Il cono d’ombra della drammaturgia inglese: Martin Crimp e Tim Crouch

Il cono d’ombra della drammaturgia inglese: Martin Crimp e Tim Crouch

A cura di Alice Strazzi

Martin Crimp (1956) e Tim Crouch (1964) sono due voci fondamentali della drammaturgia contemporanea inglese e non solo: tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila hanno realmente rivoluzionato la scrittura per il teatro, individuando percorsi ben riconoscibili all’interno e all’esterno dell’etichetta di “postdrammatico” ideata da Lehmann. Se i testi di Crimp – tra tutti il suo più noto Attemps on Her Life (1997) – costituiscono delle vere e proprie forme di ribellione e di scomposizione della struttura narrativa in tutti i suoi aspetti, Crouch invece costruisce i suoi lavori sulla creazione di narrazioni che però contemplino una forte compresenza dello spettatore, parte attiva nel processo della messinscena. Due approcci diversi quindi, eppure assimilabili: le loro scritture si delineano a partire da questa necessità di frammentare e offuscare il dato di realtà, non per disorientare, ma piuttosto per creare nuove traiettorie di senso, forme differenti di comprensione. Il linguaggio diventa uno specchio deformante del mondo esterno, consegnato nelle mani di spettatori e spettatrici. Decostruire con la parola, ricomporre con lo sguardo.

Date queste premesse, stupisce l’assenza quasi totale di questi due autori dal panorama italiano, noti più per sentito dire che per un incontro diretto con i loro lavori portati in tournée in Italia o per la visione di adattamenti di compagnie e artisti italiani. D’altronde le stesse traduzioni dei loro testi scarseggiano, ad eccezione di quelle approntate per la messinscena, come, per esempio, la recente versione di The City di Martin Crimp realizzata da Alessandra Serra per lo spettacolo di Jacopo Gassmann (2023), o il lavoro centrale e di lunga durata svolto dalla romana Accademia degli Artefatti/Fabrizio Arcuri con le traduzioni di My Arm (2020), And Oak Tree e di quattro dei cinque monologhi shakespeariani scritti da Tim Crouch, e anche di Attemps on Her Life, Fewer Emergencies e Advice to Iraqi women di Crimp pubblicate nel libro Il teatro di Martin Crimp nelle messe in scena di Accademia degli Artefatti, edito da Editoria & Spettacolo, nella collana “Spaesamenti”. Salvo quest’unica felice eccezione, nessuna casa editrice ha reso accessibili questi due fondamentali autori e le loro drammaturgie ai lettori e alle lettrici italiani: chissà che in futuro – auspicabilmente – qualcosa possa cambiare.

All’interno di questo tentativo di interrogare la condizione d’ombra che avvolge Crimp e Crouch, un punto significativo, in senso contrario, è stato posto dalla quadriennalità della direzione artistica di Stefano Ricci e Gianni Forte del Festival Internazionale di Teatro della Biennale di Venezia dal 2021 al 2024. Il Festival, infatti, in apertura e in chiusura, è stato segnato dalla presenza dei due drammaturghi britannici, entrambi coinvolti nel programma formativo offerto dalla Biennale College. Crimp nel 2021 ha tenuto un laboratorio sulla pratica della riscrittura del mito greco e latino come meccanismo di indagine della contemporaneità a partire dalla lettura delle Metamorfosi ovidiane, Crouch nel 2024 ha lavorato invece sul concetto di costruzione della co-autorialità dello spettatore e sulla necessità di tenere uno sguardo sempre in parte rivolto alla platea nell’atto creativo. Inoltre, è stato ospitato all’interno della programmazione un lavoro di Crouch del 2022, Truth’s a Dog Must to Kennel, incentrato su alcune questioni particolarmente significative della sua produzione: la rilettura radicale di Shakespeare, il dialogo sempre vivo con il pubblico mai posto in una condizione di passività, e il potere trasformativo e immaginifico dell’arte teatrale. 

Non è, però, la prima volta che i loro nomi compaiono nel programma della Biennale Teatro: le riscritture shakespeariane di Tim Crouch erano state messe in scena da Fabrizio Arcuri nel 2013; Martin Crimp invece, nel 2016, aveva curato un workshop di drammaturgia ed era stato protagonista di uno dei numerosi incontri tenutisi con gli artisti presenti al Festival. Un felice tentativo di riempimento di questo vuoto, anche se restano sparse e sporadiche le apparizioni dei due drammaturghi britannici sul territorio italiano.

Truth’s a Dog Must to Kennel – Tim Crouch. Photo courtesy of Biennale di Venezia

Eppure, il loro lavoro potrebbe essere un utile stimolo per la produzione drammaturgica contemporanea nostrana – scarsamente diffusa nelle sale teatrali del nostro Paese – proprio per la sua radicale tensione alla ridefinizione del ruolo del testo e della sua conformazione (un fenomeno inquadrabile come «new writing», per utilizzare le parole del giornalista e critico teatrale britannico Aleks Sierz), sempre fortemente legato a una lettura del tempo presente spesso visto come critico e conflittuale, e per la costante creazione di un ponte dialogico – più o meno esplicito – con il pubblico, mai dimenticato nella fase di ideazione – ma anche di esecuzione –, oggetto diretto di una continua sollecitazione all’abbandono di una posizione passiva nell’atto della fruizione. E questo legame con la realtà e la sua problematica complessità si riflette nelle parole stesse di Martin Crimp, riportate da Sierz nel suo libro The theatre of Martin Crimp: «Come può affrontare ciò il teatro? Ricordandoci costantemente che le esistenze umane sono più contraddittorie e strane di quanto ogni ideologo/a possa mai immaginare».

Per il drammaturgo inglese nato a Dartford è, difatti, impossibile concepire e comporre un testo teatrale slegato dalla vita contemporanea. Il ritratto del tempo attuale che ne deriva, però, non porta in sé nessun aspetto conciliatorio: soggetti e contenuti della sua produzione ritraggono una realtà inquietante, destabilizzante. Una delle note dell’autore che precedono il testo di Attempts on Her Life, nascondendosi dietro l’indicazione di una corrispondenza voce-attore, racconta fin da subito l’ampiezza e la complessità che lo sguardo di Crimp getta sul reale: «Questo testo si adatta a una compagnia di attori la cui composizione dovrebbe riflettere la composizione del mondo al di là del teatro». La comunità ritratta si mostra nel suo essere abbagliata da ingannevoli apparenze, sempre più indirizzata verso il declino morale, incentrata esclusivamente sull’utile personale, basata su rapporti disumani che portano all’affioramento della violenza, alla sua diffusione e radicamento. L’intento di Martin Crimp non si identifica affatto con la volontà di proporre uno spettacolo piacevole, semplice e di intrattenimento: al contrario, centrale risulta il desiderio di incentivare e spronare il pubblico all’autoanalisi e alla conseguente autocritica. Proprio per questo, bersaglio inequivocabile della critica mossa è giustappunto il pubblico inglese, obbligato a doversi confrontare con la sua immagine speculare presente in scena. Il drammaturgo non vuole tuttavia imporre una visione moralizzante sulle sagome da lui ritratte: la riflessione è lasciata allo spettatore, non viene prescritta dall’autore.

Meno contrastiva, ma ugualmente sfidante, è la postura dialogica di Tim Crouch rispetto alla platea, artefice e non solo fruitrice del processo teatrale. Questa disposizione nasce anche dalla diversa formazione dei due autori: Crouch è prima di tutto un attore, ed è proprio il desiderio di poter incarnare lui stesso una parola realmente capace di trasformare, anche solo per un momento, lo spazio condiviso della sala, a spingerlo alla scrittura. Al frammento, alla composizione per quadri legati da forme di intertestualità e di richiami interni ideati da Crimp, Tim Crouch sostituisce una costruzione testuale che, seppure in parte segmentata, trova unità nella voce dell’io narrante che incarna ed esplicita – grazie alla necessaria complicità del pubblico – il valore metaforico del teatro e dell’arte più in generale, come accade per esempio in An Oak Tree (2005). In questa drammaturgia l’attore e autore britannico lavora sulla creazione di una materia immaginifica che contrasta con la percezione dei sensi umani: il confine tra realtà e finzione ne risulta sfumato, ma non per indebolirlo o confonderlo, ma piuttosto per creare una stratificazione, una moltiplicazione delle capacità di comprensione di ciò che ci circonda, che si attua quando, nonostante lo scetticismo, scegliamo di credere nel valore trasformativo del teatro. 

E anche da questo punto di vista, le traiettorie artistiche di Crimp e Crouch tornano a intersecarsi: grazie alle drammaturgie di entrambi il pubblico assiste – e attiva con la sua sola presenza – questo processo di svelamento del reale e dei meccanismi attraverso cui l’arte cerca di afferrarlo, e di darne una lettura. Alla platea quindi non resta che colmare i vuoti delle strutture testuali proposte dai due autori inglese: allo spettatore il compito di mettere insieme i numerosi volti che compongono Anne/Annie/Annuska di Attempts on Her Life e riportarla a unità, allo spettatore la possibilità di scorgere l’immagine di una figlia deceduta sovrapposta a quella di una sedia vuota, o il sostituire un bicchiere d’acqua posto su una mensola con una quercia (My Arm); esercitando così un tentativo di ricomposizione attraverso lo sguardo.

La bellezza ha sé stessa come argomento. Intervista ad Alejandro Tantanian, autore dell’adattamento di “Ho paura torero”

La bellezza ha sé stessa come argomento. Intervista ad Alejandro Tantanian, autore dell’adattamento di “Ho paura torero”

Il Piccolo Teatro di Milano ha inaugurato il 2024 con Ho paura torero al Teatro Grassi, prima regia firmata da Claudio Longhi nelle vesti di nuovo direttore artistico del teatro. Longhi sceglie di adattare l’omonimo romanzo del poeta cileno Pedro Lemebel, trasposto per la messa in scena da Alejandro Tantanian e Lino Guanciale nel ruolo di attore e drammaturgo. Ambientato durante il fallito attentato del 1986 contro il governo militare di Pinochet, lo spettacolo esplora l’intreccio amoroso tra un anziano travestito e un giovane appartenente al Fronte di Liberazione Manuel Rodriguez. Per discutere ulteriormente di questo lavoro, parleremo con l’autore, regista e drammaturgo argentino Alejandro Tantanian.

Prima di addentrarsi nel lavoro di trasposizione del testo di Lemebel che ti ha visto protagonista, vorrei chiederti, com’è nata la collaborazione con Claudio Longhi, Lino Guanciale e il Piccolo teatro di Milano?

Ho incontrato Claudio nel 2016 in Europa, a Caen, introdotto da un collega, Manu Ansaldo. Mi aveva parlato di Claudio dicendo che sarebbe stato bello incontrarci perché saremmo diventati buoni amici. Claudio in quegli anni stava per essere nominato direttore artistico di ERT Emilia Romagna Teatro, mentre io, nel 2017, iniziavo la mia esperienza di direzione del Teatro Cervantes – Teatro Nacional Argentino.

Cercavamo di sviluppare alcuni progetti ma alla fine non riuscivamo ad andare avanti. Però ci siamo tenuti in contatto, così nel 2018 lui mi ha invitato al congresso Teatri abitatori di città a Bologna, organizzato da ERT; lì ho presentato un progetto del Teatro Cervantes, un lavoro molto intenso sul teatro latino-americano.

In quell’occasione ho incontrato Lino Guanciale, ma di lì a poco è arrivato il Covid mentre Claudio stava cercando di sviluppare uno spettacolo basato su due storie brevi di Alfred Döblin per cui mi aveva chiesto di collaborare. Così abbiamo iniziato a lavorare insieme; ne è venuto fuori uno spettacolo dal titolo Il peso del mondo delle cose, performance poi diretta da Claudio e messa in scena dopo la prima apertura. 

In quella fase questo lavoro fu molto importante, avevamo paura che il teatro non ripartisse più per davvero. Io ero qui in Argentina, loro erano lì in Italia, ma avevamo costruito una sorta di famiglia, perché io scrivevo le parole che loro stavano mettendo in scena, mi mandavano alcuni video, e tutto era molto emozionante, molto affascinante, specie in un momento così delicato per il teatro.

Dopo ciò Claudio mi ha invitato nel 2021 per organizzare un laboratorio, così ho realizzato un workshop per tre mesi (a distanza), e questa è stata la mia prima esperienza con Claudio al Piccolo. Discutevamo sul fare qualcosa insieme, così all’improvviso mi ha raccontato, credo fosse all’inizio di marzo o aprile dell’anno scorso, che stavano preparando con Lino Guanciale una versione teatrale di Ho paura torero di Pedro Lemebel, che è un autore che conosco bene e amo moltissimo. 

Alejandro Tantanian

Com’è stato lavorare su questo testo e quali scelte ti sei trovato a dover fare per restituire in azione scenica la parola scritta del romanzo? In che modo avete organizzato il lavoro con Lino Guanciale? 

Abbiamo sviluppato il lavoro in due o tre mesi partendo da una prima versione a cui si è aggiunta una seconda e ancora una terza, per arrivare poi alla versione “finale” che, ovviamente, è stata rimaneggiata durante il periodo di prove. Lino, naturalmente, come drammaturgo, ha fatto molte modifiche sul testo, mentre io mi sono occupato della trasposizione teatrale del romanzo. 
L’idea è stata di costruire un testo che rispettasse al 100% il romanzo, senza aggiungere una sola parola che non fosse già presente in Lemebel. Lavoravo con due versioni, la versione cilena e, ovviamente, la traduzione italiana nella versione di Giuseppe Mainolfi.

Cercavamo di mantenere tutto il possibile e rimanere fedeli al testo, perché in Ho paura torero, a parte la storia che è molto affascinante, lo stile e la lingua sono elementi molto forti.
Mi convinceva molto l’idea di mantenere le parole del romanzo per la versione teatrale, e non di ricostruire i dialoghi. In questo senso abbiamo lavorato ispirandoci a Frank Castorf, o anche a Luca Ronconi nel lavoro fatto sul Pasticciaccio di Gadda

Quindi alla base c’è stata la forte intenzione di mantenere i pensieri, il modo di pensare, il modo di raccontare di Lemebel. 

Sì, per esempio anche l’uso nel romanzo della prima piuttosto che della terza persona è davvero molto interessante, perché a teatro dà, attraverso l’attore, un punto di vista ora soggettivo, ora oggettivo, come uno sguardo che cambia punto d’osservazione.
Posso essere parte della cosa, e posso anche vedere la cosa da fuori. E non è solo un esercizio per gli attori, ma è anche un esercizio per il pubblico. 

Michele Dell’Utri ha sottolineato come ognuno degli attori non stesse mettendo in scena solo il personaggio, ma anche la città di Santiago, come se ci fosse una strana connessione tra ogni personaggio e la città. È presente questo tipo di operazione nel testo di Lemebel? 

Santiago è chiaramente uno dei principali personaggi del romanzo. Ci sono la Fata dell’angolo, Carlos, Pinochet e sua moglie, e poi c’è la città di Santiago, che è un personaggio molto presente. Tutto ciò che i personaggi guardano attraverso le finestre delle loro case, del bus, è la città.
La decisione stessa di mantenere il testo com’era, è anche quella di mantenere Santiago come ulteriore personaggio; ciò è molto difficile da rappresentare nello spazio teatrale, costruire una città in scena non è lo stesso di dare vita ad un corpo. Ma attraverso il testo penso che Lemebel sia riuscito a tenere la città lì con te. 

Anche quando i personaggi accendono la radio e ascoltano le notizie, come ad esempio nella sequenza in cui è descritto il luogo dell’attentato, il pubblico acquista la capacità di muoversi e di partecipare attivamente allo spettacolo reimmaginando la città

La radio d’altronde è anch’essa un altro personaggio specifico, non è solo un oggetto. Ha questa strana funzione intermedia tra la storia privata di Carlos e della Fata e gli eventi che si svolgono all’esterno, in città, come un nesso che tiene insieme le due sfere del pubblico e del privato. 

Ciò si spiega a partire dal fatto che è lo stesso romanzo ad alimentare il nesso tra privato e pubblico. La possibilità dell’incontro tra la Fata dell’angolo e Carlos è di per sé una relazione privata, è qualcosa che succede all’interno di una casa, ma questa relazione provocherà un determinato tipo di riflessione e di cambiamento nella realtà, nella vita pubblica della città. 
Questo vale anche in riferimento alla scena finale in spiaggia, che è uno spazio molto privato e pubblico allo stesso tempo. Carlos e la Fata sono insieme in un momento molto intimo ma di contro la scena si consuma in uno spazio aperto. Questa capacità di mescolare il pubblico e il privato è un elemento molto importante anche in Lemebel. 

