Violenza e scena. Funzioni, immagini, traiettorie

Violenza e scena. Funzioni, immagini, traiettorie

Di Mila Di Giulio e Ornella Rosato

La tematizzazione della violenza non è un’estranea della scena. Al fronte però di questa conformazione fluida e organica della contemporaneità teatrale, la domanda che abbiamo posto agli autori e alle autrici di Violenza e scena. Funzioni, immagini, traiettorie, il nuovo numero de «Lo Scandaglio» è stata: Come continuare interrogarsi sulla violenza in scena?

Ad aprire il discorso è l’editoriale di Michele Altamura, in La ferocia in scena: tre istantanee, un dispositivo visivo fatto di frammenti che raccontano le modalità con cui si manifesta la violenza quotidiana, espressa attraverso diversi canali mediatici, entra nel processo di creazione scenica, facendo emergere quel processo invisibile ma ingombrante che ha a che fare con l’immagine-cristallo di Gilles Deleuze, di cui parla Flavia Dalila D’amico in Un pettirosso addenta un verme. Se la violenza è fuori scena, approfondendo i mutamenti nei processi di agnizione della violenza, attraversando tre lavori: Go Figure di Sharon Fridman, Necropolis di Arkadi Zaides e Sottobosco di Chiara Bersani che fotografano una realtà, rivelandone le contraddizioni senza risolverle. Questa fotografia della realtà, analizza Lucrezia Ercolani in Lo spettacolo contro lo spettacolo. Su ULTRAFICCIÓN di El Conde de Torrefiel, può assumere forme latenti, come nel caso del celebre spettacolo di El Conde de Torrefiel, che svela la violenza latente, ovvero quella nascosta nei processi sociali, una visione, quella di Tanya Beyeler e Pablo Gisbert, che spinge oltre la richiesta nei confronti dello spettatore: non puntando alla censura, ma alla presa di coscienza dello spettatore attraverso un’assenza strategica della rappresentazione diretta della violenza.
Quali sono dunque le prospettive evolutive del ruolo della violenza a teatro? 

Eliana Rotella nel suo Your Body is a Battleground? allarga il campo e si interroga sulla contestualizzazione: se la prima di Blasted di Sarah Kane nel 1995 si collocava in un contesto che si prestava a un’interpretazione quasi univoca del ruolo delle azioni violente, la risposta, con il ruolo ritrovato di buonismo, censura, vergogna, cura, trasformazione, perbenismo intrinseco, sposta il focus e confonde le acque. Nella confusione degli elementi uno spazio da protagonista è rivestito dalla categoria dell’imperscrutabile, le leggi incomprensibili del destino, evocate dall’intervista a Emiliano Bronzino di Lorenzo De Benedictis, che approfondisce la specificità dello spazio del Teatro Greco di Siracusa, come luogo privilegiato per l’evocazione dello spettro della ritualità, che permette di portare alla luce i nodi primigeni della tragedia.

L’imperscrutabile, l’incomprensibile diventa anche Uneimlich, non familiare in Per una domestica della violenza: Medea’s children di Milo Rau, che attraverso il racconto di Medea’s Children di Milo Rau testimonia un esperimento di scardinare i rituali tragici di relegare la violenza alla narrazione, mettendo in scena l’omicidio di Medea, riflettendo sul sentimento di disagio che un meccanismo di questo stampo innesca nello spettatore. Un disagio che ha a che fare con la presa di responsabilità di cui parla Sabrina Fasanella in Dentro al dolore degli altri. Cosa chiediamo al teatro? che, citando esempi come Fotofinish di Antonio Rezza e le testimonianze della reporter di guerra Francesca Mannocchi, apre interrogativi divisivi sulla familiarizzazione con lo shock, riflettendo sul posizionamento di limiti all’interno di questo discorso.

Una prima risposta potrebbe riguardare il rapporto fra identità e appartenenza, che è al centro del contributo di Chiara Molinari, Il pronome personale è importante. Collettività e violenza in Wonder Woman e Zorro di Antonio Latella e Federico Bellini, che analizzando i due recenti spettacoli di Antonio Latella evidenzia la centralità di questo binomio nell’attitudine attraverso cui il regista guarda a due urgenze del quotidiano come la violenza di genere e la sperequazione sociale. A chiudere l’indagine sulla problematizzazione della violenza è la recensione di Nicolas Toselli della raccolta Questo corpo è un uomo. Quaderni Tra il 1945 e il 1948 di Antonin Artaud, a cura di Lucia Amara per Neri Pozza, che pone l’attenzione sulla coscienza della corporeità, epicentro della riflessione artaudiana durante gli anni nella clinica d’Ivry, alla ricerca di una forma che comprendesse il corpo e la ferita.

Come continuare interrogarsi sulla violenza in scena?, dunque. Violenza e scena. Funzioni, immagini, traiettorie, replica al quesito, moltiplica domande, analizza modelli. Talvolta per annientarli e ricostruirli.

Dentro al dolore degli altri. Cosa chiediamo al teatro?

Dentro al dolore degli altri. Cosa chiediamo al teatro?

Di Sabrina Fasanella
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.

Un orrore inventato può essere davvero insostenibile
S. Sontag

L’epoca in cui viviamo è permeata dalla violenza, nelle sue declinazioni più varie e sempre più estreme. Usciti a stento dal Novecento – secolo della biopolitica, dell’atomica, della morte come progetto, ma anche della fine degli ostacoli al capitalismo, del progresso e della relativa, subdola violenza – raccogliamo i pezzi, mentre eventi (civili, militari, climatici) di portata sempre più ingestibile ci costringono a una presa di coscienza traumatica. La consapevolezza di essere, come specie, su di un treno in corsa sempre più vicino allo schianto è il rumore di fondo del nostro tempo, sempre coperto dall’illusione di benessere e onnipotenza, almeno in questa parte di mondo privilegiata da cui osserviamo e possiamo concederci il lusso dell’interpretazione.

In un saggio di recente pubblicazione intitolato Introduzione alla Realtà (Timeo, 2024), Edoardo Camurri cita il concetto di Thauma in Aristotele: «è una parola che Aristotele pone come l’esperienza fondamentale da cui si origina la filosofia, cioè il bisogno di comprendere criticamente la Realtà. (…) Ci troviamo dinanzi a qualcosa che ci resiste, anzi siamo messi spalle al muro di fronte alla resistenza assoluta, visto che Thauma, il termine utilizzato da Aristotele, è come prima cosa un subire, un patire l’esperienza stessa di essere vivi. Thauma è un angosciante stupore, un terrore, un orrore provato dinanzi a un mistero tremendo e affascinante. Verrebbe da dire che è un patire la meraviglia». La conoscenza stessa è violenza; è violento esistere. 
Un presente come il nostro, tempo accelerato di estremi, di shock perpetrati, di escalation continue amplifica a livelli massimi quel patimento che è parte dell’esperienza umana tout court.

Ciò che forse caratterizza principalmente il nostro tempo è l’inevitabilità della fruizione di questa violenza: siamo immersi in una tempesta mediatica che ci espone senza possibilità di scelta, senza deliberata volontà e dunque senza assunzione di responsabilità (tanto da parte di chi produce i contenuti quanto da parte di chi li fruisce) a un flusso ininterrotto di immagini, rappresentazioni spesso disintermediate della realtà – la cui definizione è sempre più inafferrabile. L’effetto è lo smarrimento, l’accumulazione, nel peggiore dei casi l’anestetizzazione.

