Sulla rappresentazione della violenza al Teatro Greco di Siracusa

Sulla rappresentazione della violenza al Teatro Greco di Siracusa

Di Lorenzo De Benedictis
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.

Dagli orrori della guerra ai delitti di sangue tra familiari, passando per i crimini degli dèi e per le mani del fato, la tragedia greca ha esplorato i confini della violenza e della sua immagine in lungo e in largo, cercando di rintracciarne un senso o quantomeno dei modi per arginarla. Quali sono le sfide della rappresentazione della violenza e della sua ricezione nella cornice del Teatro Greco di Siracusa?
Ne parliamo con il regista, attore e direttore artistico della Fondazione TRG – Teatro Ragazzi e Giovani, Emiliano Bronzino.

Per parlare di rappresentazione della violenza nell’ambito della tragedia attica occorre partire da una considerazione ovvia ma centrale, cioè il fatto che nel teatro greco la violenza in termini di atto fisico violento non è mai messa in scena ma sempre raccontata, spesso tramite la figura del messaggero. Oltre che per ragioni di facilità di messa in scena, perché i poeti tragici hanno scelto sempre di raccontare la violenza per bocca di qualcuno e mai di mostrarla?  

Entriamo da subito in uno degli aspetti per cui ancora ci affascina la tragedia greca. Da una parte analizzando le tragedie che ci sono arrivate – che poi ovviamente non sono l’opera omnia perché moltissime sono andate a perse, anche se di molte altre sappiamo la trama – la violenza è spesso l’oggetto del racconto, che sia violenza divina, che sia violenza umana, che sia violenza tra umani, che sia la guerra: spesso è il centro del racconto dei poeti tragici. Dall’altra parte la ragione per cui la violenza non è messa in scena insiste su due aspetti: il primo aspetto è collegato alla sacralità della rappresentazione tragica e quindi in quanto tale ha dei limiti dettati proprio dal fatto che il sacrificio violento era un atto sacro e quindi il confine tra ciò che era vero e ciò che non lo era nella messa in scena tragica è abbastanza labile. C’erano quindi delle cose irrappresentabili, tra cui la violenza, proprio perché non è chiaro quale sarebbe potuto essere il confine nella percezione di quelli che erano presenti tra violenza vera e propria durante il rito e rappresentazione della stessa a teatro.

Questo strano rapporto tra essere l’oggetto centrale di molte delle narrazioni e dall’altra parte essere irrappresentabile sulla scena può essere così spiegato. Facendo un parallelismo con la nostra contemporaneità pensiamo al flusso di informazioni quotidiane, al bombardamento di contenuti e di come finiamo per percepire quelle immagini in modo banale. Pensiamo alle immagini che ci arrivano dalle zone di guerra, ad esempio, che è uno degli oggetti spesso raccontati all’interno della produzione tragica, e all’assuefazione che quel tipo di bombardamento mediatico produce. Quelle immagini che raccontano tragedie incomprensibili, immense, sembrano perdere statuto di realtà nella nostra percezione, cioè non ci suscitano più empatia diretta. I teatri di guerra che in questo momento vengono mostrati diventano quasi come una cosa oggettiva che dopo un po’ non suscita nessun tipo di emozione a livello soggettivo. 

Tenendo anche a mente che la società greca, che ha prodotto la tragedia classica, è una società profondamente violenta nelle sue manifestazioni e viveva uno stato di guerra praticamente continuo, fa però la scelta di raccontare quell’aspetto dell’esistenza senza mostrarlo perché probabilmente suscita maggiore impatto empatico da parte dello spettatore, proprio per quel meccanismo per cui irrompe un senso di irrealtà. Ad esempio, mostrare Penteo che viene dilaniato e ucciso dalla madre e dalle zie significherebbe farlo vedere con quel fondo di finzione inevitabile, perché noi sappiamo che l’attore in quel momento non è dilaniato e ucciso, e ciò probabilmente ci avrebbe allontanato empaticamente. Raccontarlo, invece, può suscitare maggiormente una nostra risposta emotiva.

A questo proposito dal punto di vista di un regista, che tipo di sfida rappresenta la distanza che c’è tra racconto della violenza ed esibizione della stessa in una società come la nostra che, oggi più che mai, è abituata ad un certo livello di assuefazione e spettacolarizzazione dell’immagine violenta?

Il vantaggio che abbiamo e che difenderei sempre è il fatto che in questo caso, come artisti, si possa evitare il giudizio rispetto a ciò che stiamo rappresentando, e in ciò è contenuta la possibilità di capire le ragioni di tutti i soggetti che mettiamo in scena. Nella vita tendenzialmente, e giustamente, ci schieriamo sempre di più in questi ultimi anni da una parte o dall’altra perché nel momento in cui siamo calati nella storia non possiamo evitare di prendere posizione. Da un punto di vista artistico invece possiamo permetterci la possibilità di fare un passo di lato e analizzare maggiormente quelle che sono le dinamiche simboliche sotterranee presenti negli avvenimenti, proprio perché i cicli continui della storia ci ripresentano continuamente situazioni non uguali ma simili.

Questa possibilità di distanza, che non è quella di colui che subisce la violenza e che quindi in qualche maniera deve reagire immediatamente, ci offre l’opportunità di intuire delle leggi sotterranee, più profonde. Credo che quello sia il grosso insegnamento della mitologia greca e della tragedia greca, che sospende il giudizio e mostra spesso e volentieri una strana doppia faccia. Pensiamo a un’altra grande saga, quella di Edipo, dei figli di Edipo, ai Sette contro Tebe e al tema dell’uccisione tra fratelli – che è in qualche maniera, per assurdo, molto vicino a quello che si sta vivendo adesso tra Palestina e Israele.

Nel caso di Eteocle e Polinice ci si chiede chi dei due fratelli abbia ragione, dove stia la ragione. Sicuramente ci sono dei torti e delle ragioni che vengono mischiate: chi è dei due il portatore della violenza? È evidente che la violenza viene portata da tutte e due le parti e nel mettere in scena storie che hanno 2500 anni sospendendo il giudizio su chi ha ragione, possiamo anche comprendere pezzi della nostra contemporaneità.  Anche nel caso delle Baccanti, la madre di Penteo è colpevole, sbrana il figlio, Penteo stesso è apparentemente colpevole essendo colui che denigra Dioniso; però Dioniso quando decide di far andare fuori di testa Penteo e di portarlo sul Citerone, in realtà lo sta sacrificando facendogli quasi un dono immenso secondo quell’universo di significati. Tutte queste doppie facce ci aiutano a capire che prendere una posizione senza mettere in discussione nessuno dei propri pensieri non è l’atteggiamento migliore. 

Naturalmente la nostra vita incontra inevitabilmente la violenza su diversi livelli. Credo che gli ultimi anni ci stiano facendo capire che ciò che abbiamo pensato vero, cioè di essere sostanzialmente una società fuori dal percorso della storia, e quindi di aver raggiunto un momento in cui la storia e di conseguenza i conflitti non facevano più parte della nostra contemporaneità, credo che questa illusione meravigliosa che abbiamo vissuto non sia più sostenibile. Abbiamo due guerre ai confini dell’Europa e quindi riflettere sul nostro essere dentro la storia è importante: significa, da cittadini, decidere da che parte della storia stare e da un punto di vista intellettuale-artistico invece cercare di afferrare le ragioni profonde alla base di un conflitto.

Nei Sette contro Tebe c’è un parallelismo, non diretto, ma comunque forte con la situazione che adesso si sta vivendo in Palestina e in Israele, nel senso che non si tratta di due storie completamente inavvicinabili dato che, anche se lo dimentichiamo spesso e volentieri, le tribù di Israele e i progenitori dei palestinesi a livello ancestrale sono in realtà fratelli, vivevano nella stessa terra. Nessuno giustamente fa valere queste ragioni perché sono passati quattromila anni però siamo ancora lì nello stesso conflitto di quattromila anni fa.

A proposito del prendere posizione davanti alla violenza, spostiamo il focus sulla ricezione a teatro della stessa. Quali difficoltà si incontrano, dal punto di vista del pubblico, in termini di comprensione del tipo di violenza portata in scena nella tragedia? Lo strumento del racconto, della costruzione di un immaginario riesce ad avere presa anche su un pubblico abituato a fruire il tema della violenza in tutt’altro modo? 

Per quella che è stata la mia esperienza, tra regia e assistenze, credo proprio di si, per tre ordini di ragioni. Il primo è che non si deve togliere valore alla chiave del racconto, cioè alla forza del racconto. Raccontare un atto a volte è più evocativo e coinvolge maggiormente lo spettatore che semplicemente presentarlo. La figura del messaggero ad esempio, ricorrente nella tragedia, è un ruolo che ha sempre un discreto successo nei cicli di rappresentazione perché quel monologo è un momento culminante a livello narrativo ed è coinvolgente, per cui nella nostra sensibilità la mediazione della parola ha ancora un ruolo cruciale. La seconda ragione è che determinate storie fanno parte della nostra cultura: citavo Antigone, anche solo il pronunciarne il nome richiama sempre qualcosa nell’orecchio anche dello spettatore più disattento, perché stiamo parlando di informazioni comuni della nostra società.

Naturalmente il livello di conoscenza è molto eterogeneo, ma anche se non si conoscono nel dettaglio le storie, questi nomi risuonano. Terza cosa, c’è comunque una spettacolarità implicita nell’essere in teatro greco che è al di là di qualsiasi cosa tu faccia in quel luogo. Quel luogo è di per sé un luogo di spettacolo. Succede sempre qualcosa: c’è il sole che tramonta, si percepisce la città lontana, va via il rumore della città, e lì qualcosa di teatrale avviene, a prescindere da quello che viene messo in scena. 

C’è dall’altra parte il fatto che in questi venti anni, ma anche da prima, c’è un continuo ammodernamento, un continuo mettersi in gioco rispetto a quelle che sono le tecniche di messa in scena all’interno del teatro greco di Siracusa, rimettere in gioco la sensibilità degli spettatori. Non è un luogo fermo nella sua modalità di messa in scena, è un luogo che evolve, ci sono artisti differenti che vengono, portano sensibilità differenti, tecniche, tecnologie differenti. 

