Fondata da Roberto Scappin e Paola Vannoni nel 2003, Quotidiana.com, associazione culturale con una forte identità teatrale e politica e oltre venti produzioni all’attivo, è stata connotata fin dall’inizio dalla ricerca di un linguaggio immediato e privo di impalcature formali.
Lontana da vincoli strutturali e semantici, la parola, nella scrittura drammaturgica di Quotidiana.com diventa allora essenziale, concentrata sul presente e sulla situazione contingente ma al tempo stesso capace di aprire i più stupefacenti paradossi per chi la ascolta. Attraverso dialoghi brevi e sferzanti Scappin e Vannoni duettano, polemizzano, ironizzano, senza mai lanciare messaggi o affermare tesi. Solo il dubbio trapela e il pubblico è invitato a seguirli nella loro surreale interazione.
Sulla scia del pensiero del filosofo Martin Heidegger che scriveva in Lettera sull’Umanismo nel 1947 che «Il linguaggio è la casa dell’essere e insieme la dimora dell’uomo»la ricerca linguistica di Quotidiana.com tenta di riprodurre nella sua falsa semplicità il linguaggio del pensiero, ritenuto quello più vicino all’essere.
Tra gli spettacoli più recenti: I Greci, gente seria! Come i danzatori, spettacolo vincitore, a Roma, del Premio Tuttoteatro alle Arti sceniche Dante Cappelletti 2022, che ripensa il rapporto tra il pensiero, l’astrazione e la dimensione della corporeità, ma anche il radiodramma Dialogo al limite del volto scritto per Rai Radio 3 nel 2021 in periodo pandemico, fino alla più recente trilogia 7 note in cerca d’autore.
Partiamo da Dialogo al limite del volto focalizzato sui dialoghi di una coppia in condizioni di isolamento forzato. Qual è stato l’approccio dal punto di vista tecnico per riuscire a esprimere il linguaggio del pensiero che è appunto una delle finalità del vostro modo di fare teatro?
Roberto Scappin: Per questa drammaturgia originale commissionata da Radio Rai3 abbiamo utilizzato forme di scrittura diversificate. Alcuni dialoghi nascono tramite l’utilizzo della messaggistica di Whatsapp, altri li abbiamo raccolti catturando direttamente frammenti della nostra vita in comune che abbiamo sviluppato e trascritto. I brevi soliloqui si sono articolati nella forma tradizionale davanti a un documento word del pc. Quest’ultima modalità l’abbiamo definita “lusso di coscienza”. A titolo esplicativo ecco un estratto
Spunto reale
Lei Sono andata a fare l’esame spirometrico, hanno rilevato che mi sono abbassata di tre centimetri.
Sviluppo
Lui Ora sei alta come me.
Lei Ti sei abbassato anche tu…
Lui I dischi della colonna vertebrale si disidratano e dopo i 45 anni si riducono di 0,28 cm all’anno.
Lei Per 15 anni.
Lui 4,2 cm.
Lei Mi è andata meglio del previsto.
Lui Svetti ancora.
Lei Torreggio.
Lui Il fulmine può svettare la punta del cipresso.
Lei La disidratazione dei dischi: un fulmine lento.
Come avviene il passaggio dal linguaggio del pensiero alla scrittura drammaturgica? C’è qualcosa che va irrimediabilmente perduto?
Roberto Scappin: Il passaggio avviene non censurandosi. Avviene dando credito al pensiero, anche a quello apparentemente privo di efficacia o di scopo. Dando credito alla mente, affidandosi ad essa. Lasciando a lei il compito di determinare la sorgente e la messa a fuoco, e alla nostra volontà quello di raccogliere e depositare.
Il pensiero per generare ha necessità di nutrirsi, lo studio e l’osservazione critica della realtà sono le dimensioni che determinano questo fisiologico processo. Quello che si perde viene vissuto come un’opportunità, ovvero quale naturale fase di scrematura. Il pensiero è elusivo, come un lupo. Il significato è un sasso in bocca al significante… non rinviare l’immagine acustica seppur dissonante, paradossale, o il concetto indigesto, come può esserlo un sasso.
Elaborazione della vita interiore, stare nel pensiero senza infliggere la sofferenza della convenzione, tentando di non far sfuggire all’altro le proprie parole. Esporci all’altro, affacciarsi al suo inferno o al suo enigma silente.
Veniamo ora alla trilogia intitolata 7 note in cerca d’autore e dedicata a Ibsen, Pirandello e Shakespeare. Perché la scelta di questi tre autori?
R.S. Le motivazioni della scelta non sono per noi casuali, ma parte di un processo che tentiamo di attraversare: Henrik Ibsen (A casa, bambola!) perché essendo considerato il padre della drammaturgia moderna ha fatto da innesco alla questione dei diritti e dell’intimità; Luigi Pirandello (5personaggi in cerca di autore – O algoritmo d’autore) per la messa in discussione dell’edificio della rappresentazione e della soggettività; William Shakespeare (Quell’oscuro oggetto del desiderio) per l’articolata complessità tragica e linguistica. Cercando continuamente nuovi limiti da trasgredire.
Nel gennaio scorso avete debuttato con la prima opera della trilogia A casa, Bambola! appunto, sui diritti negati, in questo caso della donna. In che cosa siete rimasti fedeli a Ibsen e in che cosa avete sviluppato una vostra chiave di lettura rispetto al tema affrontato?
R.S. Del testo originale di Ibsen è rimasta solo la scena in cui Nora decide di lasciare il marito Torvald. Così commentava Gramsci sulle Cronache teatrali dall’Avanti, 1926-1929: «Perché gli spettatori, i cavalieri e le dame che l’altra sera hanno visto svilupparsi, sicuro, necessario, umanamente necessario, il dramma spirituale di Nora Helmar, non hanno a un certo punto vibrato simpaticamente con la sua anima, ma sono rimasti sbalorditi e quasi disgustati della conclusione?»
Non utilizziamo chiavi di lettura quando approcciamo una tematica, ma ne rimaniamo in qualche modo intrappolati, cerchiamo di affrontare il labirinto concettuale e conflittuale delle relazioni, dando libertà al linguaggio, cioè al pensiero. Quello che emerge è una sorta di magma della memoria, che concerta con lo sciame ondivago (dialetticamente) del tempo presente.
La poesia e la retorica, l’assurdo e il contingente, il comico e il tragico si danno regolare alternanza, rispettando ognuno il proprio turno. Se vogliamo individuare una chiave di lettura possiamo certamente sintetizzarla in questa battuta: “Le donne vivono tragedie sotto gli occhi indifferenti degli uomini”. L’accorgersi appunto, l’avere accortezze, l’accorciare le distanze invece che allontanarsi.
Avete pubblicato per la Titivillus di Pisa i testi della trilogia Tutto è bene quel che finisce, che contiene L’anarchico non è fotogenico, Io muoio e tu mangi sul diritto all’eutanasia e Lei è Gesù che ribalta la storia umana del Messia in una prospettiva al femminile. Come si sono sviluppati questi lavori? E voi che rapporto avete con la religione?
R.S. Ne L’anarchico non è fotogenico abbiamo elencato le cose che a nostro parere dovrebbero morire: «Dovrebbe morire l’incapacità di attuare un progetto sovversivo, dovrebbe morire il menefreghismo verso qualsiasi atto di ribellione… dovrebbe morire l’ignavia che impedisce di costruire un mondo migliore… dovrebbe morire uno sviluppo tecnologico smodato… dovrebbero morire tante strade strette su cui si fanno dei frontali micidiali… dovrebbero morire……».
In Io muoio e tu mangi, abbiamo descritto la fine reale di un corpo all’interno del reparto di geriatria di un ospedale. In Lei è Gesù abbiamo ipotizzato che a vestire i panni del Messia fosse una donna. Siamo giunti in questo caso alla conclusione che una donna non si sarebbe sacrificata sulla croce. Per salvare chi?
Questi tre lavori hanno pochissimi elementi scenografici, significanti evocativi che alludono: due cappelli da cowboy, un trofeo, due bombette sul capo.
La cura della spiritualità associata alla vita interiore dell’individuo si può realizzare attraverso il silenzio, il cammino, il canto, il sacrificio dell’inutile, la devozione al poco; c’è la disciplina dello yoga, un complesso corpus teorico-pratico che comprende una filosofia, per altri c’è la preghiera.
Possiamo salmodiare, digiunare, dedicarci alle scritture dei mistici. Bisognerebbe trovare la via per liberarsi dai propri personali gioghi. Una fede che genera sapienza. È meglio un ateo felice e onesto che un credente infelice e disonesto.