Lo scoppio della guerra in Ucraina e l’assedio di Gaza ne sono esempio lampante: tutti abbiamo assistito, dapprima con voracità, poi con involontaria assuefazione, al fiume di immagini spietate provenienti da Bucha o da Gaza: ci hanno raggiunto sui nostri social, occupando spazi nati per altri scopi, abbattendo le barriere tra intrattenimento e cronaca, confondendosi con i contenuti commerciali o quelli dei nostri parenti e amici, assottigliando come forse mai prima i confini tra realtà e relativa rappresentazione. Nel caso di Gaza, le immagini disintermediate provenienti direttamente dai luoghi dell’orrore sono state in molti casi le uniche immagini possibili, essendo quei territori interdetti alla stampa internazionale.
Interrogarsi dunque sulla violenza come oggetto di rappresentazione, di costruzione drammaturgica e performativa, non può prescindere da una riflessione su chi siamo, in cosa siamo immersi, da cosa proveniamo noi spettatori quando ci sediamo in platea.

In una recente intervista rilasciata a Irene Graziosi, la giornalista e reporter di guerra Francesca Mannocchi, raccontando il proprio lavoro dai teatri di guerra degli ultimi anni, solleva una questione cruciale: l’assunzione di responsabilità rispetto alle scelte che il professionista dell’informazione compie nel suo lavoro di mediazione tra la realtà e la testimonianza. Dove finiscono quelle immagini? A chi arrivano quelle informazioni e con quale effetto? Quanta guerra, quanta morte mostrare è la domanda che si pone prima ancora di pensare alla costruzione narrativa. 

«È una domanda che ci poniamo da questa parte del mondo, perché la guerra è questo: sono i corpi carbonizzati che trovi girando l’angolo, il cadavere di un civile che trovi per caso in una casa diventata base militare, morto di stenti, i corpi ancora non trascinati via per le strade di Bucha appena liberata, le fosse comuni. Penso che lo spettatore non vada risparmiato. Noi dobbiamo avere pudore nel mostrare quelle immagini, ma tra la pornografia del dolore e il dovere di testimonianza ci sono vari gradi di separazione. (…) Volevo che le immagini di questo film (Lirica Ucraina, il suo ultimo documentario ndr) fossero feroci come lo è la guerra (…). Volevo che alla fine di questo racconto lo spettatore e la spettatrice si alzassero dicendo “ho fatto esperienza della guerra”».

Ma se ci sediamo in una platea di un teatro, se decidiamo attivamente di vivere quell’esperienza mediata dall’arte, cosa cerchiamo? Quale sentimento speriamo di provare? A dicembre del 2023 Antonio Rezza riporta sul palcoscenico del teatro Vascello di Roma alcuni lavori del suo repertorio, tra cui il ventennale Fotofinish. Il clima in quella platea variegata ed eterogenea è di grande favore verso l’artista romano la cui cifra drammaturgica prima che performativa e fisica è di per sé un’indagine violenta della violenza stessa del reale, con la sferzante forza di un’ironia caustica e unica. Come scrive Simone Nebbia: «(…) il Minotauro, a guardia del Cerchio dei Violenti, che si morde a vederli, la sua violenza non ha pace e su di sé sfoga tutta l’ira che asciuga la sua forza. In questo girone dell’istinto irrazionale stanno i violenti, contro il prossimo e contro sé stessi, qui sono coloro che non hanno il freno della ragione e vivono l’esplosione espressiva che tutto, sé compreso, coinvolge. In questo girone è concepito il teatro di Antonio Rezza e Flavia Mastrella».

Se il gioco scenico di Rezza è tutto orientato allo spettatore e a riprodurre, per decostruirli, i meccanismi violenti del mondo, lo spettatore specie in quell’occasione sembrava cercare quella provocazione, godendo con sottile masochismo di quella manipolazione che lo ha fatto prelevare con la forza dal suo posto e ritrovare riverso sul palco alla mercé del mattatore. Eppure proprio in quell’occasione si parlò di molestie: un gruppo di spettatrici più giovani, con una sensibilità diversa, raccontarono sulla rivista under25 Generazione quel momento dello spettacolo, denunciandone la spregiudicatezza, in qualche modo l’abuso di potere, il superamento dei limiti della sfera di intimità considerati accettabili da quella generazione. Al di là dell’interessante questione sollevata riguardo la censura e i limiti della libertà espressiva di un artista, che hanno trovato spazio in un ampio dibattito sulle pagine di diverse riviste, colpisce la spaccatura della platea. Per qualcuno, la provocazione di Rezza supera il limite di ciò che oggi (a differenza di vent’anni fa, quando lo spettacolo ha debuttato)  è socialmente consentito. Per qualcun altro, forse proprio la precarietà in cui si ritrova mettendosi “nelle mani” di Rezza è il motivo per cui sceglie di andare a teatro. 

In ogni caso, l’esperienza dell’arte performativa è fatta di presenza, di per sé antidoto a quella passività in cui Susan Sontag riconosce l’origine dell’assuefazione alla violenza cui ci costringe lo stress mediatico contemporaneo. «La gente non si assuefà a quello che le viene mostrato – se così si può descrivere ciò che accade – a causa della quantità di immagini da cui è sommersa. Ѐ la passività che ottunde i sentimenti». (S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Ed. Nottetempo 2003).

Lo scoglio filosofico con cui si scontra l’idea stessa di messa in scena della violenza è l’inevitabile rischio di estetizzazione della stessa, che in alcuni casi può porre problematiche dal punto di vista etico e retorico. La recente messa in scena di Giorgina Pi dell’ultimo lavoro di Bernard Marie Koltès, Roberto Zucco, parabola emblematica della violenza, soffriva di tale involontaria tendenza all’estetizzazione: l’uso della luce e del colore, richiamando un immaginario effettivamente contemporaneo alla vicenda, strizzava l’occhio ad un’estetica glamour che ha finito per chiudere in una bella scatola vintage la vicenda, depotenziandone il racconto simbolico del presente.

Aggiunge lucidamente Sontag, nelle stesse pagine citate, riferendosi alla fotografia ma descrivendo uno spaccato ancora profondamente attuale: «L’attività fotografica è governata da una caccia alle immagini più drammatiche (così spesso le si definisce) che è del tutto normale in una cultura in cui lo shock è divenuto uno dei più importanti criteri di valore e incentivi al consumo. “La bellezza sarà convulsa, o non sarà”, proclamava André Breton, definendo “surrealista” questo ideale estetico. Ma in una cultura radicalmente riorganizzata dai valori del mercato, la pretesa che le immagini siano stridenti, clamorose e rivelatrici appare più che altro un segno di elementare realismo e di fiuto per gli affari. Come attirare altrimenti l’attenzione sul proprio prodotto o sulla propria arte? Come lasciare altrimenti un’impronta, quando si è costantemente esposti alle immagini e sovraesposti a una manciata di immagini viste e riviste di continuo?».

Queste parole, scritte all’indomani dell’attentato dell’11 settembre 2001, uno degli eventi contemporanei più visivamente impressi nella memoria collettiva, risuonano come monito più che mai attuale anche in un discorso esplicitamente artistico, nella misura in cui non è possibile considerare il sistema in cui agisce l’arte performativa avulso dalle leggi del mercato. Anche l’arte è inevitabilmente un prodotto, soggetto ai condizionamenti e alle oscillazioni del sistema capitalistico. 

