato nel tempo a manovrare pupazzi e burattini perché è nel lavoro di bottega che avviene il passaggio, la trasmissione di saperi e di tradizioni. La consapevolezza del lavoro degli altri rende tutto più naturale.
I vari elementi dello spettacolo interagiscono per dar vita a un’opera composita e gioiosa. L’interesse del pubblico è sempre riattivato dal susseguirsi di gag dei personaggi che agiscono in uno spazio a loro non convenzionale: quello del Museo Archeologico di Palermo…
Per tradizione gli spettacoli di burattini non sono pensati per essere messi in scena all’interno dei teatri: nascono per le strade e per le piazze. Questo spettacolo è andato in scena nei teatri, nelle scuole, in spazi non convenzionali. Ѐ sempre una bella sfida potersi adattare alle situazioni che di volta in volta si presentano. Gli elementi della scenografia sono essenziali: una porta, una finestra, un baule. Siamo partiti dall’immagine di una soffitta, in cui un grande telo nasconde degli oggetti riposti, svelati parallelamente al procedere della storia e alla fine viene rivelato tutto il gioco. Tolto il telo rimane una scena nuda perché ci interessa far vedere cosa c’è dietro la macchina scenica. I pupazzi appaiono in mano agli animatori nell’atto di mostrarsi al pubblico. Lo spettacolo è finito ma continua nell’incontro con il pubblico. Ai bambini spieghiamo come utilizzare i pupazzi perché è importante che avvenga questo contatto diretto con la materia dell’arte.
Noi lavoriamo tantissimo con le scuole per far incontrare ai bambini i pupazzi del teatro, farli innamorare del teatro. Creare spazi di libertà e di ascolto fa parte del nostro lavoro, portare nelle loro vite qualcosa che appartiene a una condizione artigianale e che viene da secoli di lavoro è, in questo periodo storico, da noi sentita come una grande responsabilità.
Si delinea così un profilo dichiaratamente pedagogico, attento e responsabile, in cui l’arte riveste un ruolo essenziale. Uno sguardo in linea con la poetica del Festival La Macchina dei sogni: creare nuovi mondi immaginari, vissuti dai più piccoli come reali e possibili.
Ti racconto un’esperienza che ci ha segnato particolarmente negli ultimi due anni. Come tutte le compagnie teatrali italiane ci siamo ritrovati ad interrompere la nostra attività in seguito alla chiusura dei teatri e ci siamo posti delle domande, su come avremmo fatto a ricostruire un rapporto con il territorio e con il pubblico. Ѐ nato così il progetto Teatro alla finestra. Abbiamo realizzato delle produzioni di spettacoli per i bambini nelle scuole, utilizzando la finestra come cornice della scena teatrale. La finestra diventa il centro della baracca del teatrino dove appaiono i personaggi, e diventa con un lavoro basato sull’immagine e sul movimento. Dovendo fare i conti con un vetro divisorio, abbiamo lavorato sul mimo, sul teatro di figura e sulla danza. In simultanea allo svolgersi dell’azione e della storia, è stato previsto che le insegnanti facessero ascoltare agli alunni un cd con le musiche dello spettacolo, e successivamente che chiedessero ai bambini di produrre degli elaborati grafici di ciò che avevano appena visto. Ѐ stato l’inizio di un dialogo, una commovente ventata di allegria in un momento in cui le relazioni erano ridotte all’osso. Ti racconto questo perché è nella difficoltà che si è affermata l’esigenza di tenere vivo l’interesse della comunità sul nostro lavoro, sul teatro, che può restituire un tipo di esperienza diretta con la realtà. Una realtà mediata, immaginaria, finta ma pur sempre vera.
Nata a Campobasso il 03/03/1994. Diplomata presso il Liceo Classico M. Pagano di Campobasso nel 2013. Si forma come danzatrice presso l’Accademia Arte Balletto e IALS (istituto addestramento lavoratori dello spettacolo). Dal 2018 segue le attività seminariali di A.E.P.C.I.S (Ass. Europ. Psicofisiologi Clinici per l’Integrazione Sociale ), dedicate all’arte dell’attore e del danzatore, a cura di Vezio Ruggieri. Laureata in Fondamenti di psicologia per l’arte, del corso di laurea in Arti e scienze dello spettacolo, della facoltà di Lettere e Filosofia, presso l’Università di Roma Sapienza nel 2020. Frequenta attualmente il corso di Laurea Magistrale in Scritture e produzioni dello spettacolo e dei media, della facoltà di Lettere e Filosofia, presso l’ Università di Roma Sapienza.
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