Adriano Bolognino, giovane coreografo napoletano, è ormai ben noto nel panorama artistico italiano. Attualmente impegnato in una nuova creazione che debutterà nel mese di dicembre, abbiamo incontrato Adriano Bolognino in occasione di SKRIK, coreografia ideata per la MM Contemporary Dance Company, andata in scena il 29 Ottobre al Teatro Nuovo di Napoli, inserita all’interno della rassegna organizzata da Korper.
Verso che direzione si orienta la tua ricerca artistica?
La mia ricerca coreografica si basa prevalentemente su un uso ritmico. Ciò che mi interessa esplorare è proprio il ritmo. Ho visto che, creazione dopo creazione, era proprio su questo che volevo impostare i miei lavori: sia per il movimento che per la drammaturgia, ho sempre ricercato qualcosa che fosse il più possibile istintivo e portato a termine tramite una partitura ritmica costante, nonostante il mutamento di ispirazioni da scegliere, insieme alle tematiche da affrontare. A livello di spunti, sicuramente mi piace variegare: mi piace ispirarmi a momenti storici, quotidiani. Mi impegno per portare avanti anche lavori sul sociale affinché possano lasciare un messaggio e apportare un contributo rispetto a ciò che accade attorno. Mi piace ispirarmi e creare in maniera astratta. Essendo ancora giovane e avendo solo 5-6 anni di carriera coreografica alle spalle, cerco di non mettermi paletti e di rispondere a ciò che voglio, soprattutto se si tratta di creazioni a cui posso lavorare personalmente; quando mi vengono commissionate è diverso: le tematiche sono precise e a quel punto cerco di portarle il più possibile nel mio mondo. Ad esempio, mi è capitato di creare su figure storiche/ artistiche oppure, a Malta, ho creato una coreografia ispirata alla tradizione natalizia del posto.
Come cambia il tuo approccio coreografico nel lavorare con un ensamble o con un solo performer?
Non nego che ad oggi preferisco lavorare con più persone. All’inizio lavoravo con una performer o con duetti, anche perché economicamente non era possibile avere grandi organici. Tutt’ora, se si tratta di mie creazioni da freelance, il massimo è stato scegliere un sestetto, come nel caso di SAMIA. Preferisco lavorare con più soggetti per avere stimoli maggiori e per sfruttare al meglio gli spazi e le geometrie: più persone hai e più possibilità d’ispirazione ci sono. A me fa sicuramente più piacere lavorare con gli ensemble, per distribuire al meglio i ruoli. Cerco sempre di sfruttare queste occasioni al massimo delle mie possibilità. Pensiamo ad un sincro: fatto da 2-3 persone è diverso se fatto da 7-8, cambia anche l’effetto scenico. Avere una compagnia più numerosa per me è vantaggioso, com’è accaduto con SKRIK per la MM Contemporary Dance Company.
Quale potrebbe essere il filo che lega le tue performance?
Dipende, penso sia l’istinto. A parte questo, non c’è un vero fil rouge, almeno a livello tematico. In ogni mia creazione, però, c’è una costante: una grande ricerca sulla figura femminile, sulle particolarità e le sfaccettature della donna per un’analisi a tutto tondo: società, arte, ricerca del movimento. Prediligo sempre danzatrici donne. Solo quest’anno, per la prima volta, al fine di creare una coreografia ispirata al musicista Chopin, ho volutamente scelto anche un uomo. Ovviamente vi sono presenze maschili anche in altre occasioni, quando ad esempio creo per le compagnie, com’è capitato con la MMCDC. Inoltre, non mi piace etichettare l’uomo come uomo e la donna come donna: preferisco sempre un po’ trattare anche la tematica del gender, come avviene con Gli Amanti. Ad oggi mi viene detto che ciò che mi contraddistingue è la mia chiara cifra stilistica che si perfeziona negli anni. Per ogni lavoro vi è sicuramente un intento diverso, immaginari e costumi differenti. Sono molto legato anche alla moda e all’estetica e mi fa piacere che, in ogni performance, questo traspaia sempre.