Il paradosso che potrebbe riscontrarsi nello spettatore, accanto all’assuefazione con cui siamo portati ad elaborare l’altrimenti insostenibile quantità di sollecitazioni provenienti dalla realtà («lo shock può diventare familiare, lo shock può esaurirsi», dice Sontag), è una dipendenza da questa violenza: una ricerca esasperata dell’esperienza della violenza in un contesto “protetto” come quello dell’arte, sublimato dalla bellezza. Per esorcizzarla, o forse anche per quel sottile inconfessabile piacere voyeristico che inevitabilmente proviamo davanti al raccapricciante. E forse anche molto al di là del concetto classico di catarsi.

Francesca Mannocchi parlando del rapporto tra lettore/spettatore e cronista, dice che «deve diventare un luogo di conflitto. (…) Sempre più la riflessione su come scrivere e per chi scrivere agisce sul lavoro che facciamo: il rapporto tra scrittore e lettore, regista e spettatore, deve essere un rapporto di grande reciprocità: come diceva Roland Barthes, un rapporto negoziale. Di cosa hai bisogno? Cosa chiedi alla mia testimonianza? Non è consegnare un pezzo di verità, è testimoniare un pezzo di realtà per qualcuno che deve farsene qualcosa. Quella realtà deve diventare pubblica opinione e quindi cittadinanza attiva, altrimenti non serve a niente».

Sono le stesse domande che animano questa e molte altre riflessioni sull’arte performativa: cosa chiede lo spettatore, oggi, al teatro? Di cosa ha bisogno? E ancora: perché sceglie l’esperienza teatrale nella sua intrinseca violenza? Dove può o deve riportarci l’esperienza artistica? Più che “davanti“ al dolore degli altri, abbiamo più che mai bisogno di chiedere all’arte di portarci dentro al dolore degli altri. O per meglio dire, dentro al nostro, attraverso quello dell’altro. L’esperienza artistica così diventa l’elevazione all’ennesima potenza dell’esistenza stessa: patire la meraviglia con un’intensità più alta del consueto, che proteggendo la nostra umanità, ci permetta di sentire e comprendere il presente e il nostro rapporto con esso. 

Per una domestica della violenza: Medea’s children di Milo Rau

Per una domestica della violenza: Medea’s children di Milo Rau

Di Mila di Giulio
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.

Quando un giorno avrò dei bambini, li lascerò crescere come le erbacce del nostro giardino. Nessuno se ne occupa e crescono alte e fitte così, le rose, invece, attaccate ai loro sostegni nelle aiuole, fioriscono ogni estate più striminzite.
F. Wedekind, Risveglio di primavera

Medea’s Children di Milo Rau, debuttato alla Biennale Teatro di Venezia 2024, presenta un meccanismo drammaturgico ormai distintivo del regista belga: l’intreccio tra la tragedia classica e una vicenda contemporanea nota e riconoscibile per il pubblico, creando un sistema di comprensione progressiva dell’urgenza contemporanea dei nodi tragici. La storia è quella di Geneviève Lhermitte, che nel 2007 uccise i suoi cinque figli durante un viaggio di lavoro del marito.
Come in Five Easy Pieces e Family, protagonisti dello spettacolo sono attori bambini che portano in scena una violenza radicale, stridente con l’infanzia, ma che trova la sua ragion d’essere proprio grazie al veicolo specifico dei suoi interpreti.

Il centro tematico dello spettacolo ruota attorno all’educazione alla presenza: come dare spazio a chi nella tragedia non c’era? E come far entrare la violenza, assente e negata, nella vita di un bambino? Lo spettacolo inizia con la discussione post-spettacolo. Peter Seynaeve, unico attore adulto sulla scena, guida la conversazione tra gli interpreti, che raccontano non solo il processo di costruzione dei loro personaggi, ma anche la loro personale visione estetica della storia e le loro idee su come inscenare un omicidio. Sebbene le voci siano tante, la linea comune è chiara: la violenza deve essere mostrata per essere capita.

Il cortocircuito dello spettacolo inizia con la messa in scena, divisa in capitoli. La storia segue la vicenda di Armandine Moreau (pseudonimo scelto per Geneviève Lhermitte), drammatizzata dai bambini, che interpretano e scardinano le gerarchie tra carnefici e vittime, fino al culmine dell’omicidio. Bernice Van Walleghem, l’attrice che interpreta Armandine, convoca uno dopo l’altro i figli dentro casa e il pubblico assiste all’omicidio dei bambini attraverso uno schermo che proietta l’atto senza censure, con un montaggio tra finzione e vera presa diretta, ricostruendo le morti con rigore realistico.

Nel 2014 il regista austriaco Ulrich Seidl realizzò il documentario Im Keller (Nello scantinato), incentrato sulla gestione del tempo libero nella cultura austriaca e sul rapporto perturbante con ciò che avviene nel proprio scantinato. Seidl riconosce questo luogo come spazio dell’identità reale, contatto con se stessi. Un meccanismo simile è stato messo in atto da Fabiana Iacozzilli ne Il grande vuoto: una telecamera segue la protagonista negli spazi della propria casa, che noi non vediamo in scena, dando l’impressione di un’invasione del privato, che diventa perturbante e trasforma la percezione dello spazio.
Gli attori, in un tempo che appare dilatato, entrano bambini ed escono corpi dalla loro casa. Il capitolo emblematicamente intitolato Killing Time apre un quesito estetico sulla violenza nella scena contemporanea: come una manifesta violenza fittizia arriva a perturbare lo spettatore? E quale è il ruolo del contesto domestico in questo processo?

Mark Fisher, in The Weird and the Eerie (Lo strano e linquietante nel mondo contemporaneo), fa riferimento alla sfera semantica della casa per definire l’Unheimlich freudiano, che, nonostante venga tradotto come perturbante, trova una collocazione migliore in unhomely (non domestico). Fisher sottolinea che ciò che perturba del domestico è un pericolo che viene dall’interno: lo strano allinterno del familiare, lo stranamente familiare, il familiare come strano. La protagonista della Medea di Milo Rau racconta una versione della storia in cui Geneviève Lhermitte arriva all’atto estremo di uccidere i suoi figli per proteggerli da una potenziale violenza da parte dell’uomo che ha abusato di suo marito da bambino. All’origine dell’omicidio c’è quindi una riscrittura unheimlich dell’amore materno, che tuttavia non destituisce la protagonista dal suo ruolo di madre. In questa impasse si situa l’inquietudine: Amandine Moreau rimane madre nonostante la violenza estrema. Nelle varie sfaccettature del familiare si annida anche la potenzialità del violento e dello strano.

Amandine, come sottolinea una delle attrici bambine, è un personaggio di cui è possibile condividere lo stato d’animo, in quanto donna che cerca di tenere insieme i pezzi della sua storia, rendendoli inamovibili. Così la violenza materna assume le tinte della malinconia cannibalica di cui parla Agamben in Stanze, la parola e il fantasma nella cultura occidentale: Cronos-Saturno che inghiotte i suoi figli per incorporarli a sé e renderli invulnerabili rispetto al futuro, cristallizzandoli in una dimensione inviolata di protezione violenta. In Vita Activa, Hannah Arendt parla del domestico in età classica come luogo del controllo, che preserva dalle insidie della vita pubblica e permette agli individui relegati all’interno di sviluppare una propria identità, ma al contempo riduce lo spazio politico. Milo Rau dedica il suo spettacolo al silenzio dei figli della Colchide, restituendo loro lo spazio politico negato dal gesto della madre.