Il romanzo di Lemebel, così come l’adattamento, intrattiene una forte relazione non solo con la città di Santiago, ma anche con il clima del golpe fallito del 1986. Quali sono le difficoltà nel mettere in scena un testo così strettamente collegato con l’atmosfera politica e sociale di quel momento? Quali sono le opportunità di portare questo testo in Italia, che ha vissuto una storia di dittatura, e in una città come Milano, che ha svolto un ruolo importante nella Resistenza. 

La storia di ogni paese, almeno nella società occidentali presenta qualche somiglianza. Voi oggi avete un governo di estrema destra in Italia, e anche noi siamo governati da un’ala piuttosto bizzarra di estrema destra qui in Argentina, che ha la stessa linea politica che c’era durante gli anni del governo militare (in Argentina), naturalmente in altri modi, ma da un punto di vista economico e sociale stanno di fatto portando avanti la stessa linea.
Ovviamente non stanno uccidendo le persone – fino ad ora – e non fanno scomparire le persone come hanno fatto allora. 

Penso però che politicamente il romanzo di Lemebel non parli solo attraverso Pinochet e la dittatura, né racconti unicamente il fallito golpe del 1986, ma credo tratti in primo luogo di un amore molto “strano” – strano naturalmente secondo l’idea di giusto, di sbagliato e di strano che hanno quei governi. 
Ho avuto la possibilità di assistere all’ultima replica di Ho paura torero lo scorso 11 febbraio ed è stato davvero emozionante, prima di tutto essere al Piccolo – perché non ero mai stato al Piccolo a vedere uno spettacolo e nella mia educazione Strehler era quasi un dio.

Quando avevo 18 o 17 anni cercavo le VHS per guardare La tempesta o Re Lear con Tino Carraro e avevo un libro con tutte le interviste di Strehler, quindi entrare in quel teatro per me è stato uno dei momenti più affascinanti, quasi un momento sacro, perché so com’era quel posto prima del lavoro di Grassi e Strehler e come hanno trasformato quel luogo pieno di terrore in un luogo di resistenza e di costruzione di ricordi per le persone, e penso che con Claudio sia tornata quella energia, perché il Piccolo è lì per questo, per mantenere la fiamma della libertà, del pensiero libero, per un’idea di teatro del popolo. 

Ed è stato davvero affascinante vedere tutto il pubblico in lacrime per questo specifico strano amore. Vedere un pubblico borghese capire e piangere per l’amore che lega un vecchio travestito ad un ragazzo giovane: è ciò che ti fa dire di poter ancora credere nella forza dell’arte, almeno per dieci secondi.
Poi magari usciranno da lì e ricominceranno a dire “a morte i froci”, ma in quei dieci secondi si apre la possibilità di aprire le menti e costruire una coscienza, e penso che per me questo sia il modo più affascinante di fare Lemebel. Perché al di là delle rivendicazioni politiche questo testo è una specie di canzone per la libertà, per una libertà che stiamo perdendo giorno dopo giorno. 

Quindi storie come quella di Lemebel danno al pubblico la possibilità di un orizzonte, danno alle persone la possibilità di speranza e la possibilità di redenzione, e questo è qualcosa che oltrepassa qualunque confine. Oltre l’essere cileno, argentino, italiano, è piuttosto l’essere umani in questo mondo, in questi giorni.
Per me questa è la cosa più commovente, e nella produzione di Claudio Longhi e Lino Guanciale, e di tutti gli artisti che sono stati coinvolti, questo è fortemente presente. Lo spettacolo è felice, è pieno di vita, è una pièce vitale, piena di libertà, di umanità, di sensibilità sociale, qualcosa che stiamo perdendo. 

Ho paura torero
© Masiar Pasquali

Il personaggio della Fata si fa carico di questa vitalità. È un personaggio che sa comprendere e perdonare, anche quando viene usato. In altri momenti capisce quando deve dire no o combattere, ma in tutti questi momenti c’è un forte senso di amore per l’altro e per sé stesso. 

Alla fine dello spettacolo tutti noi pensavamo che avrebbe accettato l’invito di Carlos e sarebbe fuggito a Cuba con lui. Ma quando nel leggere il testo scopri che rinuncia a partire capisci che era esattamente così che doveva finire, perché sta dimostrando un’altra volta cosa significhi amare. La Fata dell’angolo sa di dovere lasciare Carlos libero e lo fa. E questa è la più grande forma di amore. 

Tutti piangevano anche a teatro durante quella scena, e per me è sempre un momento toccante anche il modo in cui è affrontato il tema della bellezza. Ciò che la Fata amava in Carlos era la giovinezza, e lei sta diventando vecchia, e la giovinezza è una forma di paradiso per lei, anche nella sola possibilità di stare lì ad ammirarla. 

È lo stesso ne La morte a Venezia di Thomas Mann quando Aschenbach è in riva al mare, pieno di trucco e fa molto caldo, e il trucco cola giù mentre lui sta guardando Tadzio nel mare, e puntando al sole con lo sguardo, muore, continuando a guardare. La bellezza ha sé stessa come argomento. Se puoi toccarla è perfetta, ma se puoi condividerla è ancora più perfetta.
Ma anche il solo vederla è fondamentale: quando la Fata si lancia in quelle descrizioni su come appaiono il corpo, la faccia, il sesso di Carlos, c’è sempre e solo bellezza, non è mai osceno né sgradevole. 

E per me quella scena in spiaggia in cui la Fata dice no, è come Aschenbach che, morendo, lascia la bellezza libera per gli altri. E anche un modo di capire il limite, di capire il miracolo, perché in un primo momento si ha l’impressione che Carlos si stia approfittando della Fata, ma poi anche lui se ne innamora, non di un amore propriamente fisico.
Nel romanzo anche questo confine tra passione e amore è meravigliosamente descritto: il momento in cui la passione è amore, il momento in cui l’amore non ha passione, e quindi si carica di un altro senso di umanità. 

E penso che Lemebel non abbia avuto bisogno di scrivere altri romanzi perché ha scritto sì un testo molto breve ma al tempo stesso davvero incredibile, così chiaro, così facile, così comprensibile per tutti, e questa emozione, tutte queste emozioni, sono presenti nel lavoro di Claudio Longhi, anche perché Lino Guanciale ha fatto un lavoro straordinario.
È stata davvero un’ottima decisione che quel personaggio (la Fata dell’angolo) fosse interpretato da Lino, che è un attore molto popolare, bellissimo, che tutti amano, ma è anche molto intelligente nel catturare l’essenza del personaggio, ha colto tutti gli aspetti ed è diventato Fata dell’angolo restituendo al pubblico un personaggio con un cuore aperto, e questo non è così comune da vedere. 

Per queste ragioni lo spettacolo è davvero toccante, e hanno fatto qualcosa di molto buono nella maniera in cui hanno preparato il pubblico attraverso tutto un ciclo di letture, conversazioni con la troupe, conferenze; penso che ogni teatro dovrebbe organizzare eventi in tutta la città, non solo nel centro, ma soprattutto nelle periferie, per portare la notizia e chiamare le persone, e se non vengono, io, noi dobbiamo andare. E lo hanno fatto mettendo in scena uno spettacolo accessibile a tutti ma di alto livello, che richiedeva intelligenza e sensibilità, e questo non è comune, perché è una performance molto esigente nei confronti del pubblico. 
Pensare per altro che Lemebel parlava di travestiti e omosessuali, durante gli anni di Pinochet, fa capire quanto fosse coraggioso e forte. C’è un bellissimo documentario di Joanna Reposi Garibaldi (Lemebel, 2019) sugli ultimi dieci anni di vita di Lemebel, lo consiglio sempre perché è davvero stupendo. 

«Non voglio essere riconosciuto, voglio servire»: Walser a due di Fabio Condemi e Francesco Fiorentino

«Non voglio essere riconosciuto, voglio servire»: Walser a due di Fabio Condemi e Francesco Fiorentino

Nel saggio Misura smemorata, Ginevra Bompiani dice di Robert Walser che, scegliendo di assumere l’identità del servo nei suoi scritti, decide di incarnare l’identità per eccellenza «Poiché ogni identità è, in fondo, una presa di servizio». Personaggi servitori iniziano a comparire nella produzione di Walser già da Simon Tanner fino al protagonista de L’assistente; tuttavia, è in Jakob von Gunten che assistiamo al processo di formazione del servitore ideale, il Bildungsroman di uno zero, un processo di liberazione totalizzante che secondo Walser non può che passare per l’annullamento. Dal fascino per questo personaggio nasce l’adattamento di Jakob von Gunten di Fabio Condemi, presentato nel 2017 in forma di studio con il titolo Il sonno del calligrafo alla sezione College della Biennale Teatro di Venezia, che successivamente è diventato uno spettacolo debuttato nel 2018 con il titolo Jakob Von Gunten alla stessa Biennale Teatro di Venezia. C’è qualcosa in questa presa di servizio che ha molto a che fare con l’arte scenica: l’attore che messo di fronte all’obbligo di una presa di servizio annullante può liberare una spinta identitaria pura, fuori dall’egemonia della caratterizzazione. Ne abbiamo discusso con il regista Fabio Condemi e Francesco Fiorentino, docente di Letteratura Tedesca presso l’Università Roma Tre, autori di Walser a due, un dialogo pubblicato da Edizioni Volatili all’interno della collana intitolata Isola e Isole, curata da Giorgiomaria Cornelio e Giuditta Chiaraluce, quest’ultima autrice dei disegni contenuti nel libro che diventano una vera e propria partitura visiva.

Vorrei iniziare parlando del saggio di Roberto Calasso, Il sonno del calligrafo, in cui uno dei grandi temi affrontati è la spiritualità. Si menziona la Sura della caverna, contenuta nel Corano, che narra dei sette dormienti di Efeso, collegati idealmente da Calasso a Jakob von Gunten in quanto tutti  descritti come dormienti incorrotti. In questo contesto, il sonno diventa una sospensione del tempo. 
In Walser a due, si parla di una teologia negativa che traspare in Jakob von Gunten. Vorrei capire cosa si intende per teologia negativa e quale ruolo ha la religione sia in Walser che nella costruzione di questo spettacolo

Fabio Condemi: All’inizio lo spettacolo di Jakob von Gunten era uno studio di venti minuti che si chiamava Il sonno del calligrafo, proprio come il saggio di Roberto Calasso sul romanzo di Walser in cui questo discorso del sonno, più religioso di ogni religione per cui soltanto chi dorme è vicino a Dio, e la fascinazione per la Sura della caverna e i sette dormienti, era molto più visibile.  C’era una parte intitolata proprio I sette dormienti,  avevamo messo questo titolo prima che Jakob parlasse con i professori addormentati, trasfigurati nei pesci dell’acquario.

Lo dico perché questo tema mi aveva molto affascinato, è un fatto però che poi nella versione definitiva ho scelto di lasciare il tema più sospeso, proprio perché mi sono reso conto che, rispetto al saggio di Calasso, volevo andare in una direzione – secondo me – ancora più valseriana, di ambiguità: da una parte c’è il sonno mistico, quasi nella vicinanza della religione, dall’altra volevo rendere lasciare più ambigue le figure dei professori dormienti, lasciare più aperta questa questione e allontanarmi dal saggio di Calasso, facendo uno scarto anche più ironico. 

Quando ho lavorato su  Jakob von Gunten mi sono reso conto che da una parte il saggio di Calasso mi aveva molto nutrito e dall’altra l’interpretazione così forte, e non dico univoca, nella direzione mistica-religiosa non aveva più molto a che fare col mio Walser. Volevo lasciare più aperta la questione e invece mi interessava molto di più, diciamo, lo scritto di Walter Benjamin su Walser.

Il nucleo iniziale di Jakob von Gunten però, la prima cosa che noi abbiamo provato è stato proprio questo mondo sommerso nell’acqua, nel sonno, nell’acquario, scelta che veniva proprio da Calasso e dal riferimento che fa ai Sette dormienti, qualcosa che ha sicuramente spinto la drammaturgia nella fase iniziale.

Francesco Fiorentino: La cosa che subito colpisce del Jakob von Gunten di Fabio Condemi è che fin dall’inizio inserisca questa ripetitività che potremmo definire senza senso, senza significato. 
Verso la fine del romanzo Jakob dice  «Via adesso non voglio proprio più pensare a nulla. Neanche a Dio? No! Dio sarà al mio fianco, che bisogno ho di pensare a lui?». Parlando di teologia negativa era questo che si intendeva: Dio è presente là dove avviene una sottrazione; dove si toglie, dove non si può dire che cos’è; in cui si può togliere tutto il resto per vedere quello che c’è. 

Sempre  verso la fine del romanzo Walser scrive «Mi devono gettare nudo sulla strada, e allora forse mi figurerò di essere  il signore Iddio che tutto abbraccia»: mi ha fatto venire in mente un libretto recente di Giorgio Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita. Io non penso che Walser conoscesse la leggenda dei sette dormienti, anche Calasso lo evidenzia. Questa però richiama strutture mitiche che tornano anche nella riflessione di Agamben sul monachesimo in cui parla del legame tra forma e vita nel monachesimo che mi pare molto abbia a che fare con Jakob von Gunten e con Walser in generale. Questo rapporto lui non lo concepisce come opposizione, ma sottolinea come in realtà derivi dalla capacità di pensare la vita come qualcosa che è dato, non come possesso, ma come in uso. Una cosa che riguarda molto questo cancellarsi, non avere niente, essere uno zero e poter usare il proprio corpo, la propria vita, per fare ciò che lui chiama servire.

Credo sia questo senso di spersonalizzazione che ci rende affascinante Walser, perché non ce lo fa apparire angoscioso. È la sua cifra ed è anche in parte la cifra dello spettacolo di Fabio: tutte queste azioni molto ripetitive che dovrebbero essere angosciose, gli attori presi in dei movimenti da cui non possono liberarsi, ma tutto è al tempo stesso molto divertente, giocoso, restituisce quasi un senso di grazia. La grazia è questo: essere presenti a se stessi, dimenticandosi di sé. La scelta di far mangiare un limone a un attore è angosciosa e violenta, ma diverte insieme noi che guardiamo e, penso, anche l’attore. Non possedersi, non avere il controllo su se stessi invece diventa quasi liberatorio, senza però diventare una cosa leggera, mantenendo questo aspetto un po’ sacro. Il sacro allora è l’orrore e il piacere che si incontrano. Un perdersi che angoscioso e liberatorio. 

Fabio Condemi: Nel realizzare quelle scene abbiamo seguito questa doppia sensazione: sentirsi al tempo stesso liberati da qualcosa, considerando anche l’immagine angosciosa che dava l’annullarsi. Dopo una lunga sequenza di ripetizioni di azioni che ci siamo detti dover essere precisissime, ma non avere scopo, una delle prime battute è di Jakob: «Io sono contento che in questo posto mi fanno indossare un uniforme perché nella vita non ho mai saputo che cosa indossare.» Riflettendoci, questa battuta, che tra l’altro suscita ilarità nel pubblico pronunciata in un periodo storico come quello di Walser, in cui sarebbero poi arrivate delle uniformi in tutta Europa, ha una doppia valenza.

Francesco Fiorentino: Peraltro Il tema dell’uniforme torna all’inizio della trilogia di Broch I Sonnambuli dove il protagonista si mette l’uniforme perché questo lo compatta.
La questione dell’uniforme è molto interessante perché permette di sottrarsi alla tendenza: i gusti di vestiario sembrano una delle scelte più individualistiche e personali che esistano. Sono però determinati dalla moda, che è quanto di più capitalistico ci sia; l’uniforme non è l’uniforme del soldato, ma del servitore, di chi rinuncia a dominare e perciò diventa sovrano. Questo desiderio di annullarsi è il grande sogno di Walser: sottrarsi all’ansia di riconoscimento. Nelle conversazioni con Carl Selig parla continuamente di successo mancato; è un suo problema ricorrente. Il caso Walser è indicativo perché è uno dei primi tentativi di sottrarsi al narcisismo che la nostra società costruisce per farci essere conformi ad essa. Walser fa questa grande rivoluzione per cui fa dire a Jakob von Gunten «Non voglio essere riconosciuto, voglio servire».