Il vostro teatro predilige la forma dialogica, domande a cui seguono le risposte. È stata una scelta determinata dal fatto che siete una coppia, oppure ritenete anche che sia questa la forma espressiva più autentica della comunicazione teatrale, rispetto al monologo o al lavoro corale?
R.S. Il dialogo ci consente di procedere nel dubbio, di sviluppare due visioni spesso in contrasto e proprio per questo potenzialmente sorprendenti negli esiti e nelle insoddisfatte conclusioni, che non sono risposte ma temporanei approdi della mente. Un giorno abbiamo deciso di accendere una videocamera e di metterci in dialogo di fronte a questo raccoglitore immediato di dati verbali spontanei. Da questo fatto “casuale” nascono i testi dei nostri lavori.
Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.
In occasione del debutto del Grande vuoto, ultimo tassello della sua Trilogia del Ventopresentata per il REF al Teatro Vascello, abbiamo intervistato Fabiana Iacozzilli. Nella parentesi di una pausa tra una prova e una replica, abbiamo discusso con la regista i processi creativi che l’hanno portata alle scelte compiute per i suoi tre spettacoli, passando per marionette e grottesco, attraversando il tema della cura, la memoria, fino a cercare di codificare la direzione di questo vento che soffia, tiepido e benefico, nei teatri.
Rispetto alla creazione di uno spettacolo, le diverse tipologie di linguaggi usate per la trilogia, come il teatro di figura, la performance e il video, nascono prima o dopo il tema prescelto?
I linguaggi nascono dopo. Prima mi interrogo su una questione, su cosa voglio interrogare me e il pubblico. Dopo averla messa a fuoco, inizio poi a pensare a quale possa essere la lingua migliore per esprimere la materia artistica su cui sto lavorando. Mi succede di cambiare linguaggi, forse è una mia specifica. Per esempio fino a La classe avevo sempre lavorato con gli attori, che portavo a una cifra grottesca, tramite un lavoro minuzioso e accurato sull’azione scenica. Nel momento in cui, per La classe, ho deciso di partire dalla mia biografia e dai ricordi d’infanzia, mi sono interrogata a lungo su quale potesse essere il codice espressivo migliore.
Mettere in scena dei bambini sarebbe stato patetico, con degli adulti sarebbe stato grottesco, una strada che avevo appunto già percorso, avendo lavorato tanto sul teatro dell’assurdo in una prima fase stilistica. Quando ho avuto l’intuizione di usare le marionette mi è subito parsa l’unica strada possibile da percorrere per quel tipo di lavoro. Prendendo a esempio invece Il grande vuoto, l’ultimo spettacolo della trilogia, ho contaminato il lavoro con il video, ma sono arrivata al video per esigenze precise che hanno a che fare con la drammaturgia. In ogni caso, prima di tutto c’è la drammaturgia e poi il linguaggio che adotto affinché quella drammaturgia possa esplodere.
Ne Il grande vuoto dovevamo raccontare la solitudine di una donna che vive nella sua casa, affetta da una malattia neurodegenerativa di cui non si parla mai esplicitamente in scena; avevamo bisogno di far immergere il pubblico in una precisa dimensione e per questo abbiamo utilizzato il video: abbiamo perciò deciso di fare delle riprese live dei movimenti dell’attrice durante lo spettacolo, contaminando anche con del materiale filmato precedentemente in un’altra casa. Anche in questo caso, come già per La classe, l’uso di un linguaggio preciso non è dunque un orpello, ma una necessità.
® Francesco Bondi
Come scegli i tuoi attori e le tue attrici?
In parte continuo a coinvolgere performer con cui lavoro da anni e per me questo è prezioso. Molte di queste persone rappresentano una costola di quella che è stata la mia compagnia storica (Lafabbrica, sciolta nel 2017, n. d. r.) e, anche se non sono più nella compagnia, sono per me le risorse più importanti, sono parte del progetto. Ci conosciamo da anni, parliamo la stessa lingua. Poi, quando devo scegliere altre persone, con gli anni ho imparato a capire cosa mi serviva. Non riesco a concepire l’incontro con l’attore o l’attrice passando per il semplice provino, perché il lavoro che faccio è un lavoro di improvvisazione, un lavoro che si costruisce insieme.
La materia che io propongo diventa materia comune, gli attori improvvisano sulle suggestioni che io do, perciò tengo molto di loro nella versione finale. Nel momento in cui decidiamo di lavorare insieme ci scegliamo, non è che io scelgo loro. Forse sono loro che scelgono me. Ci scegliamo insieme. Per esempio con Giusi Merli, la protagonista dell’ultimo spettacolo Il grande vuoto, abbiamo deciso di fare un lungo incontro di 9 giorni alla Corte Ospitale e abbiamo lavorato lì, insieme. È stato un privilegio che non accade spesso, lo so. In ogni caso ritengo sia importante cogliere un certo tipo di umanità piuttosto che un certo tipo di bravura attoriale.
Parlando del secondo lavoro della trilogia, Una cosa enorme, ti chiedo: cosa vuol dire prendersi cura oggi? La società di cui parli e a cui parli sente ancora il peso di Anchise, l’accudire i genitori? Ce l’abbiamo ancora come monito per la nostra crescita?
Non lo so se ce lo abbiamo ancora. Sarebbe sicuramente bello se ce l’avessimo. Una cosa enorme è uno spettacolo a rischio retorica, questo è evidente. Nel senso che la storia che io racconto vede una protagonista che si interroga sulla maternità, ma che alla fine si ritrova a prendersi cura di un padre. Partorisce un figlio-padre. Non possiamo allargare la domanda a un noi.
Nella nostra ricerca è evidente che questo punto di attenzione si sposta dal figlio al padre. Nel mio lavoro, prendersi cura è più visto come un atto generativo, come presa di responsabilità e come una riscoperta del senso della cura di sé, ma in relazione al padre. Allargare il discorso a qualcosa o a qualcuno che esce fuori dalla sfera più intima mi risulta realmente difficile. Avrei paura di risultare banale.
® Manuela Giusto
Passiamo a Il grande vuoto, che debutta adesso per il Ref al Vascello; vorrei chiederti: questo vuoto è, secondo te, più per chi assiste una persona che perde la memoria o per chi vive la perdita della memoria?
Io credo che il vuoto ci sia per entrambi con modi, forme e pesi completamente diversi. Forse il vuoto più grande lo vive chi assiste. Perché per il caregiver il grado di consapevolezza, il vuoto che si genera dentro, è maggiore. Stando al lavoro che abbiamo fatto, credo che nel momento in cui ti prendi cura di una madre o di un padre che non ti riconosce più, a quel punto, se non sei più riconosciuto da chi ti ha generato, ti viene da chiederti chi sei.
C’è un momento in cui sei sull’orlo del baratro, per cui ti domandi: “se non sono più nessuno per quella persona, chi sono?” Questo è un passaggio delicato e importante, per cui credo che il vuoto più grande sia per chi assiste perché entra in questa vertigine, in questa voragine.
Il vuoto più drammatico è invece quello di chi perde i pezzi. In questo spettacolo io però volevo tantissimo che si andasse verso la gioia. Il nostro percorso è passato per La classe, poi per Una cosa enorme, che dei tre è lo spettacolo più duro, più crudo, e volevo veramente lasciare questa trilogia al pubblico, e a me stessa, creando un momento di gioia.
Il grande vuoto finisce raccontando un grande ricongiungimento, mostrando come questo vuoto possa zampillare, come ci sia un’energia vitale anche lì dentro e come ciò possa accadere nel momento in cui i figli decidono, attraverso il teatro e il gioco, di entrare nel mondo della madre, nel mondo del Re Lear.
Accade quando i figli decidono di scivolare verso la madre per continuare ad avere un rapporto con lei, quando decidono di entrare nel mondo del teatro che è l’unico ricordo che lei ha.
In che direzione soffia artisticamente il tuo vento? Dove ti ha portata questa trilogia?
Non era nata come trilogia del vento, lo è diventata. La classe, il primo spettacolo, finisce con l’immagine del vento, nel secondo ci sono degli uccelli minacciosi che continuano a girare sopra la protagonista per consegnarle la creatura, come delle cicogne, e anche questo ha richiamato un’immagine di vento e aria. In realtà mi ha molto colpito questa strana chiusura del cerchio; è stata veramente inaspettata. Quando con Linda Dalisi, la dramaturg de Il grande vuoto che ha fatto un lavoro straordinario, ci siamo rese conto che anche questo terzo lavoro era così fortemente legato al vento, siamo rimaste colpite, perché non lo avevamo deciso.