Nell’ultimo capitolo, quasi un atto aggiunto alla tragedia, il regista compare sullo schermo nei panni di un drago colorato, che le vittime dell’omicidio appena avvenuto si apprestano a combattere, asciugandosi il sangue e entrando in azione per una programmatica uccisione del regista, riscrivendo la loro definizione di violenza.
La costruzione a ritroso dello spettacolo, iniziata con la discussione aftershow, evidenzia la natura processuale della messinscena: un percorso di conoscenza e apprendimento del significato della violenza e del ruolo che ha nella vita quotidiana, domestica, come unheimlich che nasce da dentro e non arriva da lontano.

Se l’uomo nero e il mostro sotto il letto rappresentano ciò che è fuori posto, che introduce nel familiare qualcosa che normalmente si trova fuori, Milo Rau con Medea’s Children libera l’educazione infantile dai feticci prototipici di una violenza esterna che arriva da lontano e mette in campo i fantasmi interiori, lo strano all’interno del familiare, come condizione congenita all’esistenza.

Un pettirosso addenta un verme. Se la violenza è fuori scena

Un pettirosso addenta un verme. Se la violenza è fuori scena

Di Flavia Dalila D’Amico
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena

16 Gennaio 2025, ci lascia David Lynch. Penso alla sequenza iniziale di Lost Highway (1997): una soggettiva su una strada da una macchina in corsa. I bordi sono sfumati sul nero. Non vediamo chi guida né il paesaggio attorno. La musica, I’m Deranged di David Bowie, è rassicurante, eppure c’è qualcosa di inquietante in quel piano sequenza che si scoprirà poi essere anche la scena finale del film. Proprio ciò che viene ingoiato dal buio ci punge come una minaccia. È il fuori campo a destabilizzare i nostri nervi. Stacco. Un giardino perfetto si staglia su un cielo terso, è quello di Velluto Blu (1986) dello stesso regista. Nuovamente le inquadrature di apertura e chiusura si annodano ad anello. In mezzo un susseguirsi di abusi, omicidi e atti sadomasochistici, eppure anche qui la violenza che ci colpisce risiede altrove. In quel cielo terso, nei sorrisi a ralenty, in quel  pettirosso, salutato dai due protagonisti come simbolo di speranza, che strizza nel becco un verme. A corrodere le immagini di Lynch è il sintomo di un orrore che non si vede, o al contrario, la violenza guardata come fosse una circostanza ordinaria, una monotona iterazione dell’eccesso.

17 Gennaio 2025, stanotte è stato firmato l’accordo per il cessate il fuoco sulla striscia di Gaza, dopo 468 giorni di genocidio (si può dire?) del popolo palestinese. 468 giorni di abominevole scempio della carne in diretta streaming. Uno sprofondamento di violenza sanguinaria e impunita oppressione imperialista, neutralizzata dall’iterazione delle immagini social. La ripetizione di  video terrificanti, anziché far ribollire l’impegno civile, sembra imbandire il cielo terso di lingue privilegiate che, a guardare da fuori, definiscono i contorni del legittimo e del dicibile. Il dissenso non è unanime, il silenzio invece, anche e soprattutto dei nostri luoghi di cultura, denuda la natura ricattabile di un sistema precario che, dipendendo da fondi pubblici, assorbe per osmosi i discorsi egemoni. Il pettirosso stringe nel becco un verme: il teatro non è uno spazio neutro. In questi 468 giorni lo “spettacolo è andato avanti”, abbiamo continuato a lavorare e applaudire compagnie in scena. Quante tra queste erano palestinesi? Chi e cosa non gode di rappresentazione sui nostri palchi? Perché? 

Marzo 2024, va in scena a Roma Go Figure di Sharon Fridman, coprodotto da Oriente Occidente e il centro di produzione israeliano Mash Dance Jerusalem. In scena due performer, uno dei quali con disabilità motoria. La performance è un haiku sull’interdipendenza, incarnata da una coreografia che si impernia su un moto circolare, la traiettoria per eccellenza del vicendevole scambio non gerarchico. Un’ipnotica rotazione che rimanda alle ruote della sedia rotelle di uno dei  performer, uno strumento concepito stereotipicamente come sintomo di immobilità, generativo al contrario di movimento, all’agire sociale e artistico. Go Figure squarcia gli immaginari trasudati da soggettività politiche che, ottenendo rappresentazione, acquisiscono potere di rompere le narrazioni oppressive sulle disabilità. 

Mentre assisto alla performance il mio sguardo è informato da una nebulosa di saperi che non precipitano immediatamente in scena: il lavoro affonda nella biografia dell’autore, alla ricerca di un continuo equilibrio con il corpo non conforme della madre, tanto da sviluppare la pratica INA, basata sull’esplorazione di nuovi punti espressivi di contatto tra differenti corporeità. C’è qualcos’altro però che sguscia fuori da quell’universo centripeto depositandosi sul mio sguardo. Per nominare quel fuori campo indicibile saranno altre immagini in movimento a venirmi in soccorso.

No Other Land (2024) diretto da Basel Adra, Hamdan Ballal, Yuval Abraham e Rachel Szor. Il documentario testimonia l’espulsione di massa, continua e forzata, della comunità Masafer Yatta dell’attivista palestinese Basel Adra, da parte di coloni e soldati israeliani. Durante uno dei tanti tentativi di resistenza della comunità alla demolizione delle proprie case, un soldato spara su una persona, Harun, che da quel momento è paralizzata dalla testa in giù, nonché costretta a vivere tra le macerie di una grotta. Nel corso del documentario la madre lotterà per avere assistenza sanitaria e una casa con condizioni igieniche necessarie a curare le continue infezioni della ferita. Le saranno negate entrambe. Harun morirà per mancanza di cure mediche. La sua storia, tristemente comune in Palestina, si attorciglia nella mia mente ai corpi dei performer di Go Figure, Shmuel Dvir Cohen e Tomer Navot, in quell’orbita circolare che catalizza i miei sensi. Il mio sguardo si bagna di ciò che sul palco non c’è, evocato “solo” dai materiali paratestuali che ne riconducono la produzione in Israele. Mentre riconosco la potenza dei movimenti che vedo, la ricerca che vi sta a monte, la portata immaginifica del lavoro di Fridman, il mio pensiero cade a strapiombo sui corpi disabilitati da un’occupazione illegale, privati dalle cure, tanto più che dalle rappresentazioni. Presente e assente si invorticano. La Cisgiordania oggi è ancora sotto assedio. Razionale e viscerale si e mi confondono. Il filosofo Gilles Deleuze nominerebbe il cortocircuito in cui mi trovo “immagine cristallo”: «Distinti, ma indiscernibili, tali sono l’attuale e il virtuale, che non cessano di scambiarsi»1

L’immagine-cristallo condensa in un lampo la complessità del presente, senza pretesa di risolvere la contraddizione, anzi, mantenendone generativo e pulsante il conflitto. Del resto la tragedia, quella attorno cui si stringeva l’antica Grecia, non ha soluzioni, è una lacerazione esistenziale inevitabile. È proprio nell’impossibilità di sciogliere le contraddizioni che risiede la tragicità carnale dei destini di Antigone o Medea. Se oggi la tragedia è alla luce del sole, la violenza depone la propria irruenza catartica di monito per la società e si annida nell’indifferenza. Come fare allora a ri-orientare tumulti, inquietudini e angosce in consapevolezza collettiva, in quella rabbia di cui la lotta per la giustizia non può essere spogliata? Assuefatte alle immagini di violenza, può la natura dell’esperienza artistica scuoterci violentemente dal torpore civile e silente su cui ci siamo assopite? 