Gianni Celati, che era un grande lettore di Walser, in un saggio dal titolo Leggere e scrivere, parla di Walser come uno di quegli autori che sfuggono all’interiorità, aderendo piuttosto all’estetica del contingente, una categoria che molto ha a che fare con il teatro. Questa categoria ha a che fare con Walser e con Jakob von Gunten?

Fabio Condemi: Nei miei lavori il rapporto con il contingente si manifesta in modo indiretto, quasi obliquo, e raramente è affrontato frontalmente. Tuttavia, durante le prove di Jakob von Gunten (ma anche nella restituzione pubblica, in particolare alla Biennale di Venezia dove si carica inevitabilmente di forte aspettativa) certe azioni risuonavano fortemente rispetto al contemporaneo, e poi agli spettatori. In Walser, il contingente è sempre presente in modo indiretto: dal punto di vista scenico, la scelta concettuale di creare uno spettacolo sul non essere liberi, con l’introduzione di ostacoli alla libertà dell’attore anziché di improvvisazioni, ha avuto un forte impatto.  Quello che ne veniva fuori era molto forte: un continuo stridere con il contemporaneo e con le frasi fatte sul liberarsi o sull’essere se stessi che si dicono generalmente in teatro. Quello che noi abbiamo cercato di fare è di mettere in moto una drammaturgia e un marchingegno scenico che creasse degli impedimenti, come quello del limone: mangiarlo è un’azione reale che non può essere recitata; un’azione che costringe l’attore a confrontarsi con un movimento autentico che lo modifica. 

Francesco Fiorentino: Il tema del contingente, sia in Walser che nel teatro di Fabio Condemi, ha diversi livelli. Prima di tutto c’è il livello creativo, dove nonostante si parta con un’idea precisa già strutturata dello spettacolo, ci sono momenti imprevedibili o casuali che influenzano la creazione stessa, come ad esempio la scena in cui gli attori apparecchiano il tavolo con dei caschi che li costringono a muoversi insieme. Questa scena, come mi ha raccontato Fabio, nasce da un sogno fatto durante le prove. L’elemento contingente così entra nel processo creativo, ma viene poi sistematizzato. 

C’è poi il contingente che non vediamo, come nella scelta di far mangiare dei limoni agli attori, che viene incorporato nello spettacolo. Io penso che in questo Fabio compia una scelta che corrisponde molto a Walser: come una flânerie molto apparentemente scanzonata, la possiamo leggere al tempo stesso come un tentativo di esorcizzare il contingente. Tutto viene preso in questa rete di parole della passeggiata, del continuo dire senza che ci sia un evento che possa causare qualcosa di irreparabile. Walser lo prende dal sistema di ripetitività e ripetizione; Fabio costruisce uno spettacolo allo stesso modo. È interessante perché creando degli ostacoli per gli attori, questi si sentono più liberi, reagendo e ribellandosi all’imposizione del copione. In questo senso risulta più superficiale la libertà performativa che sembra aperta al contingente ma che in realtà poi lo cancella, si pensa di essere liberi, ma si finisce per ripetere sempre le stesse azioni: se siamo veramente liberi, ci annoiamo perché non accade nulla di nuovo. Al contrario, Fabio attraverso questa imposizione sceglie un ostacolo molto struttrato alla libertà dell’attore, che sente la propria libertà molto più palpabile,  perché la percepisce come costretta e impedita. Più grande è l’ostacolo, più cresce il desiderio di superarlo. Una poetica dunque che, secondo me, non si affida direttamente al contingente, ma che lo tiene presente quando si struttura in questo modo ripetitivo e rituale.

Il romanzo I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy si apre citando Walser, descritto attraverso il paesaggio dell’Appenzell vicino a Herisau, il manicomio dove l’autore ha trascorso gli ultimi anni della sua vita. Jaeggy descrive Walser attraverso il paesaggio innevato, definendolo «Un’arcadia della malattia, dove sembra regnare pace e un idillio di morte». Negli spettacoli di Fabio Condemi, sia in Jakob von Gunten ma anche Nottuari, lo spazio è sempre attivante, ideale, ma aperto anche allo straniamento, inquietante e distorto. Vorrei sapere se nel lavoro sullo spazio scenico c’è una ricerca di questa ambivalenza.

Fabio Condemi: Si, sicuramente c’è. In Jakob von Gunten, avevo ragionato in questo modo con Fabio Cherstich [autore della drammaturgia dell’immagine, scene e costumi ndr.]: cosa fare in questo spazio dell’Istituto Benjamenta, riprodurre l’architettura di un istituto reale? Non era questa la nostra intenzione. L’Istituto Benjamenta è una rete di tensioni che si crea  tra la presenza di Jacob il suo raccontare questo spazio: il lettore conosce questo spazio soltanto attraverso il racconto di Jakob nel romanzo. 

L’altro punto da cui sono partito è il sottotitolo di Jakob von Gunten ovvero Un Diario; un diario in cui non è segnato il tempo, dove non ci sono giorni, mesi, in cui si ha la sensazione  che potrebbero essere passati anni fra una pagina e la successiva. Jakob inizia dicendo:«Da quando mi trovo qui all’Istituto Benjamenta sono riuscito a diventare un enigma per me stesso». Non sappiamo da quanto tempo Jakob si trovi lì. Questo porta già in una dimensione di incertezza, a cui si aggiunge la descrizione degli altri allievi, che Walser dice «si preparano alla vita»: i loro esercizi sono come un’anticamera per la vita, come se si preparassero a uscire, senza che venga specificato verso cosa si preparino ad andare. La domanda allora sarà: che cos’è l’Istituto Benjamenta? L’adolescenza? Una fase della vita? Un momento in cui sono insieme la beatitudine il castigo? La grazia e il servire? 

A evocare questo spazio c’è anche il direttore dell’istituto, il signor Benjamenta, che nella mia riduzione non appare, ma soltanto nominato, evocato da un quadro appesa al contrario, che è il ritratto dello stesso Walser. Invece la figlia del direttore, Lisa Benjamenta, ad un certo punto diventa la guida per Jakob, di questo ne parla anche Calasso, verso gli appartamenti interni, descritti a tratti come una discesa allucinata agli inferi o come la grande scoperta della vita. Qualche pagina dopo, quegli stessi appartamenti interni sono descritti come delle stanze in cui c’è solo una vasca con dei pesci che gli studenti devono pulire.

Il tentativo mio e di Fabio Cherstich è stato quindi quello di tenere, anche nello spazio, un discorso di tensioni e sottomissione a un potere che non si vede mai, insieme a un continuo passaggio tra sonno-sogno-veglia. Non serviva avere una vera chiusura o delle pareti, c’era bisogno però avere delle tensioni tra i personaggi. Il ritratto appeso al contrario che non viene mai spiegato durante lo spettacolo, rimane come elemento di scenografia e può essere letto diversamente ogni volta, in base anche ai diversi punti dello spettacolo. L’acquario in scena diventa, ad un certo punto, un paesaggio ulteriore in cui Jakob si perde. 

Il suono anche diventa una drammaturgia: lo spazio viene abitato da suoni e passi, echi e metronomi e microfoni, restituendo la mia fascinazione verso il romanzo. La costruzione dello spazio coincide con il tentativo di capire quali sono le tensioni dentro il romanzo e restituirle, Sicuramente questa cosa ha influenzato anche dei miei lavori successivi: per Nottuari viene costruita  una sorta di macchina che segue la scrittura di Ligotti, una scrittura in cui si perdono le coordinate tra presente e passato e le storie si mescolano. 

Francesco Fiorentino: Gli spazi del Jakob von Gunten di Walser hanno qualcosa di intimo rimanendo però estranei, a me viene da dire come gli spazi dei sogni che sono spazi nostri, interiori, che mantengono però al tempo stesso una dimensione di estraneità e alterità, che io noto come una cifra anche del teatro di Fabio: i suoi sono spazi che hanno un ordine e una pulizia particolare. Il lavoro di Fabio Cherstich sul teatro di Condemi è essenziale, tutto è molto pulito, seppur ambiguo, lo spazio sembra intimo, però allo stesso tempo angosciante e strano, straniante. Nel finale di Jakob von Gunten questo spazio si sporca, diventa disordinato: c’è la neve, c’è un’accumulazione che rappresenta l’uscita verso un fuori che è il deserto,  l’apertura totale, il deserto è  il luogo che supera tutti i luoghi, il più disorientante che esiste: più del labirinto, perché ha indicazioni. 

Un altro elemento significativo di Fabio è che la sua è  scenografia fatta di tanti spazi che si aprono. Mi fa pensare a certe cose di Kafka, in cui non si sa mai cosa c’è dietro ogni porta, in Nottuari è così, proprio come negli spazi degli incubi. 
E poi c’è l’elemento dell’ascolto. In Walser Fabio lavora su una drammaturgia sonora molto strutturata, dal metronomo e tutta una serie di suoni che strutturano lo spettacolo. A proposito del suono è interessante notare che in Walser la fantasia è associata, evocata dal suono, dove si parla dello spazio che trascende, dell’oltre, del fuori. Questo è legato al suono, all’ascolto. 
Qualcuno ha detto che Walser gioca contro l’egemonia del visuale della cultura moderna, perché il visuale dà una cornice. Il tentativo è dunque quello di superare la cornice. Come diceva Derrida, l’orecchio è l’organo più vulnerabile; è sempre aperto, non si può chiudere come gli occhi, ma si può solo tappare. Ma non è la stessa cosa. 

condemi
Courtesy of La Biennale di Venezia – Ph A. Avezzù

Walser è un autore che, nonostante non sia primariamente legato al teatro, molto vi ha a che fare sia per quanto riguarda gli adattamenti: basti pensare al lavoro della Casa d’argilla sempre su Jakob von Gunten o all’Etang di Giselle Vienne, o ancora Brentano di Romeo Castellucci, ma anche perché spesso nei suoi racconti descrive il teatro che, dice, nasce dalla “mancanza di ciò che avrebbe dovuto essere”, Jaques Bondy  dice di lui che nel raccontare sembrava sempre stesse costruendo una recita. In cosa consiste dunque la specificità che avvicina Walser al teatro? 

Fabio Condemi: In un racconto che si chiama Un incendio a teatro, ad un certo punto della narrazione un teatro brucia c’è una sorta di strano disastro, è un racconto che ho letto spesso durante le prove, perchè come alcune pagine di Jakob von Gunten prende una deriva inaspettata. C’è un momento del romanzo in cui Jakob immagina di essere un soldato sotto Napoleone e la narrazione subisce un cambiamento radicale di stile, ci troviamo improvvisamente nelle distese innevate. 
Anche in questo racconto sul teatro, c’è un punto in cui si apre questa scena di incendio, provocando un cambiamento improvviso. 

Io personalmente credo che il rapporto di Walser con il teatro si situi in quello che diceva Francesco Fiorentino: paradossalmente ti porta ad andare contro una dittatura del visuale, perché le immagini che dice Walser non si visualizzano, entrano nella  testa.  In Jakob von Gunten la figurazione così enigmatica di un luogo in cui le persone imparano a servire, è potentemente teatrale,  genera immaginazione, fa girare la testa, le orecchie, ti cambia. Oltre a tutto questo c’è da considerare anche che Walser sfugge sempre,  e questo porta a cercare il vuoto tra questa immagine che colpisce così potentemente e il fatto di volerla concretizzare,  parla, ma non è mai descritta in modo definito e definibile. Un’altro nucleo, per tornare al saggio di Calasso, che a me aveva colpito moltissimo e che è tornato spesso nel modo lavorare sul testo, è quando lui parla di ironia ininterrotta di Walser, in cui anche prendersi sul serio il creare delle immagini dello spettacolo viene messo in discussione. Tutte le immagini che c’erano nello spettacolo dovevano in qualche modo svanire l’una nell’altra senza prendersi troppo sul serio e senza cercare di dare un’importanza specifica a una in modo da guidare troppo lo spettatore. La forza di Walser è che, alla fine di una sezione come la descrizione degli appartamenti interni, in cui sembra descrivere una discesa negli inferi, lui dice «Oggi poi ho pulito le posate» È come se non fosse successo niente.

Francesco Fiorentino: Per quanto riguarda il rapporto di Walser con il teatro di Walser ci sarebbe da ragionare sulla figura dell’attore, lui parla sempre di se stesso, anche in prosa ha scritto tantissimo, parlando quasi solo di se stesso, senza però dire niente di intimo. È come se parlasse di se stesso senza avere un’interiorità, rappresentandosi come senza interiorità.

È veramente un attore in questo senso, nel senso che sembra veramente, nel mezzo di una parte, che non creda a quello che dica e che stia recitando quello che dica, però non si sa bene poi a che cosa creda veramente. Questo è un altro modo per definire quell’ironia ininterrotta: non si sa mai quando è serio, non si sa mai quando è lui. In questo risiede il suo essere  teatrale: è un attore che non smette mai di essere attore per tutta la vita. Anche quando dorme, è qualcosa di angoscioso, perché è un attore che non torna mai ad essere lui.
Questa è la cosa più teatrale: fa finta, è cerimonioso, è troppo esagerato, è sempre Fritz Kocher. Questo penso che sia una natura essenzialmente teatrale, perché a teatro non si sa mai se si deve credere o meno.

Inscrivere un testo nei corpi. Le latitudini drammaturgiche de lacasadargilla

Inscrivere un testo nei corpi. Le latitudini drammaturgiche de lacasadargilla

Di Alessandro Iachino

Per scrivere un curriculum, ricorda Wisława Szymborska, «è d’obbligo concisione e selezione dei fatti»: ecco che, nel sintetizzare la vicenda artistica del gruppo lacasadargilla, ormai prossimo ai vent’anni d’età, potrebbe essere sufficiente osservare le date delle produzioni, oppure quelle in cui ha ricevuto consacrazione e riconoscimenti prestigiosi. 2006, il debutto dello spettacolo che ha poi dato nome al collettivo romano; 2012, l’esperienza di Art You Lost? condivisa con Muta Imago, Santasangre, Matteo Angius; 2014, la prima edizione dello storico festival IF / Invasioni (dal) Futuro. Gli anni scorrono veloci, nello sfogliare un album le cui ultime pagine menzionano i premi Ubu vinti con When the Rain Stops Falling, con Anatomia di un suicidio, con Il Ministero della Solitudine; certo, le «cianfrusaglie del passato», come le definirebbe la poeta polacca, non potrebbero trovare traccia alcuna in un racconto che volesse essere esaustivo senza per questo risultare pedante. 

La storiografia tralascerebbe forse i tempi pigri delle letture al tavolino e quelli irrilevanti della loro sedimentazione, oppure quelli non catalogabili degli incontri, delle passioni e dei ritorni di fiamma: tuttavia, mai come nel caso della compagnia formata da Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni, Alice Palazzi e Maddalena Parise, è proprio nella spola del tempo, nei suoi inciampi e ritardi così come nelle sue torsioni, che sembrano situarsi non soltanto un’essenza identitaria, quanto soprattutto un metodo di lavoro ormai affinatosi, una processualità riconosciuta, negli anni, come propria e imprescindibile. Di «lavorio lento» parla Ferlazzo Natoli, in una conversazione che abbiamo avuto pochi giorni prima che Uccellini – la nuova creazione del gruppo, con drammaturgia firmata da Rosalinda Conti – fosse presentata in anteprima a Pesaro, Capitale italiana della cultura 2024: di una relazione con i testi che sembra potenzialmente interminabile, che si compone di tappe spesso impreviste o imprevedibili, di attese e appuntamenti mancati. 

«Abbiamo imparato, nel rapporto con le drammaturgie, a fare ciò che non possiamo fare con la vita, che si dirige sempre verso la fine, la morte. Con i testi possiamo invece viaggiare avanti e indietro nel tempo», aggiunge, ripercorrendo i ripetuti incontri avuti con L’amore del cuore prima che prendesse forma spettacolare, o con lo stesso Uccellini. È ancora il 2015 quando lacasadargilla affronta per la prima volta il dramma scritto da Caryl Churchill, che debutterà poi solo nel 2021; ed è proprio nel 2021 che si accosta all’opera di Rosalinda Conti, la cui prima assoluta è prevista per l’ottobre di quest’anno, nell’ambito di Romaeuropa Festival. «Tocchiamo un testo, lo trattiamo, lo mettiamo in vita una prima volta – perché di questo si tratta: di vita, non di una lettura – e poi aspettiamo, ci ritorniamo sopra, verifichiamo che le condizioni siano ottimali». 