La protagonista de Il grande vuoto, Giusi Merli, mentre lavoravamo sulle emozioni, ci ha rivelato che il suo cavallo di battaglia era Re Lear e soprattutto il monologo del Soffiavento a cui era legatissima. Di fronte a questa dichiarazione sono rimasta molto turbata, perché avevo già deciso di lavorare su una trilogia, ma non avevo ancora il titolo, per cui mi sembra che sia stato il teatro a manifestarsi di fronte ai miei occhi. Quindi forse il vento soffia, nella riscoperta delle possibilità che il teatro dà a noi artisti ogni volta. Forse in questo senso il vento soffia in un modo caldo. Lo dico perché prima di concludere questa trilogia stavo anche un po’ perdendo un certo fuoco.
Stavo diventando in un certo modo una professionista, che faceva bene il suo lavoro e basta. Invece ciò che è accaduto di fronte ai nostri occhi mi ha fatto pensare che, alla fine, il teatro, se gli si dà un’occasione, si manifesta. Ti si manifesta sempre. È lui che ti racconta la strada; è lui che ti racconta dove puoi andare.
Emilia Agnesa, sarda trapiantata a Roma. Drammaturga, autrice e attrice teatrale, diplomata in drammaturgia all’Accademia Nazionale Silvio d’Amico. Laurea specialistica in lettere antiche, insegnante abilitata di latino e greco. Collabora come autrice con diverse compagnie nazionali e internazionali.
Dal 31 ottobre al 5 novembre, all’Arena del Sole di Bologna è andato in scena Diari d’amore, la prima prova teatrale di Nanni Moretti che rispolvera a teatro due esempi del corpus drammaturgico di Natalia Ginzburg. Sceglie Dialogo del 1970 e Fragola e panna del 1966 per riaccendere l’attenzione su una drammaturga d’eccezione, grande innovatrice della lingua drammatica italiana.
Nei due pezzi il cast si mescola agitandosi tra le mura domestiche, confusi sui loro sentimenti perché troppo pieni di debiti o impegnati a salvare la dignità borghese. Il talamo viene dissacrato tra le sue stesse lenzuola e a queste si attaccano uomini e donne soprattutto, che sembrano aver dimenticato di avere un cuore.
Dialogo vede una coppia nella sua routine sin dalle prime ore del mattino, che in poco tempo si disintegra e si rimette insieme, perché alternative sembrano non esserci. Le voci si moltiplicano in Fragola e panna dove una visita inaspettata turba un precario equilibrio di un altro fantasma di una coppia.
Sono personaggi inetti, allucinati dall’Italia della seconda metà degli anni Sessanta, che promette e conquista (forse) un progresso economico e sociale di cui però non tutti riescono ad appropriarsi. Ed è su queste donne che l’attenzione drammaturgica di Ginzburg si pone. Ne abbiamo parlato con l’interprete di Tosca in Fragola e panna ovvero Daria Deflorian, attrice, autrice e regista teatrale.
Ginzburg a teatro c’è capitata per caso, subito dopo aver dichiarato nella celebre inchiesta su Sipario del maggio 1965 di non riuscire a prendersi sul serio nella scrittura di una drammaturgia. Insieme a tanti altri accusava il teatro italiano di non avere una lingua e effettivamente riesce a rinnovarla, la rende viva sul palcoscenico e anche divertente. Quale è il suo rapporto con l’autrice e da attrice, ma anche da autrice e regista, cosa vede nei suoi testi, che risentono molto della sua provenienza dalla prosa?
Daria Deflorian: Non conoscevo bene Natalia Ginzburg. È stato un viaggio recente e interessante legato a questa produzione. Avevo un preconcetto nei suoi confronti, come se si trattasse di una cosa un po’ salottiera, come se fosse un teatro poco impegnato. Invece studiandola ho scoperto una figura molto interessante, da leggere assolutamente, prima di tutto per la sua lingua.
Il teatro non è la sua vocazione però proprio per questo, proprio in queste “rotture grammaticali” lei oggi ci può parlare. Sono testi brevi, non vogliono avere la compiutezza del testo articolato in più atti, sono quasi (e questo li avvicina un po’ anche a quello che faccio) dei racconti teatrali, degli scenari sì, ma scenari prima di tutto narrativi dove si usa la trama come una specie di ponte sospeso tra chi scrive e chi ascolta, per dire altro.
L’assenza di didascalie è un altro tratto fortemente narrativo: non c’è una descrizione dei personaggi, non ci sono annotazioni che raccontano reazioni, toni. Domenico Scarpa, che ha curato l’opera della Ginzburg, quando ha visto una prova ci ha fatto notare che c’è sempre un momento più avanti nel testo in cui quella figura dice qualcosa che spiega perché prima ha detto o fatto un’altra cosa, e che quindi ci sono righe che si possono leggere come “didascalie segrete”.
E un’altra cosa interessante che ci ha detto Scarpa è che per la Ginzburg ci sono “le randagie”, come Barbara (Arianna Pozzoli) in Fragola e panna, donne libere da una parte, perse dall’altra, poi ci sono le donne che restano, quelle che – questa è una definizione mia – sono “inchiodate”, come Flaminia. E mi sembra di poter dire, ci sono infine quelle che pur rimanendo hanno lo spirito di quelle che se ne possono andare in ogni momento, sono quelle del futuro, sono noi oggi, quelle che non hanno bisogno di diventare randagie per trovare una propria strada.
E per me Tosca, la serva, orgogliosa di esserlo, è una donna un po’ così, una che se non si trova se ne va. Capace di mettere al mondo una figlia da sola. Di ridere e protestare.
Diari d’amore è composto di lettere dal carcere che sono le relazioni. Marta (Alessia Giuliani) di Dialogo rifiutata dall’amante, che simboleggiava la sua realizzazione e la sua libertà, torna dalla malsana sicurezza che le infonde il marito Francesco (Valerio Binasco). Flaminia (sempre Alessia Giuliani) di Fragola e panna non riesce ad abbandonare il tetto coniugale seppur separata. La prospettiva di vita di questi personaggi è agghiacciante. Che fine fa l’amore? Di questo è fatto l’apparente ineluttabile destino femminile?
DD: A questa domanda dovrebbe rispondere Moretti, è lui che ha dato questo titolo, quindi io posso solo dare una mia impressione alla scelta di qualcun altro. Quello che mi piace della Ginzburg è che fa vedere le relazioni amorose oltre l’innamoramento, nella loro difficile tenuta.
Di quel tentativo di durata mostra la complessità, le contraddizioni, i piccoli e grandi orrori quotidiani. Ma fa intravedere meccanismi che potrebbero essere evitati o ribaltati. Nelle figure di Marta e di Barbara vediamo innamoramenti che fanno intravedere cambiamenti di vita che poi non avvengono, desideri di ribaltamenti che invece procurano dolore, delusione, risultati molto opposti a quelli cercati perché si è proiettato sull’altro qualcosa che in realtà va risolto personalmente.
Quello che manca a Barbara è una solidità, un “senso di sé”, lei dice «A me non ha insegnato mai niente nessuno, come faccio ad essere responsabile rispetto a mio figlio?». Come spezzare questa catena di non responsabilità e prendere in mano la propria vita? La Ginzburg si ferma sulla soglia, mostra baratri e non fa intravedere salti fuori dal cerchio, noi oggi sappiamo quanto possono fare le donne sia nel privato che in una dimensione pubblica, ma quelli erano anni in cui raccontare la realtà delle donne aveva ancora quelle sfumature. Quindi, in sintesi, certo, è un testo malinconico, sono diari d’amore non realizzati.
® Luigi De Palma
La fotografia della locandina dello spettacolo è composta da sguardi: quelli di Flaminia e Letizia (Giorgia Senesi) e di Valerio Binasco (che interpreta anche Cesare, il marito di Flaminia) che si intercettano, poi c’è Moretti che guarda apparentemente Tosca che insieme a Barbara sono le uniche che si rivolgono dritte negli occhi dello spettatore. Tosca si definisce sempre una serva, non una signora, mentre Barbara è praticamente una bambina gettata nel mondo terribile degli adulti. Date queste premesse non sembrano salvarsi dalla disperazione degli altri personaggi femminili eppure, come hai anche sottolineato tu prima, c’è una alterità. Cosa hanno in comune questi due tipi? E durante la lavorazione, voi due interpreti avete percepito lo stesso legame invisibile?
DD: Nella sua apparente casualità questa fotografia racconta qualcosa che ha a che fare forse anche con un tipo di teatro abitato e frequentato. Non so per Arianna, ma io sono abituata da sempre a rompere la quarta parete, a triangolare il dialogo includendo anche il pubblico. Questa quarta parete in Diari d’amore è assolutamente rispettata: il pubblico guarda una realtà che è altrove.