Prima era stato sollevato il tema del sacrificio, argomento su cui una lunga tradizione di studiosi, da Walter Burkert a René Girard, si è confrontata. La violenza messa in scena nella tragedia è spesso descritta come sublimazione della violenza del rito sacrificale o dell’aggressività presente in qualunque gruppo associato umano, che nasconde un elemento di violenza latente che poi in qualche modo deve trovare un’espressione. Questo tipo di concezione dell’atto violento, dell’episodio violento come sublimazione di un percorso sociale quasi necessario, è un argomento che condiziona l’ideazione registica di uno spettacolo al teatro greco? 

Per essere più chiaro rispetto al discorso precedente, un motivo per cui originariamente gli atti violenti e i sacrifici non erano rappresentati è per il semplice fatto che episodi del genere erano ancora all’ordine del giorno. Ciò detto, sicuramente il capro è un qualche cosa che pervade ancora la nostra cultura pur essendo di difficile lettura da parte del pubblico: ne è un esempio quello che dicevo prima, cioè che a Penteo viene fatto un dono attraverso il sacrificio, viene cioè elevato dalla tragedia che vive, e ciò risulta di difficile comprensione perché sono diverse la nostra concezione dell’essere umano e la nostra idea di salvezza. Nella nostra cultura cristiana cattolica il sacrificio è quello di Gesù per salvare tutti e al tempo stesso porre fine alla necessità del sacrificio; quindi, anche in questo la cultura cristiana è molto distante da quella greca. Credo che quello che possa essere comprensibile dal pubblico è l’idea dell’incomprensibilità del destino, cioè che le vie della giustizia superiore sono troppe complesse per essere capite appieno da noi, e che sia quasi sempre difficile riuscire a cogliere i nessi tra punizione divina e merito. Questa percezione è ancora presente nel sentire comune e quindi pur essendo una semplificazione può essere una via utile da percorrere.

L’altro aspetto che ci manca è che il destino avverso si manifesti con atti violenti e che quell’atto violento ha in sé degli aspetti sacrali legati al sacrificio. Perché noi non colleghiamo più sacro, sacrificio e violenza e, benché nella cultura cristiana l’atto fondante sia un sacrificio violento, cioè l’uccisione attraverso una tortura di un uomo che allo stesso tempo è Dio, è come se l’avessimo un po’ allontanato da noi. Comprendiamo invece ancora molto bene le dinamiche familiari o tra donne e uomini, più affini a noi. Citavo Antigone, il sacrificio di Antigone è molto sentito, perché c’è un senso di giustizia superiore rispetto a un altro tipo di giustizia, che è qualcosa che noi ancora sentiamo in maniera molto forte.

C’è una curiosità morbosa dietro la scoperta di Edipo e della sua colpa. Benché Baccanti invece sia un testo immenso che suscita grandissima curiosità, ci è più complesso riuscire a capire le dinamiche della violenza e della sacralità. Medea, per assurdo, la sentiamo molto vicina, però stiamo parlando di una madre che ammazza i figli.  L’infanticidio è chiaro che non sia l’argomento di Medea. Sta sacrificando i suoi figli per toglierli alla violenza del padre nei suoi confronti e nei confronti dei figli, sono livelli molto più complessi. 

In questo senso diventa anche una sfida capire qual è il panorama culturale del pubblico in termini di possibilità di ricezione, perché ci sono degli argomenti che ancora sentiamo e facciamo meno fatica a vivere, a comprendere rispetto ad altri. È necessario sempre costruire gli spettacoli con più livelli di comprensione. È chiaro che ci sono dei livelli più complessi che richiedono conoscenze maggiori per essere capiti appieno.

Esistono anche dei livelli che sono incomprensibili anche a chi li mette in scena. Sono oltre le cose che entrano nella zona dell’incomprensibile. Però costruire su più livelli e quindi poter dare più linee di interpretazione contemporaneamente al pubblico ti permette di arrivare a un maggior pubblico. È chiaro che uno studioso della tragedia greca ha degli strumenti di comprensione diversi rispetto alla persona che per la prima volta va a teatro. Ma la forza di quel luogo e di quelle parole è anche questa, riuscire ad arrivare su più livelli.

La ferocia in scena: tre istantanee

La ferocia in scena: tre istantanee

Di Michele Altamura
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.

“Nonostante le brutte esperienze, la parte più profonda degli esseri umani si aspetta sempre che le venga fatta del bene e non del male.”
Nicola Lagioia, La Ferocia  

Istantanea 1. Il divano

Di quanto la violenza sia un’efficace chiave di lettura della società di oggi se n’è accorto anche il mercato. Basta guardare le top ten delle serie più viste su Netflix o dei podcast più ascoltati su Spotify per rendersene conto. Nel momento in cui scrivo in cima alle classifiche c’è la serie tv Monsters, dedicata alla vicenda dei fratelli Erik e Lyle Menendez che nel 1989 ammazzarono a colpi di fucile i propri genitori. Il podcast oggi più ascoltato è invece E poi il silenzio – il disastro di Rigopiano di Pablo Trincia che ripercorre quanto accadde il 18 dicembre 2017 in Abruzzo, quando una valanga travolse e distrusse l’Hotel Rigopiano provocando 29 morti.
Al secondo posto è stabile ormai da mesi Elisa true crime che racconta storie di crimini efferati, enigmi irrisolti e misteriose sparizioni per la gioia dei suoi followers (oltre un milione). Tutto è cominciato con il plastico della villa di Cogne esibito in tv da Bruno Vespa: all’epoca l’ossessione per la cronaca nera veniva definita morbosa, oggi la chiamiamo true crime ed è uno dei nostri passatempi preferiti. 
Mi sembra evidente che ci sia un mondo che – comodamente sdraiato sul divano – si nutre della stessa violenza che ogni giorno perpetra, sempre pronto a dividere i buoni dai cattivi, le vittime dai carnefici, gli innocenti dai criminali.

Tra gli amanti di alcuni podcast dedicati ai casi italiani più celebri di cronaca nera ci sono anch’io, lo ammetto. Li ascolto durante i viaggi, mi abbandono ai racconti dettagliati dei crimini e delle loro radici sociologiche, a volte ne canticchio anche le sigle e al termine dell’ascolto partecipo ad accesi dibattiti nelle chat tra amici. Aspetto il primo giorno del mese per ascoltare il nuovo episodio di Indagini di Stefano Nazzi e, pur riconoscendo un lavoro di scrittura e di giornalismo rigoroso e attento, a distanza di qualche ora sento sempre una specie di senso di colpa, come se avessi bevuto il sangue delle disgrazie altrui e immediatamente dopo ne provassi rimorso.
Mi sono spesso chiesto in che modo il teatro possa innescare un meccanismo diverso rispetto agli altri mezzi di comunicazione di fronte alla violenza. È possibile “reggere lo specchio” a una natura geneticamente violenta senza correre il rischio di cadere nel voyeurismo, o al contrario, nella retorica o nei moralismi?

Quando abbiamo cominciato a lavorare su La Ferocia ci siamo spesso interrogati su come mettere in scena tutta la violenza presente nel romanzo di Nicola Lagioia. 
Abbiamo da subito deciso di nascondere agli occhi degli spettatori il corpo di Clara Salvemini, vittima di un atroce delitto e protagonista del romanzo; questa scelta (forse azzardata nelle premesse) ci ha permesso di amplificare la dimensione tragica dell’opera concentrandoci sulle parole dei personaggi intorno a lei, sul loro sistema di relazioni fondato sul sopruso e sulla prevaricazione. 
Non si può raccontare la violenza senza assumersi la responsabilità di esplorare i meccanismi su cui essa si fonda. Non parlo di un atteggiamento necessariamente militante, ma di una necessaria ricerca di complessità che permetta di evitare auto-assoluzioni o enfatiche stigmatizzazioni. 

Gli attori e le attrici sanno bene che dovranno difendere il proprio personaggio fino all’ultimo, che giudicarlo buono o cattivo non li porterà lontano e che, se dovranno interpretare anche il più abietto degli esseri umani, dovranno cercare le ragioni profonde che lo spingono ad agire.
I drammaturghi migliori costruiscono personaggi che permettono questa vertiginosa immersione nelle radici del male: Riccardo III non è soltanto un carnefice, Amleto non è solo la vittima di tutte le ingiustizie di un mondo fuor di squadra
Scardinare il meccanismo dicotomico buoni/cattivi può permettere allo spettatore di vivere un’esperienza tridimensionale che tenga conto di tutte le contraddizioni dell’essere umano in modo da comprenderlo e comprendersi più a fondo. Inoltre – e questo lo sapevano già i tragediografi greci – il teatro dà la possibilità di approfondire queste riflessioni in una dimensione collettiva. Esattamente l’esperienza contraria rispetto a quella che possono offrire delle cuffie noise cancelling da 299 euro per ascoltare in perfetto isolamento la propria serie true crime preferita.

Forse anche Danilo Sangirardi – il giornalista che nella nostra Ferocia viene interpretato da Gaetano Colella – è un vorace ascoltatore di prodotti seriali dedicati alle inchieste di cronaca nera. Dopo essere stato cacciato da tutte le testate giornalistiche locali per mano dei Salvemini, ha scelto indossare i panni del podcaster (di provincia) e mettersi al lavoro nel suo studiolo di registrazione. La linea drammaturgica che questo personaggio sviluppa lo trasforma in un narratore onnisciente, un messaggero tragico che durante lo svolgersi dello spettacolo accompagna gli spettatori nelle acque melmose in cui si muove la famiglia Salvemini. È sua l’ultima battuta prima del buio finale: «Secondo alcuni la disciplina che meglio spiega il nuovo secolo è l’etologia. Metti una volpe affamata davanti a un branco di conigli e li vedrai correre. Corri in una piazza piena di colombi e li vedrai volare. Trovami il colombo che non vola. Ma non credo che sia così. Non siamo animali, facciamo cose strane. Abbiamo vertigini di fronte alla perdita e ai giorni che ancora devono arrivare. Lo spazio vuoto e spaventoso. Un’immensa pagina bianca».
La violenza fa parte del nostro codice genetico, la ferocia è sempre pronta ad affiorare, ma possiamo scegliere di non piegarci alle leggi dell’etologia e abbandonarci alle vertigini che vengono quando si guarda nell’abisso di ogni uomo, come diceva Woyzeck.