Le condizioni, com’è ovvio, si identificano con sufficienti garanzie produttive o residenziali, con la possibilità che quel determinato progetto trovi cioè un terreno adeguato alla propria crescita: ma afferiscono anche a una temperatura biografica, alla consapevolezza che il tempo del teatro è cairologico e non cronologico, si compone di istanti opportuni più che di sequenze e successioni. Quel kairòs pertiene anche e soprattutto agli interpreti che incarnano le storie di vita attraversate dalla drammaturgia: appartiene cioè alle fibre di Francesco Villano o di Emiliano Masala, di Tania Garribba o di Petra Valentini, di Fortunato Leccese, di Caterina Carpio o della stessa Palazzi, intercettate – non semplicemente dirette, né soltanto scritturate – nell’istante in cui possono far risuonare ed echeggiare con nitore le voci orchestrate da Andrew Bovell, da Alice Birch, da Edward Bond, o nel momento in cui possono finanche donare le proprie parole a un testo, come nel caso della scrittura collettiva – amalgamata e resa coesa da Fabrizio Sinisi – de Il Ministero della Solitudine

È un itinerario di conoscenza che inscrive un testo nei corpi di un ensemble attorale, e che di conseguenza trova forza e senso nelle frequenti soste, in tutti gli incroci che ciascun attore e ciascuna attrice si trova ad attraversare nel corso della propria carriera e del proprio lavoro con lacasadargilla. Difficile, se non impossibile, è perciò immaginare il John di Anatomia di un suicidio, straordinariamente reso da Francesco Villano, senza ricordare il suo Joe Ryan di When the Rain Stops Falling, e insieme a lui quel grumo di dolore che accomunava entrambi gli uomini; o la fissità dello sguardo di Tania Garribba, descritta da Birch sulla riva di un fiume insieme all’amatissima figlia, senza pensare all’attonito disarmo con cui rispondeva a una telefonata intercontinentale nel vertiginoso dramma firmato da Bovell. 

Parlano tra loro, le figure protagoniste delle opere affrontate da lacasadargilla in tutti questi anni: si confidano dubbi ed entusiasmi, si consegnano posture e tic, vezzi linguistici e ombre, come se l’intertestualità – lungi dall’essere una mera chiave interpretativa di un percorso artistico – fosse soprattutto una nota di regia, un invito rivolto ad attrici e attori a farsi accrescere da una stratigrafia esistenziale, dai sedimenti che battute, gesti, intere frasi hanno lasciato dietro di sé. È un «mettere in valore un progetto dentro l’altro, come in una matrioska, ed è possibile solo concedendoci una tempo lungo», sottolinea Palazzi.

Di questa relazione d’amore – che lega il collettivo ai propri interpreti, ma rifugge il possesso esclusivo, aprendosi e arricchendosi grazie ai legami che ciascuno stringe nel corso del tempo – sono elemento necessario, e incandescente, le drammaturghe e i drammaturghi con i quali lacasadargilla ha condiviso i percorsi, intrecciando sguardi, visioni, valori. È un avvicinamento realizzato su un territorio che Alessandro Ferroni definisce «rischioso»: dove il conflitto appare potenzialmente sempre presente, ma che più spesso ha dato origine a incantamenti e legami pluriennali, destinati a durare ben oltre la sera della prima. 

Edward Bond, quasi ottantenne, accolse Lisa Ferlazzo Natoli con un freddo «you’re such a primitive person», quando, in occasione del primo incontro, la vide fumare una sigaretta: eppure, i tre giorni che trascorsero insieme, discutendo e confrontandosi sulle proposte di adattamento immaginate dalla regista per il monumentale, ciclopico Lear – più di cinquanta personaggi, distribuiti su otto interpreti nella versione firmata dal gruppo romano – si sciolsero in un rapporto di stima, comprensione, fiducia. Ad accomunare il teatrante e il drammaturgo, nelle parole di Ferroni, è sempre  d’altro canto un’identica ricerca, un medesimo «desiderio di conferire la forma più adatta al testo»: una quête evidente anche quando si nutre delle differenze, quando restituisce l’afflato naturalistico del Bovell di When the Rain Stops Falling in una creazione che affida solo alle parole il compito di determinare azioni, avvenimenti, luoghi, o quando mette in scena finanche le didascalie, una «bold choice» che l’autore australiano imparò ad apprezzare. 

lacasadargilla
Il Ministero della Solitudine – Ph Claudia Pajewski

Ciò che resta invariato e comune, nella complessità di latitudini drammaturgiche toccate dalla compagnia, è l’interesse per testi che possano connettere un microcosmo familiare e intimo – quello della «puntualità di una caffettiera che borbotta», nell’efficace immagine proposta da Ferlazzo Natoli – all’universo, al mondo fuori dalla stanza che abitiamo. Riuniti intorno a un tavolo – oggetto feticcio dell’arte della compagnia romana, presente in When the Rain Stops Falling, in Uccellini, ne L’amore del cuorei personaggi amati da lacasadargilla contemplano un mondo quotidiano e banale, in grado tuttavia (o forse proprio in virtù di questa stessa ordinarietà) di accordarsi al «brulichio al centro del pianeta». Le case edificate dal collettivo – quella voluta, e infine abbandonata, da tre generazioni di donne in Anatomia di un suicidio, o quella in cui si consuma un’attesa nel dramma di Churchill – sembrano infatti spalancarsi sull’abisso di un’alterità: spaziale, biologica, temporale. 

I fantasmi del passato hanno impresso le loro ombre su muri e arredi, sulle anime dei viventi, e presenze animali o naturali incombono con i loro misteri alle porte di un ambiente separato ma ciò nonostante osmotico: ecco un uccello alto tre metri che irrompe nel salotto de L’amore del cuore, e la pioggia che batte alle finestre nel testo di Bovell. Ecco un nuovo paradigma, una diversa prospettiva, imporsi all’attenzione di personaggi e spettatori: qui, nel chiuso di un appartamento così simile a un teatro, storie e vicende lontane chiedono di essere raccontate, e infine ascoltate. La centralità che questa differenza assoluta riveste nelle vicende portate in scena da lacasadargilla è indubbiamente legata anche alla lunga frequentazione con la letteratura di fantascienza: Jeff VanderMeer, Ted Chiang, Ray Bradbury, Octavia E. Butler, tutte le autrici e gli autori affrontati nelle dieci edizioni di IF / Invasioni (dal) Futuro costituiscono così il fascinoso terreno di coltura nel quale hanno preso forma le galassie tematiche e le temperature emotive poi dispiegatesi nelle produzioni maggiori. La famiglia – «il più crudele e feroce dei luoghi» secondo Ferroni, ma anche il fondamento al quale «ci scopriamo inchiodati» nonostante le distanze, le fughe, le peripezie autobiografiche di ciascuno di noi – si rivela in questo senso, per lacasadargilla, lo spazio teatralmente più fecondo: il luogo nel quale l’eredità degli antenati e la persistenza delle memorie si manifestano con esiti sorprendenti, drammatici, finanche comici. 

Non stupisce che sia soprattutto la drammaturgia angloamericana il paesaggio letterario al quale il gruppo attinge con maggiore frequenza: nella contemporaneità teatrale inglese e statunitense, studiata e vivificata da lacasadargilla, ciò che appare con evidenza è la consapevolezza della commistione di immaginari e tradizioni, di lingue, di vissuti che contraddistingue città e società, e che si riflette, spesso inconsapevolmente, nei tessuti domestici e familiari protagonisti delle vicende. Cita il Kushner di Angels in America, Ferlazzo Natoli, come esempio di un testo nel quale l’intimità di un interno famigliare è specchio delle contraddizioni esplosive di un mondo al collasso, e che si apre, non caso, con un omaggio a un’anziana donna ebrea e ai reperti polverosi di vita che la donna recava con sé:

«Because she carried the old world on her back across the ocean, in a boat, and she put it down on Grand Concourse Avenue, or in Flatbush, and she worked that earth into your bones, and you pass it to your children, this ancient, ancient culture and home. (…) But every day of your lives the miles that voyage between that place and this one you cross. Every day».

 Tony Kushner, Angels in America. A Gay Fantasia on national Themes. Part One: Millenium Approaches, Theatre Communications Group, New York 2013, act one, scene one, pp. 10-11.

In questa rotta tra le epoche e le geografie, alcuni traduttori hanno rappresentato per lacasadargilla insostituibili interlocutori: invitati però ad agire accanto ai drammaturghi e in loro vece, nel desiderio che potessero costituire una loro necessaria, e preziosa, protezione alle intemperanze della regia. Tommaso Spinelli per Bond, o Margherita Mauro per Bovell e Birch, sono stati primariamente difensori degli autori, e soprattutto dell’opera della quale, per primi, si erano innamorati. Racconta Maddalena Parise le ore trascorse insieme a loro, nell’ascolto reciproco delle ragioni alla base di minime variazioni sulla punteggiatura, di modifiche alla sintassi, di sfumature o preferenze lessicali: un processo tuttavia reso possibile non soltanto da una profonda conoscenza della lingua, ma soprattutto da una passione viscerale per il testo, per quel testo. E in quest’azione di cura di un’opera, quei traduttori hanno squadernato all’attenzione dell’ensemble attorale sottotesti, criptocitazioni, riferimenti evidenti soltanto al loro sguardo e offerti come materiale necessario alla costruzione del personaggio: ecco ad esempio Margherita Mauro invitare alla lettura di Anne Sexton, o di Virginia Woolf, come correlati di Anatomia di un suicidio, così che questi nuovi testi potessero sedimentarsi nelle parole, nella prossemica, nel timbro degli interpreti, al di sotto e al di là del dettato drammaturgico. 

Una «luminescenza», sostiene Ferlazzo Natoli, un chiarore che i drammaturghi disvelano nella duplice prossimità all’autore da un lato, e alla compagnia dall’altro: a ricordare, una volta ancora, di quale orizzontalità, di quale pluralità di competenze e vite, si debba nutrire un teatro non più verticistico, ma complesso e antico come un’alleanza.

Algoritmi, topic modeling e altre contemporaneità: il teatro internazionale in Italia nel 2023/24

Algoritmi, topic modeling e altre contemporaneità: il teatro internazionale in Italia nel 2023/24

a cura de L’O.C.A. – Osservatorio Critico Autogestito

IntroduzioneGuardare per la prima volta qualcosa di già visto 

di Irene Buselli

Di che cosa parlavano gli spettacoli stranieri che abbiamo visto nell’ultimo anno in Italia? Quali sono, se ci sono, le tematiche comuni o le prospettive inattese delle drammaturgie che vengono “da fuori”?
Per provare a rispondere, ne abbiamo raccolto cinque: Ex – Esplodano gli attori di Gabriel Calderón, Prima di Pascal Rambert, Entertainment di Ivan Vyrypaev, Top Girls di Caryl Churchill, Terzo corpo – Storia di un intento assurdo di Claudio Tolcachir.

Abbiamo poi pensato di provare ad adottare a nostra volta, in qualche modo, uno sguardo “da fuori”. Ci siamo chiesti se si potessero leggere questi testi con un occhio più vergine possibile – senza cioè tenere conto di conoscenze, aspettative e contestualizzazioni pregresse. Se si potesse tentare di essere spettatori il più possibile ignari e lasciare per un attimo da parte il nostro sguardo da storico, da critico o da ricercatore. 

Ci siamo fatti aiutare in questo da uno strumento che negli ultimi anni, come redazione, abbiamo utilizzato più volte: un modello di elaborazione del linguaggio naturale, in particolare un algoritmo di topic modelling. L’assunzione matematica alla base del funzionamento di questo tipo di algoritmi è che ogni argomento (topic) sia definibile attraverso una distribuzione probabilistica di parole e ogni testo sia definibile attraverso una distribuzione probabilistica di topic. 

L’aspetto forse più interessante di strumenti come questo, nel nostro caso, è che è possibile individuare le tematiche più comuni all’interno di una raccolta di testi in modo completamente scevro da qualsiasi conoscenza o giudizio precedente, applicando solo lo sguardo vergine della matematica, che ragiona solo sulla distanza e la frequenza con cui compaiono le parole. 
L’algoritmo è quindi in grado di identificare i topic in modo totalmente automatico, anche se alcuni dei parametri devono essere fissati dall’utilizzatore “umano”: ad esempio, in questo caso, il numero di topic che considereremo nella nostra analisi (tre) è stato scelto da noi.

Questi i topic estratti dall’algoritmo, descritti attraverso le loro parole chiave (ovvero, le parole che nella distribuzione matematica individuata dal modello risultano le “più probabili” dove il testo tratta di quell’argomento) e il titolo dato da noi:

Topic 1 | Il teatro come dimensione del possibile
Teatro, scena, attore, realtà, esiste, domanda, spettacolo, vero

Topic 2 | Il corpo innamorato
Amare, corpo, pelle, felice, fare, amore, sguardo, cuore

Topic 3 | Il tempo del lavoro, il lavoro del tempo
Lavoro, ufficio, caffè, pausa, scrivania, segretaria, lavorare, tempo

Quello che segue è il nostro tentativo – da qui in poi, decisamente molto più umano che matematico – di indagare cosa ci dicano davvero questi topic e in che modo gli spettacoli li abbiano toccati: finalmente, possiamo rimetterci sul naso le lenti da critici.

Modellazione algoritmo e introduzione a cura di Irene Buselli.
Analisi drammaturgiche a cura di Letizia Chiarlone, Massimo Milella, Matteo Valentini.
Revisione di Eva Olcese e Matteo Valentini.
Testi: Ex – Esplodano gli attori di Gabriel Calderón (trad. Teresa Vila), Prima di Pascal Rambert (trad. Chiara Elefante), Entertainment di Ivan Vyrypaev (trad. Teodoro Bonci del Bene), Top Girls di Caryl Churchill (trad. Maggie Rose), Terzo corpo – Storia di un intento assurdo di Claudio Tolcachir (trad. Rosaria Ruffini).
Si ringraziano le traduttrici, i traduttori e le case editrici che hanno messo a nostra disposizione i loro testi.

teatro internazionale
Ex – esplodano gli attori – Emanuele Valenti © Luca Del Pia

Il teatro come dimensione del possibile
Topic 1 (teatro, scena, attore, realtà, esiste, domanda, spettacolo, vero)

di Letizia Chiarlone

«Nel teatro da tempo non c’è più nessun Dio, ma normale inferno post-moderno» in cui vengono  sacrificate le convenzioni affermatesi con il teatro borghese: in Entertainment di Ivan Vyrypaev – da cui è ripresa la citazione –  la presenza della quarta parete viene dissolta nel momento in cui troviamo gli attori seduti con noi in platea; in Ex – Esplodano gli attori di Gabriel Calderon, la linearità della prosecuzione temporale della vicenda viene stravolta e sostituita da una molla impazzita che saltella in continuazione tra futuro, passato e presente; il realismo stesso e lo statuto finzionale sono compromessi nel momento in cui le scene e i loro ambienti si presentano giustapposti – o, addirittura, sovrapposti –  e gli stessi attori aspettano o si preparano per la scena successiva direttamente sul palcoscenico (come possiamo dedurre in Terzo Corpo di Claudio Tolcachir da indicazioni di didascalia). 

L’annientamento della quarta parete, la dissoluzione dello svolgimento dell’azione come successione di azioni ambientate nel presente e l’attacco alla finzione realistica non sono che alcuni esempi di operazioni che hanno avuto come principale obiettivo quello di saggiare i limiti dell’istituzione teatrale e spingerla a interrogarsi su sé stessa. Per questo motivo si parla di “inferno”: non è proprio a partire dalla mela offerta dal maligno stesso che si è cominciato a dubitare della bontà dell’operato divino, cioè di quelle convenzioni che la consuetudine ha portato a radicarsi?

A questi tentativi di sperimentazione si è unito l’intento di sfruttare l’arte teatrale come dimensione di intrattenimento in cui tutto è possibile perché, come scrive Vyrypaev, alla fine «non resterà niente di nessuno, perché qui non c’è proprio niente e nessuno», al di fuori della concretezza dei corpi degli attori che si toccano, di qualche vecchia locandina e della materialità del palcoscenico spoglio (o di qualunque luogo si adibisca alla messinscena). Le vicende dei personaggi, gli stessi ambienti rievocati dalle scenografie non esistono e non esisterebbero se non ci fosse un pubblico che, in una qualche forma si facesse testimone del loro essere. Infatti, il presupposto perché si possa fare teatro – riprendendo quanto espresso da Peter Brook nel saggio The Empty Space –, consiste in «un uomo che cammina attraverso uno spazio vuoto mentre qualcun altro lo sta guardando». Senza quella interazione basilare tra attore e spettatore, il teatro non può darsi, ed è un concetto che ritroviamo tanto ne Il vento in un violino di Tolcachir – non tra i testi presi in analisi in questo contesto, ma meritevole di una menzione -, quanto in Prima di Pascal Rambert, dove ritorna ossessivamente il tema dello sguardo. Non è un caso che il dramma di Tolcachir si apra con queste parole:  

«L’attrice che interpreta Celeste entra in scena, cammina verso il proscenio, guarda il pubblico e dice: Tutto quello che vedo è nei tuoi occhi. Guarda…guarda…» (da Il vento in un violino di Claudio Tolcachir). 