Ma credo che l’allenamento di anni favorisca un respiro ampio in cui quello che avviene è fatto con il pubblico e non solo per il pubblico. Poi rispetto alla figura interpretata da Arianna Pozzoli credo si aggiunga una sintonia tra figure, non a caso l’unica carezza che Barbara riceve in tutto il suo cercare un appoggio è Tosca a dargliela.
Le altre due donne la aiutano ma non la toccano. Poi per fortuna la Ginzburg non idealizza nessuna figura, per cui anche Tosca ha i suoi inevitabili, umani limiti: si preoccupa per Barbara, però di fronte al fatto che ha cucinato una buona pizzaiola subito questo cancella in un attimo la sua empatia. Non si salva nessuno anche se le differenze ci sono.
Sono drammaturgie scritte da una donna su dei personaggi femminili che non riescono ad essere indipendenti, a stare da sole, a valere qualcosa. Per l’epoca era lo specchio di una comunità femminile che arrancava a stare dietro al progresso dei costumi e dei diritti civili perché troppo pesante l’eredità di un femminile succube, vecchio di secoli. Adesso a che donne parla questo testo? Siamo ancora in quella fase di mezzo?
DD: Per fortuna assolutamente no. Non lo era nemmeno la Ginzburg che le scriveva. Anche se sicuramente la crescita non è mai paritaria, per cui ci sono luoghi del mondo, condizioni, storie singole che sono a quel punto se non ancora più arretrate. La crescita, i miglioramenti non sono distribuiti in maniera uniforme.
Sì, ci sono delle avanguardie, ci sono delle dimensioni diffuse e poi ci sono delle situazioni che purtroppo non cambiano, che continuano a essere complesse e irrisolte. Ci può essere la violenza di un marito che ti stringe le mani attorno al collo, ma c’è anche la violenza di un marito che ti dice: «Non è possibile, come ha fatto a innamorarsi di te? Te non sei bella, quell’altra sì che è bella», anche quella è violenza.
La violenza apparentemente gentile di Francesco nei confronti di Marta è un esempio della violenza che, ahi noi, serpeggia in tante relazioni. Una violenza che avviene ogni giorno in rapporti che vengono definiti intimi, tra persone che considerano intimità il calpestare lo spazio dell’altro, ma questa non è intimità.
L’intimità è quel luogo dove io elevo l’altro, ma lo vediamo, viviamo in un mondo feroce che ha eternamente bisogno di crescere. È un problema stare insieme, è un casino rispettarsi anche tra persone apparentemente evolute. Cesare e Flaminia sembrano una coppia “moderna” ma tra loro c’è qualcosa di mostruoso.
La vicenda nel testo mostra un caso tipico di un’Italia prima della legge sul divorzio, ma racconta più in profondità di un disimpegno verso l’altro, di una mancanza di responsabilità all’interno di una relazione. Nanni Moretti è stato molto attento a non fare chiavi di lettura univoche: ha cercato di lasciare che fossero le parole a parlare.
Ce l’ha detto tante volte: stare nel testo in modo che le parole respirassero delle diverse complessità della situazione. Ma certo, personalmente penso che noi non siamo più quelle donne, ma le abbiamo nel nostro dna emotivo. Essere donna oggi è una risorsa in più, non perché siamo migliori ma perché abbiamo sofferto di più. Non solo individualmente, ma a livello culturale noi veniamo da una lunga storia di sofferenze. Mi auguro che il femminile non perda questa sensibilità nel trovare spazio nel mondo e nel prendere posizioni di potere. Che non perda il silenzio, la pura comprensione, il tempo del non fare, risorse che abbiamo sviluppato perché non avevamo alternative ma che rimangono risorse.
Nasce a Palermo nel 1998; lì si laurea al Dams, curriculum spettacolo, scoprendo diverse realtà teatrali e cinematografiche locali, più o meno indipendenti, e collaborando con queste. Tutt’ora continua i suoi studi a Bologna, specializzandosi in discipline del teatro.
Saranno in scena al Drama Teatro di Modena il prossimo 28 settembre con Ultima Fermata, spettacolo dedicato alla catastrofe ambientale imminente, diretto da Simona e Rosanna Cieri, coreografie di Martina Agricoli, ex allieva entrata a pieno titolo nella compagine di Motus, compagnia di teatro-danza tra le più conosciute e apprezzate a livello internazionale, impegnate da anni sul fronte sociale con veri e propri spettacoli-denuncia e al tempo stesso capofila nel campo della sperimentazione artistica con progetti legati alla multimedialità.
Simona Cieri, danzatrice e coreografa di formazione classica, fondatrice, nel 1991, della compagnia Duncaniando, in omaggio a Isadora Duncan, danzatrice statunitense considerata precorritrice della danza moderna, sviluppa nel tempo il desiderio che la sua danza esca dai confini della mera performance e si apra alla mission sociale, a progetti creati ad hoc insieme alla sorella regista e drammaturga Rosanna e a chi lavora nella compagnia perché la sua arte sia al servizio di progetti che uniscano la bellezza della danza contemporanea alla riflessione politica.
Numerosi i riconoscimenti e le collaborazioni, oltre al libro, pubblicato nel 2021, in occasione del trentennale della Compagnia, intitolato Trenta di Motus dalla casa editrice La Conchiglia di Santiago diretta da Andrea Mancini, con contributi di Jovan Diviak, scrittore e ufficiale jugoslavo considerato eroe nazionale in Bosnia Erzegovina per il suo rifiuto, durante la guerra, di attaccare la città di Sarajevo. Abbiamo quindi colto l’occasione di intervistare la compagnia anche sul loro lungo percorso artistico.
Partiamo dallo spettacolo che porterete in scena a Modena il prossimo 28 settembre, Ultima fermata, Come avete sviluppato questo lavoro?
Martina Agricoli: È stato interessante lavorare secondo un movimento inverso rispetto a quello che è il lavoro coreografico e di danza e utilizzare i movimenti dei danzatori in modo da far emergere la fragilità del genere umano in uno spettacolo che si apre in un contesto già apocalittico. Ho chiesto pertanto ai tre danzatori di vivere in scena la stanchezza, la difficoltà a respirare, lo sfinimento delle forze e dell’energia, i movimenti ripetitivi; tutte situazioni dal quale il danzatore è solitamente chiamato a sfuggire per andare in direzione opposta, e ho cercato di portare il pubblico stesso a percepire l’ansia e la difficoltà.
Rosanna Cieri: Così come i lavori di Motus attingono a forti dosi di ironia, ci sono alcune scene in cui per alleggerire la tensione si sorride su quelli che sono i nostri comportamenti, senza nulla togliere alla drammaticità di quanto viene raccontato e in cui ormai ci troviamo già immersi, con sempre più frequenti disastri ambientali e in cui il pubblico non fa fatica a ritrovarsi. Il punto di non ritorno per invertire la rotta dell’umanità verso la catastrofe ambientale, fissato dalla scienza tra 26 anni, non sta fermando infatti i comportamenti insensatamente energivori delle persone.
Per questo motivo, attraverso internet, siamo andati alla ricerca per qualche mese, di un oggetto che potesse diventare il simbolo dell’insensata rapacità della società consumistica e ne abbiamo trovato uno, assolutamente inutile a chicchessia, di cui davvero nessuno può avere bisogno. Eppure abbiamo scoperto essere stato acquistato moltissimo, tanto da andare presto esaurito. Non diciamo di quale oggetto si tratta per non spoilerare, ma il pubblico di fronte a questo oggetto, è scoppiato a ridere, ma si è divertito riflettendo.
A quale tra i vostri numerosi spettacoli, siete particolarmente affezionate?
Rosanna Cieri: Difficile a dirsi, noi nasciamo con una mission che è quella di portare all’attenzione del pubblico i problemi sociali irrisolti. Spesso i nostri spettacoli sono denunce. Le situazioni sono sempre originali, nel senso che noi non portiamo in scena il repertorio di altri, le sceneggiature sono scritte insieme alle coreografie per descrivere una certa situazione, dalle morti bianche sul lavoro all’inclusione sociale, all’inquinamento. In realtà il nostro desiderio sarebbe quello di non avere più niente da dire, perché a questi drammi si è riusciti a trovare una soluzione. Invece non è mai così. Se penso ad esempio allo spettacolo Mattanza, dedicato alle morti sul lavoro, mi rendo conto di quanto sia ancora profondamente attuale e in sintonia con quanto affermato nei giorni scorsi dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
C’era stato all’epoca, un evento di cronaca in particolare a cui vi eravate ispirate?