Istantanea 2. La sala da pranzo 

Qualche giorno fa ho finalmente trovato il tempo per guardare una serie tv che da molto tempo era nella mia “lista dei desideri”, The Bear. Nella seconda puntata della seconda stagione (una di quelle che ti inchioda letteralmente allo schermo) ho sentito delle risonanze, per affinità o per contrasto, con la lunga sequenza del pranzo ne La Ferocia.
Bob Odenkirk, special guest della puntata, fissa Jon Bernthal (alias Mike Berzatto) e gli sibila: «Sei un fallito. Non sei nessuno. Non sei nessuno. Nessuno. Non sei nessuno. Non sei nessuno». Mike lo fissa, in attesa di lanciargli contro un’ultima volta la forchetta e innescare definitivamente la rissa. Tutta la violenza è negli sguardi, nei sottintesi o nelle parole esplicite che fanno esplodere tensioni tenute a bada da troppo tempo. A far detonare definitivamente la scena è lo sfogo finale della mamma, Donna (interpretata da una superba Jamie Lee Curtis), che dopo l’ennesimo «come stai?» di sua figlia Sugar esplode in tutta la sua rabbia e frustrazione contro i presenti, nessuno escluso. È la cena di Natale, un Natale che non si augurerebbe a nessuno.

La famiglia Salvemini a prima vista non è disfunzionale come quella dei Berzatto, all’apparenza sembrerebbe addirittura una famiglia normale. Non ci sono urla, aggressioni verbali né piatti rotti, ma l’atmosfera è tagliente; ogni gesto, ogni sguardo, ogni parola fa riverberare i crudeli sottotesti che caratterizzano le relazioni tra i personaggi. 
La violenza è nella calma apparente, nella disinvoltura con cui si invita ad assaggiare quelle «seppioline che si sciolgono in bocca» o ad apprezzare la riproduzione del quadro L’Europa dopo il diluvio di Max Ernst appeso alla parete.
La qualità con cui Leonardo Capuano/Vittorio Salvemini sposta una sedia per far sedere suo genero Alberto che vorrebbe spedire all’istante a migliaia di chilometri da quella sala da pranzo. Gli sguardi tra Andrea Volpetti/Alberto e Marco Morellini/Valentino Buffante, marito e amante della defunta Clara, sono carichi di minaccia e senso di colpa allo stesso tempo. L’apparente nonchalance con cui Gabriele Paolocà/Michele Salvemini introduce ai presenti la sua gatta accostandola al ricordo di una madre morta nel darlo alla luce e una sorella morta con la quale aveva interrotto i rapporti. «Non è stupenda? Una madre, una sorella, ora una gatta. Lei la conosceva mia sorella signor Buffante?».

L’acuta precisione con cui Francesca Mazza/Annamaria descrive il procedimento di pulizia di una seppia. «La prima cosa che si toglie alle seppie sono gli occhi. Bisogna fare un’incisione nella parte superiore dell’occhio e poi con i pollici si spinge finché fuoriescono i bulbi oculari. Poi, la seconda cosa che si toglie è l’apparato boccale, il becco. Si introducono le dita e delicatamente si estrae il becco. Tolti gli occhi, tolto il becco, bisogna togliere l’osso. Si fa un’incisione nella parte superiore, poi si stringono i tentacoli, si spinge verso l’alto finché fuoriesce quest’osso bianco. Poi si gira sulla schiena la seppia, la si incide e si espongono le interiora. Qualora ci fossero delle uova in formazione bisogna inciderle, poi si estraggono le sacche del latte, quelle che contengono l’inchiostro. Bisogna stare attenti, bisogna stare attenti…».

La sua descrizione, assente nell’originale di Lagioia, sembra un esame autoptico, simile a quello interpretato da Enrico Casale/Gennaro Lopez qualche scena prima, ma allo stesso tempo ha la freddezza di una minaccia o di una confessione, simile alla glaciale spietatezza delle deposizioni in tribunale di Angelo Izzo quando descrive le sue azioni durante l’esecuzione del delitto del Circeo.
La scelta di non mostrare al pubblico lo sfogo della violenza ma lavorare per allusione e sottrazione ha, ancora una volta, il preciso scopo di svelare le feroci dinamiche di potere e ricatto che sono pilastro portante della famiglia Salvemini. Potere e ricatto, due elementi connaturati a ogni sistema sociale basato sulla gerarchia e dunque anche alla famiglia. Quasi un mito fondativo, se si pensa che le società umane fanno spesso iniziare la propria storia da un atto di violenza, da un assassinio fra consanguinei, quasi sempre tra fratelli (Seth e Osiride per gli Egizi, Romolo e Remo per i Romani, Caino e Abele per i Cristiani). Da questa violazione originaria ha inizio un ciclo di vendette che può essere fermato soltanto da un intervento soprannaturale capace di imporre la sua legge ai popoli salvati.

Ma ne La Ferocia non c’è alcun Dio, o se c’è è molto distante o disinteressato alle squallide vicende dei Salvemini e al loro castello destinato a cadere.

Vittorio Salvemini ha pensato per tutta la sua vita che i soldi fossero un utile strumento per rimettere ogni cosa al suo posto. È cresciuto in una terra dove i suoi antenati «si spintonavano per scagliare mazzi di banconote in faccia alle statue dei santi protettori, pregavano affinché una concessione edilizia gli permettesse di vendere terreni sempre meno produttivi» e ora è convinto che il denaro possa comprare la complicità del direttore dell’Arpa e salvarlo dalla rovina.
Gli sfugge un concetto, accecante per la sua semplicità e che Frank Underwood, protagonista della fortunata serie House of Cards, aveva messo a fuoco in maniera molto precisa: «I soldi sono come ville di lusso che iniziano a cadere a pezzi dopo pochi anni; il potere è la solida costruzione in pietra che dura per secoli».

Istantanea 3. La piazza

È il 5 ottobre 2024. Ieri sera c’è stata l’ultima replica de “La Ferocia” al Teatro Argentina di Roma. Stamattina ci siamo svegliati un po’ più tardi, abbiamo preso il caffè, rimediato gli ombrelli (oggi piove) e alle 14 siamo già per strada per arrivare a piedi a Piramide, dove è previsto un corteo Pro-Palestina. La Questura di Roma ha vietato la manifestazione e la polizia ha predisposto posti di blocco su tutte le vie di accesso a Roma (stazioni, autostrade, metropolitane). Nonostante questo in piazza siamo circa in diecimila: attivisti dei centri sociali e sindacati, ma anche famiglie e studenti, persone comuni indignate (incazzate, meglio!) per quel che sta accadendo nella striscia di Gaza, e da qualche settimana anche in Libano, ad opera di Israele.

La piazza è circondata da tutti i lati dalla polizia, sembra che non ci sia alcuna possibilità che il corteo parta come vorrebbero gli organizzatori, ma verso le 17 la grande fiumana sembra cominciare a muoversi. Una volta esaurito il giro della piazza, i manifestanti provano a proseguire il percorso verso Viale di Porta Ardeatina ed è in quel momento che cominciamo a sentire lo scoppio delle bombe carta e il fischio dei lacrimogeni. In pochi minuti l’aria diventa irrespirabile, la folla comincia a muoversi in direzione opposta, qualcuno corre, altri urlano.
Di lì a poco arrivano gli idranti e i manganelli dei poliziotti in tenuta antisommossa che conquistano la piazza. Decidiamo di defilarci attraversando uno dei varchi laterali. Lì dove eravamo fino a cinque minuti prima adesso sfrecciano le volanti della polizia. Ci sono alcuni feriti che si stanno facendo medicare la testa, un ragazzo abbraccia sua madre e urla tutta la sua rabbia. 

Non sentivo il sapore aspro dei lacrimogeni da più di vent’anni, ventitrè per l’esattezza. Era il 17 marzo 2001 e a Napoli si stava svolgendo il Global Forum: un incontro tra governi e multinazionali per discutere di sviluppo elettronico. In corteo, organizzato da quello che all’epoca era chiamato il “movimento no-global”, eravamo circa in trentamila. Avevo quindici anni, quella manifestazione finì con un vero e proprio pestaggio a Piazza del Plebiscito: una sinistra anticipazione di quello che sarebbe accaduto dopo qualche mese a Genova. Anche se non sono rimasto ferito, non credo dimenticherò mai quella giornata. 
Qualche mese dopo ho cominciato a frequentare il mio primo corso di teatro. Cercavo un modo per non tenermi dentro tutta la rabbia e la frustrazione che avevo sentito in quella piazza e che mi pervadeva ogni volta davanti alle ingiustizie, alle sopraffazioni, alle diseguaglianze. Il semplice camminare in uno spazio vuoto illuminato solo da qualche proiettore, guardare negli occhi altre persone e condividere con loro la paura e l’emozione dello stare in scena, a quel tempo mi era sembrata una possibile risposta.

A distanza di tanti anni affiorano delle domande: è stata una fuga? La sensazione di protezione che dà il palcoscenico ha attenuato le mie rivendicazioni e l’urgenza della mia militanza? Oppure è stato un modo per giungere alla consapevolezza che a volte il semplice mostrare può essere un atto rivoluzionario, un antidoto alla violenza e alla barbarie della banalità? 

Non ho risposte. Vorrei vedere e fare un teatro che non dimentichi (e non faccia dimenticare) la brutalità di quello che accade fuori, e allo stesso tempo mi pare che a volte si chieda troppo al teatro, quando si pretende che sia il luogo in cui esaurire una riflessione complessa sul mondo e sulle sue contraddizioni. Mi piace pensare al tempo in platea (e in sala) non come a una sostituzione alla mobilitazione, ma piuttosto come a una palestra di cittadinanza: e se quelle contraddizioni osservate nel buio della sala fossero l’innesco per tornare a prendere parte al dibattito pubblico e cambiare il nostro rapporto con la parola potere anche e soprattutto fuori dai teatri?

 «Il pronome personale è importante». Collettività e violenza in Wonder Woman e Zorro di  Latella e Bellini

 «Il pronome personale è importante». Collettività e violenza in Wonder Woman e Zorro di Latella e Bellini

Di Chiara Molinari
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.