È una supplica, quella di Celeste, che sa di non poter prendere vita se non c’è qualcuno ad ascoltare la sua storia e di non essere in grado di vedere se non attraverso lo sguardo degli altri. Un albero produce davvero un tonfo, quando cade, se non c’è qualcuno che sia lì per ascoltarlo?
E così in Prima di Pascal Rambert viene detto «Siamo tutti di fronte a qualcosa, a noi stessi, allo sguardo di altri» e vale tanto per i personaggi quanto per noi stessi, che sappiamo di essere vivi perché le altre persone sono testimoni delle nostre azioni, mentre il nostro pensiero più intimo si fa portatore della consapevolezza di esistere e di essere dotati di un’interiorità concreta.

Coloro che sono spettatori della nostra vita hanno la possibilità di modificarne il corso. Allo stesso modo la relazione attore-spettatore – che per lungo tempo si è codificata come un rapporto riassumibile nell’espressione “io agisco/ tu guardi” – con l’avvento del teatro post-moderno è stata modificata radicalmente. Nei testi presi in analisi, però, viene ancora mantenuta una rigida separazione tra palcoscenico e platea, seppur mitigata con saltuarie allocuzioni al pubblico, come quelle di Josè in Ex, il cui scopo è quello di guidare lo spettatore tra i vari sbalzi temporali della vicenda, senza ricercare la partecipazione diretta degli spettatori. 

Ma cosa rimane quando il sipario cala, gli attori smettono i panni dei personaggi e i membri del pubblico si disperdono e tornano nelle rispettive case? La luce che rende possibile la vita finché illumina il palco si spegne e tutto si riduce alla sensazione suscitata nello spettatore dalle azioni e dai sentimenti espressi dagli attori.  L’autenticità della risposta del testimone in sala contrasta con la natura fittizia dell’emozione mostrata sulla scena. Ci si potrebbe chiedere, come fa Ivan Vyrypaev, se sia necessario amare o soffrire veramente in quel determinato istante per rappresentare l’amore o il dolore, e quanto questo renderebbe vero, e non solo credibile, il sentimento di cui si fa mostra. Possiamo pensare che un attore debba aver esperito un’emozione per poterla esprimere in modo verosimile, con le movenze, i toni e la mimica facciale adatti. Ma non ci è concesso  sapere se, nel dato istante, stia anche rivivendo la sensazione tale e quale dentro di sé o se ne stia completamente distaccando, a seconda anche della scuola di pensiero recitativa che sta seguendo: si pensi solo alla distinzione tra l’attore “caldo” che basa la sua interpretazione esclusivamente sul rievocare e sperimentare di nuovo una data emozione e l’attore “freddo” che invece si distacca dal suo personale sentire (da Denis Diderot, Paradosso sull’attore). Di fronte a lui, lo spettatore tende a credere a quello che vede ed è portato a reagire di conseguenza: piange di fronte ad una scena commovente, si emoziona per una dichiarazione d’amore, e non può fare a meno di chiedersi, come Lei in Entertainment, «come fai a sapere che in questa donna, nell’istante in cui finge di amare quest’uomo mentre rappresenta l’amore, non c’è nemmeno una goccia di vero amore?»

Come nel rappresentare le emozioni, così nel mostrare la preparazione del personaggio prima di entrare in scena, si impone la questione della tensione dualistica tra l’attore e il suo ruolo, cioè tra il corpo soggetto allo scorrere del tempo e la creazione che viene fatta vivere attraverso di esso. A proposito di questo, Prima di Rambert insiste molto sul modo in cui gli attori protagonisti del suo dramma si vedono allo specchio, decaduti, e accusano la loro memoria e le loro membra di non essere più così prestanti e quindi adatti a calarsi in determinate parti. È impossibile pensare che, a sua volta, il personaggio, nella sua incorruttibile potenza, non venga “guastato” dai difetti dell’interprete, che siano fisici o mentali, nel momento in cui si fa atto. Così la pensava Gordon Craig, e con lui molti altri teorici del teatro, che ritenevano impossibile che l’attore potesse staccarsi del tutto da sé stesso per lasciarsi impossessare dal personaggio.

Ciò si riflette anche nell’impossibilità dei personaggi di spiccare sulla scena in maniera netta, tanto quanto noi, individui contemporanei, siamo incapaci di rivendicare la nostra integrità e l’essere protagonisti della nostra esistenza. Nel teatro post-moderno viene appunto messa in crisi la capacità del dialogo di “risolvere” il personaggio e le sue contraddizioni, della parola di «far succedere cose», di mandare davvero avanti l’azione sulla scena e di farla coincidere con le intenzioni espresse. Secondo il filosofo e linguista inglese John Langsaw Austin, «parlare è sempre agire», sulla base della definizione di enunciato performativo, per cui la parola è in grado di incidere sulla realtà e modificarla, producendo un nuovo stato di cose. Però perché possa avvenire tale cambiamento, occorre che siano «soddisfatte delle condizioni di carattere non linguistico, senza le quali la formula fallisce».(da Estetica del performativo, di Erika Fischer-Lichte). Tali condizioni sono di carattere sociale e istituzionale, per cui una parola, per poter realizzare un’azione, deve vedere riconosciuto il suo potenziale performativo dai membri della società. Ma se le parole risultano svuotate di significato per la loro società di riferimento, incapaci di intervenire sullo stato delle cose, perdono il loro carattere performativo e la possibilità di essere davvero fautrici di un cambiamento. 

E così perdiamo il controllo sulla possibilità di rimettere a posto i pezzi e trovare delle risposte, come Ana di Ex che, per quanto lotti per essere protagonista della sua storia e riprendere possesso del passato, distorcendo addirittura le pieghe del tempo, si ritrova a mani vuote. 
La vita, in fondo, non è che la nostra personale recita, in cui siamo coinvolti come attori e spettatori al tempo stesso. E non sono altro, tendenzialmente, che vite o squarci di esse quelle che ci vengono raccontate sul palcoscenico. Ma allora ci si potrebbe chiedere a cosa serve il teatro se possiamo semplicemente metterci con la sdraio in giardino a spiare i vicini che litigano e chiamarlo uno spettacolo. La risposta sta nella dimensione del possibile. A teatro, tutto è possibile. A teatro, possiamo essere chi e cosa vogliamo, agire o meno, parlare o stare in silenzio. C’è un margine di libertà tale da non poter essere contenuto nelle quattro pareti del mondo reale. Il teatro necessita di essere preservato in quanto dimensione in cui si possono concretizzare le nostre elaborazioni più selvagge o si possono violare regole e tabù sociali, sfociando addirittura nella violenza enel blasfemo (dall’ Orbecche di Giraldi Cinzio a Porcile di Pasolini).

Sfogare  tali istinti permette di purificarsene, di soddisfare il proprio voyeurismo perverso, di alleggerirsi. Oppure no. Non necessariamente quanto vediamo sulla scena ci lascerà una sensazione di sollievo e liberazione, anzi, può addirittura sconvolgerci e ossessionarci: nulla impedisce al teatro di uscire al di fuori dello schema aristotelico della catarsi e di riempirci di dubbi al posto di risolverli. Per fare un esempio, ci si può appellare alle drammaturgie del teatro surreale, come Il compleanno di Harold Pinter, che terminano lasciando lo spettatore confuso, oppresso da un senso di minaccia incombente e dalle questioni lasciate sospese.  

Non è strettamente necessario liberarsi di questa sensazione di smarrimento, possiamo anche scegliere di indugiare in essa e farci avvolgere. La potenza del teatro sta appunto nella possibilità di scelta che lascia non solo a sé stesso, ma anche a coloro che lo animano: la possibilità di credere o meno a quel che si vede, di recitare amando davvero o non amando per niente, di essere protagonisti o comparse, di chiarire o non spiegare affatto, di osservare e non guardare. 
È proprio questo l’aspetto del teatro più veritiero, che tanto lo rende simile e dissimile dalla vita al tempo stesso, che ne denota la capacità, ancora oggi, di parlare a chiunque. 

teatro internazionale
Prima –  Pascal Rambert © Masiar Pasquali

Il corpo innamorato
Topic 2 (amare, corpo, pelle, felice, fare, amore, sguardo, cuore)

di Matteo Valentini

Lontano dall’estatica completezza che la vulgata platonica, cristiana e hollywoodiana vorrebbe per lui, il corpo innamorato è, nei testi analizzati, un corpo disfatto. L’amore non lo muove armoniosamente verso una pienezza, non lo eccita a raggiungere una completa gioia del vivere, ma si compiace di deformarne tanto la superficie quanto i recessi segreti. Corrisposto o meno, l’amore qui disorienta, occulta, uccide, consuma colui e colei che ne sono colpiti.

È evidente nel monologo iniziale di Prima di Pascal Rambert, ambientato durante le prove di uno spettacolo teatrale,  in cui Anna B., attrice settantaduenne, confessa di essere innamorata di Marco, giovane collega, mentre strazia con lo sguardo il proprio corpo davanti a uno specchio: «che arroganza rispetto al tempo ma lo vede il suo corpo? se lo vede il seno? le pieghe sulla pancia? le pieghe sopra le ginocchia? le vede tutte queste cose?». 
Lo sguardo, tradizionale vassallo della passione amorosa, si rivolta contro la sua portatrice e la seziona con una crudezza cannibale che riemergerà altre volte all’interno della pièce, ricordando i monologhi tempestosi della Salomè di Oscar Wilde: «vedi si può sognare di mordere una bocca di aspirare tutto ciò che una bocca racchiude la tua bocca mi piace così tanto qualcuno è attratto dal petto il sedere le gambe a me mi uccide la tua bocca»    
Altre volte lo sguardo è impotente di fronte all’oscenità dell’amore, alla sua pervicacia infestante. I suoi sintomi, nelle parole di Leda, attrice amata da Marco, sono escrescenze che conducono all’auto-consunzione: 

«come guardarla questa cosa che abita sul mio corpo? il tuo amore ormai abita sul mio corpo come guardarlo crescere? come guardarlo accovacciarsi sulla mia pancia sul mio petto? […] sto divorando me stessa divorando questo amore dentro di me no non c’è amore quest’amore dentro di me lo sto facendo bruciare perché non si diffonda non si diffonda su di te rimanga circoscritto alla mia persona soltanto bruci solo me».   

Non è un caso che Marco definisca il proprio corpo, centro nevralgico del desiderio di Prima, «un oggetto balordo […] che avanza come un coltello aperto», pronto ad assaltare, ferire, tagliare, estrarre.   

Anche in Top Girls di Caryl Churchill l’amore e le sue conseguenze vengono sempre contrassegnati da un atto di forza. Nella prima parte del dramma, le celebri donne della storia e del mito convocate a banchetto dalla protagonista Marlene raccontano le varie vessazioni a cui i loro corpi furono costretti: Lady Nijo, poetessa e monaca giapponese del XIII secolo, venne ceduta dal padre all’imperatore Go-Fukakusa; Griselda, protagonista dell’ultima novella del Decamerone, fu prelevata dal suo futuro sposo a casa del padre; a seguito di un parto pubblico che ne smascherò il genere, la papessa Giovanna, personaggio legato alla storia o al folklore medievale, venne linciata dai suoi stessi fedeli.

Se l’amore verso l’altro da sé, in Churchill, è accidentato (ma anche Anna B, in Prima, lamenta che «l’amore dovrebbe essere facile»), materiale, parallelo a una costrizione fisica, uno sforzo, un sacrificio, una malattia, in Terzo corpo di Claudio Tolcachir, esso è sfuggente, sempre rivolto a una dimensione altra rispetto all’inconcludente cicaleccio sulla scena, verso una sezione, appunto, terza, legata all’assenza, alla sparizione o all’occultamento.

L’amore non si trova nei battibecchi da ufficio, nelle ordinazioni al bar o negli evasivi confronti domestici, ma nello spazio della morte, dell’attesa o del desiderio.  Il “terzo corpo”, infatti, può essere quello della defunta madre di Héctor, del figlio desiderato da Sandra, o dell’amante di Manuel, che aleggiano sulla storia per accenni o intuizioni. Quando però questi corpi si realizzano sulla scena, ecco che sono immediatamente aggrediti dalla mestizia dell’esistente. Héctor ha bisogno di farsi dettare il necrologio dalle sue colleghe per un funerale a cui nessuno parteciperà; Sandra confessa alla sua dottoressa di avere mentito e di non avere alcun marito con cui programmare una gravidanza; Manuel dichiara a tutti la sua relazione con Héctor, e quest’ultimo replica: «Io non ho mai amato nessuno, non capisco che cosa sta succedendo…».
Quando il reale trova la sua manifestazione, sembra dire Tolcachir, viene raggiunto dall’insensatezza del mondo e, conseguentemente, da una placida indifferenza, la stessa che emerge nella conclusione della pièce: 

«HÉCTOR: Che strano, no? 
SANDRA: Cosa? 
HÉCTOR: …tutto… 
MONI: Sì… è vero. 
SANDRA: Sì… »     

Da premesse piuttosto simili sembra partire ENTERTAINMENT. Una commedia sull’amore in cui tutto è possibile di Ivan Vyrypaev. Due spettatori, Lui e Lei, seduti in una platea teatrale, commentano una scena romantica che sta avvenendo sotto ai loro occhi. In un primo momento, Lei pone domande circa la realtà dei sentimenti espressi sul palcoscenico – e quindi circa l’essenza stessa della finzione teatrale –, mentre Lui, con fare sicuro, propone risposte del tipo: «In questo momento lui non è se stesso, ma sta recitando un ruolo. È intrattenimento».

Oppure: «La donna, quella vera, non ama quell’uomo lì, quello vero. Ma l’eroina della commedia che questa donna sta interpretando, quella sì. Ma non è vero amore. È intrattenimento».  

Il discorso passa esplicitamente dal piano teatrale a quello sentimentale nel momento in cui Lei pone una questione degna di un trattatello secentesco: «Volevo chiedere se è necessario amare veramente per rappresentare l’amore». L’invisibile palcoscenico diviene, così, un luogo utopico o un tavolo da laboratorio in cui verificare esperienze di realtà come, in questo caso, l’idealizzazione amorosa, ossia la possibilità di innamorarsi di qualcuno che non esiste fattualmente, ma soltanto in una proiezione.

Se, a tutta prima, a essa è negata qualsiasi dignità di esistenza (sempre Lui: «Il suo amore non può essere fisicamente reale, perché l’uomo di cui è innamorata non coincide con l’uomo a cui lei si rivolge», oppure «Non si può amare qualcuno che non esiste») in nome di una certezza della realtà rispetto all’intrattenimento («Non resterà niente di nessuno, perché qui non c’è proprio niente e nessuno. È intrattenimento»), più lo spettacolo prosegue, più i due piani si compenetrano, e Lui e Lei diventano Steven e Margot, travolti da una passione costruita e arditissima: 

«Non voglio fingere, Margot, anche tu mi piaci come donna. […]  Quando mi guardi irresistibile e dici che vorresti passare questa notte con me, il mio corpo ovviamente vibra in risposta, e invita la mia mente a cedere a questo impulso improvviso». 

Nella rappresentazione della rappresentazione i dubbi di Lei trovano una soluzione: il palco – costruzione immutabile della fantasia, parafrasando Luigi Pirandello – risponde alla realtà. L’amore diviene un’essenza eterea, non legata a una persona specifica, eppure concreta, capace di materializzarsi all’occasione: «Il nostro amore è sempre lì dove ci troviamo in quel momento. In questo momento tu, Steven, sei qui»;

oppure: 

«LEI: L’amore è sempre con noi ovunque andiamo, ma gli oggetti di questo amore cambiano costantemente a seconda di dove e con chi siamo momento per momento nell’arco della vita. 
LUI: Ma l’amore è sempre lo stesso verso tutti? LEI: Ma certo, Steven. L’amore, se è amore, è sempre lo stesso per tutti  i fenomeni e tutti gli oggetti. È sempre lo stesso per assolutamente  tutto. Su qualsiasi cosa tu posi il tuo sguardo, il tuo amore è già lì». 