Rosanna Cieri: No, semplicemente una dichiarazione dell’allora ministro del Tesoro che a proposito della sicurezza sul lavoro disse che era un lusso che gli italiani non potevano permettersi. A questo punto lo spettacolo si giocò tutto sul tema del lusso e il suo impatto sul pubblico fu spiazzante, perché nessuno si aspettava un approccio di questo tipo.
Simona Cieri: Sì, io ho curato le coreografie di quello spettacolo e chiesi di far costruire un’apposita struttura, che fu posta molto più in alto rispetto al palco dove di solito si svolge la danza e per questo era anche pericolosa per i ballerini, ognuno costretto a muoversi in spazi di due metri per due con livelli non regolari. Era l’anno in cui JohnGalliano aveva fatto sfilare le sue modelle con gonne di raso e seta strettissime e lunghe oltre la loro altezza, così ho fatto indossare questo tipo di capi alle danzatrici. Ovvio che la struttura serviva a rendere l’idea che la situazione era posta su piani diversi: su quelli alti si muovevano le indossatrici, con un tipo di danza molto avvolgente e in uno spazio ridotto mentre in basso si vedeva in modo palese il degrado dei lavoratori che lavorano senza tutele. Ci piaceva l’idea della precarietà che dava questa immagine dei piani sopraelevati dai quali è facile cadere come si cade da una impalcatura. I piani diversi inoltre davano l’idea della gradualità del potere.
Un altro spettacolo di cui siamo orgogliose e che costituisce un primato è Confini, che ha vinto il Premio internazionale della critica Teatarfest 2008 a Sarajevo. È uno spettacolo di forte impatto emotivo per chi lo guarda e noi che abbiamo fatto viaggi in Bosnia da sempre, siamo particolarmente legate a questo spettacolo e a questi luoghi: Sarajevo, Mostar, Tuzla. Srebrenica. In questi luoghi abbiamo lavorato tanto e toccato con mano il tema della guerra e le problematiche post belliche. Dopo la fine della guerra in Bosnia siamo andate là, certe che da quel momento in poi i riflettori su di loro si sarebbero spenti e la popolazione sarebbe rimasta abbandonata a se stessa, come succede anche ora in Siria, Afghanistan e tanti altri posti. Ci siamo dette che l’arte avrebbe potuto per lo meno attenuare i conflitti creatisi tra le diverse etnie, visto che la Pace di Dayton del 1995 aveva costruito col compasso confini fittizi. Questo conferma quello che è lo spirito di Motus, utilizzare la danza non come fine ultimo ma come mezzo per.
Ma torniamo a Confini e al suo primato, che è stato quello di utilizzare la multimedialità in modo concreto, diverso dall’uso che se ne faceva all’epoca in teatro. Non ci siamo limitati ad utilizzare i video come fondali, ma le nostre videoproiezioni erano mirate a fare in modo che i nostri danzatori potessero essere reali sul palco oppure virtuali. Entravano e uscivano dal fondale tanto da creare questa illusione ottica per cui il palcoscenico diventava infinito e i danzatori con un lunghissimo lavoro nel green screen di scontorno, potevano entrare e uscire, non interagire con la videoproiezione come già si faceva, ma ad esempio, prendere oggetti, che so, aprivano il forno e prendevano fuori una tortina che poi mangiavano. Ecco, questo aspetto innovativo ha senz’altro motivato il premio conferito.
Rosanna Cieri: Sempre sul versante dell’innovazione stiamo lavorando a un progetto sull’inclusione sociale intitolato Avatar per portare i malati di Sla a teatro, già realizzato nel nostro teatro di residenza vicino Siena, a Castelnuovo Berardenga e per il quale stiamo cercando finanziamenti per farlo conoscere anche in Europa e nel mondo. Dal loro letto, i malati di Sla e le persone con gravi disabilità motorie, possono partecipare allo spettacolo attraverso una calotta che è stata generata per captare gli impulsi cerebrali e per tradurre questi impulsi in movimenti attraverso un robot, il cosiddetto Avatar, che viene a teatro come fosse una persona. Non è quindi uno streaming, ma ogni malato di Sla ha il suo robot che comanda come se fosse lui stesso. Simona poi ha elaborato un laboratorio ad hoc perché questa persona potesse danzare insieme ai nostri danzatori e ti giuro che è stato uno dei momenti più emozionanti della nostra vita.
Il nostro è il primo esperimento di questo tipo in Italia che abbiamo voluto realizzare come progetto pilota, ma ci stiamo adoperando per coinvolgere soggetti a livello europeo e testare se questo tipo di esperimento si presti ad essere riprodotto anche in spazi diversi da quello utilizzato qui.
Abbiamo attualmente in essere anche un progetto in collaborazione con il Cnr di Pisa attraverso la residenza insieme ad una coreografa della quale Motus produrrà il lavoro con la generazione di suoni, immagini e segni attraverso sensori che vengono gestiti attraverso il sistema computerizzato e l’intelligenza artificiale. L’innovazione ci interessa nella sua duplice valenza: come espressione dell’artista e come elemento che favorisca l’inclusione sociale. Non ci interessa la fuffa della tecnologia, che adesso si vede tanto spesso a teatro, noi non siamo di tendenza, questo è poco ma sicuro.
Come riesce il danzatore-performer a mantenere l’equilibrio tra il pathos, l’emozione che deve trasmettere al pubblico e la sfida della multimedialità?
Simona Cieri: Ti rispondo citando il nostro spettacolo Iris sotto il mare, rappresentato in tanti Paesi del mondo, dal Regno Unito al Portogallo fino alla ex Jugoslavia, a Srebrenica. In questa storia c’è una forte componente tecnologica ed è al tempo stesso molto poetica: Iris è su un fondale marino immersa in un quadro di Marc Chagall ma è una vicenda che parla di migranti. Lei è Iris Noelia Palacios Cruz, ragazza honduregna che lavora in Italia come baby sitter senza contratto per una famiglia benestante e si immola per salvare la vita alla loro bambina che sta annegando nelle acque dell’Argentario.Suscitò un forte pathos sulla popolazione bosniaca, gran parte della quale in quel periodo era costretta ad emigrare dopo la guerra. Ci fu davvero un grande trasporto emotivo e ricevemmo l’encomio anche da parte dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Tra i vostri lavori vorrei soffermarmi su Words che parla del potere delle parole
Rosanna e Simona Cieri: Wordsè stata la prima coreografia di Martina. Noi diamo vita a progetti di durata triennale e quell’anno ci dedicammo al tema del linguaggio e con Simona abbiamo dato vita a un concept intitolato Etimos, rivolto soprattutto alle scuole, anche se la parte più bella è sicuramente quella coreografica che si vede a teatro, sviluppata su piani inclinati entro i quali i danzatori ballano e vengono illuminati a seconda delle situazioni. In quel contesto ci premeva esplorare l’aspetto poetico del linguaggio che in Etimos ruota intorno a tre parole che nel tempo hanno assunto un diverso significato: desiderare, considerare e nostalgia. Volevamo però esplorare anche l’aspetto politico del linguaggio, perché il linguaggio disegna la realtà e lo fa a seconda di ciò che si intende dire. Martina curò questa parte partendo dal discorso di Mussolini alla Camera quando ci fu l’assassinio di Giacomo Matteotti e i movimenti dei danzatori cominciano con quel discorso, questo per far capire quanto la realtà sia manipolabile attraverso le parole e da lì lei iniziò a sviluppare ulteriormente il discorso sul linguaggio che l’anno successivo la portò a Interferenze, che fu selezionato da L’Italia deiVisionari, bando nazionale per le opere prime. È stato così che si è inserita a pieno titolo come nuova coreografa della compagnia. Così, mentre Simona porta avanti il lavoro principale, Martina analizza lo stesso argomento magari da un’angolazione diversa.
Veniamo al rapporto tra danza contemporanea e drammaturgia e più in generale, l’approccio del vostro teatro-danza rispetto a un testo drammaturgico
Rosanna e Simona Cieri: Qui c’è una forte sinergia ovunque tu vada, sia sul palco che fuori, dal testo alla danza alla coreografia, persino alla parte organizzativa. Senza la drammaturgia scritta appositamente per noi, non potremmo lavorare. Si parte sempre da un concept, ad esempio ora stiamo curando una trilogia che ruota intorno a tre parole, Ingratitudine, Immemori e Invidia. Ingratitudine, che ha debuttato l’anno scorso all’Estate Fiesolana, nell’Anfiteatro, parla dell’ingratitudine con particolare riferimento verso chi fa del bene. Un esempio può essere quella del giornalista Julian Assange che ha denunciato i crimini di guerra in Afghanistan e Iraq ed è stato incarcerato nel Regno Unito e condannato dal governo americano a 175 anni per cospirazione e spionaggio. Il giornalismo non è un crimine e va difeso. Ecco, Ingratitudine è dedicato a lui. Quest’anno abbiamo invece Immemori, dedicato al tema della memoria storica, che noi sembriamo aver perso del tutto. Non ci ricordiamo delle guerre del passato, degli errori che ci eravamo ripromessi di non commettere più e che invece perpetuiamo. Il prossimo anno lavoreremo invece intorno al tema dell’Invidia.