Qual è la difficoltà nel tradurre in danza i temi che scegli di rappresentare?
La difficoltà risiede nel trasportare in danza tutte le storie e le ispirazioni attraverso il movimento. È complesso mantenere la propria cifra stilistica nell’intento di rappresentare ciò che ci si prefissa nell’atto compositivo, quando si immagina come dev’essere il progetto. Bisogna rimanere incentrati su questo e rendere il tutto più umano possibile, per farlo arrivare al pubblico tramite l’emotività che poi è la chiave attraverso cui si percepisce l’essenza di un lavoro
Come nasce SKRIK?
Io sono un amante di Munch. Ho da sempre pensato di ispirarmi ai suoi lavori, non sapevo se ad un’opera precisa o alla sua poetica. Mi sono soffermato su L’urlo perché è un quadro iconico e mi ha sempre affascinato. Tutto è nato da una prova d’autore ad Ater Balletto in cui, in tre giorni, ci fu la possibilità di scegliere una tematica con i danzatori di Agora Coaching Project (corso di perfezionamento diretto da Michele Merola). L’esperienza piacque e dopo ebbi l’opportunità d’essere associato alla compagnia di M. Merola, anche se io e Michele avevamo già in mente di iniziare una collaborazione. SKRIK nasce quindi dalla mia volontà di lavorare sul quadro di Munch. Ho visto l’opera dal vivo e mi sono molto ritrovato nel malessere e nell’inquietudine, perché fanno anche un po’ parte della mia personalità. La poetica dell’artista e la questione linguistica attorno alla terminologia originale sono molto suggestive per me. Sento una connessione anche con il paesaggio nordico, essendo un amante dell’inverno. Ho voluto approfondire la tematica naturale, l’impossibilità che ha l’uomo rispetto alla grandezza della natura che allo stesso tempo spaventa e affascina. La qualità coreografica che presento in SKRIK è ispirata al quadro: in secondo piano vi sono due amici che dialogano tra loro, come nella coreografia si alternano pause più rilassate ad altri momenti veloci, precisi, tecnici. Prendo spunto dall’opera anche per i costumi dei performer, pur se devo ammettere che il rosso è un colore che amo, quindi non vedevo l’ora di utilizzarlo. Qui associo il rosso ad un’esplosione, una lava, una potenza. Questo colore è comunque legato sempre a tante emozioni, soprattutto quelle forti, e Munch racconta di rumore e bagliore, dunque ho voluto rappresentare una forte passionalità, l’idea di fuoco che arde. Ho pensato ad uno squarcio, una visione profonda e netta che nessun altro colore, per me, avrebbe potuto rappresentare con altrettanta prepotenza. I danzatori, inoltre, hanno una forza incredibile- penso sia la compagnia migliore d’Italia insieme ad Ater Balletto- che il rosso ben riesce a rappresentare: la loro energia è emersa nel lavoro di creazione di soli 5 giorni.
Qual è la direzione della danza contemporanea oggi e che obiettivo ti poni per le tue prossime creazioni?