Nell’intrattenimento, che aderisce senza scampo alla realtà, l’amore sfugge ai confini dell’identità, scorpora da se stesso colui o colei che lo prova e lo fonde con la persona amata, in un pasticcio ai limiti dell’assurdo: 

«LEI: Questa cosa, Steven, si chiama: “può amare davvero solo colui che non c’è”. 
LUI: Quindi se adesso sono innamorato, io non esisto? 
LUI: Quindi se adesso sono innamorato, io non esisto? 
LEI: No.  
LUI: Quindi non ci sei nemmeno tu? 
LEI: Sì, perché anche io amo».  
[…]
LEI: Hai sentito cosa hanno detto? Senza di me tu non esisti. 
LUI: Perdonami, ma credo che abbiano detto: senza di te io non esisto». 

In tutti e quattro i testi accettare l’amore implica, in modi diversi, una deflagrazione dell’io, una fuoriuscita del corpo dai propri confini fisici. Nell’orizzonte imprendibile immaginato da Tolcachir, nel suo spazio di illusione al di là della mediocrità quotidiana; nello sparpagliamento del corpo di Rambert; nel luogo di sopraffazione maschile, ma anche di contrattazione e di lotta, ideato da Churchill; nel piano di rappresentazione visto in Vyrypaev, in cui i confini e l’essenza dell’individuo sfumano.
Nell’amore, sembrano dire gli autori e le autrici, il corpo si allontana dal proprio territorio di presupposta appartenenza e deflagra in un paesaggio del possibile, disseminandosi.

teatro internazionale
Top Girls – Monica Nappo ©Max Cardelli

Il tempo del lavoro, il lavoro del tempo
topic 3 (lavoro, ufficio, caffè, pausa, scrivania, segretaria, lavorare, tempo)

di Massimo Milella

Delle parole di questo topic mi incanta innanzitutto la coerenza del loro suono, il potenziale ipnotico della lettura ad alta voce di questo elenco, garantito dalle virgole – unici segni di interpunzione, nella lingua italiana almeno, in grado di trovare il giusto equilibrio tra il potere di connettere e quello di separare. Mi colpisce, in particolare, che la prima parola sia lavoro – un suono che si allunga pesantemente sulla ripetizione delle o incastrate in una r, come in un meccanismo – e l’ultima sia tempo, che ha il suono della combinazione tra la nasale più piena e la labiale più sensibile, come un atterraggio sul morbido, o meglio ancora una sospensione – la bocca libera le labbra che si sono appena unite per la p, liberando una o nell’aria. Lavoro e tempo, però, al di fuori del loro semplice apparato sonoro, una volta restituite al senso, sono due parole che sfuggono a un’immaginazione specifica, sono scivolose, porose, volubili. Cosa si immagina quando si immagina il lavoro, se non un tempo impiegato, un tempo pieno (se parziale, parzialmente pieno, o parzialmente privato di vuoto)? E cosa si immagina quando si immagina il tempo, se non una scansione di vita organica o inorganica, occupata inesorabilmente sia da un’azione che da una non-azione? C’è il tempo di chi ha tempo, perché forse non ha un lavoro, il tempo di chi non ne ha, perché forse ha un lavoro che prende troppo tempo, infine, come si dice, non si può trascorrere tutto il proprio tempo a lavorare.

Lavorare, appunto. È l’unico verbo individuato, all’interno di questo topic, dai calcoli algoritmici. Un verbo all’infinito, che trasforma un’azione in iterazione, uno sforzo di attività in una condanna. Davanti al mistero di questi codici astratti, di queste danze binarie che affollano come moniti o destini inesorabili le cinque drammaturgie in esame, ho voluto cercare tracce concrete e verificabili, disegnare traiettorie fruibili, dentro i mondi concreti delle vicende, a cui ho avuto l’onore di accedere, come lettore critico – non, purtroppo, come spettatore. Mi sono allora dedicato all’inseguimento di parole che più facilmente potessero avere un corpo specifico. Non un ufficio, ma quell’ufficio, o quegli uffici, come vedremo. Non una scrivania, ma quella scrivania, quelle scrivanie. E non un caffè, ma quei molti caffè, in quei precisi momenti, presi in un Uruguay prima di Bordaberry, come nella Gran Bretagna del Thatcherismo, o in un’Argentina non si sa quanto immaginaria.

È possibile, in un teatro, sia pure un teatro letto, attraverso le drammaturgie, che una scrivania, esempio di un oggetto comune, diventi il fulcro di una metamorfosi scenica, con la sua solidità rassicurante ma solo apparente, la sua mole dietro cui nascondersi, i suoi spigoli in cui inciampare, la sua superficie liscia e accogliente per ospitare altri oggetti, altri mondi, tanto quanto corpi umani che si addormentano, la sua possibilità di diventare tavolo, da pranzo al ristorante, da cena in famiglia, rifugio, ostacolo, casa. Ecco perché, una didascalia, che si impegna a connotare un ufficio (uno spazio) con questo o quell’aggettivo, non ha termini per definire una scrivania. O un caffè. Ed ecco che l’idea di questo testo, in definitiva, è che nel contesto di una drammaturgia, una scrivania e un caffè, nella combinazione alchemica tra una materialità specifica e l’ambientazione atmosferica, possano fornire delle chiavi per accedere a termini più ingombranti e generici (come “lavoro”) o astratti (come “tempo”) e provare a percepire come autori di diverse latitudini, opere di diversi decenni, siano in grado di raccontare – quasi coralmente – il mistero del tempo del lavoro e, insieme, del lavoro del tempo.

L’ufficio di Terzo Corpo di Claudio Tolcachir è sia «piccolo» che «labirintico», come descrive la didascalia iniziale, che lo immagina «riempito di carte, schedari e materiali da lavoro». Eppure è una precisione illusoria: neppure il tempo di immaginarlo, di progettare una scena e subito l’autore argentino si affretta ad affollare questo luogo non solo di oggetti scenici in grado di renderlo credibile, ma addirittura di renderlo un dispositivo in grado di “contenere” altri luoghi dentro di sé. La didascalia specifica, infatti, che siamo in un ufficio, sì, ma inteso come uno “spazio” polifunzionale, in cui coesistono, a seconda delle direzioni della drammaturgia, sia l’ufficio stesso che «la casa di due personaggi, vari bar, un locale, uno studio medico».

Però, il lettore si accorge che questi luoghi non esistono tutti insieme allo stesso tempo, esiste una gerarchia piuttosto, perché, certo, non ci sono stetoscopi, né bicchieri e bottiglie, non ci sono gli oggetti che potremmo aspettarci dall’abitazione di una giovane coppia. Restano invece, esplicite, letterali, pesanti, polverose, le carte, gli schedari, i materiali da lavoro, che svolazzano, “riempiono” il labirinto e, al netto di un lavoro di luci che nella drammaturgia non ha precise indicazioni, invadono gli altri spazi con la loro presenza nei momenti della drammaturgia in cui dovrebbero essere assenti. Nessuno stupore, peraltro, perché nel progetto di Tolcachir funziona esattamente così anche per gli attori: dovranno essere sempre fisicamente visibili in scena, attivi quando tocca ai loro personaggi, disponibili, pronti, presenti, quando sono assenti. È il teatro, l’ufficio labirintico di Terzo Corpo.

Non in questo ufficio, ma comunque in un ufficio, invisibile, in un imprecisato passato («Dov’ero prima»), Sandra racconta alla sua collega Moni di aver conosciuto suo marito, sposato quattro anni prima (“Per me è un’eternità”, reagisce Moni). In quell’ufficio – che non è questo, ma forse gli somiglia, quindi per me, lettore, è nient’altro che questo, “labirintico”, con le stesse carte – l’uomo, il quale si era slogato il polso (dove? Anche questo è accaduto in ufficio? Nello stesso? In un altro?), dunque dettava ad alta voce alla collega Sandra le comunicazioni inerenti al suo lavoro di Tesoriere, un codice di «parole molto tecniche», finché, racconta lei, un giorno non le dettò il suo amore: («Da quando l’ho vista la prima volta, martedì scorso in archivio, non riesco a togliermela dalla testa. Penso solo a lei. Giorno e notte”. Firmato… il suo futuro marito»). Non c’è ufficio, senza un archivio, dove mettere il proprio passato al sicuro. Se l’archivio è il passato, l’ufficio è il presente. E si è invece al sicuro adesso?

Sin dall’inizio – è il sinistro antefatto di Terzo Corpo – sappiamo che il collega Guiraldes si era suicidato lanciandosi nella tromba del vano ascensore. Guiraldes non lo abbiamo mai visto vivo, ce ne parlano solo gli altri personaggi, i sopravvissuti. Abbiamo però davanti agli occhi, su una scrivania, il suo termos che potrebbe tornare utile ai colleghi superstiti («Sandra: Mi fa impressione / Moni: Ma lo sciacquiamo»). Un’altra istantanea, tratta da questo ufficio: Héctor usa una macchina da scrivere e non lo fa per impressionare il lettore, ma perché, dice, il computer non funziona, «non va il mouse», nonostante una soluzione ci sarebbe, gliela prospetta Moni: «Lo puoi far funzionare comunque, con la tastiera, F1, Enter e scendi. F2, Enter e sali. E per cliccare basta fare Shift-Alt Gr e, senza mollare, F3». Impossibile, commenta Sandra, lo penso anche io, sicuramente anche Hector, che infatti è davanti a una macchina da scrivere perché vuole buttare giù, dice lui, una bozza di discorso per il funerale di sua madre. Non vuole piangere in quel momento, dice alle sue colleghe. Io, lettore, invece, credo che stia scrivendo una lettera a Manuel, il giovane di cui è innamorato, un amore impensabile, prima, finché c’era la mamma in vita. La sua vita è cambiata. Almeno fuori dall’ufficio. Nel dubbio che resta con me, relativo a ciò che Héctor sta tentando di scrivere, interrotto dalle colleghe, penso anche che, pure sforzandosi, questo personaggio non riuscirebbe proprio a piangere. Impossibile, è proprio la parola di Sandra, che non lo conosce fino in fondo ma ne sembra innamorata.

Ora, è chiaro che questo ufficio – questo teatro – è dismesso, carente, abbandonato dai capi, dalle sedi centrali, forse dal resto del mondo, ma gli esseri umani – gli attori – vi sono ancora presenti. E allora che cos’è allora questo ufficio? È quello che Manuel, piombato in ufficio in un impeto di gelosia per cercare Héctor, chiede a Moni: «Di che cos’è questo ufficio…che cosa fate qua?» A cosa serve tutto questo, insomma? Non si sa, perché la stessa Moni non fa in tempo a rispondere. Aggira l’ostacolo con un richiamo al passato («Prima facevamo tutto quello che…») e finisce per urtare la scrivania, si fa male, si distrae. La conversazione cambia, ma è naturale, perché passato e presente non sono in connessione, c’è qualcosa che si è spezzato, un ascensore rotto, la luce va e viene, il lavoro non manca, ma di cosa si occupino in questo ufficio – in questo teatro – non lo sappiamo e non lo sapremo. O forse sappiamo già tutto e tutto è quello che vediamo e non vediamo, letteralmente.

Il piccolo incidente spazio-temporale di Moni illumina sul fatto che, probabilmente, se l’ufficio non esiste davvero in quanto ufficio, il fulcro, evidentemente, si sposta su qualcosa di solido, di visibile – di tangibile, nell’esperienza concreta di Moni – la scrivania. Perché essa è in grado di diventare altro, di far scomparire l’ufficio e trasformarlo, per esempio, in uno studio medico, ovvero nello spazio che la drammaturgia riserva a Sandra, in un raro focus individuale sulla vita di un personaggio, fuori dall’ufficio. È dietro la scrivania, che l’attrice che interpreta questo personaggio recita la sua visita medica e finge che ci sia un marito nella sua vita, perché vorrebbe un figlio. E parla con una dottoressa, naturalmente, che però, a differenza della scrivania, non vediamo e, benché la didascalia ci avesse informati all’inizio che gli attori non coinvolti nella scena sarebbero tutti stati disponibili alla nostra vista, nessuno di loro interpreta la dottoressa. C’è solo Sandra, lei e la scrivania. Sandra guarda «dritto davanti a sé»: è una postura, un’iterazione, un infinito. Sandra è astratta, una statua. Non ho alcun dubbio che, fino alla fine del testo, questo personaggio non avrà il futuro che desidera, è già da subito incastrato in un altro modo, in un altro tempo. Colpa della scrivania che impedisce di muoversi, è viva, è reale, è l’anima stessa del labirinto dell’ufficio. Dice ancora Moni e a Manuel nel dialogo citato sopra, presentandogli lo spazio dell’ufficio «Io cambio da scrivania a scrivania»: così si va nel mondo di Terzo Corpo, a tastoni, la scrivania è il rifugio, il modo per non perdersi, ma anche il pericolo costante di inciampare, garanzia di perdersi.

Né all’algoritmo, né a me lettore sfugge che ci sia una scrivania anche in Top Girls, di Caryl Churchill. Qui – siamo all’inizio dell’era Thatcher, che sembra un incubo così attuale, a leggerlo oggi – l’ufficio non è affatto dismesso, anzi è ruggente, pieno di potenzialità, rombante di futuro, È un ufficio di collocamento (osiamo, era anche ciò di cui si occupava, «prima…», l’ufficio di Terzo Corpo?), ovvero la rampa di lancio per un cambiamento di vita. Nell’agenzia gestita dall’ambiziosa Marlene, appena promossa a direttrice, il potere è donna, donne sono Win e Nell, le segretarie – gli uomini di Top Girls sono invisibili, infartuati, alcolizzati, quasi estinti. Ai colloqui si presentano molte ragazze, che vogliono lavorare. Dall’una e dall’altra parte della scrivania, la segretaria dell’ufficio valuta se la non-ancora-segretaria davanti a lei potrebbe a sua volta diventarlo, in un altro ufficio.

È un progetto di replicazione, di riproduzione in serie, che avviene sul piano orizzontale di una scrivania in cui nessuno, stavolta, inciampa, al contrario, si scatta in avanti con disinvoltura. Jeanine, ad esempio, fa già la segretaria, è ragionevolmente contenta ma nell’ufficio in cui si trova non vede prospettive, dice, e vorrebbe qualcosa di più. Avere più soldi, sposarsi. Marlene la indirizza verso due possibilità, in una ditta di maglieria o in una di paralumi. In entrambi i casi, farebbe comunque ancora la segretaria. È un meccanismo infernale: in questo ufficio di collocamento si entra con un corpo e si finisce per uscire con lo stesso corpo, ma con un’identità amplificata, moltiplicata. Le resterà comunque un corpo di segretaria, a cui consigliare, confidenzialmente di non parlare affatto ai futuri capi, alle future scrivanie, cioè, dei propri progetti privati, familiari. Lavorare, allora, mi pare, vuol dire, per queste donne-segretarie all’inizio degli anni Ottanta, nel mondo anglofono che tanto ci avrebbe poi influenzato, non avere progetti sentimentali, vuol dire andare, agire, guidare veloce, come piace a Shona, che finge di avere ventinove anni e ne ha ventuno, finge di essere una venditrice eccezionale di «cose elettriche», di avere una Porsche, di avere tanti clienti in un fantomatico «nord», di frigoriferi, di freezer, di alberghi dove cena a base di filetto e funghi.