Abbiamo bisogno di recuperare quell’antica radice del teatro che attraverso l’orrore risaliva all’agnizione, quel processo di riconoscimento fulminante che consentiva alla comunità di esorcizzare la propria impotenza e sublimare “l’ira funesta” del potere. Alcune ricerche artistiche affondano le mani proprio nel torpore che anestetizza la società attuale, agitando il cono d’ombra che si insinua tra chi ha voce e chi no, per portare in luce un piano virtuale gettato fuori campo da principi di esclusione naturalizzati. Tra questi Necropolis di Arkadi Zaides e Sottobosco di Chiara Bersani, due spettacoli che chiedono alle istituzioni ospitanti di interrogarsi sulle condizioni materiali, relazionali ed escludenti che regolano i rapporti con le eterogenee comunità del proprio territorio. 

Per portare in scena Necropolis, la città delle morti nel Mediterraneo, Zaides invita le organizzazioni ospitanti ad addentrarsi nella pratica forense nella propria città per ricostruire le storie di defunti senza nome presenti nella Lista delle Morti dei Rifugiati compilata annualmente da UNITED for Intercultural Action e risalire alle sepolture. Lo spettacolo ospitato a Roma da ORBITA|Spellbound, accresce di volta in volta un deposito virtuale, basato sulla geolocalizzazione delle tombe su Google Eart, strumento che aiuta i parenti a ritrovare i propri cari e a rendere tangibile la coltre di morte che si stende su quelle stesse mappe utilizzate per tracciare i confini tra oppressi e oppressori. L’assenza di identità per molti dei cadaveri alle porte del nostro continente risponde a una normativa asimmetrica: Mentre l’identificazione di un corpo europeo è una condizione imprescindibile per ogni sepoltura, non lo è per le persone migranti per propria volontà.

L’immagine-cristallo di Zaides ci pone davanti all’inconsistenza delle dinamiche politiche, legislative ed etiche implicate nel nostro sistema di accoglienza. Ed è a partire da questa riscontrata ingiustizia che si accende il desiderio di voler fare di più per un impianto sociale di cui si riconosce essere parte, colpevolmente responsabile. Il momento forse più agghiacciante del viaggio nella Necropolis romana è l’impatto con il cimitero Prima Porta: una città nella città che divide per nazionalità, classi e privilegi i defunti, in una sorta di specchio capovolto delle società in cui viviamo. Le poche sepolture rintracciate sono cumuli di terra senza lapide, né scritte. La ricerca porta alla luce l’invisibilizzazione strutturale che impedisce di sapere, vedere e perciò agire nel purgatorio coloniale delle esclusioni, ordita dal linguaggio superficiale dei giornali e l’incuria in cui versano i corpi legati a quei nomi mal scritti. La chiamata all’azione di Zaides convoca l’impegno civile e ricongiunge la morte alla vita con rituali simbolici di commemorazione. L’artista invita chi partecipa alla ricerca a disertare le normative vigenti, per abbracciare la vocazione di Antigone a seppellire fratelli e sorelle rispondendo alle sole leggi morali. 

Chiara Bersani soffia con la delicatezza graffiante che contraddistigue la sua estetica su quella nebbia che impedisce di vedere quanto i nostri palchi e le nostre platee non prevedano la presenza di persone con disabilità o per lo meno la sacrifichino come negoziabile. Non contesteremmo una costosa scheda tecnica, ma forse di quell’audiodescrizione, interprete Lis o rampa potremmo farne a meno. Su questo sgambetto concettuale nasce Sottobosco che indaga l’orizzontalità come materia espressiva e politica di appropriazione dello spazio, pubblico e della danza, per corpi non conformi. In ciascuna città ospintate l’artista crea una comunità temporanea di persone con disabilità motoria, attraverso il workshop Sotto il sotto del bosco, con l’idea di rendere meno omogenei gli immaginari generati dai nostri palchi. Durante il workshop si inventa un linguaggio sconosciuto, accessibile alla sola comunità temporanea che lo abita, ma capace di arricchire la scrittura dei saperi collettivi sul movimento. 

L’unicità e irripetibilità dei saperi incarnati di ogni persona scardina così le “regole della maggioranza”, alla base delle vigenti tecniche pedagogiche, ma anche di tutto ciò che abbiamo imparato a nominare “normale” o “è sempre stato fatto così”. A guardare ancora più da vicino l’immagine cristallo della Bersani, plurime traiettorie di senso si avviluppano l’un l’altra. Da una parte Sotto il sotto del bosco è un atto di rivendicazione collettiva di uno spazio di rappresentanza, liberato in ogni città dalle soglie di segregazione. Dall’altra è un momento di autoanalisi per ciascuna istituzione che, organizzando spettacolo e workshop, misura il proprio grado di accessibilità, nonché le relazioni intessute con la comunità disabile della propria città. Saltano allora alla luce del sole barriere, fisiche e culturali, fino ad allora fuori fuoco ed emerge la frustrazione di non sapere come arrivare a soggettività sino a quel momento invisibilizzate dall’abilismo egemone nelle nostre vite. Come scrive l’artista: «Il lavoro con la collettività, in effetti, già riflette ciò che la società è in quel momento, nel posto in cui ti muovi»2

Zaides e Bersani cristallizzano un presente, scattano una foto delle nostre platee rendendo evidenti  i contorni, quel che resta fuori campo. Forse è proprio nello scontro tra il piano immanente della scena e quello virtuale del fuori che si insinua la natura tragica e violenta di questi lavori. Come in un film di Lynch è su quello che non c’e, sullo iato tra il presente e l’assente che si gioca la partita e la portata politica del fatto teatrale. Il rimosso, il fuori fuoco, l’indicibile, sono campi virtuali che ci dicono qualcosa sulle regole sistemiche di esclusione che alimentano il nostro “ora”, che una volta svelate possono, se non disinnescarsi, farci almeno perdere nella ripugnante miseria del nostro tempo. Quel processo di agnizione appunto, suscitato dalle tragedie greche, che ci inabissa in un faccia a faccia con un fallimento sociale, socializzandone l’orrore.

  1. G. Deleuze, L’Immagine-Tempo, Ubulibri, Milano 2002, p. 84. ↩︎
  2. Julia Cretella e Pasquale Cesaro, Il margine che fa respirare lo sguardo: intervista a Chiara Bersani, Kabulmagazine: https://www.kabulmagazine.com/wp-content/uploads/2024/06/Il-margine-che-fa-respirare-lo-sguardo-intervista-a-Chiara-Bersani_Kmag.pdf ↩︎
Lo spettacolo contro lo spettacolo. Su «ULTRAFICCIÓN» di El Conde de Torrefiel

Lo spettacolo contro lo spettacolo. Su «ULTRAFICCIÓN» di El Conde de Torrefiel

Di Lucrezia Ercolani
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.