La danza contemporanea è molto vasta, oggi c’è maggiore possibilità rispetto a quando ho iniziato. Anni fa mi veniva criticato il troppo utilizzo di passi e di tecnica, si diceva che facevo balletto. Io ho preferito insistere e continuare per la mia strada e perseverando sono dove sono ora. Devo dire che oggi c’è spazio per tutto: danza più sperimentale, danza in rapporto con la tecnologia, danza urbana, site-specific, danza con reference al balletto. Tutto dà modo di vedere più colori e io spero che questo avvenga sempre di più, in modo da dare la possibilità ad ognuno di trovare la propria strada, anche ai danzatori che poi devono decidere con chi lavorare. Sarebbe bello avere più compagnie, maggiori possibilità in Italia così come in Europa, per aprire frontiere ai giovani: sia coreografi che danzatori, per creare uno scambio maggiore. Per le mie coreografie, sicuramente in questi anni ho creato tanto. Il 7 Dicembre debutterà a Padova il mio ultimo lavoro: LA DUSE. Insieme a Rosaria Di Maro (danzatrice AB Dance) ho vinto un bando in collaborazione con l’Opus Ballet aperto alle compagnie italiane per celebrare i 100 anni dalla morte di Eleonora Duse. Dopo questo lavoro vorrei fermarmi un attimo. Ho molto idee ma ho deciso di aspettare per proporre qualcosa di più grande, con una calendarizzazione maggiore e sento di dover ricaricare la mia creatività. Mi piacerebbe far girare SAMIA, RUA DE SAUDEDE, Gli Amanti, Your body is a battleground. C’è anche un lavoro che è andato in scena poche volte, debuttato a Trieste: Bruciare—into us/Chopin, attraverso il quale mi ispiro al musicista e ogni capitolo è dedicato ad un autore differente. Questo è il mio obiettivo: far girare i miei lavori fuori Italia. Vorrei creare connessioni estere (con l’Olanda o la Germania) portando il mio nome anche un po’ più fuori dai confini italiani.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Attivare culturalmente un territorio utilizzando la scuola come presidio, coinvolgere studentesse e studenti in un percorso di promozione attiva delle arti è quanto determina l’intera fisionomia del progetto Concentrica Open School. Ideato dal Teatro della Caduta di Torino, organizzato con Torino Open Lab e diversi partner nazionali, Concentrica Open School mette in connessione il mondo del teatro con quello della scuola, in una prospettiva di arricchimento trasversale per tutte le parti in gioco.
Se da un lato i ragazzi e le ragazze si mettono alla prova con una proposta formativa dinamica e interattiva attraverso gli strumenti dello storytelling, del videomaking e del digitale; dall’altro, incontrando il teatro, scoprono loro stessi, si predispongono al dialogo. Docenti e genitori imparano a conoscere i propri allievi e figli, innescando un processo virtuoso di educazione relazionale. La scuola, campo base dell’esperienza creativa degli studenti per due settimane, apre le sue porte al pubblico ospitando gli spettacoli di giovani compagnie pluripremiate. A beneficiare dell’intervento di Concentrica Open School è la comunità tutta, sia essa del centro città o della periferia.
Ne abbiamo parlato con Massimo Betti Merlin e Lorena Senestro, fondatori di Concentrica e direttori artistici di Teatro della Caduta.
Come nasce Concentrica, quali sono gli obiettivi principali del progetto?
Massimo Betti Merlin: Concentrica è nato dalla necessità di fare un lavoro di rete. Nel 2011, dopo un decennio di lavoro a testa bassa sul nostro progetto, abbiamo sentito il bisogno di entrare in relazione con l’esterno, anche oltre i confini della città di Torino, per cui abbiamo creato il network piemontese che poi si è esteso anche alla Liguria e alla Valle d’Aosta. Prima abbiamo dialogato con tanti partner teatrali, poi abbiamo verificato che un lavoro di partnership inter-settore risultasse ancora più efficace. Concentrica ha fatto da ponte per l’introduzione e il rafforzamento in Piemonte di una serie di sistemi di rete, tra cui In-Box, Smart che abbiamo importato dal Belgio, C.r.e.S.c.o., Risonanze. Ci siamo posti come dei connettori tra l’offerta culturale del territorio e quella nazionale.
Con Concentrica Open School avete realizzato un’importante azione di intervento artistico e culturale in ambito scolastico. Durante quest’esperienza, gli studenti hanno la possibilità di scoprire i mestieri dello spettacolo e di proiettarsi nel mondo del lavoro, come è strutturata la proposta formativa?