Il rapporto tra l’artista e la sua identità culturale. Secondo voi il danzatore deve lasciarsi abitare dall’opera che porta in scena o deve dare sempre una sua impronta, o bilanciare questi due aspetti?
Simona Cieri: Motus in rarissimi casi utilizza danzatori freelance o esterni. Per lavorare qui devi comprenderne e condividerne obiettivi, intenti e tutto ciò che sta dentro queste parole, quindi prima c’è un periodo di formazione qui dentro, che non è solo in sala, ma una formazione veramente mirata all’interno di questa realtà. Pertanto i danzatori contribuiscono moltissimo dando una loro impronta, ma senza mai togliere il marchio di fabbrica che è identificabile sempre, nonostante la danza cambi sempre, perché come ti dicevo prima, la danza è al servizio dell’argomento, del concept. Certamente tutti i danzatori danno un contributo perché non sono pezzi di ricambi ma persone e non si limitano ad eseguire i passi di danza. Come ti abbiamo spiegato prima, non si può prescindere da un lavoro sinergico. Così come per la drammaturgia, non è che Rosanna arriva e si è scritta la drammaturgia da sola, ma si sta insieme, si ragiona, si ascoltano e si scelgono i brani musicali, così anche i danzatori studiano l’argomento che devono danzare, si guardano i video. Ecco, questo lavoro solitamente non viene richiesto in altri contesti, si dice loro di entrare in sala poi c’è il coreografo che parla loro dello spettacolo e gli dà i passi e tutto finisce lì. Anche Martina, nonostante faccia lavori suoi e la sua firma sia riconoscibile e lasci che i danzatori siano liberi di esprimersi e di improvvisare, è ben riconoscibile che porta in scena un lavoro di Motus.
Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.
La 58° edizione delle rappresentazioni classiche del Teatro Greco di Siracusa è stata caratterizzata da un debutto molto importante avvenuto non in scena, ma nel quartier generale dell’INDA, nel cuore del centro storico, a Ortigia. Valeria Told è stata nominata dal Ministero della Cultura, Gennaro Sangiuliano, sovrintendente dello storico Ente. Di lei si sa che ha ricoperto la stessa carica dirigenziale per undici anni presso la Fondazione Haydn di Bolzano e che è da sempre una grande appassionata dell’arte greca.
Dalle risposte alla nostra intervista emerge che, nascosto tra le pieghe della sua personalità forte, ma anche molto disponibile, si cela un animo riservato. La presentazione dei registi della 59° stagione delle rappresentazioni classiche, in programma dal 10 maggio al 29 giugno 2024, è la prova di una scelta fatta con cura artigianale.
Luca Micheletti dirigerà Aiace di Sofocle nella traduzione di Walter Lapini. Paul Curran curerà la regia di Fedra (Ippolito portatore di corona) di Euripide nella traduzione di Nicola Crocetti e, infine, Leo Muscato sarà il regista della commedia Miles Gloriosus di Plauto nella traduzione di Caterina Mordeglia.
La prima domanda, lungi dall’essere irriverente…chi è Valeria Told?
Sono cresciuta in un contesto che fin da piccola ha stimolato la mia passione per lo spettacolo dal vivo, coltivata attraverso percorsi formativi legati alla danza, al teatro e al canto, ai quali si è aggiunto poi lo studio del flauto. Una volta concluso il mio percorso di studi universitari in Letterature comparate, Economia aziendale ed Economia politica, ho intrapreso la professione di manager culturale, continuando a coltivare così la mia passione per il teatro e la musica.
La mia carriera è stata caratterizzata da una costante ricerca di innovazione e connessione tra tradizione e sperimentazione che mi ha portato a ricoprire incarichi di relatrice in varie conferenze internazionali e a creare una start up innovativa per sviluppare un progetto europeo di digital education. Sono guidata dalla passione per il patrimonio culturale e dalla volontà di creare esperienze significative per il pubblico, lavorando per il successo e la crescita delle istituzioni culturali che ho avuto il privilegio di servire.
Proviamo a dare uno sguardo al futuro prossimo. Quali saranno i suoi prossimi passi, come immagina l’INDA dal suo interno?
Guardando al futuro prossimo, vedo l’INDA continuare sulla strada della crescita. Mi impegno a portare avanti progetti che uniscano il valore intrinseco del dramma antico con l’audacia della sperimentazione contemporanea. Intendo consolidare le collaborazioni con altri teatri e istituzioni culturali nazionali e internazionali, creando una rete più ampia di scambi. Voglio sviluppare ulteriormente l’aspetto educativo, per continuare a coinvolgere i giovani nelle attività della Fondazione e promuovendo lo sviluppo di un percorso universitario all’interno della nostra Accademia d’Arte del Dramma Antico.
Un altro obiettivo è ampliare il pubblico, coinvolgendo nuove fasce di spettatori attraverso un’offerta coinvolgente. Nel complesso, vedo l’INDA come un luogo di incontro tra tradizione e modernità, dove il patrimonio culturale è reinterpretato in modo fresco e stimolante, contribuendo al vibrante panorama culturale dell’isola e oltre.
Come pensa di coniugare la tradizione del classico con la necessaria innovazione, per venire incontro al mutato sentimento di un pubblico eterogeneo nella nostra epoca?
La coniugazione tra la tradizione del classico e l’innovazione rappresenta una sfida affascinante e cruciale per l’INDA. La mia visione è quella di preservare l’integrità del patrimonio classico, rispettando l’essenza delle opere e dei miti, ma al contempo riuscire a trasmetterli in modo rilevante e coinvolgente al pubblico contemporaneo. Questo può avvenire attraverso l’uso di linguaggi artistici diversi, dalla scenografia alla musica, dalla coreografia alla tecnologia.
L’innovazione non deve essere fine a sé stessa, ma deve servire a far emergere nuovi strati di significato nelle opere, a creare connessioni tra il passato e il presente. È importante coinvolgere il pubblico in un dialogo stimolante, consentendo interpretazioni multiple e personali delle opere. Ciò richiede una programmazione variegata, che possa includere anche la collaborazione con artisti provenienti da diverse discipline e l’apertura a nuove forme di espressione artistica. L’obiettivo è trovare un equilibrio tra autenticità e innovazione, per offrire al pubblico esperienze teatrali coinvolgenti che risuonino con la sensibilità moderna.
In che modo, secondo lei, fuori e dentro il teatro, il “nuovo” è diverso dal “vecchio”?
Il concetto di “nuovo” e “vecchio” può essere interpretato in diversi modi a seconda del contesto e delle prospettive. Fuori dal teatro, il “nuovo” spesso rappresenta l’innovazione tecnologica, le tendenze culturali in evoluzione e le idee emergenti. È ciò che ci spinge a esplorare, sperimentare e adattarci alle mutevoli dinamiche della società. Dentro il teatro, il rapporto tra “nuovo” e “vecchio” può avere una dimensione più complessa. Il “vecchio” rappresenta il patrimonio culturale, le radici delle tradizioni artistiche, le opere classiche che sono state tramandate attraverso i secoli. Questi elementi costituiscono le fondamenta su cui si basa il mondo teatrale e ciò che ha formato il nostro linguaggio artistico. Tuttavia, il “nuovo” all’interno del teatro non lo considero come qualcosa che sostituisce il “vecchio”, ma piuttosto come un complemento e un’evoluzione.
L’innovazione teatrale può nascere dalla fusione della tradizione con nuove idee e approcci, creando così nuove forme di espressione e nuove esperienze per il pubblico. Sia fuori che dentro il teatro, il “nuovo” e il “vecchio” sono in costante dialogo e interazione. La sfida è trovare il giusto equilibrio tra il rispetto per le radici e la voglia di sperimentare, per creare un continuum artistico che abbracci il passato e si proietti verso il futuro.
Il senso del teatro è l’appartenenza, la condivisione, il fare comunità tra le persone. Cambiano le direzioni, ma non cambiano i bisogni. Parafrasando il titolo del libro del regista tedesco Milo Rau: perché il teatro, oggi?