«La violenza è molto presente nel nostro lavoro perché il mondo è violento verso l’individuo, sempre. E questo aspetto fa parte del teatro sin dalle sue espressioni più antiche». Lo affermava Tanya Beyeler, fondatrice della compagnia spagnola El Conde de Torrefiel, lo scorso settembre durante un incontro all’Accademia di Spagna a Roma nell’ambito del festival Short Theatre. La violenza del teatro, in questa visione, sarebbe un sintomo della violenza già presente nel mondo. Si tratta di uno «svelamento» salutare rispetto al complesso intreccio di realtà e finzione di cui, secondo la concezione della compagnia, è costellata la nostra quotidianità. Beyeler lo spiegava in un’intervista al «manifesto»: «Siamo arrivati al punto in cui è veramente difficile distinguere il vero dal falso. Vogliamo cercare di capire come si possa tradurre teatralmente questa sensazione, che abbiamo chiamato “ultrafiction”. Ci interessa esplorare la nozione del confine, penso che il livello di realtà o di finzione dipenda dal luogo in cui ci si trova, se più o meno vicino al confine. La vaschetta con la carne che compro dal macellaio è una composizione, un artificio, mentre se mi avvicino alla soglia del mattatoio trovo un’altra realtà, nonostante facciano parte della stessa storia. È in atto una guerra di pensiero a proposito di come strutturare e mantenere il sistema che credo abbia molto a che vedere con i confini: a seconda del luogo in cui ci si posiziona la storia cambia, lo vediamo ad esempio con la questione dell’immigrazione».

L’esempio della vaschetta di carne illustra come rimanga spesso un lato «ombra» nei processi, e quel lato rappresenta esattamente la violenza necessaria affinché quel prodotto venga realizzato. La concezione dello “spettacolo” di Guy Debord esalta questo tema: l’apparato culturale e immaginifico della società dei consumi servirebbe precisamente allo stesso scopo. Scriveva: «Forma e contenuto dello spettacolo sono ambedue l’identica giustificazione totale delle condizioni e dei fini del sistema esistente» (La società dello spettacolo, capitolo 1, tesi 6). 

Scrostare le immagini dalla patina con cui vengono offerte e vendute allo sguardo, far riemergere il conflitto insito nella dinamica sociale, il negativo inteso anche come morte che minaccia costantemente la vita, diventa una strategia che si oppone a quella obnubilante della società spettacolare. Come fare spazio, tuttavia, a queste asperità ricche di senso? Basterà agire sul contenuto della rappresentazione scenica, insistere sulla violenza e sulla morte? Non è questo approccio morboso o pornografico che interessa El Conde. È piuttosto nella forma di un anti-spettacolo che si prende di mira lo spettacolo inteso come forma del mondo.

La concezione di un teatro che rompa il suo legame con lo spettacolo richiama quella di Carmelo Bene agli inizi degli anni ’90. Nel volume collettivo intitolato Il teatro senza spettacolo (Marsilio, 1990) si cercava di mettere a fuoco il teatro come non-luogo della storia: il teatro «è quel quid che la storia estromette» (p. 13). L’elaborazione di CB per cercare un teatro che abdichi alla rappresentazione tradizionalmente intesa (ovvero corrispondente alle unità aristoteliche di tempo, luogo e azione) arrivava al rifiuto del testo e all’esaltazione dell’attorialità che supera l’attore stesso nella macchina attoriale, una figura pressoché superumana dove la pura enunciazione può esistere autonomamente.

L’operazione portata avanti da El Conde de Torrefiel arriva a conclusioni simili, seppur attraverso un procedimento sostanzialmente opposto. ULTRAFICCIÓN nr. 1 / Fracciones de tiempo, presentato per la prima volta in Italia a Santarcangelo nel 2021, ha conosciuto un nuovo allestimento sulle sponde del Tevere, a Roma, per il già citato focus di Short Theatre. È uno spettacolo-epifania che porta alle estreme conseguenze la linea già praticata dalla compagnia nei suoi lavori più noti come Guerrilla e La Plaza. Dopo i corpi evanescenti e dis-identificati, ULTRAFICCIÓN nega del tutto i corpi e la presenza degli attori, se non in uno spazio estraneo al palcoscenico, che smargina dunque rispetto a quella finzione che si pretende di accettare come «vera», a teatro, dal macellaio o a bordo di un aereo, quando semplicemente si rimuove buona parte dell’esperienza che si sta compiendo per non esserne disturbati. È lo stesso che avviene con la grande tragedia dei migranti che tentano di arrivare in Europa e muoiono tutti i giorni a pochi metri dalle nostre coste. L’intreccio di queste storie emerge dal testo, che occupa tutto lo spazio della scena, spogliato da ogni altra presenza. Come hanno più volte spiegato Pablo Gisbert e Beyeler, lo spettacolo deve avvenire nella testa dello spettatore. 

Quello del Conde potrebbe sembrare un teatro post-umano, che fa a meno dell’agentività dell’attore sulla scena, ma ciò che accade – sul palco o fuori di esso – si rivolge ancor più direttamente allo spettatore, vero protagonista, che ha la possibilità di confrontarsi col suo vuoto. In questo spazio nero può nascere la consapevolezza di ciò che è stato tolto in precedenza. Non si cerca più di coprire ciò che è contraddittorio, assente, fallace. «Il nostro è un teatro realistico, la multi possibilità è più realistica del teatro di Cechov. Parlare di una cosa, mostrarne un’altra e ascoltarne un’altra ancora è più reale perché abitualmente siamo qui e pensiamo all’indietro o in avanti. Questa contraddizione crea di per sé un movimento», affermavano.

Il teatro de El Conde de Torrefiel non elimina del tutto la narrazione, adotta però il lacerto, il racconto breve, le “frazioni di tempo”, con cui ogni volta illumina angoli di complessità, di com-presenza e contraddizione. E le due realtà parallele narrate in ULTRAFICCIÓN, l’estrema turbolenza che coglie un aereo in volo sull’Europa e una barca di migranti che rischia di naufragare nel Mediterraneo, ci dicono come sia la morte la presenza che più di tutte tentiamo di rimuovere attraverso questa manipolazione narrativa del mondo che ci circonda. La nostra possibile morte, ma anche quella degli altri esseri.

La morte opera quindi uno svelamento nella fiction quotidiana, riportandoci alla nostra autentica natura finita. «Il giorno è pieno di finzioni che ci fanno andare, camminare. Ma quando arriva la morte è come un peso gravitazionale che ferma la fiction della vita. Ma poi quest’ultima riprende. Uno spettacolo di teatro è una partitura artificiale, ci piace quando arriva qualcosa che ferma questa fiction e che ne cambia il percorso» spiegavano Beyeler e Gisbert a Short Theatre. Naturalmente, possiamo immaginare anche altre forme di “interruzione”: la rivoluzione, come la intendeva Walter Benjamin, è una di esse. È un avvenimento – necessariamente violento? – che sbaraglia tutte le fiction prodotte e accettate come “vere” nella società capitalista dello spettacolo.

L’ambizione di ULTRAFICCIÓN è quella di farci esperire una forma teatrale di quell’interruzione. Per uno spettatore di teatro, la rivoluzione sarà necessariamente uscire dallo spettacolo, “svegliarlo” da quel sogno, da quella finzione, pur rimanendovi all’interno a qualche titolo, pena la fine del processo. La compagnia ci porta in questa condizione gradualmente, prima attraverso una commistione tra il dentro e il fuori della “storia” – adattando quindi ogni volta la vicenda narrata in modo da aderire al contesto vissuto dal pubblico. E poi, infine, con l’irruzione di un “evento” a tutti gli effetti, un avvenimento che sopravanza ogni significato e che chiede solo di essere vissuto, non spiegato né “parlato”. E questo contatto col “fuori” della narrazione ci riporta alla semplice, fragile esistenza, alla condivisione di uno spazio qui e ora con altri esseri che vivono nel nostro stesso mondo senza partecipare alla “fiction”, gli animali. 