M.B.M: Oggi più che in ogni altra epoca, il gap generazionale è fortissimo. Open School ha risposto innanzitutto a una nostra necessità: interfacciarci con il nuovo pubblico e metterlo in rapporto con le nuove generazioni di artisti che promuoviamo. Il teatro è una folgorazione solo se hai l’opportunità di incontrarlo. Noi portiamo il teatro nelle scuole e stiamo a vedere cosa accade, non solo dal punto di vista degli spettatori ma anche degli artisti. I ragazzi e le ragazze che coinvolgiamo sono un termometro fondamentale per misurare la risposta del pubblico alle proposte artistiche contemporanee. Alcune cose che per noi adulti sono straordinarie non smuovono affatto i giovani e viceversa altre cose che per noi sono acerbe possono attivare in loro urgenze, istanze. Ecco, il teatro che risulta capace in questo va sostenuto, è una responsabilità anche di noi programmatori. Si tratta di formazione per noi, una formazione contemporanea.
A proposito del piano formativo, abbiamo scelto di non mettere più al centro soltanto il teatro ma gli strumenti del fare artistico in senso ampio: Francesco Giorda, impronta la conduzione dei suoi percorsi formativi sulla pratica artistica, tu metti in connessione i ragazzi con il mondo della comunicazione culturale e del giornalismo. Quello di usare gli smartphone e i social per coinvolgerli è un trucco, ma è molto efficace perché emancipa i social dalla narrazione di strumenti diabolici e ne fornisce un uso consapevole. Il tema dell’orientamento è emerso in corso d’opera. Ci siamo resi conto che stavamo operando per legittimare le figure professionali del nostro settore. Il progetto Make-A-Fest di Tool – Torino Open Lab vuole di fatto formare i nuovi professionisti. Portiamo la cultura al centro sul territorio nazionale dove non hanno ancora capito che è la nostra salvezza. Quindi è bene cominciare da piccoli.
Oltre a un’offerta formativa diversificata, il progetto prevede la programmazione di spettacoli presso gli istituti e i teatri del territorio, aperti non solo agli studenti ma a tutta la comunità. In questo senso, il progetto ha un’incidenza più ampia che travalica il mondo scuola. Qual è stata la risposta delle comunità in cui avete operato?
Lorena Senestro: C’è parecchia curiosità, le persone si sentono coinvolte, sono contente di parlare con ragazzi giovani, stanno al gioco: si prestano a fare le interviste, li ascoltano durante le visite, si divertono durante gli sketch. Quella degli adolescenti è una fascia generazionale con cui è difficile avere contatti e vedere questi ragazzi che si aprono è attrattivo. Scoprire cosa c’è nella testa dei giovani ha un effetto teatrale, come quando andiamo a teatro e scopriamo tutto quello che l’altro generosamente ci offre. I genitori scoprono delle cose dei figli. Credo che questo sia uno degli impatti più belli e inaspettati del progetto. Open School ci consente di attraversare le comunità e realizzare un coinvolgimento attivo del pubblico tout-court, dall’infanzia fino alle persone più adulte.
M.B.M: Pur nella sua efficacia è un progetto che ha alcune criticità: la burocrazia non ci consente di realizzare tutte le attività che abbiamo in mente e la scuola non mostra sempre totale apertura e disponibilità. Per i professori è un aggiornamento pazzesco, conoscerebbero molto meglio i loro ragazzi, ne guadagnerebbero nel loro ruolo di docenti. Un lavoro formativo per i docenti ed educativo alla relazione per il territorio. Abbiamo tentato di coinvolgere le istituzioni per un intervento collettivo di sviluppo territoriale, con l’idea di incontrare altri professionisti con cui amplificare l’effetto che produciamo.
Ci piacerebbe tentare la via di un’esperienza residenziale a scuola in cui invitare artisti e compagnie per dei laboratori permanenti per gli studenti, allo scopo non solo di offrire una formazione teatrale ma anche di alimentare il processo creativo degli artisti stessi. Volendo dare una prospettiva sul futuro di Open School, stiamo immaginando di modificare il format, aprirci di più alla rigenerazione urbana, a delle azioni che abbiamo notato che servono nelle scuole. Sarebbe interessante dare ai ragazzi la possibilità di essere parte attiva nel ripensamento degli spazi della scuola.
In qualità di artisti e curatori, che valore ha per voi fare da tramite per le nuove generazioni nella scoperta del teatro?