«Sono io il corpo del reato il luogo del delitto la scena dell’azione». Così recita la drammaturgia di Wonder Woman, primo spettacolo del dittico dedicato ai supereroi scritto da Antonio Latella e Federico Bellini, debuttato in Germania nel 2021, e ora in tournée nei teatri italiani fino a maggio. L’allestimento si apre con la disposizione, a ridosso del fondale, di quattro sagome disegnate a terra, composte da un mucchio di vestiti colorati: materia inerte che sembra segnalare l’avvenimento di un atto violento, prefigurando il conto di quattro vittime. 

Della fisionomia della vittima, però, non hanno nulla le quattro giovani interpreti – Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Rienzi, Chiara Ferrara e Beatrice Verzotti – che giungono sul proscenio esponendo al pubblico il loro corpo vivo, pulsante: con lo sguardo diretto agli spettatori, seduti in una platea illuminata a giorno e dunque chiamati a ricambiarlo, esibiscono infatti le ferite che un sistema pervasivamente patriarcale infligge a ciascuna donna per trasformarle in un urlo di rivolta e di condanna. 

È del 2015 – anno che coincide con la nascita del movimento transfemminista Non Una Di Meno in Argentina – la denuncia di stupro da parte di una ragazza peruviana ad Ancona, a cui fa seguito la vergognosa sentenza declamata all’unisono dalle interpreti: una giuria di sole donne dichiarò in Corte d’Appello (con un verdetto poi ribaltato in Cassazione) che il fatto non potesse sussistere data «la personalità tutt’altro che femminile, quanto piuttosto mascolina» della giovane. A supporto di quanto sostenuto, nel verbale si legge la surreale affermazione per la quale all’imputato «la ragazza neppure sarebbe piaciuta, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo “Vikingo”». 

La durezza del linguaggio e l’emotività traboccante da cui le quattro attrici si fanno attraversare investe la platea come un’onda violenta, che restituisce tutta la crudezza dell’avvenimento e trascina gli spettatori tra i «gironi infernali» affrontati da Nina: questo il nome di finzione attribuito alla ragazza, lo stesso della protagonista de Il gabbiano di Čechov, «che non sa mentire, non sa recitare». Dagli abusi vissuti durante la terribile serata al parco, tra decine di bottiglie di birra, passiamo allora alle stanze della questura, dove si susseguono domande umilianti sul vestiario indossato e sulle modalità in cui i rapporti sono avvenuti, illazioni sulla possibilità che lo stupro sia semplicemente una scusa inventata da una “ragazzina” per sfuggire alla punizione dei genitori. Si approda dunque alle aule di tribunale, dove le giudici, in una reminiscenza pasoliniana, vengono descritte come Eumenidi ritrasformate in Furie: l’episodio di cronaca dal quale la pièce prende avvio rende infatti esplicita la violenza intrinseca al diritto, lo iato che lo separa da un’idea e da una reale pratica di giustizia, così come la distanza incolmabile che si stende tra gli organi statali e i cittadini che questi dovrebbero tutelare. 

Nel convulso racconto a quattro voci, che alla violenza carnale subita stratifica la vittimizzazione secondaria da parte delle istituzioni e il “bla bla bla” dei media, emergono anche le molteplici linee di oppressione che s’intersecano nell’esperienza di vita di Nina, che non è solo donna, ma anche “straniera” – una «scaltra peruviana», come viene definita nella sentenza –: appare allora significativo che i poliziotti trovino necessario chiarire, prima ancora di credere alle parole della giovane, se “gli stupratori siano come voi o come noi”. 

Seguendo quelle stesse linee di oppressione, è dunque di un nuovo noi che si appropriano le attrici sulla scena, passando dalla prima persona singolare alla prima persona plurale nella narrazione, rendendosi corpo collettivo, quasi a ribadire che “se toccano una, toccano tutte”. La lotta diviene-donna, e Nina si libera delle pesanti spoglie di “Vikingo” in cui l’hanno costretta per riconoscersi come Amazzone, appartenente a un popolo di sole donne. Le Amazzoni, stirpe guerresca che ci è nota dalla mitologia greca, sono anche le compagne e le sorelle di Wonder Woman, celebre personaggio dei fumetti creato da William Moulton Marston. Prima supereroina femminile – e femminista – della DC Comics, la “donna meraviglia” cattura con un lazo magico i suoi antagonisti, costringendoli a dire il vero: non sorprende allora – ripercorrendo il «lavoro del detective» che Latella svolge insieme ai propri collaboratori per ogni spettacolo – scoprire che lo psicologo americano fosse anche l’inventore della cosiddetta “macchina della verità”. «Nostro creatore», lo definiscono le quattro interpreti in scena, scandendo versi concitati tra i fili dei microfoni: «Sono (…) Il poligrafo di carne il misuratore di ritmo cardiaco (…) Non ho aritmie blocchi emozioni Non sputo più sudore il mio corpo non mente Collegatemi pure non ho niente da temere sono io Wonder Woman». 

Il conflitto messo in atto per essere creduta, per portare avanti la propria verità, parte allora da minuscoli oggetti tradizionalmente associati a un lavoro domestico, trasmesso ed ereditato dalle nostre madri: dall’ago e dal filo. La drammaturgia di Bellini e Latella li risignifica e ne trasfigura qualunque connotazione oppressiva, al punto che «con un filo e un ago si scrive la storia si lasciano segni indelebili del nostro esserci sempre state (…) con un ditale si può addirittura vincere una battaglia». Ed è così che le quattro attrici indossano, uno dopo l’altro, gli abiti e le collane – realizzati da Simona D’Amico – abbandonati in fondo alla scena, dai cromatismi simili al costume della supereroina e dai richiami tribali: donano loro nuova vita e un nuovo senso, restituendo corpo a ciò che sembrava perduto, e facendosi così «grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce». 

Attraversando il palcoscenico in una danza magnetica, in cui il roteare del lazo della verità si mescola ai passi e alle parole di Un violador en tu camino, performance ideata dal collettivo teatrale cileno LasTesis per diffondersi nelle piazze di tutto il mondo come inno di protesta contro l’ordine patriarcale, le attrici dischiudono allora un nuovo immaginario, una narrazione altra rispetto a quella istituzionale che svilisce, normalizza e spettacolarizza la violenza di genere. Con un dito rivolto verso gli spettatori, a indicare che “la vergogna deve cambiare lato” – come ci ricorda il processo a porte aperte per il recente caso di Gisèle Pelicot –, le interpreti ci chiamano in causa intonando la canzone tradotta in italiano: «La colpa non era mia, non c’entra dove stavo né com’ero vestita/ Lo stupratore sei tu / Le guardie /I giudici / Lo Stato/ Il Presidente/ Lo Stato oppressore è un macho stupratore/ Lo stupratore sei tu». 

Ispirata agli scritti della scrittrice e attivista argentina Rita Segato, la coreografia, una volta sconfinata nelle strade, ha reso accessibili le sue teorie femministe a una moltitudine di persone che difficilmente vi sarebbero entrate in contatto. Con lo spettacolo scritto da Latella e Bellini, l’organizzazione di questa rabbia torna dunque a farsi teatro: un teatro politico, perché connette e avvicina la comunità della sala alla «lotta di ogni giorno» delle donne e dei movimenti che scendono in piazza.

Fortemente politico è anche il tema della povertà, attorno al quale è costruito il secondo spettacolo del dittico originariamente pensato per i palchi tedeschi, Zorro, in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano fino al 16 febbraio. Non è un caso che l’allestimento sia specificamente pensato per una città in cui la forbice tra i redditi di chi la abita si rende sempre più ampia: il testo di Latella e Bellini intende allora entrare in risonanza con l’architettura e la memoria scenica dello spazio, che Paolo Grassi e Giorgio Strehler concepirono come modello di “teatro d’arte per tutti”, inaugurato nel 1947 proprio con la messa in scena de L’albergo dei poveri di Gor’kij. Con una simile sensibilità, durante la messinscena di Hamlet al Teatro Melato – spettacolo diretto dal regista campano e vincitore del premio Ubu nel 2021 –, Federica Rosellini, nei panni dell’inquieto Principe di Danimarca, si aggirava tra aste ricoperte dai costumi degli storici allestimenti di Strehler e Ronconi. 

Ph Masiar Pasquali

La politicità dell’argomento scelto per lo spettacolo impone una problematizzazione di ordine estetico: come è possibile parlare di povertà al caldo di una sala teatrale, nel momento in cui dei professionisti pagati si rivolgono a una platea di spettatori paganti? In un saggio dedicato alle possibilità di un’opera d’arte impegnata e significativamente intitolato Impegno, Adorno scrive infatti: «È un’usurpazione e quasi uno schernire le vittime parlare come queste, come se si fosse uno di loro. È permesso di recitare ogni parte ma non quella del proletario». Consapevoli di questa delicatissima contraddizione, Latella e Bellini interpellano allora nella loro drammaturgia molteplici forme sperimentate nella storia e nella pratica di un teatro che si autocomprende come fait social: con citazioni, considerazioni metatestuali e metateatrali, vengono dunque evocati Brecht, Beckett, l’avanspettacolo, il teatro documentario, la Commedia dell’Arte. La rappresentazione, i cui meccanismi e le convenzioni – parola che assume un valore centrale nel testo – sono resi trasparenti al pubblico, viene quindi interrogata nell’istante stesso del suo farsi, sistematicamente smontata e decostruita, perché l’allestimento sfugga all’irrigidimento e alla duplicazione della violenza che sussiste nello “stato vigente di cose”.

Sul palcoscenico si muovono quindi quattro attori, Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni, Isacco Venturini (“contrappunto” maschile al quartetto di Wonder Woman), che, vestendo alternativamente i panni del Povero, del Poliziotto, del Muto e del Cavallo, costruiscono sette differenti scene, definite come “quadriglie”. Ed è un’intensa interpretazione di una selezione di brani musicali – avviata da Un ragazzo di strada de I Corvi –, eseguita dallo stesso Venturini alla chitarra, ad accompagnare e scandire il passaggio da un “quadro” all’altro.