Lavorare vuol dire anche, quindi, fingere di lavorare, purché ci si crei una narrazione, si sia in grado di immaginare di lavorare, di renderlo virtuale, trasformarlo in desiderio costante di lavorare, perché sognare appartenere alla parte della storia che funziona, al futuro, all’ufficio di Marlene, cioè, è già garanzia di successo. A questo ambisce anche Angie, che di Marlene è figlia ma non lo sa, le hanno detto tutta la vita che sono nipote e zia. Vedremo questa ragazzina piombare, senza preavviso, nell’ufficio di Marlene, in uno stato piuttosto confusionale – forse dopo aver ucciso quella che lei chiama mamma, Joyce, la sorella di Marlene? – sperando di poter essere anche lei oggetto di una meravigliosa metamorfosi, da ragazzina a segretaria, da segretaria a scrivania, da scrivania a ufficio. Il problema di Angie, e Marlene lo sa bene, è che per chi non è predestinato al futuro, la metamorfosi non è consentita ed ecco che la segretaria/la scrivania, diventano gendarmi, ostacoli, rischiano di essere ostili, rendendo l’ufficio, così, “labirintico”. Il dialogo tra Angie e Marlene, se si immagina, fuori dalle finestre, una Londra trasformata in uno sterminato shopping center, è chiarissimo al riguardo:

ANGIE: Salve.
MARLENE: Ha un appuntamento?
ANGIE: Sono io. Sono arrivata.
MARLENE: Cosa? Non sarai mica Angie?
ANGIE: È stato difficile trovarti. Mi sono persa.
MARLENE: Cosa hai raccontato alla segretaria? Quella ragazza seduta dietro la scrivania, non ha cercato di fermarti?
ANGIE: Che scrivania?
MARLENE: Non importa.
ANGIE: Sono entrata e basta. Cercavo te.
MARLENE: Eccomi qua.

Angie non andrà lontano, insomma, confida Marlene a Win, mentre osserva la ragazzina dormire, abbandonata, esanime, sfinita, naturalmente sulla scrivania.

Com’è diverso, invece, “lavorare” in Prima di Pascal Rambert. Questa forma, così com’è, all’infinito presente, compare solo una volta in tutto lo spettacolo, ma la sua unicità non corrisponde a marginalità, al contrario. Nell’ufficio di Prima, che è, qui letteralmente, il teatro, il direttore è Sandro ed è lui, infatti a utilizzare questo verbo, solo apparentemente ordinario, quotidiano, banale, rispetto all’affresco poetico e intenso della verbosità nervosa ed eccedente dell’autore francese – priva di virgole, peraltro. Anche la collocazione temporale, all’interno della drammaturgia, è significativa: siamo nelle ultime battute e Sandro è solo in scena. È il regista innamorato e non (più) ricambiato di Marco, uno degli attori con cui mette in scena la prima di uno spettacolo ispirato alla Battaglia di San Romano del pittore quattrocentesco Paolo Uccello. E nonostante la cornice così altisonante, la parola lavorare si incastona in un contesto ancora più quotidiano, più modesto – e certamente più patetico – di quanto il vocabolo in sé già non suggerisca: si tratta di un’invocazione a sua madre, morta da qualche tempo e amatissima da Sandro, perché aveva sempre accolto la sua omosessualità, incoraggiandolo ad amare anzi e, al tempo stesso, aveva saputo accettare la propria condizione di moglie abbandonata.
Dice Sandro:

«devo lasciarti devo continuare a lavorare tornerò a trovarti quando tutti se ne saranno andati io rimarrò in teatro e verrò a parlarti mamma farò quel pezzo in cui tutti cantano lo metto verso la metà dello spettacolo non so ancora se lo terrò mi dirai cosa ne pensi io lavoro solo per te […]»

Ora, il punto è che nei tormenti d’amore non ricambiato che infiammano e torturano tutti i personaggi di Prima, questa invocazione a un fantasma (amato), raggiunge un effetto inatteso, quello di un ridimensionamento improvviso di ogni sentimento vitale, di ogni carica sessuale repressa o scatenata, di ogni violenza verbale, insulto, odio, veleno, commozione, estasi. Di ogni battaglia, insomma. «devo lasciarti devo continuare a lavorare» è la fortissima dichiarazione di un’impossibilità. L’impossibilità di morire. Lavorare, qui, anzi, con ancora più dolore, continuare a lavorare, espressione che davvero trasforma l’infinito in una sorta di condanna, è cavalcare il proprio cavallo, armarsi di tutto punto, sfidare la morte, lanciarsi nella calca e, poi, sempre più vecchio, sempre più stanco, tastarsi il corpo in cerca di ulcere letali e rendersi conto, invece, che il proprio inferno, nel presente, è l’infinito sopravvivere. Dire «A domani» ai propri paggi, servitori, amori, restare solo davanti al teatro di guerra, tra morti e feriti, sedersi su uno sgabello – il simbolo di un vuoto, non solo manca una scrivania, ma anche un tavolo, l’autore non può scrivere su uno sgabello – e bere semplicemente un bicchiere d’acqua, l’immagine che più di tutte simbolizza l’esatto contrario di venti pagine di una sintassi vertiginosa, senza pause.

In Prima, di Pascal Rambert, il caffè non c’è. Compare fugacemente il latte, in una delle tracimazioni verbali del personaggio di ADR, per denunciarne la mancanza, come del pane, dei topi, dei ratti, di qualsiasi cosa si possa mangiare, in tempo di povertà e di guerra (e di amore non ricambiato). Forse perché la battaglia che si stacca dal quadro di Paolo Uccello arriva da un’epoca che ancora non conosceva il caffè, forse perché tutta la tensione di questa estenuante estasi sentimentale non può cercare nel caffè alcuna consolazione, tutto si svolge dentro la parola che riempie il vuoto dei corpi che non si possiedono, o non si possiedono più. E soprattutto, tutto accade proprio perché non c’è consolazione possibile, né in teatro né altrove. Il caffè, con il suo aroma che riempie le stanze, eccita le narici, invita a uscire dal proprio pieno (o dal proprio vuoto), costruisce un rifugio illusorio, perciò qui, nella sintassi barocca di Prima, dove tutto è letterale e cerca di connettere il più possibile il dolore con il suono (o la combinazione di suoni) che lo esprime con più esattezza, un’illusione non può trovare posto. Quando si ama disperatamente, si vuole solo la verità. O forse la ragione dell’assenza del caffè è che tutta la tensione del quotidiano, di un gesto meccanico, quello di afferrare un oggetto che contiene un liquido e berlo, deve essere concentrata sul finale, in cui Sandro beve un bicchiere d’acqua.

Colpisce, curiosamente, che anche nell’altro testo esplicitamente incentrato sul (e ambientato in un) teatro, ovvero Entertainment di Ivan Vyrypaev, il caffè non compaia. Certo, a proposito di bevande, si cita del vino, in due occasioni, associato alle espressioni «ascoltare della musica» e «chiacchierare». Sono immagini generiche, che prospettano situazioni generiche. Non immaginiamo nessun vino specifico, nessuna musica specifica, nessuna chiacchiera. E comunque questo bere del vino non costituisce, nell’equilibrio della drammaturgia, un momento interno all’azione, ma si attesta più che altro come un invito a un tempo altro, a qualcosa che segue il teatro, che si svolge fuori dal teatro: dunque è un futuro generico, nient’affatto più interessante del presente che si sta svolgendo tra Lei e Lui – e davanti a noi. Anche in questo spettacolo, il dialogo è incessante, l’azione è momentanea, contestuale, non tollera pause, se non quelle indicate esplicitamente dalle didascalie, pause brevi o lunghe, in corsivo, tra un dialogo e l’altro, tutte studiate. Pause, comunque, che a loro volta non tollerano alcuna distrazione, alcun “fuori”, alcun caffè.

In Ex, di Gabriel Calderón, drammaturgia in cui non mancano cibo e alcolici – il contesto è quello di una cena natalizia in cui i vivi riportano in vita i morti della famiglia per dire finalmente tutta la verità sugli aspetti più oscuri della loro esistenza durante gli anni della dittatura uruguaiana – al caffè viene dedicato un ruolo differente, molto intimo, in una scena tra le più significative, per intensità, dell’intero dramma. Si tratta di un ricordo, quello del caffellatte, che accomuna i fratelli José e Jorge, ribelli al regime e per questo torturati, entrambi, chi prima e chi dopo, fino alla morte. In una scena-flashback di quando erano ancora vivi, si confrontano sulla natura del dolore, quello fisico, provato sulla propria pelle. Hanno due prospettive opposte: per José il dolore è «un amico», per Jorge rappresenta, all’opposto, proprio ciò contro cui si lotta, si resiste esattamente per non soffrire più. Trasfigurazione del dolore, ecco che compare il caffellatte, comune ricordo d’infanzia di una vita semplice con la propria madre, in campagna, una vita «senza dolore», secondo Jorge. Per José invece il caffellatte aveva un altro sapore, era ciò che la madre dava loro, perché non avevano abbastanza soldi per la cioccolata. Quella fase della vita, segnata dall’abbandono del padre, dalla povertà, dalla malattia, per Jorge ha il profumo di quel caffellatte.

Diventa fondamentale così osservare come, nel delicato equilibrio tra le due visioni del dolore, in Ex, sarà quella di José a trionfare, dato che sarà lui, ribelle nel passato come in questo sinistro portale tra la vita e la morte, a condurre l’intera vicenda verso il suo incubo apocalittico. La frase che pronuncia in questo dialogo «L’unica felicità possibile è quella che attraversa i campi del dolore» diventa simbolo di una sofferenza che si autoalimenta, di un futuro in cui la resistenza si nutre dell’oppressione, con cui ingaggia una lotta masochista e inestinguibile, senza uscita, una dimensione senza speranza, quasi pasoliniana.

Leggo l’ultima, lunga scena, di Terzo Corpo di Tolcachir e mi rendo conto di quanto in questo testo il caffè diventi un fondamentale strumento drammaturgico – o esistenziale, se ci mettiamo dal punto di vista dei personaggi. Per la prima volta si raccolgono nello stesso spazio – ovvero l’Ufficio, luogo di privazione ma anche di resistenza, una sorta di zattera della Medusa – tutti i personaggi del dramma. È il doloroso momento delle agnizioni, quello in cui, una rivelazione per volta, personaggi e spettatori cominciano a venire tutti a conoscenza delle stesse informazioni. Vengono così alla luce le bugie e le omissioni, i sentimenti repressi, segreti, nascosti. Sofia, fidanzata disperatamente innamorata di Manuel, conosce per la prima volta il cinquantenne Héctor con cui il suo ragazzo lo ha tradito. La scenata di rabbia e di gelosia di Manuel fa sì che Sandra, collega innamorata dello stesso Héctor e illusa, ma non ricambiata, scopra la sua relazione omosessuale; Moni a sua volta apre gli occhi sul fatto che i suoi colleghi sono stufi delle sue intromissioni nella vita privata altrui; Héctor, infine, che si è appena fatto la tinta ai capelli («per sentirsi più bello»), apprende che il nuovo colore non piace a nessuno.

In un mosaico di rivelazioni in cui nessuna sembra contare più delle altre, il caffè è una parola d’ordine comune per indicare qualcosa di molto più profondo di ciò che contiene una tazzina. Moni offre un caffè alla collega Sandra a inizio scena per aggirare un conflitto con lei, per farsi perdonare, Héctor che arriva in ritardo in ufficio sente «un aroma di caffè» e sarà proprio seguendo questo profumo che arriva a scoprire la presenza di Manuel. Onde evitare scenate, vorrebbe andare a prenderlo fuori il caffè, con Manuel, ma la dinamica degli eventi gli sfugge, il suo amante è furioso, minaccia tutti i presenti e solo l’intervento di Sofia, fragile e goffo deus ex machina, è in grado di calmarlo e riportarlo alla ragione. Ma la ragazza ha un cedimento e Sandra chiede a Moni di farle un caffè. La collega, però, ferita dalle critiche ricevute poco prima, chiude ogni possibile orizzonte di pace («Moni: Non c’è caffè, è finito. […] Io non mi metto più in mezzo»).

Il cerchio si chiude, quindi, con una rottura. Si apre, nel quotidiano di Terzo Corpo, una breccia talmente profonda che nulla potrà più risanarla: ecco che il caffè, offerto, preparato, poi negato – perché è finito, appunto – è ciò che non accomuna più, il segno di una divisione, di una dispersione. La breccia si fa non solo esistenziale, ma spaziale (si restituisce a noi l’immagine sventrata di questo ufficio ormai fisicamente cadente) e temporale (nessuno dei personaggi sa più che giorno sia, domani sarà sabato, giovedì, lunedì? quando arriva domani?). Il caffè è la parola della pausa, certo, purché in un mondo in cui per pausa si intenda un territorio di cura, di recupero e rigenerazione di tessuti sociali: è l’aroma luminoso in cui ci si illude ancora di potercela fare. Senza più caffè, nessuno vuole ordinare neppure da mangiare. Moni informa che il telefono non funziona più. Comunicazioni interrotte per sempre. Il buio del blackout finale è nero come il caffè, chi avrà il coraggio di uscire? Si insinua la sensazione che ognuno si sia ormai trasformato nell’ufficio stesso, solo e abbandonato com’è, e che, sopraggiunta la morte, resteranno solo le scrivanie, come piedistalli senza più statue.

In Top Girls, la parola caffè è piuttosto interessante per la modalità del suo utilizzo a livello linguistico. Innanzitutto, il caffè viene quasi sempre “ordinato” oppure “desiderato”. Nel primo caso, siamo proprio nel primo atto, durante l’onirico pranzo in compagnia delle cinque figure femminili leggendarie e storiche, con cui festeggia idealmente la propria promozione a direttrice dell’ufficio di collocamento. Marlene interrompe, quasi spazientita, il racconto della pazientissima Griselda in un impeto di prevaricazione e disappunto: «Oh Dio, basta, facciamola finita. Voglio un caffè. Sei caffè. Sei brandy. / E doppi. Immediatamente». Un caffè diventa sei caffè. E non c’è alcuna idea di pausa in questo caffè, alcun piacere di evasione: le sei tazze devono arrivare «immediatamente».

A “desiderarlo”, invece, è un altro personaggio, Nell, una delle dipendenti dell’ufficio di Marlene, che, significativamente proprio in apertura dell’atto secondo, sembrerebbe quasi riprendere in modo indiretto quell’ordinazione di Marlene, quando, entrando in scena, esprime il suo bisogno di caffè. Ma lo vuole in modo ossessivo, nevrotico. La sua battuta è, infatti: «Caffè, caffè, caffè, caffè, / caffè», prima di cominciare un dialogo con la collega Win. Non sono i sei caffè ordinati da Marlene, ma quasi, ne vengono evocati cinque, come i fantasmi delle donne del primo atto. Tre battute dopo, una didascalia piuttosto enigmatica ci tiene a precisare che Nell, mentre ascolta delle avventure d’amore di Win, «beve il suo caffè». La specificazione è spinta sicuramente da coerenza drammaturgica, naturalmente, ma spicca anche uno iato fortissimo tra l’invocazione ripetuta e la postura raccolta, modesta, di una tazzina di caffè, consumata probabilmente in fretta, prima che diventi freddo. Altrettanto decisivo, al primo ingresso del personaggio di Marlene nell’atto secondo, ancora una volta, come se fosse un bisogno isterico, come se appena il suono stesso fosse in grado di “dopare” le performance aziendali, Nell la accoglie così: «Caffè, caffè, caffè». Da sei, a cinque a tre caffè. É una parabola discendente, in verità, perché questo suono perde completamente la sua energia, il suo valore simbolico, quando Marlene stessa, sorpresa – preoccupata – dalla presenza in ufficio di sua nipote Angie, le propone un caffè.

È un gesto nuovo in Top Girls, è la prima volta che qualcuno lo “offre”. Il caffè bisogna ordinarlo, desiderarlo, urlarlo, ripeterlo, prenderselo o farselo portare dai sottoposti. Offrirlo è un gesto totalmente al di fuori della sfera d’azione del mondo di Marlene. Infatti, in quella che sarà la scena conclusiva del dramma, nella quale gli spettatori conosceranno la verità su molti dei lati oscuri di questa vicenda, ecco che sua sorella Joyce, la donna che ha fatto crescere Angie come se fosse stata sua figlia, paralizzata nella vita piatta e mediocre del suo villaggio, lontana dalle sirene di ricchezza delle grandi metropoli capitaliste del mondo, offre a Marlene, ospite non troppo gradita, una tazza di tè. Marlene prende la tazza, in un gesto calmo, lontano anni luce da tutto ciò che, in questa drammaturgia, non è la casa di Joyce – ovvero il passato – e osserva, volgendosi a un tempo presente, che somiglia a un sospiro, quasi a un sollievo: «Qui c’è una gran pace». Qui è il 1982, in Top Girls, e il mondo occidentale sta cambiando. Quarant’anni dopo, in Entertainment di Ivan Vyrypaev, Lui profetizza un futuro di oscurità: «E questa crepa non finirà mai, Margot». Lei risponde semplicemente con tutto il potere del qui e ora che ha un personaggio teatrale di cui non sappiamo nulla, fonte di luce nel blackout generale: «Lo so».