Milo Rau ci invita a riflettere sul significato continuo del teatro nel contesto attuale: Il teatro è sempre stato un luogo di incontro e condivisione, un punto di riferimento per la comunità in cui le persone si riuniscono per condividere esperienze, emozioni e riflessioni. Il teatro è ancora fondamentale oggi perché soddisfa quei bisogni umani profondi di appartenenza e connessione che sono sempre stati presenti nella nostra natura.
In un mondo in continua trasformazione, in cui la tecnologia ha modificato in maniera significativa la nostra vita, il teatro continua a offrire qualcosa di unico e insostituibile. È uno spazio fisico e culturale dove le persone si riuniscono per assistere a rappresentazioni dal vivo, sperimentando una condivisione autentica e immediata, dove le storie possono essere raccontate. La magia del teatro sta nell’esperienza collettiva, nel respirare lo stesso spazio, nell’ascoltare le stesse parole, nel condividere emozioni palpabili.
Scambi, identità, riferimenti interculturali. Quanto è importante per lei connettere il mondo sperimentando spazi e/o linguaggi diversi?
La connessione tra mondi diversi e la sperimentazione di spazi e linguaggi differenti rappresentano una parte cruciale della mia missione artistica, poiché credo che il teatro abbia il potenziale per unire, ispirare e trasformare attraverso l’arte e la condivisione di storie che risuonano nell’anima umana. Credo che il teatro abbia il potere di superare le barriere culturali e linguistiche, creando ponti di comprensione e dialogo tra diverse realtà. Questo non solo arricchisce il panorama artistico, ma contribuisce anche a costruire una società, in cui le diversità sono celebrate e condivise anziché essere motivo di divisione.
Performance, musica, produzione letteraria e poetica teatrale sono forme diverse d’arte. Qual è la sua preferita?
È difficile per me scegliere una forma d’arte preferita, poiché ognuna di queste espressioni artistiche ha il suo fascino unico e la sua capacità di comunicare emozioni e concetti in modi diversi. Tuttavia, se dovessi identificare una preferenza personale, direi che la letteratura e la poetica teatrale hanno un posto speciale nel mio cuore perché consentono un’immensa libertà espressiva. Attraverso le parole, è possibile creare mondi, personaggi e narrazioni che possono ispirare profonde riflessioni e connessioni emotive con il pubblico. La scrittura teatrale permette di esplorare temi complessi e universali, di dare voce a diverse prospettive e di catturare l’essenza delle esperienze umane in modo profondo e coinvolgente.
Qual è la sua opinione sull’industria teatrale italiana? È possibile parlare del teatro o della cultura in generale come un’industria?
Il teatro è un luogo di espressione artistica e di riflessione critica con un valore intrinseco che va oltre il mero profitto. Allo stesso tempo, è anche un ambiente in cui si producono e mettono in scena spettacoli con l’obiettivo di coinvolgere il pubblico e generare ricavi. Questa dualità crea un equilibrio delicato tra l’aspetto artistico e culturale e le esigenze economiche e logistiche dell’industria teatrale. Ritengo che sia possibile parlare del teatro e della cultura in generale come un’industria, ma con delle sfumature specifiche. Molti teatri e artisti dedicano tempo ed energie considerevoli per bilanciare questi aspetti, cercando di preservare l’integrità artistica mentre si cercano soluzioni per sostenere finanziariamente le produzioni e garantire la loro accessibilità al pubblico.
Riconosco nel panorama italiano la necessità di una maggiore professionalizzazione e di una visione strategica. Definire obiettivi chiari, creare piani di sviluppo e strategie a lungo termine può sicuramente contribuire a ottimizzare l’allocazione delle risorse e a prendere decisioni migliori. In questo modo, si può garantire una crescita sostenibile, preservando al contempo l’essenza creativa e culturale che la contraddistingue.
Lei ha dichiarato al suo insediamento che sono tre i pilastri sui quali si regge e può crescere una fondazione, ovvero, il rapporto con il pubblico, la sostenibilità economica e la trasformazione digitale. A tal proposito, cosa ha avuto modo di verificare sul campo?
Qui a Siracusa, il pubblico si dimostra fedele e profondamente appassionato delle rappresentazioni classiche. Questo costituisce un punto di partenza molto solido. Vogliamo nutrire questa relazione, offrendo proposte coinvolgenti, ma vogliamo anche incentivare il pubblico che viene al di fuori dei confini nazionali.
In merito alla sostenibilità economica, l’INDA gode di un solido sostegno, una condizione piuttosto rara tra i teatri europei. Mentre altrove i ricavi propri spesso si attestano intorno al 20% del budget, qui siamo in grado di raggiungere l’80%. Ciò ci pone in una situazione ottimale per garantire la massima qualità degli spettacoli e per abbracciare progressivamente anche le nuove tecnologie, ovvero la cosiddetta trasformazione digitale. Questa trasformazione può manifestarsi sul palcoscenico, ma può anche manifestarsi internamente all’ambito della Fondazione. L’integrazione di strumenti digitali nella promozione, nella vendita dei biglietti e nell’interazione con il pubblico può per esempio favorire un maggiore accesso al teatro.
Al termine della nostra intervista, vorrebbe condividere con i nostri lettori una riflessione su questi primi mesi come sovrintendente dell’Inda? Quali sono le sensazioni, le immagini, le esperienze e le persone che hanno caratterizzato l’inizio di questo suo percorso?
Certamente, con piacere. In questi primi mesi come Sovrintendente dell’INDA, ho avuto il privilegio di immergermi in un mondo ricco di creatività, passione e impegno. Ogni giorno mi trovo circondata da persone straordinarie: artisti, tecnici, collaboratori e appassionati del teatro, ognuno contribuendo con il proprio talento e dedizione al successo delle nostre produzioni e iniziative. Le sensazioni che ho provato sono state una miscela di emozione e responsabilità. Emozione nell’affrontare ogni sfida con la consapevolezza che il teatro è un luogo in cui le emozioni si svelano, si esprimono e si condividono. Responsabilità nel garantire che l’eredità del teatro classico sia rispettata e innovata. Le esperienze che ho vissuto finora mi hanno confermato che il teatro qui a Siracusa è un vero luogo di incontro, di scambio culturale e di arricchimento personale. E le persone che ho incontrato, mi hanno accolto con calore e condiviso la loro passione per il teatro. Sono specialmente grata per tutti i miei collaboratori all’INDA: loro sono il cuore pulsante dell’INDA e sono determinate a portare avanti la missione di creare spettacoli che ispirino, coinvolgano e lascino un segno nel mondo culturale.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Vincitore del Premio Ubu 2019 come miglior interprete under 35 per lo spettacolo Se questo è Levi, diretto da Luigi De Angelis che ne intuisce le potenzialità interpretative e la sua capacità di lasciare spazio al personaggio e diventare un tramite attraverso il quale la testimonianza del superstite ai lager nazisti possa arrivare nel modo più corretto ma anche intenso al pubblico di ascoltatori.
Ma anche lo psicologo imbonitore Guglielmo Bonora e il dottore senza scrupoli di Docile, portato in scena con la compagnia Menoventi e un inedito Amleto accanto a Chiara Francini nei panni di Ofelia, nella versione ironica e drammaturgicamente innovativa della tragedia shakespeariana riscritta da Chiara Lagani e diretta sempre da Luigi De Angelis su testo di Berkoff.
Tutto questo è Andrea Argentieri, attore e performer impegnato tanto nel teatro civile quanto in quello di ricerca, che sta per cimentarsi ora in un’altra esperienza interpretativa impegnativa quale quella del criminale statunitense Charles Manson, nato nel 1934 e morto nel 2017, a capo di una setta chiamata Manson Family, ritenuto il mandante degli omicidi dell’attrice Sharon Tate, in attesa di un figlio, oltre che dell’eccidio di Cielo Drive, sontuoso quartiere di Los Angeles, avvenuti tra l’8 e il 10 nell’agosto 1969.
In occasione del debutto dello spettacolo, sempre insieme a Fanny&Alexander, previsto per la fine di settembre a Milano, lo abbiamo intervistato.
Hai interpretato Se questo è Levi e I sommersi e i salvati sul nazifascismo, diretto da Luigi de Angelis di Fanny & Alexander. Qual è stato il tuo approccio alla figura di Primo Levi e verso il teatro civile in generale nel tuo percorso artistico?
Se questo è Levi è una performance che ha segnato in modo incisivo il mio percorso artistico. Il mio approccio si è basato principalmente sull’osservazione e l’ascolto profondo di Primo Levi. Essendo la drammaturgia composta dalle pure interviste dello scrittore, proprio queste sono state il fulcro del mio lavoro, oltre ovviamente ad essermi nutrito dei suoi scritti parallelamente.