La quadriglia – afferma il regista in un’intervista confluita nel programma di sala – è infatti un ballo che prevede lo scambio di ruoli, e in Francia veniva danzata «per raccogliere denaro per i poveri». Con costumi dai colori sgargianti – anche in questo caso ideati da Silvia D’Amico –, che rimandano allo stile iconico di Elvis Presley, gli interpreti accolgono gli spettatori nell’atrio del teatro, immobili su un piedistallo, come statue di supereroi, quasi fossero in attesa di qualche moneta. Latella racconta infatti come a ispirare la pièce sia stata la visione di «due senzatetto che chiedevano l’elemosina vestiti da Zorro, mentre da un registratore ai loro piedi uscivano le note della sigla del celebre telefilm». 

Lo spazio scenico concepito da Annelisa Zaccheria – che insieme alle luci, a cura di Simone De Angelis, contribuisce a definire l’immaginario «violentemente pop» dello spettacolo – è dominato da una cabina telefonica e da un cactus che rimanda alla California, luogo per eccellenza in cui “convivono lusso e indigenza”, ma anche sfondo delle gesta compiute da Don Diego de La Vega, personaggio creato dalla penna di Johnston McCulley, che nasconde la propria personalità proprio dietro alla maschera di Zorro. Nella pièce di Latella, però, l’eroe mascherato – e l’idea di giustizia sociale da lui incarnata –, non comparirà mai, proponendosi come un Godot beckettiano, atteso invano dai protagonisti sul palcoscenico. Se Don Diego de La Vega era immaginato come un aristocratico che giunge in aiuto dei più deboli, lasciando al suo passaggio il marchio inconfondibile della sua “Z”, nello spettacolo è un altro personaggio a dipingersi una maschera nera sul volto e ad appropriarsi dell’ultima lettera dell’alfabeto: lo Zanni, figura dell’astuto servitore nella Commedia dell’Arte. Nel lungo monologo finale, attraverso la voce e l’interpretazione di Paolo Giovannucci, sono allora gli “ultimi” a parlare, una prima persona al plurale che collettivamente si presenta al pubblico: «Siamo Z (…) Siamo inutiliz. Miserabiliz. Siamo dannosiz. Siamo senzatettoz».

Nella fluidità dei ruoli sociali, nel continuo rimescolarsi delle identità sul palcoscenico, appare allora necessaria – proprio come in Wonder Woman – la ricerca di un nuovo noi, a cui appartenere e con cui rivendicare il proprio diritto a una vita degna. Nella prima emblematica quadriglia, il Povero dialoga beckettianamente con il Poliziotto che indossa una “divisa che divide”, affermando in maniera significativa: «Il pronome personale è importante, quindi le chiederei di non essere generico. Non tutti i noi sono noi, e nell’essere noi non tutti i noi si definiscono noi, come non tutti i voi si danno del voi». La maschera dello Zanni – chiarisce Bellini nel programma di sala –, allora, «lascia intuire, con incredibile preveggenza e forse desolante disincanto, che ogni rivoluzione credibile deve per forza partire dal basso, da chi per natura ed estrazione sociale non può che conoscere molto bene la fame, la miseria, il dovere del riscatto». 

«Se c’è un povero che ha preferito spendere i suoi spiccioli per assistere a questa merda piuttosto che mangiare un tramezzino, alzi la mano!», chiedono dunque gli attori a bordo palco. E se è verosimile che in nessuna replica nessuno spettatore potrà rispondere sentendosi interpellato, altrettanto certo è che le platee dei teatri – e gli stessi palcoscenici – siano attraversati da numerosissime persone che faticano a vivere del proprio stipendio e ad arrivare alla fine del mese. 

Nella città in cui solo pochi mesi fa un ragazzo di diciannove anni, Ramy Elgaml, perdeva la vita durante un brutale inseguimento dei carabinieri, e nel Paese in cui – negli stessi giorni in cui lo spettacolo è in scena – uomini e donne formano code infinite di fronte agli Uffici Immigrazione in attesa di un documento, e talvolta vi muoiono per il freddo, il susseguirsi dei dialoghi dello spettacolo di Latella e Bellini ci raggiunge fuori dalla sala, domandandoci allora in quale collettività vogliamo riconoscerci e quale altro mondo possibile vogliamo immaginare.

Your Body is a Battleground?

Your Body is a Battleground?

Di Eliana Rotella
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.

Un volto stereotipicamente femminile diviso in due: da una parte la foto in bianco e nero, dall’altra il suo negativo. Sopra, urla in rosso la scritta: “Your Body is a Battleground”. È il 1989 quando Barbara Kruger dà vita alla sua opera Untitled (Your body is a battleground), concepita inizialmente in sostegno a una manifestazione per il diritto all’aborto a Washington, nell’aprile del 1989, in risposta all’ondata di movimenti anti-abortisti dell’epoca. Un’epoca lontana, insomma, una necessità oggi anacronistica.

Mettendo da parte il vessillo del sarcasmo, giubbotto di salvataggio nel mare politico contemporaneo, viene da chiedersi come e se quello slogan stampato oggi su una moltitudine di magliette risuoni ancora con la stessa forza. Mi fermo – nello stillicidio che è la redazione di un testo – e rileggo. Mi fermo, rileggo questa scarsa manciata di righe iniziali, frutto di una pluralità di interruzioni, paragrafi eliminati e tab aperte, e passo alla prima persona singolare. Mi chiedo come e se quello slogan mi risuoni oggi nelle scelte che compio, nel lavoro che faccio, che non può che partire dal corpo. Esco dall’impersonale rassicurante, che comunque se lo chiederà sempre un’Altra, chiudo le fonti di saggistica a sostegno di un’analisi storica della rappresentazione della violenza a teatro e sto seduta in tutta la scomodità di una domanda reale, che ho fatto e mi sono fatta innumerevoli volte, soprattutto di notte, come ora che scrivo, quando mi sembra esista l’unico silenzio possibile per articolare i pensieri.

Me lo chiedo: il corpo è davvero un campo di battaglia? Ancora – forse la scena è un campo di battaglia? Ancora – dove sta la linea che demarca il servirsi della rappresentazione della violenza per scuotere chi non l’ha subita e reiterare il trauma per chi invece quella violenza l’ha depositata nella propria memoria epidermica – per chi quella violenza l’ha vissuta davvero? Ancora – dove sta il confine tra buonismo, censura, vergogna, cura, trasformazione, perbenismo intrinseco, spettacolarizzazione del trauma, presa in carico della rabbia, pornografia del dolore, e le mille declinazioni della relazione arcaica tra arte e violenza? Cosa significa parlare di rappresentazione della violenza con un genocidio in atto? Cosa esiste tra il “Fuck Catharsis” di Carolina Bianchi e la prospettiva de “La trama alternativa” di Giusi Palomba? La domanda originaria si è moltiplicata come succede agli organismi che hanno vita propria.

Sono domande dentro cui cado e che partono dalla posizione di un privilegio radicato, dalla comodità del mio essere una persona bianca nata in un contesto di stabilità economica e, come tale, posso rispondere in maniera miope: qualsiasi dissertazione concettualmente ineccepibile crolla, qualsiasi speculazione estetica si accartoccia. Posso solo offrire i miei occhi parziali per rispondere con tutte le storture di un’esistenza contraffatta dal privilegio alla domanda che mi è stata fatta, che mi faccio – quali sono le prospettive evolutive del ruolo della violenza a teatro? Riapro, necessariamente, i volumi di una storia duplice nella sua natura maiuscola e minuscola e riparto da qui.

Ho iniziato a scrivere drammaturgia leggendo la Kane. Ho consumato e sottolineato in ogni formato possibile tutte le pagine di quello che i giornali definirono “un disgustoso banchetto di sporcizia (…)”, questo testo che non sembra conoscere limiti al pudore e che non ha la sua giustificazione nemmeno un messaggio da comunicare. Perché la ventitreenne Sarah Kane abbia deciso di scriverlo sono “fatti suoi” e “pura e semplice brutalità” e “i sostenitori di Miss Kane potrebbero affermare che Shakespeare includesse scene altrettanto esplicite. Sfortunatamente, lei non è una brava scrittrice”. Questi sono solo alcuni dei giudizi che esplosero la notte del 12 gennaio 1995, quando per la prima volta, sul palco del Royal Court Theatre Upstairs di Londra, venne rappresentata Blasted, l’opera prima di una scrittrice ventitreenne proveniente dall’Essex. La pièce venne accolta da una nettissima divisione di opinioni, dando materiale per la maggior parte dei tabloid e addirittura per un notiziario televisivo, in una reazione collettiva “isterica e apoplettica” che neanche il direttivo del Royal Court Theatre, per quanto consapevole della portata visivamente cruda dello spettacolo, riusciva a spiegarsi.

Il puro resoconto dell’azione scenica, così come un esame letterale del testo, hanno portato molti critici a valutare il climax di atrocità nell’opera come ostentazione di una pulp fiction fine a se stessa, un accumulo di cadaveri e violenze solo per la necessità di scioccare gli spettatori e far parlare di sé. Le accuse di volersi fare vessillo di un teatro volto alla semplice provocazione si protrarranno anche riguardo le due opere successive, Phaedra’s love (1996) e Cleansed (1998), tanto da indurre la Kane, come risposta, a pubblicare la pièce successiva Crave (1998) sotto lo pseudonimo di Mary Kelvedon, in parte per gioco, in parte per liberarsi dall’ombra opprimente di essere Sarah Kane, la controversa autrice di Blasted.

Gli anni sono quelli del cosiddetto “In-yer-face theatre”, un contesto che si prestava a un’interpretazione quasi univoca del ruolo delle azioni violente di Blasted: nient’altro che uno strumento formale come un altro per colpire a tutti costi il pubblico, a costo di cadere nella violenza ingiustificata di uno show molto splatter in stile Quentin Tarantino al quale le opere dell’autrice britannica sono state spesso comparate. A questo proposito, mi sembra doveroso riportare il punto di vista della stessa Kane, le cui parole qui riportate si riferiscono a una messa in scena di Blasted del 1996 ad Amburgo, in Germania:

“This man walked on-stage… in a really trendy jacket, greased back hair, sun-glasses wrapped around (…) and I thought, ‘where have I seen this character?’ And it’s Tarantino, and my heart just broke (…) And in some ways that becomes quite insulting – the work is seen as part of a school which I abhor (…) My plays certainly exist within a theatrical tradition (…) but they are not about methods of representation. On the whole they are about love and about survival and about hope, and to me that is extremely different thing. So when I go to see a production of Blasted, in which all the characters are complete shits and I don’t care about them I get upset”.