Segni di identità ed ecologia drammaturgica: intervista a Margherita Laera

Segni di identità ed ecologia drammaturgica: intervista a Margherita Laera

Nel definire gli spazi della cultura Homi K. Bhabha parla di spazi inter-medi che costruiscono il terreno per l’elaborazione di strategie del sé, che danno il via a nuovi segni di identità. Che ruolo ha la drammaturgia nella creazione di questi nuovi segni di identità? Quali sono i ruoli che contribuiscono all’operazione? Ne abbiamo parlato con Margherita Laera, autrice di La drammaturgia contemporanea in Europa – Una mappatura degli ecosistemi e delle pratiche (Franco Angeli, 2023) traduttrice teatrale e docente all’università del Kent. 

Da cosa nasce questa necessità di parlare di drammaturgia contemporanea in Europa?

Dunque, la necessità nasce da un progetto sviluppato da Fabulamundi – Playwriting Europe: creare una mappatura dei vari contesti nazionali e regionali, approfondendo come gestiscono la drammaturgia contemporanea come la raccontano, come la fanno, quali risorse, quali sistemi ci sono alla base di queste pratiche e culturalmente, quali sono le attitudini. Tempo fa, come scrivo nel libro, mi sono presentata a Claudia Di Giacomo (responsabile del progetto Fabulamundi – Playwriting Europe ndr.) che mi ha parlato della ricerca che è alla base di questo libro, il mio tentativo è stato quello di implementare questo progetto e di renderlo un po’ mio, interpretarlo dal mio punto di vista, secondo quelle che sono le mie ricerche e i miei interessi di ricerca, di certo già molto allineati con la proposta di Fabulamundi.

Il punto di partenza è stato riscrivere le domande attraverso cui far scaturire il lavoro, successivamente abbiamo organizzato insieme come diffonderle, come ottenere i dati necessari. Il processo ha portato alla compilazione di un questionario, che è stato poi diffuso nei paesi europei coinvolti. Il passaggio successivo è stato rendere il questionario rappresentativo, tenendo presente la grande quantità di risposte provenienti dalle diverse realtà prese in esame.

Quindi, dopo un’attenta analisi dei dati per determinare la loro esattezza, ho sviluppato un metodo per garantire l’obiettività dei risultati del questionario. In molti casi, ho scoperto che i dati erano parziali, quindi ho coinvolto una rete di esperti sia dal mio network che da altri paesi. Attraverso interviste mirate, abbiamo ottenuto commenti e revisioni sui dati preliminari, simili a una peer review su un articolo scientifico. Questo processo ha arricchito e affinato ulteriormente il report, grazie alle conversazioni approfondite con gli esperti. Alla fine abbiamo ottenuto una comprensione più completa dei contesti coinvolti e abbiamo riscritto i report di conseguenza, raggiungendo così il risultato desiderato.

La distinzione tra ‘dramaturgy’ e ‘playwright’ che viene menzionata nell’introduzione al libro, può essere applicata anche ad altri contesti teatrali al di fuori dell’Inghilterra? E in che modo questa differenza influenza il ruolo e il lavoro del drammaturgo?

Sì, c’è una differenza sostanziale tra queste due pratiche, anche se vengono talvolta indicate con lo stesso nome. La scrittura drammatica, o playwriting, e la drammaturgia sono due ambiti distinti. La varietà delle lingue e dei loro termini è utile, in quanto consente di attingere a diverse sfumature concettuali da contesti differenti.

In molti paesi, come Germania e Repubblica Ceca, esiste una percezione ben definita di queste due figure e dei rispettivi ruoli. In Italia, ad esempio, non sono così codificate. Dipende da come si vuole organizzare il processo creativo e suddividere i compiti. Se quindi si fa spazio per queste due figure distinte, una si occupa di scrivere da zero, a grandi linee, l’altra si occupa di pensare il mondo, il viaggio dello spettatore rispetto al testo. 

Il ruolo del dramaturg è culturalmente specifico e varia notevolmente da contesto a contesto. Ho recentemente partecipato al lancio di un libro che trattava il ruolo del dramaturg negli anni ’80 in Germania. Si trattava di una figura presente durante le prove teatrali, che stava lì e guardava e diceva a tutti quando sbagliavano, simile a un critico integrato nel processo creativo.

Questo tipo di figura non è molto diffusa nel Regno Unito, ma alcune compagnie teatrali utilizzano ciò che chiamano “embedded critic” o “friendly critic”, il ruolo viene chiamato così,  ma viene anche chiamato drammaturgo e può essere inteso in tanti modi, ci sono tante opportunità. In Italia manca spesso una figura di drammaturgo che possa assistere la direzione artistica nelle scelte di programmazione e sviluppo dei progetti. La mancanza di tempo per leggere, commissionare e sviluppare le idee è spesso evidente e limita la crescita e la diversità del panorama teatrale italiano.

Perché il ruolo del dramaturg fatica ad essere delineato e a trovare spazio in Italia ma anche in altri paesi? 

Penso sia una questione culturale, perché tutte le cose esterne faticano ad essere integrate in un contesto nuovo, ogni cultura funziona all’interno dei suoi codici e delle sue tradizioni e le tradizioni italiane non prevedono questo ruolo fino adesso. Ovviamente i tempi si evolvono, non ha però senso trapiantare o paracadutare una cosa che non è radicata in un contesto, pian piano se alcune realtà riescono a e vogliono fare avanguardia in questo senso, creando il cambiamento, magari potranno creare in questo senso una tendenza che verrà seguita, ma il sistema teatrale italiano non è tradizionalmente predisposto alla presenza di questo ruolo al momento. 

l’Italia per una certa parte è molto esterofila, la figura del dramaturg non funziona però se non c’è un sistema a cui si può attaccare, ci può essere un dramma in un teatro in cui la direzione artistica decide che c’è, questo però non rappresenta una scelta sistematica.Questa è la mia versione di fatti, non è una cosa italiana al momento, in Italia ci sono diversi tipi di tradizioni. Oltre ad una resistenza culturale, c’è da considerare anche l’aspetto economico non essendo il dramaturg un ruolo assolutamente estremamente necessario, nel senso che il tipo di lavoro che fa viene spesso svolto da altri tipi di figure, diventa un lusso in qualche modo. La Germania ha moltissimi investimenti per la cultura e ha una tradizione, ovviamente in queste condizioni non si pone il problema, mentre in Italia bisogna crearla una tradizione, se si vuole coltivare la drammaturgia contemporanea. 

In Inghilterra, questa tradizione è già presente poiché c’è un’attaccamento al testo molto più forte. Anche se, in termini di finanziamenti culturali, ci sono meno investimenti rispetto a Germania e Francia, dve ad esempio esiste un’organizzazione commerciale molto forte e un vasto pubblico, che promuovono scambi culturali. La selezione di testi e il supporto agli autori hanno un ruolo chiave nell’attività culturale di paesi, motivo per il quale il Regno Unito sostiene fruitori della cultura come quei posti come literary managers che non sono scrittori, ma spesso traduttori o editori. Questo sistema, quindi, pari i lavori retributivi e promozionali in modo relativamente equo.

Il sistema britannico sostiene la drammaturgia perchè  c’è tutta una tradizione di commissionare testi e a quel punto molti autori si ritrovano sotto commissione  e possono continuare a fare il lavoro che vogliono. C’è una grandissima attenzione di pubblico una grandissima attenzione di tutti i teatri alla nuova drammaturgia, questo da sempre. Anche lì si tratta di una tradizione. In Italia invece c’è una tradizione che non privilegia tanto il testo necessariamente, ma la presenza di un attore-autore che dirige le sue cose, un artista completo, c’è questa tradizione, che va bene, che però semplicemente  non crea un’ecologia attorno alla drammaturgia.  

Nel corso della tua ricerca sei riuscita ad evidenziare delle tematiche comuni, dei fili rossi che uniscono le drammaturgie europee?

Le tematiche a livello europeo sono tante,  non ti saprei dire così su due piedi quali sono i trend anche perché variano tantissimo come variano le culture e i discorsi in ogni paese per esempio in Inghilterra si parla molto del cambiamento climatico, in Italia ho faticato a trovarne, però a livello europeo sicuramente ce ne sono tanti sul tema. Molti testi approfondiscono la questione dei migranti, della migrazione in generale, tema che viene abbastanza trattato anche in Italia e anche altrove. Ciò che cambia è la voce di chi ne parla, spesso l’accesso alla posizione di drammaturgo e di scrittore teatrale è limitata ai privilegiati quindi le tipologie di discorso sulla questione dei migranti variano molto rispetto da paese a paese. In Inghilterra ad esempio  cambiano tantissimo le prospettive perché si parla di scrittori di background migratorio ma anche di global majority come, dico nel libro. In generale credo sia molto presente il tema degli incontri culturali e interculturali e la vita ai tempi del capitalismo. Altra questione è quella del ruolo della donna, questo è un tema che viene fuori molto. 

Le grandi differenze però dell’Europa rispetto all’America e devo dire che parlo dell’Europa continentale sono stilistiche, non tematiche: come vengono affrontati certi temi  questa è la vera differenza c’è una più ampia libertà  e più varietà a livello europeo dal punto di vista stilistico di quella che troviamo nel mondo inglese o in America. La mia percezione è che gli scrittori teatrali negli Stati Uniti e anche nel Regno Unito sono più legati alla storia vera e propria, a uno sviluppo drammatico, mentre dal punto di vista dell’Europa continentale c’è molto più grande apertura verso il post drammatico  e quindi un uso del teatro molto più simbolico molto meno psicologico e, consequenzialmente, una più grande distanza tra il teatro, il cinema e la televisione. Mentre negli Stati Uniti e in Inghilterra c’è un allineamento molto più ampio tra quello che si vede in tv e nel cinema e quello che si vede a teatro  tant’è vero che gli scrittori cambiano media e continuano a fare un po’ di uno e un po’ dell’altro, ed è per questo che riescono anche a sopravvivere, questa è un’ecologia che funziona.

Come il tuo lavoro di traduttrice ha influenzato la ricerca? 

La cosa più importante su cui mi fa riflettere la traduzione è la traduzione culturale, per me la parte più interessante è proprio quella. non mi limito a pensare che parola usare in un determinato contesto, ma penso come tradurre una frase in una maniera che renda, che abbia un effetto non equivalente a quello che aveva nell’originale. Come posso comunicare il senso dell’originale a un pubblico nuovo? E come posso reinventare, riposizionare la proposta dell’originale per un pubblico nuovo? E che senso ha? Sono tutte domande registiche, mi metto nei panni della traduttrice come se facessi una drammaturgia per un regista.

E ovvio che poi dopo sono molto rare le occasioni in cui io poi ho la vera opportunità di parlare con un regista che metterà in scena i testi che traduco,mi chiedo però quale sia il valore di ogni battuta in un nuovo contesto. Il centro per me quindi è parlare di contesti culturali, di trasformazione  e dialogo culturale.

Nel libro, menzioni il ruolo del gatekeeper nel contesto teatrale. Durante un recente incontro del progetto Omissis, incentrato sulla drammaturgia, è stato discusso il potenziale di sviluppo del pubblico e di coinvolgimento degli spettatori, soprattutto considerando che la drammaturgia è spesso la parte meno conosciuta dello spettacolo teatrale. Quali sono i modelli esemplari o azioni specifiche che hanno dimostrato di essere particolarmente efficaci nel ruolo del gatekeeper nell’approccio al pubblico?”

Se intendiamo il gatekeeper come direttore artistico, in questo caso, anche lì si tratta tutto di una questione culturale, nel senso che in Italia si tende a privilegiare e a dare visibilità al regista, agli attori, ma agli scrittori no. Questa però  è una tendenza europea, a livello europeo, per la maggior parte delle persone con cui ho dialogato,  in Europa continentale, escludendo l’Inghilterra, la figura che ha più potere è il regista. Da una parte quindi si potrebbe parlare du regista come gatekeeper. Ci sono varie azioni che si possono compiere in questo senso. Bisogna prendere la questione da varie posizioni perché non c’è un singolo tipo di gatekeeper che può cambiare la situazione. Molte azioni, come i premi di drammaturgia, aiutano.  Ovviamente non sono cose nuove,  però creano più opportunità, più, a quel punto c’è più discorso rispetto alla drammaturgia. Altri gatekeeper da tenere conto sono i giornali e i critici.

Per cambiare le cose non basta solo cambiare i discorsi dei teatranti dall’interno, bisogna cambiare la percezione del pubblico. Quindi c’è necessità di pensare non solo alle webzine e agli approfondimenti critici di settore,  ma alla grande istituzione, alla stampa, ai giornali. Cosa vede una persona qualsiasi aprendo il giornale? Cosa scrive il critico? Cosa mette in evidenza il regista, la scrittura? Per esempio in Inghilterra la visione del ruolo del drammaturgo per chi non fa parte del mondo teatrale è molto più sviluppata, perché se ne parla in genere,  non perché se ne parla all’interno dei discorsi dei teatranti. Credo sia importante cercare di evidenziare per il pubblico chi è il drammaturgo. C’è necessità di più premi, più articoli, più discussioni, più insegnamento nelle scuole, su vari livelli bisogna moltiplicare i discorsi, con tutti, con il pubblico, con i bambini, con i critici, con la televisione, con i giornali, con le comunità più marginalizzate, con tutti quelli che possono avere benefici dalla scrittura teatrale.

È essenziale approfondire questa discussione, ma ci sono molte domande importanti da esplorare e non sempre abbiamo risposte definitive. Ad esempio, dobbiamo considerare quale tipo di collaborazione vogliamo instaurare con i registi: desideriamo un modello in cui lo scrittore ha un ruolo predominante, o preferiamo un approccio più equilibrato in cui entrambi sono considerati alla pari?

Non esiste una risposta universale a questa domanda, e non possiamo semplicemente adottare modelli stranieri senza valutarne attentamente le implicazioni. Prendiamo ad esempio il modello del Royal Court, in cui lo scrittore ha un ruolo centrale durante le prove e ha il potere di influenzare ogni singola parola fino all’ultimo momento. Questo approccio potrebbe non essere adatto a tutti i contesti e a tutte le opere.

È importante riflettere su quale direzione vogliamo prendere per lo sviluppo della drammaturgia, sia a livello sistemico che culturale. Al momento, credo che manchi un adeguato dibattito su questi temi e sulla loro rilevanza per il nostro futuro artistico.

drammatugia

Conducendo questo studio, mi sono imbattuta in diversi modi di intendere la pratica teatrale, e semplificati dalle diverse modalità in cui le varie culture linguistiche denominano l’arte di scrivere testi teatrali e concepiscono il ruolo del drammaturgo prima, durante e dopo le prove. L’inglese tra “playwriting” si traduce in “dramaturgie” in tedesco; “dramaturgie” in olandese, cieco e francese; “drammaturgia” in italiano; “dramaturgia” in spagnolo catalano, portoghese, polacco, rumeno, finlandese; e, naturalmente “δραματουργία” in greco. Per confondere ancora di più la situazione, la lingua inglese, presenta anche un altro termine, derivato dalla stessa radice greca, ovvero “dramaturgy”, riferito a un concetto che differisce ampiamente da ciò che la maggior parte dei madrelingua inglesi ora intende con “playwriting“, ma che tuttavia vi si avvicina abbastanza da generare confusione. Nel gergo teatrale inglese odierno i due termini non sono sinonimi, sebbene questa differenza non sia nota a un comune anglofono, a meno che non abbia legami con il teatro. Nel mondo anglofono “playwriting” indica l’arte di scrivere testi teatrali originali, sia che si basano su una vicenda nuova sia che siano adattati a partire da una fonte preesistente, mentre “dramaturgy” è l’arte di organizzare e comporre storie destinata una performance, partendo da testi già esistenti ma anche senza basarsi in alcun modo su un testo. Come sostiene Theresa Lang “dramaturgy” consiste nel “curare un’esperienza destinata un pubblico” (Lang 2017:7)  mentre un “dramatist” fa lo stesso lavoro di un “playwright“, un “dramaturg” (parola presa in prestito dalla lingua e della cultura teatrale tedesche” lavora con i testi per il palcoscenico o con la struttura della narrazione nel corso dello spettacolo, spesso dando consigli un regista, ma non è necessariamente l’autore “originale” del testo messo in scena. Tuttavia ,nella maggior parte delle lingue europee, entrambe le pratiche playwriting e dramaturgy sono coperte dal termine derivato dalla radice composta greca -drama che significa “dramma” e ourgìa “fare/creare/plasmare”.