Il loro essere estranei al linguaggio umano, li pone in uno spazio estraneo alla “nostra” rappresentazione e il loro apparire rappresenta dunque anche plasticamente un’ulteriore strappo alla drammatizzazione. È un evento del tutto “weird”, per come lo intende Mark Fisher: è la presenza di un elemento fuori contesto, che causa un effetto straniante e che apre lo spettacolo ad una dimensione altra, alle logiche di un altro mondo che sembrano operare un’interferenza con il nostro.  È un’operazione estetica e di pensiero che vediamo spesso in atto nel cinema e nella letteratura (tra i numerosi esempi citati da Fisher in The Weird and the Eerie, riportiamo Lynch e Lovecraft) ma che nel teatro risulta senz’altro più complessa – anche se ci sono stati alcuni tentativi di recente, come Nottuari di Fabio Condemi, adattamento di Thomas Ligotti – perché tradizionalmente si confronta con un dato di “presenza” apparentemente inconfutabile. Ecco che allora si coglie tutta la portata dell’impianto scenico di ULTRAFICCIÓN che, di per sé, rientra pienamente nella categoria fisheriana di “eerie” (tradotto in italiano con “inquietante”): «La sensazione di eerie si verifica quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o quando non c’è niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa». Una sensazione intensificata dalla completa assenza di un’agente, all’interno dello spettacolo, a cui far risalire gli avvenimenti – è del tutto ignoto, infatti, chi sia il narratore degli eventi. Comprendiamo meglio così il senso di disagio in cui gli spettacoli del Conde mettono lo spettatore, ma lo scopo, come spiegato più sopra, è quello di ottenere una visione della realtà più complessa, che contravviene alla narrazione rassicurante, ma parziale, in cui siamo immersi.

Il paradosso del teatro è che quelle pecore che si rincorrono tra gli spettatori increduli, l’elemento “weird” che “buca” la rappresentazione, siano iper-educate: nonostante siano portatrici di una qualità “selvatica”, anche loro seguono una partitura, loro malgrado; uscire del tutto dalla fiction sarebbe impossibile o comporterebbe un rischio troppo alto. Ciò non toglie, tuttavia, che ci sia il tentativo, seppur controllato e inserito in una logica scenica, di disinnescare un meccanismo, con l’obiettivo di riconsegnare lo spettatore alla sua esistenza un po’ cambiato. E se, secondo Debord, «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione», lo scopo del Conde è quello di provare a riavvicinarlo, anche se per mezzo di un’altra rappresentazione, che però porta in sé una negazione delle sue stesse regole.

Il dibattito sul senso della violenza nelle arti propone all’incirca le stesse tesi dall’antica Grecia a oggi. Si fronteggiavano, allora, le posizioni dei “grandi padri” della filosofia. Platone, denigratore delle arti, suggeriva di mettere al bando i poeti perché decantare comportamenti immorali nell’ambito di una composizione avrebbe potuto corrompere le menti dei giovani. Al contrario Aristotele, com’è noto, con la teoria della catarsi, sosteneva la possibilità di purificarsi dalle passioni, attraverso una visione terapeutica della rappresentazione. Le due posizioni si sono riproposte in maniera decisa nelle discussioni sulla violenza nel cinema e nella televisione. Da una parte la preoccupazione per l’imitazione giovanile della violenza e la conseguente crescita di comportamenti aggressivi; dall’altra la convinzione che la mediazione artistica abbia la capacità di disinnescare le spinte violente attraverso un distanziamento critico. Ci sembra interessante che la scelta estetica del Conde permetta di operare uno scarto rispetto a entrambe. Nel momento in cui la violenza non viene mostrata, ma solo suggerita e portata al livello della stessa logica della scena, è molto più difficile fare appello all’imitazione. Riavvicinando il teatro alla lettura, chi osserva ha un margine ben più ampio di elaborazione rispetto all’imposizione operata dall’immagine nel suo stesso esistere, come faceva notare Jean-Luc Nancy nel suo libro dedicato a Kiarostami. Inoltre, l’avvenimento catartico sarebbe rovesciato nel suo opposto: non più un processo che permette di “reintegrarsi” nei docili confini della vita sociale ma piuttosto una liberatoria consapevolezza data dal riaffiorare alla coscienza delle contraddizioni rimosse. L’esito dipenderà soprattutto dal bagaglio del singolo spettatore, da quali immagini si forgerà a partire dalle parole assorbite, potenzialmente più forti e decisive rispetto a episodi di violenza mostrati sul palco senza alcun pathos, che poco stimolano nella nostra interiorità, rischiando a tutti gli effetti una “normalizzazione”. 

Antonin Artaud: page not found

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Di Nicolas Toselli 
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.

Questo corpo è un uomo è la formula che Lucia Amara ha selezionato per titolare l’antologia italiana da lei curata e tradotta dei Cahiers di Antonin Artaud. Edito da Neri Pozza nella collana La quarta prosa diretta da Giorgio Agamben, il volume raccoglie 21 dei 404 quaderni redatti da Artaud dal 1945 fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1948 mentre soggiornava da un paio di anni a Ivry, presso la clinica diretta dal dottor François Achille-Delmas. 

Evocando l’errore in cui possiamo imbatterci navigando sul web quando l’indirizzo digitato non è reperibile (error 404), il numero complessivo dei quaderni annuncia curiosamente la natura sfuggente del materiale di partenza – ogni tentativo di accostarsi alla figura di Artaud deve infatti preventivare un certo grado di insuccesso. Anche a  questo problema sono dedicatela prefazione di Évelyne Grossman che inaugura il volume, Mangiare la lingua, e la seguente introduzione di Lucia Amara, Ceci n’est pas une traduction. Quest’ultima fornisce inoltre un’accurata descrizione del materiale manoscritto di partenza, insieme ai criteri adottati per operare la selezione e la traduzione dei testi nell’edizione italiana – comunque condotta sulla base delle pubblicazioni Gallimard comprese nelle Œuvres complètes: quella a cura di Paule Thévenin, Cahiers de Rodez e Cahiers du Retour à Paris (quaderni dal 1° al 232°); e quella di Évelyne Grossman, Cahiers d’Ivry (quaderni dal 233° al 404°).

Nella maggior parte dei casi, spiega Lucia Amara nell’introduzione, i Cahiers sono ordinari quaderni scolastici su cui Artaud scrive a matita o a penna, senza però rispettare l’ordine spaziale e progressivo che presuppone il formato: «non riempiva quasi mai la pagina di un quaderno per intero, e in certi casi ne scriveva più di uno alla volta e lasciava pagine bianche che riempiva successivamente; a volte cominciava il quaderno dal mezzo, e riprendeva in seguito per scriverlo dall’inizio». 

Dalle testimonianze dirette veniamo a sapere che l’autore, nell’atto di scrivere, gesticolava, quasi danzava, mentre batteva «con un martello o un coltello su un ceppo di legno»; inoltre, «la scrittura tremolante tipica di molti quaderni fa pensare che spesso scrivesse anche in posizione supina, o nell’oscurità durante le ore notturne»; cosicché, i vari gradi d’intensità della scrittura, lasciano sul supporto cartaceo come una traccia sindonica del corpo dell’autore. 
Occorre aggiungere che il testo è spesso intarsiato da disegni, figure antropomorfe, forme geometriche, ritratti e autoritratti; altre volte «si tratta di macchie di inchiostro nero e denso che conferiscono alla pagina uno speciale spessore, una consistenza materica che crea un rilievo sulla carta».