In una lettera a Graham Saunders, datata tre anni dopo il debutto di Blasted, Sarah Kane si esprime esplicitamente, come farà molte volte in seguito, riguardo alla scelta di comprendere nei suoi testi atti di atrocità esplicita:

“Art isn’t about the shock of something new. It’s about arranging the old in such a way that you see it afresh. The press kept asking why it was necessary to show such acts of violence on stage. I think it was necessary because we normally see war atrocities as documentary or news footage. And Blasted is no documentary. So suddenly all those familiar images were presented in an odd theatrical form which provided no framework within which to locate oneself in relationship to the material. That’s an amoral representation of violence”. A partire da questa posizione, riesce evidente notare come nessuna azione violenta sia mai autoreferenziale, a cominciare dalla concezione di violenza stessa: “We live in a world of rampant cruelty, waste and injustice; we see it in every place, at every level. Yet in theatre, this didn’t stop wealthy, healthy, middle-class folk looking at some inane subject like pensions or architecture or spying or newspapers and finding more rottenness than in any Denmark, more pain in any holocaust, core apocalypse than any Hiroshima. […] The thing that shocks me the most is that they seem to have been more upset by the presentation of violence than by violence itself. I mean, a 15-year-old girl has just been raped in a wood but there’s more space in the tabloids about my play than about this brutal act. That’s the kind of journalism that the play absolutely condemns”.

Il teatro come cassa di risonanza profonda, trasversale, della realtà: la violenza diventa più reale del reale nel momento in cui affronta la sua rappresentazione. È proprio dall’intento mimetico che la Kane stessa si allontana, nella messa in scena dei suoi testi. Durante l’intervista registrata il 3 novembre del 1998 al Royal Holloway, University of London, Sarah Kane, intervistata da Dan Rebellato, ha dichiarato a riguardo:

“About Phaedra’s Love, I had great fun writing because there were so many ridiculous things like ‘cuts off his genitals and thows them to the dog’. And I’d just think: ‘Well, it’s not my problem’ and then suddenly it was because I ended up directing it. That was very interesting because when I watched “Blasted” very often I didn’t see exactly what I’d written and it would really annoy me, but suddenly I was confronted with just how difficult it is to create the images that I write. But I really like doing it. […] And I think the less naturalistically you show those things, the more likely people are to be thinking: ‘What does this mean? What is the meaning of this act?’ rather than: ‘Fucking hell, how did they do that?’. Which is really not that interesting a response to elicit from an audience because you know David Copperfield can do that”.

Ho iniziato a scrivere leggendo le parole atroci intrise di violenza di un’autrice che non le ha mai rese gratuite e quando è toccato a me confrontarmi nei miei testi sulla rappresentazione della violenza, mi sono resa conto di come ci fossero delle contingenze estremamente diverse in cui muovermi. La cornice dentro cui leggere la scelta di rappresentare la violenza è estremamente diversa da trent’anni (netti) fa e da qui si può solo aprire quel delta di scelte artistiche dentro cui ognuno naviga. Quando ho scritto Livido, un testo che tratta di abuso, mi sono ritrovata a scrivere, nella presentazione: “La scena della violenza non sarà mai presente in nessun modo, neanche metaforico, trasfigurato, niente pezzi di teatro-danza sotto brani di musica elettronica e luci strobo, non verrà mai descritto, pronunciato, che sia in forma poetica o allegorica. La violenza sarà definita dal vuoto sotteso del non essere mostrata, del fermarsi sulle soglie di, dal suo perimetro creato proprio dal tentare ogni volta di raccontare, scontrandosi con il fallimento della sua rappresentazione. Si tenta di raccontare per colmare un vuoto di memoria, un vuoto di narrazione, l’afasia davanti alla violenza, all’impronunciabile. Ogni volta, davanti a questo vuoto, si inventa un nuovo sviluppo, un nuovo finale. Ogni volta, si ricomincia da capo”.

Mi sono resa conto che in quel caso la rappresentazione della violenza si sarebbe basata sul reiterare un meccanismo drammaturgico già di per sé traumatico, in quanto il testo si basava sulla riscrittura del mito di Eco e Narciso, secondo la guida di un Ovidio/narratrice.

Il mito greco è latino di per sè è un tipo di narrazione fondante della nostra società occidentale ed è un tipo di racconto basato, nella sua essenza, fin dalla teogonia, sul meccanismo narrativo e culturale dello stupro. La reiterazione spasmodica della violenza come atto costitutivo dello sviluppo della narrazione crea l’orizzonte statico della rappresentazione, del modello, della tradizione. Il tentativo non è solo quello di problematizzare un avvenimento e il fallimento della sua rappresentazione, ma andare a erodere, usando lo stesso meccanismo, almeno per il lasso di tempo permesso, la struttura stessa della mitologia. L’immobilità granitica del mito, la cui fine tragica è inevitabile, viene sgretolata alle basi della narrazione.

Narrare come base di rivolta, come difesa ultima davanti all’avanzata del vuoto, immaginare come risposta alla mancanza dialogica della violenza. Ripetere come riscrivere, come ritornare al ruolo fondante del perché mettere e mettersi in scena, un ripetere come tentativo di liberazione da parte di un soggetto e non il ripetersi oggettificazione di una gabbia senza via d’uscita, disumanizzante, del reiterare il trauma rimanendo in un cerchio chiuso. Il passato incistato di precedenti, le leggi non scritte di una tradizione che pone le sue basi in un millenario immaginario di narrazioni abusive si disfa, lentamente, davanti a nuovi futuri possibili.

Scriveva Mohja Kahf nel 1998:

[…]

My body is not your battleground
My hair is neither sacred nor cheap,
neither the cause of your disarray
nor the path to your liberation
My hair will not bring progress and clean water
if it flies unbraided in the breeze
It will not save us from our attackers
if it is wrapped and shielded from the sun
[…]

In questa poesia c’è una domanda forse che mi risuona ogni volta che scelgo o meno che strada prendere, per capire cosa rappresentare e come: Is it your skin that will tear when the head of the new world emerges?

Il cono d’ombra della drammaturgia inglese: Martin Crimp e Tim Crouch

Il cono d’ombra della drammaturgia inglese: Martin Crimp e Tim Crouch

A cura di Alice Strazzi

Martin Crimp (1956) e Tim Crouch (1964) sono due voci fondamentali della drammaturgia contemporanea inglese e non solo: tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila hanno realmente rivoluzionato la scrittura per il teatro, individuando percorsi ben riconoscibili all’interno e all’esterno dell’etichetta di “postdrammatico” ideata da Lehmann. Se i testi di Crimp – tra tutti il suo più noto Attemps on Her Life (1997) – costituiscono delle vere e proprie forme di ribellione e di scomposizione della struttura narrativa in tutti i suoi aspetti, Crouch invece costruisce i suoi lavori sulla creazione di narrazioni che però contemplino una forte compresenza dello spettatore, parte attiva nel processo della messinscena. Due approcci diversi quindi, eppure assimilabili: le loro scritture si delineano a partire da questa necessità di frammentare e offuscare il dato di realtà, non per disorientare, ma piuttosto per creare nuove traiettorie di senso, forme differenti di comprensione. Il linguaggio diventa uno specchio deformante del mondo esterno, consegnato nelle mani di spettatori e spettatrici. Decostruire con la parola, ricomporre con lo sguardo.

Date queste premesse, stupisce l’assenza quasi totale di questi due autori dal panorama italiano, noti più per sentito dire che per un incontro diretto con i loro lavori portati in tournée in Italia o per la visione di adattamenti di compagnie e artisti italiani. D’altronde le stesse traduzioni dei loro testi scarseggiano, ad eccezione di quelle approntate per la messinscena, come, per esempio, la recente versione di The City di Martin Crimp realizzata da Alessandra Serra per lo spettacolo di Jacopo Gassmann (2023), o il lavoro centrale e di lunga durata svolto dalla romana Accademia degli Artefatti/Fabrizio Arcuri con le traduzioni di My Arm (2020), And Oak Tree e di quattro dei cinque monologhi shakespeariani scritti da Tim Crouch, e anche di Attemps on Her Life, Fewer Emergencies e Advice to Iraqi women di Crimp pubblicate nel libro Il teatro di Martin Crimp nelle messe in scena di Accademia degli Artefatti, edito da Editoria & Spettacolo, nella collana “Spaesamenti”. Salvo quest’unica felice eccezione, nessuna casa editrice ha reso accessibili questi due fondamentali autori e le loro drammaturgie ai lettori e alle lettrici italiani: chissà che in futuro – auspicabilmente – qualcosa possa cambiare.

All’interno di questo tentativo di interrogare la condizione d’ombra che avvolge Crimp e Crouch, un punto significativo, in senso contrario, è stato posto dalla quadriennalità della direzione artistica di Stefano Ricci e Gianni Forte del Festival Internazionale di Teatro della Biennale di Venezia dal 2021 al 2024. Il Festival, infatti, in apertura e in chiusura, è stato segnato dalla presenza dei due drammaturghi britannici, entrambi coinvolti nel programma formativo offerto dalla Biennale College. Crimp nel 2021 ha tenuto un laboratorio sulla pratica della riscrittura del mito greco e latino come meccanismo di indagine della contemporaneità a partire dalla lettura delle Metamorfosi ovidiane, Crouch nel 2024 ha lavorato invece sul concetto di costruzione della co-autorialità dello spettatore e sulla necessità di tenere uno sguardo sempre in parte rivolto alla platea nell’atto creativo. Inoltre, è stato ospitato all’interno della programmazione un lavoro di Crouch del 2022, Truth’s a Dog Must to Kennel, incentrato su alcune questioni particolarmente significative della sua produzione: la rilettura radicale di Shakespeare, il dialogo sempre vivo con il pubblico mai posto in una condizione di passività, e il potere trasformativo e immaginifico dell’arte teatrale. 