Il lavoro di squadra è stato prezioso, i Fanny & Alexander, Luigi De Angelis e Chiara Lagani, sono stati due guide fondamentali, ed è proprio da questa prima collaborazione con loro che ho capito di aver avuto la fortuna di incontrare un cantiere d’arte che corrispondesse alla mia poetica sulla scena, in questo caso legata a doppio filo con il teatro civile. Proprio grazie a questo spettacolo ho appreso quanto sia importante intraprendere un percorso che vada oltre la semplice interpretazione di un personaggio, per abbracciare una vera e propria missione.
Ho capito quanto sia essenziale mettere a disposizione la mia voce e il mio corpo per storie che toccano la coscienza collettiva. Per usare un termine di Levi, cerco di essere come un’antenna che intercetta e riporta alla luce questioni che spesso vengono ignorate o dimenticate. È un vero e proprio viaggio fatto insieme al pubblico che mi mette in contatto con la mia vocazione in modo profondo e significativo, poiché esso permette a me e come ho potuto constatare anche al pubblico che assiste, di identificarsi e sentirsi parte di qualcosa di più grande.
Tu hai portato in scena Se questo è Levi, di recente, in Cina. Com’è il pubblico e che tipo di atteggiamento ha verso questo tipo di spettacolo? Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
Il messaggio di Primo Levi è riuscito a raggiungere anche la Cina. I cinesi sono un popolo straordinario, molto curioso e molto attento. Abbiamo portato un’edizione speciale di Se questo è Levi ispirata ad una delle parti dell’intero progetto, dal titolo Il sistema Periodico. Attraverso il libro e la passione per la chimica di Primo Levi abbiamo raccontato la sua storia al Gran teatro della Cina di Shanghai.
Lo spettacolo ha avuto molto successo, specialmente con il pubblico dei più giovani. Abbiamo avuto un riscontro profondo su diverse questioni, sia rispetto al “Levi chimico”, e più nello specifico riguardo le tematiche politiche. Questo viaggio è stato molto intenso per me, sia come persona che come interprete.
In Cina ci sono diversi rituali anche a teatro che fanno sì che sia il pubblico che l’interprete si calino da subito in una sorta di meditazione collettiva, come per esempio entrare in scena non un minuto prima né uno dopo il terzo gong. Sentivo un’energia molto intensa da parte del pubblico, che leggeva i sottotitoli, ma che allo stesso tempo non voleva perdersi la corporeità dell’interpretazione.
Abbiamo collaborato con gli studenti dell’accademia teatrale di Shanghai, che comparivano nei video durante lo spettacolo per porre le domande a Primo Levi. Ho passato molto tempo con loro e ho potuto apprendere quanta passione e studio mettano in ogni cosa che fanno. Questa esperienza è stata fondamentale. Esibirsi in Oriente aggiunge sicuramente qualcosa di importante e indelebile nella vita di un performer, io ho avuto l’occasione di aggiungere questo valore al mio percorso tramite uno dei progetti ai quali sono legato visceralmente.
Sempre per Fanny&Alexander hai interpretato L’amore segreto di Ofelia, insieme a Chiara Francini, su testo di Steven Berkoff, che è una riscrittura ironica. Com’è stato lavorare a un genere di spettacolo così diverso e com’è stato lavorare con Chiara Francini che è un’attrice brillante tra le più popolari in Italia?
Lavorare a L’amore segreto di Ofelia di Fanny & Alexander è stato commovente e divertente allo stesso tempo. Questo lavoro è nato in periodo di lockdown Covid, quando ancora gli attori in scena dovevano stare a debita distanza l’uno dall’altra.Quindi s’interroga proprio sulla distanza, e sulla potenza dell’amore che aumenta attraverso una separazione forzata, in questo caso tramite l’epistolario erotico fra Amleto e Ofelia, immaginato da Berkoff.
Chiara Francini è un’interprete dalle mille sfaccettature, ognuna delle quali ha una caratteristica in comune: la genuinità. Da quando prende in giro Amleto con la sua inimitabile verve a quando lo guarda con occhi intensamente lacrimanti nel momento in cui lui le dice che dovrà andarsene. La cosa sulla quale ci siamo trovati da subito penso sia stata la nostra esigenza comune di portare verità sulla scena.
Mi sono divertito e allo stesso tempo emozionato molto con lei, Chiara è un’interprete estremamente sensibile e ironica allo stesso tempo, attenta, e con una ammirevole dedizione al lavoro che al giorno d’oggi non è affatto scontata, ho imparato molto da lei e spero di rincontrarla presto sulla scena.
Altra opera di cui ti chiedo è Docile, che hai interpretato insieme a Consuelo Battiston di Menoventi, diretti da Gianni Farina. Qui si parla dei rapporti di potere e di manipolazione e tu interpreti appunto la parte del manipolatore, nella duplice veste dello psicologo e del dottore che cerca di sottrarre all’ingenua ragazza-gallina le sue uova d’oro. Come si è sviluppato questo vostro lavoro?
Docile costituisce un’altra tappa importante del mio percorso attoriale. Con la compagnia Menoventi è scattata fin dall’inizio del nostro incontro una brillante sintonia che ci ha permesso di esplorare liberamente le possibili vie di questo lavoro. Siamo partiti da delle improvvisazioni e letture di diversi testi fino ad arrivare alla vera e propria drammaturgia dello spettacolo che Consuelo Battiston e Gianni Farina hanno scritto a quattro mani. È stato molto bello lavorare con loro perché hanno sempre accolto le mie opinioni o idee in fase di costruzione, facendomi quindi sentire sempre coinvolto nella creazione del progetto.
In questo spettacolo ho interpretato una figura manipolatrice dalle diverse forme: uno psicologo che tiene lezioni di empowerment Guglielmo Bonora, e un medico eccentrico molto attento ai propri interessi, Anselmo Malora, entrambi tentano subdolamente di impadronirsi del tesoro di Linda, la protagonista interpretata con estrema delicatezza da Consuelo Battiston.
Il mio primo approccio a queste due figure è stato molto pratico inizialmente, per quanto riguarda la figura di Guglielmo lo psicologo mi sono letto molti libri sull’empowerment oltre ad aver frequentato dei veri e propri corsi su questo tema, mentre per la figura del dottore ho fatto lunghe chiacchierate con i miei genitori medici, oltre che aver consultato i loro libri di medicina.
Dopodiché ho lavorato sulle fratture di questi personaggi. In più anche questa volta è stato fondamentale avere al mio fianco una partner d’eccezione come Consuelo Battiston oltre che un occhio attento come quello del regista Gianni Farina. Alcune scene le abbiamo provate moltissime volte di fila, e proprio da questa ripetitività sono venute fuori cose inaspettate.
Veniamo al tuo prossimo lavoro dedicato a Charles Manson. Perché la scelta di un personaggio così negativo e anche in questo caso ti chiedo che approccio hai scelto e cosa c’è da aspettarsi?
Per qualsiasi personaggio che approccio sulla scena in quanto attore/ performer la prima cosa fondamentale da attuare proprio per esserne puro tramite è sospendere il giudizio; ovviamente su una figura del genere non è così facile, ma pur sempre doveroso. Anche in questo caso il materiale di studio e che compone buona parte della drammaturgia dello spettacolo sono state le interviste che Charles Manson ha rilasciato nei suoi anni in carcere. Perché non portare un personaggio come questo a teatro?
Al cinema è permesso tutto, vediamo di tutto e di più e sono proprio determinate figure che rappresentano il male ad attrarci di più a volte, e perché? Anche il teatro in fondo lo fa, pensiamo a Riccardo III per esempio. Ma perché attorno a figure come Charles Manson ci deve essere come una sorta di pudore se si parla di portarle a teatro?
Io credo che il teatro sia un riflesso di varie sfaccettature della natura umana, anche di quelle più oscure. Penso che grazie a figure complesse come Manson si possa guardare direttamente nell’abisso dell’animo umano e riflettere sulle cause che possono condurre al male. Ma che cos’è il male? E chi era effettivamente Charles Manson?
Dallo spettacolo Manson , che debutterà il 29 e 30 Settembre a Milano in un luogo che ho nel cuore e cioè Il Teatro La Cucina all’ex Paolo Pini, c’è da aspettarsi qualcosa che va oltre la semplice cronaca dei fatti, pur sempre inevitabilmente presente anche nel lavoro creato assieme a Fanny & Alexander, di cui si è tanto parlato negli anni e che ha dato vita al mito Charles Manson.
Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.
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