Descrivendo accuratamente gli originali Cahiers, Lucia Amara permette di figurarci la dimensione espressiva del materiale di partenza, che sembra veicolare non tanto un testo, quanto piuttosto l’ombra di un’esperienza, o, se vogliamo, il residuo di una performance teatrale. Per questa ragione, fin dalle prime pagine appare evidente che la riproduzione editoriale di un così singolare manoscritto nasca sotto il segno del fallimento, qualora per “riuscita” intendessimo una pubblicazione fedele in termini mimetici e rappresentativi.

Per quanto riguarda il problema della traduzione, i Cahiers sono redatti in un francese che si articola nei più diversi registri: dal filosofico allo scientifico, dalla coprolalia alla blasfemia, ma folgorati qua e là da frammenti di una lingua d’invenzione nei quali si possono rinvenire accostamenti ritmici di fonemi o segmenti di lingue naturali (il latino, l’italiano e, soprattutto, rileva Amara, il turco e il greco «parlati a casa Artaud»). Tra i due estremi del francese e della glossolalia, ricorrono, opportunamente segnalati dalla traduttrice, neologismi, onomatopee, omofonie e parole composte, «tutti stadi della parola, a volte non nettamente distinguibili tra loro, capaci di mettere in travaglio la lingua». Così, l’annosa questione intorno al tradurre come inevitabile tradimento, nel caso dei Cahiers risulta tragicamente aggravata. 

Tuttavia, secondo una logica paradossale, l’operazione di Lucia Amara appare rigorosa, se consideriamo che, come ricorda lei stessa, quando Artaud si accingeva a stendere una versione francese di Theme with Variations di Lewis Carroll, dichiarava «Ceci n’est pas une traduction», in quanto l’impresa era volta a «raggiungere in spirito l’autore […] non nel seno di questa poesia ma nel seno della poesia». È dunque nella capacità di indicare i limiti dell’operazione editoriale e delle scelte di traduzione che la pubblicazione risulta accorta e rigorosa, confermando nella strutturale manchevolezza che la riguarda l’intuizione dello stesso Artaud vergata nel Quaderno 32 compreso nella raccolta: «La materia quando è buona è riluttante e rifiuta di compiersi finché il suo essere non sia soddisfatto, il suo essere corpo nella moralità».

Se finora abbiamo posto l’accento sui limiti connaturati all’operazione editoriale, è perché l’intera opera artaudiana, mirando a “essere corpo nella moralità”, si scontra ripetutamente con il fondo inattingibile del proprio proposito. Questa è infatti anche la parziale conclusione a cui giunge Jacques Derrida in Le théâtre de la cruauté et la clôture de la représentation, anteposto alla storica edizione Einaudi de Il teatro e il suo doppio, dove, dopo avere elencato il teatro certamente infedele alle indicazioni artaudiane, il filosofo francese conclude: «non si tarda a comprendere che la fedeltà è impossibile […] E da questo punto di vista non ci sarebbe da fare eccezione per i tentativi promossi da Artaud in persona».

Bisogna però osservare che proprio negli anni Sessanta, mentre Derrida pronuncia il suo discorso a Parma in occasione del XIV Festival internazionale del teatro universitario, si andavano affermando esperienze artistiche già introdotte al Teatro della crudeltà basti citare il Living Theatre, il Teatro Laboratorio di Grotowski, Peter Brook, l’Odin Teatret e Carmelo Bene. Se consultassimo ora le indicazioni afferenti al linguaggio teatrale del Primo manifesto, le riconosceremmo infatti quali dati acquisiti di un certo teatro di ricerca consolidato e tuttora diffuso: l’immagine del geroglifico, che esemplifica un linguaggio scenico esprimentesi in formule che vanno oltre il binomio significante/significato, e quindi la rinuncia a un certo logocentrismo prevalente all’epoca di Artaud, è oggi una prassi espressiva, se non maggioritaria, riconosciuta istituzionalmente nella dicitura scrittura scenica.

Eppure sappiamo che, al di là delle contingenze tecnico-linguistiche, l’obiettivo polemico di Artaud è il teatro in quanto rappresentazione, il quale, ne era ben consapevole, scaturisce dal paradigma rappresentativo che informa l’intero complesso culturale dell’Occidente – politica, economia, arte, religione; ogni articolazione del vivere. Dal momento che «la vita intera nella sua illimitata pienezza appare inquadrata e circoscritta solo e soltanto nel teatro», usando un’espressione benjaminiana desunta dal Programma per un teatro proletario dei bambini, è questo il luogo strategico, anche secondo Artaud, di dove sferrare l’attacco al suddetto paradigma: «Il teatro non è mai stato  fatto per descriverci l’uomo e quello che fa, ma per costituirci un essere d’uomo che ci possa permettere di avanzare sulla strada di vivere», Quaderno 119

È per via dello specifico obiettivo polemico, e dell’apparato culturale e civile in cui prospera, che Derrida, sempre nella nota prefazione, indica essere «questa l’affermazione più ostinata di Artaud: la riflessione tecnica e teatrologica non deve essere trattata a parte. Il decadimento del teatro ha inizio senza dubbio nella possibilità di una simile dissociazione». È il problema della separazione e della conseguente organizzazione delle parti che attanaglia Artaud, e che in Per farla finita col giudizio di dio propone di risolvere “rifacendo” l’anatomia all’uomo: «Quando gli avrete fatto un corpo senza organi, / l’avrete liberato da tutti gli automatismi / e restituito alla sua vera libertà». Da questo testo destinato alla trasmissione radiofonica Deleuze e Guattari ricavano il concetto di Corpo senza Organi che, sottolineano, non ha come nemici gli organi in sé stessi, bensì l’organizzazione degli organi: si tratta di «strappare il corpo all’organismo», per costituire un piano d’immanenza dove il desiderio possa esercitarsi sperimentalmente e fluire senza interruzioni – scrivono in Mille piani

Ma nella costruzione di un Corpo senza Organi occorre agire con prudenza, ovvero, diremmo con Artaud, «passo a passo e per gradi come un muratore davanti al suo muro o un contadino dietro il suo aratro», Quaderno 32. Nel teatro che l’ha reso celebre, crudeltà significa infatti «rigore, applicazione e decisione implacabile», ma è proprio da questa lucida operatività che scaturisce il sangue, nella misura in cui un teatro che sappia essere necessario, cioè vivente e non rappresentativo, comporta, come ogni vita, «la morte di qualcuno» – Lettere sulla crudeltà.

«Ma basta con la filosofia» (Quaderno 4). L’esempio concreto di un Corpo senza Organi ce lo forniscono gli stessi Cahiers, quaderni redatti in apparente disordine, un impasto grafico di scrittura e disegno dove confluiscono memorie e bestemmie, vette di umorismo, fonemi liberi e scritti teorici. Un testo indisponibile alla lettura lineare e sul cui corpo è stato impresso quello dell’uomo che l’ha prodotto. Come il CsO deleuziano sovverte il corpo sociale, i Cahiers sovvertono l’industria editoriale, mettendola nella condizione di ribadire i suoi limiti e la sua contingenza. Questa è anche la violenza che ogni nuova generazione di teatranti è chiamata a esercitare in nome di Artaud: lavorare a uno spettacolo che non si riduca all’organizzazione teatrale del proprio tempo.