Non è, però, la prima volta che i loro nomi compaiono nel programma della Biennale Teatro: le riscritture shakespeariane di Tim Crouch erano state messe in scena da Fabrizio Arcuri nel 2013; Martin Crimp invece, nel 2016, aveva curato un workshop di drammaturgia ed era stato protagonista di uno dei numerosi incontri tenutisi con gli artisti presenti al Festival. Un felice tentativo di riempimento di questo vuoto, anche se restano sparse e sporadiche le apparizioni dei due drammaturghi britannici sul territorio italiano.

Truth’s a Dog Must to Kennel – Tim Crouch. Photo courtesy of Biennale di Venezia

Eppure, il loro lavoro potrebbe essere un utile stimolo per la produzione drammaturgica contemporanea nostrana – scarsamente diffusa nelle sale teatrali del nostro Paese – proprio per la sua radicale tensione alla ridefinizione del ruolo del testo e della sua conformazione (un fenomeno inquadrabile come «new writing», per utilizzare le parole del giornalista e critico teatrale britannico Aleks Sierz), sempre fortemente legato a una lettura del tempo presente spesso visto come critico e conflittuale, e per la costante creazione di un ponte dialogico – più o meno esplicito – con il pubblico, mai dimenticato nella fase di ideazione – ma anche di esecuzione –, oggetto diretto di una continua sollecitazione all’abbandono di una posizione passiva nell’atto della fruizione. E questo legame con la realtà e la sua problematica complessità si riflette nelle parole stesse di Martin Crimp, riportate da Sierz nel suo libro The theatre of Martin Crimp: «Come può affrontare ciò il teatro? Ricordandoci costantemente che le esistenze umane sono più contraddittorie e strane di quanto ogni ideologo/a possa mai immaginare».

Per il drammaturgo inglese nato a Dartford è, difatti, impossibile concepire e comporre un testo teatrale slegato dalla vita contemporanea. Il ritratto del tempo attuale che ne deriva, però, non porta in sé nessun aspetto conciliatorio: soggetti e contenuti della sua produzione ritraggono una realtà inquietante, destabilizzante. Una delle note dell’autore che precedono il testo di Attempts on Her Life, nascondendosi dietro l’indicazione di una corrispondenza voce-attore, racconta fin da subito l’ampiezza e la complessità che lo sguardo di Crimp getta sul reale: «Questo testo si adatta a una compagnia di attori la cui composizione dovrebbe riflettere la composizione del mondo al di là del teatro». La comunità ritratta si mostra nel suo essere abbagliata da ingannevoli apparenze, sempre più indirizzata verso il declino morale, incentrata esclusivamente sull’utile personale, basata su rapporti disumani che portano all’affioramento della violenza, alla sua diffusione e radicamento. L’intento di Martin Crimp non si identifica affatto con la volontà di proporre uno spettacolo piacevole, semplice e di intrattenimento: al contrario, centrale risulta il desiderio di incentivare e spronare il pubblico all’autoanalisi e alla conseguente autocritica. Proprio per questo, bersaglio inequivocabile della critica mossa è giustappunto il pubblico inglese, obbligato a doversi confrontare con la sua immagine speculare presente in scena. Il drammaturgo non vuole tuttavia imporre una visione moralizzante sulle sagome da lui ritratte: la riflessione è lasciata allo spettatore, non viene prescritta dall’autore.

Meno contrastiva, ma ugualmente sfidante, è la postura dialogica di Tim Crouch rispetto alla platea, artefice e non solo fruitrice del processo teatrale. Questa disposizione nasce anche dalla diversa formazione dei due autori: Crouch è prima di tutto un attore, ed è proprio il desiderio di poter incarnare lui stesso una parola realmente capace di trasformare, anche solo per un momento, lo spazio condiviso della sala, a spingerlo alla scrittura. Al frammento, alla composizione per quadri legati da forme di intertestualità e di richiami interni ideati da Crimp, Tim Crouch sostituisce una costruzione testuale che, seppure in parte segmentata, trova unità nella voce dell’io narrante che incarna ed esplicita – grazie alla necessaria complicità del pubblico – il valore metaforico del teatro e dell’arte più in generale, come accade per esempio in An Oak Tree (2005). In questa drammaturgia l’attore e autore britannico lavora sulla creazione di una materia immaginifica che contrasta con la percezione dei sensi umani: il confine tra realtà e finzione ne risulta sfumato, ma non per indebolirlo o confonderlo, ma piuttosto per creare una stratificazione, una moltiplicazione delle capacità di comprensione di ciò che ci circonda, che si attua quando, nonostante lo scetticismo, scegliamo di credere nel valore trasformativo del teatro. 

E anche da questo punto di vista, le traiettorie artistiche di Crimp e Crouch tornano a intersecarsi: grazie alle drammaturgie di entrambi il pubblico assiste – e attiva con la sua sola presenza – questo processo di svelamento del reale e dei meccanismi attraverso cui l’arte cerca di afferrarlo, e di darne una lettura. Alla platea quindi non resta che colmare i vuoti delle strutture testuali proposte dai due autori inglese: allo spettatore il compito di mettere insieme i numerosi volti che compongono Anne/Annie/Annuska di Attempts on Her Life e riportarla a unità, allo spettatore la possibilità di scorgere l’immagine di una figlia deceduta sovrapposta a quella di una sedia vuota, o il sostituire un bicchiere d’acqua posto su una mensola con una quercia (My Arm); esercitando così un tentativo di ricomposizione attraverso lo sguardo.

La bellezza ha sé stessa come argomento. Intervista ad Alejandro Tantanian, autore dell’adattamento di “Ho paura torero”

La bellezza ha sé stessa come argomento. Intervista ad Alejandro Tantanian, autore dell’adattamento di “Ho paura torero”

Il Piccolo Teatro di Milano ha inaugurato il 2024 con Ho paura torero al Teatro Grassi, prima regia firmata da Claudio Longhi nelle vesti di nuovo direttore artistico del teatro. Longhi sceglie di adattare l’omonimo romanzo del poeta cileno Pedro Lemebel, trasposto per la messa in scena da Alejandro Tantanian e Lino Guanciale nel ruolo di attore e drammaturgo. Ambientato durante il fallito attentato del 1986 contro il governo militare di Pinochet, lo spettacolo esplora l’intreccio amoroso tra un anziano travestito e un giovane appartenente al Fronte di Liberazione Manuel Rodriguez. Per discutere ulteriormente di questo lavoro, parleremo con l’autore, regista e drammaturgo argentino Alejandro Tantanian.

Prima di addentrarsi nel lavoro di trasposizione del testo di Lemebel che ti ha visto protagonista, vorrei chiederti, com’è nata la collaborazione con Claudio Longhi, Lino Guanciale e il Piccolo teatro di Milano?

Ho incontrato Claudio nel 2016 in Europa, a Caen, introdotto da un collega, Manu Ansaldo. Mi aveva parlato di Claudio dicendo che sarebbe stato bello incontrarci perché saremmo diventati buoni amici. Claudio in quegli anni stava per essere nominato direttore artistico di ERT Emilia Romagna Teatro, mentre io, nel 2017, iniziavo la mia esperienza di direzione del Teatro Cervantes – Teatro Nacional Argentino.

Cercavamo di sviluppare alcuni progetti ma alla fine non riuscivamo ad andare avanti. Però ci siamo tenuti in contatto, così nel 2018 lui mi ha invitato al congresso Teatri abitatori di città a Bologna, organizzato da ERT; lì ho presentato un progetto del Teatro Cervantes, un lavoro molto intenso sul teatro latino-americano.

In quell’occasione ho incontrato Lino Guanciale, ma di lì a poco è arrivato il Covid mentre Claudio stava cercando di sviluppare uno spettacolo basato su due storie brevi di Alfred Döblin per cui mi aveva chiesto di collaborare. Così abbiamo iniziato a lavorare insieme; ne è venuto fuori uno spettacolo dal titolo Il peso del mondo delle cose, performance poi diretta da Claudio e messa in scena dopo la prima apertura. 

In quella fase questo lavoro fu molto importante, avevamo paura che il teatro non ripartisse più per davvero. Io ero qui in Argentina, loro erano lì in Italia, ma avevamo costruito una sorta di famiglia, perché io scrivevo le parole che loro stavano mettendo in scena, mi mandavano alcuni video, e tutto era molto emozionante, molto affascinante, specie in un momento così delicato per il teatro.

Dopo ciò Claudio mi ha invitato nel 2021 per organizzare un laboratorio, così ho realizzato un workshop per tre mesi (a distanza), e questa è stata la mia prima esperienza con Claudio al Piccolo. Discutevamo sul fare qualcosa insieme, così all’improvviso mi ha raccontato, credo fosse all’inizio di marzo o aprile dell’anno scorso, che stavano preparando con Lino Guanciale una versione teatrale di Ho paura torero di Pedro Lemebel, che è un autore che conosco bene e amo moltissimo. 

Alejandro Tantanian

Com’è stato lavorare su questo testo e quali scelte ti sei trovato a dover fare per restituire in azione scenica la parola scritta del romanzo? In che modo avete organizzato il lavoro con Lino Guanciale? 

Abbiamo sviluppato il lavoro in due o tre mesi partendo da una prima versione a cui si è aggiunta una seconda e ancora una terza, per arrivare poi alla versione “finale” che, ovviamente, è stata rimaneggiata durante il periodo di prove. Lino, naturalmente, come drammaturgo, ha fatto molte modifiche sul testo, mentre io mi sono occupato della trasposizione teatrale del romanzo. 
L’idea è stata di costruire un testo che rispettasse al 100% il romanzo, senza aggiungere una sola parola che non fosse già presente in Lemebel. Lavoravo con due versioni, la versione cilena e, ovviamente, la traduzione italiana nella versione di Giuseppe Mainolfi.

Cercavamo di mantenere tutto il possibile e rimanere fedeli al testo, perché in Ho paura torero, a parte la storia che è molto affascinante, lo stile e la lingua sono elementi molto forti.
Mi convinceva molto l’idea di mantenere le parole del romanzo per la versione teatrale, e non di ricostruire i dialoghi. In questo senso abbiamo lavorato ispirandoci a Frank Castorf, o anche a Luca Ronconi nel lavoro fatto sul Pasticciaccio di Gadda

Quindi alla base c’è stata la forte intenzione di mantenere i pensieri, il modo di pensare, il modo di raccontare di Lemebel. 

Sì, per esempio anche l’uso nel romanzo della prima piuttosto che della terza persona è davvero molto interessante, perché a teatro dà, attraverso l’attore, un punto di vista ora soggettivo, ora oggettivo, come uno sguardo che cambia punto d’osservazione.
Posso essere parte della cosa, e posso anche vedere la cosa da fuori. E non è solo un esercizio per gli attori, ma è anche un esercizio per il pubblico. 

Michele Dell’Utri ha sottolineato come ognuno degli attori non stesse mettendo in scena solo il personaggio, ma anche la città di Santiago, come se ci fosse una strana connessione tra ogni personaggio e la città. È presente questo tipo di operazione nel testo di Lemebel? 

Santiago è chiaramente uno dei principali personaggi del romanzo. Ci sono la Fata dell’angolo, Carlos, Pinochet e sua moglie, e poi c’è la città di Santiago, che è un personaggio molto presente. Tutto ciò che i personaggi guardano attraverso le finestre delle loro case, del bus, è la città.
La decisione stessa di mantenere il testo com’era, è anche quella di mantenere Santiago come ulteriore personaggio; ciò è molto difficile da rappresentare nello spazio teatrale, costruire una città in scena non è lo stesso di dare vita ad un corpo. Ma attraverso il testo penso che Lemebel sia riuscito a tenere la città lì con te. 

Anche quando i personaggi accendono la radio e ascoltano le notizie, come ad esempio nella sequenza in cui è descritto il luogo dell’attentato, il pubblico acquista la capacità di muoversi e di partecipare attivamente allo spettacolo reimmaginando la città

La radio d’altronde è anch’essa un altro personaggio specifico, non è solo un oggetto. Ha questa strana funzione intermedia tra la storia privata di Carlos e della Fata e gli eventi che si svolgono all’esterno, in città, come un nesso che tiene insieme le due sfere del pubblico e del privato. 

Ciò si spiega a partire dal fatto che è lo stesso romanzo ad alimentare il nesso tra privato e pubblico. La possibilità dell’incontro tra la Fata dell’angolo e Carlos è di per sé una relazione privata, è qualcosa che succede all’interno di una casa, ma questa relazione provocherà un determinato tipo di riflessione e di cambiamento nella realtà, nella vita pubblica della città. 
Questo vale anche in riferimento alla scena finale in spiaggia, che è uno spazio molto privato e pubblico allo stesso tempo. Carlos e la Fata sono insieme in un momento molto intimo ma di contro la scena si consuma in uno spazio aperto. Questa capacità di mescolare il pubblico e il privato è un elemento molto importante anche in Lemebel. 

Il romanzo di Lemebel, così come l’adattamento, intrattiene una forte relazione non solo con la città di Santiago, ma anche con il clima del golpe fallito del 1986. Quali sono le difficoltà nel mettere in scena un testo così strettamente collegato con l’atmosfera politica e sociale di quel momento? Quali sono le opportunità di portare questo testo in Italia, che ha vissuto una storia di dittatura, e in una città come Milano, che ha svolto un ruolo importante nella Resistenza. 

La storia di ogni paese, almeno nella società occidentali presenta qualche somiglianza. Voi oggi avete un governo di estrema destra in Italia, e anche noi siamo governati da un’ala piuttosto bizzarra di estrema destra qui in Argentina, che ha la stessa linea politica che c’era durante gli anni del governo militare (in Argentina), naturalmente in altri modi, ma da un punto di vista economico e sociale stanno di fatto portando avanti la stessa linea.
Ovviamente non stanno uccidendo le persone – fino ad ora – e non fanno scomparire le persone come hanno fatto allora. 

Penso però che politicamente il romanzo di Lemebel non parli solo attraverso Pinochet e la dittatura, né racconti unicamente il fallito golpe del 1986, ma credo tratti in primo luogo di un amore molto “strano” – strano naturalmente secondo l’idea di giusto, di sbagliato e di strano che hanno quei governi. 
Ho avuto la possibilità di assistere all’ultima replica di Ho paura torero lo scorso 11 febbraio ed è stato davvero emozionante, prima di tutto essere al Piccolo – perché non ero mai stato al Piccolo a vedere uno spettacolo e nella mia educazione Strehler era quasi un dio.

Quando avevo 18 o 17 anni cercavo le VHS per guardare La tempesta o Re Lear con Tino Carraro e avevo un libro con tutte le interviste di Strehler, quindi entrare in quel teatro per me è stato uno dei momenti più affascinanti, quasi un momento sacro, perché so com’era quel posto prima del lavoro di Grassi e Strehler e come hanno trasformato quel luogo pieno di terrore in un luogo di resistenza e di costruzione di ricordi per le persone, e penso che con Claudio sia tornata quella energia, perché il Piccolo è lì per questo, per mantenere la fiamma della libertà, del pensiero libero, per un’idea di teatro del popolo. 

Ed è stato davvero affascinante vedere tutto il pubblico in lacrime per questo specifico strano amore. Vedere un pubblico borghese capire e piangere per l’amore che lega un vecchio travestito ad un ragazzo giovane: è ciò che ti fa dire di poter ancora credere nella forza dell’arte, almeno per dieci secondi.
Poi magari usciranno da lì e ricominceranno a dire “a morte i froci”, ma in quei dieci secondi si apre la possibilità di aprire le menti e costruire una coscienza, e penso che per me questo sia il modo più affascinante di fare Lemebel. Perché al di là delle rivendicazioni politiche questo testo è una specie di canzone per la libertà, per una libertà che stiamo perdendo giorno dopo giorno. 

Quindi storie come quella di Lemebel danno al pubblico la possibilità di un orizzonte, danno alle persone la possibilità di speranza e la possibilità di redenzione, e questo è qualcosa che oltrepassa qualunque confine. Oltre l’essere cileno, argentino, italiano, è piuttosto l’essere umani in questo mondo, in questi giorni.
Per me questa è la cosa più commovente, e nella produzione di Claudio Longhi e Lino Guanciale, e di tutti gli artisti che sono stati coinvolti, questo è fortemente presente. Lo spettacolo è felice, è pieno di vita, è una pièce vitale, piena di libertà, di umanità, di sensibilità sociale, qualcosa che stiamo perdendo. 

Ho paura torero
© Masiar Pasquali

Il personaggio della Fata si fa carico di questa vitalità. È un personaggio che sa comprendere e perdonare, anche quando viene usato. In altri momenti capisce quando deve dire no o combattere, ma in tutti questi momenti c’è un forte senso di amore per l’altro e per sé stesso. 

Alla fine dello spettacolo tutti noi pensavamo che avrebbe accettato l’invito di Carlos e sarebbe fuggito a Cuba con lui. Ma quando nel leggere il testo scopri che rinuncia a partire capisci che era esattamente così che doveva finire, perché sta dimostrando un’altra volta cosa significhi amare. La Fata dell’angolo sa di dovere lasciare Carlos libero e lo fa. E questa è la più grande forma di amore. 

Tutti piangevano anche a teatro durante quella scena, e per me è sempre un momento toccante anche il modo in cui è affrontato il tema della bellezza. Ciò che la Fata amava in Carlos era la giovinezza, e lei sta diventando vecchia, e la giovinezza è una forma di paradiso per lei, anche nella sola possibilità di stare lì ad ammirarla. 

È lo stesso ne La morte a Venezia di Thomas Mann quando Aschenbach è in riva al mare, pieno di trucco e fa molto caldo, e il trucco cola giù mentre lui sta guardando Tadzio nel mare, e puntando al sole con lo sguardo, muore, continuando a guardare. La bellezza ha sé stessa come argomento. Se puoi toccarla è perfetta, ma se puoi condividerla è ancora più perfetta.
Ma anche il solo vederla è fondamentale: quando la Fata si lancia in quelle descrizioni su come appaiono il corpo, la faccia, il sesso di Carlos, c’è sempre e solo bellezza, non è mai osceno né sgradevole. 

E per me quella scena in spiaggia in cui la Fata dice no, è come Aschenbach che, morendo, lascia la bellezza libera per gli altri. E anche un modo di capire il limite, di capire il miracolo, perché in un primo momento si ha l’impressione che Carlos si stia approfittando della Fata, ma poi anche lui se ne innamora, non di un amore propriamente fisico.
Nel romanzo anche questo confine tra passione e amore è meravigliosamente descritto: il momento in cui la passione è amore, il momento in cui l’amore non ha passione, e quindi si carica di un altro senso di umanità. 

E penso che Lemebel non abbia avuto bisogno di scrivere altri romanzi perché ha scritto sì un testo molto breve ma al tempo stesso davvero incredibile, così chiaro, così facile, così comprensibile per tutti, e questa emozione, tutte queste emozioni, sono presenti nel lavoro di Claudio Longhi, anche perché Lino Guanciale ha fatto un lavoro straordinario.
È stata davvero un’ottima decisione che quel personaggio (la Fata dell’angolo) fosse interpretato da Lino, che è un attore molto popolare, bellissimo, che tutti amano, ma è anche molto intelligente nel catturare l’essenza del personaggio, ha colto tutti gli aspetti ed è diventato Fata dell’angolo restituendo al pubblico un personaggio con un cuore aperto, e questo non è così comune da vedere. 

Per queste ragioni lo spettacolo è davvero toccante, e hanno fatto qualcosa di molto buono nella maniera in cui hanno preparato il pubblico attraverso tutto un ciclo di letture, conversazioni con la troupe, conferenze; penso che ogni teatro dovrebbe organizzare eventi in tutta la città, non solo nel centro, ma soprattutto nelle periferie, per portare la notizia e chiamare le persone, e se non vengono, io, noi dobbiamo andare. E lo hanno fatto mettendo in scena uno spettacolo accessibile a tutti ma di alto livello, che richiedeva intelligenza e sensibilità, e questo non è comune, perché è una performance molto esigente nei confronti del pubblico. 
Pensare per altro che Lemebel parlava di travestiti e omosessuali, durante gli anni di Pinochet, fa capire quanto fosse coraggioso e forte. C’è un bellissimo documentario di Joanna Reposi Garibaldi (Lemebel, 2019) sugli ultimi dieci anni di vita di Lemebel, lo consiglio sempre perché è davvero stupendo.