L.S: Nel nostro lavoro, io e Massimo ci siamo sempre occupati di ciò che stavamo vivendo anche nel privato. Forse, dunque, Open School nasce anche dall’esigenza di affrontare nella quotidianità del lavoro il rapporto con i nostri figli. Adesso che sono adolescenti, ci siamo dedicati a questa fascia d’età anche per capire che senso avesse ciò che stavamo facendo per loro.
M.B.M: Ci siamo discostati dalla fascinazione giovanile dell’arte per l’arte e abbiamo deciso di lavorare su un piano pratico, investendo in qualcosa che potesse riverberare nella vita delle persone. Crediamo nella potenza del teatro non fine a se stessa, riusciamo ancora a percepirne l’effetto che riscuote anche sui giovani che lo incontrano per la prima volta. Sul piano artistico, però, ciò che ci ha guidati è stata la volontà di non restare incastrati nei confini, nei limiti, nelle etichette. Abbiamo sempre tentato di creare dei contesti, delle condizioni favorevoli e anche Open School va in questa direzione.
Il progetto è realizzato in collaborazione con Theatron 2.0, Cubo teatro e Giobbe Onlus, sostenuto dal Comune di Torino, Fondazione Compagnia di San Paolo, Regione Piemonte, Ministero della Cultura, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
Le opere e le creazioni di Arno Schuitemaker sono momenti di profonda sperimentazione. Le sue performance si caratterizzano come l’esercizio all’abbandono più estremo, flessibile e accondiscendente, lasciando una duratura sensazione di trasporto impetuoso e di coinvolgimento emozionale.
La sua ricerca coreografica contemporanea e radicale immerge il pubblico in un universo di luci, oscurità, movimento e onde sonore in continua espansione. Caratteristiche che lo rendono uno degli artisti performativi più affascinanti del momento. Le forme che crea danno senso ed espressione a temi universali come la paura, il desiderio, la speranza..
Con 30 Appearances out of darkness, presentato durante l’ultima edizione di Romaeuropa Festival, coreografo olandese gioca in modo sottile con le apparizioni e le sparizioni dei corpi in movimento tra i pilastri di velluto nero di una scena scarna. Il buio del teatro è una condizione, un luogo sicuro. Lì dove si prova l’eccitazione, la sensazione di vivere qualcosa di speciale grazie anche alle composizioni musicali di Aart Strootman e al design delle luci di Jean Kalman. Cosa rappresenta il non poter vedere tutto? È stimolante, frustrante , interessante? C’è un sottile profumo di speranza nell’ abbandonarsi al buio più totale? Ne abbiamo parlato con Arno Schuitemaker.
Quali eventi ed esperienze hanno plasmato 30 Appearances out of darkness e cosa ti ha ispirato?
Alcuni anni fa stavo leggendo un libro dell’artista Derek Jarman intitolato Chroma. È un libro poetico e bellissimo sui colori. C’era anche un capitolo sul colore nero. Quando lo stavo leggendo, qualcosa ha catturato la mia attenzione. Jarman scriveva: «Il nero è senza speranza? Non ha ogni nuvola temporalesca una fascia d’argento? Nel nero risiede la possibilità di speranza». È stato affascinante pensare che l’oscurità potesse essere interpretata come qualcosa di positivo. Mi sono subito reso conto che sarebbe stato un ottimo punto di partenza per una performance. Perché l’oscurità nel teatro non è affatto insolita, anzi spesso la rendiamo buia nel teatro. Ma invece di considerare l’oscurità come l’assenza di luce, volevo parlarne in relazione a ciò che vi associamo: l’ignoto, il vuoto, l’oscuro. In altre parole, volevo usare l’oscurità nel mio senso metaforico e scoprire come possiamo cambiare la sua prospettiva in qualcosa di promettente.
Come descriveresti 30 Appearances out of darkness?
30 Appearances out of darkness In realtà comincia con molta luce, tantissima. Da questa luminosità, che è quasi accecante, creiamo l’oscurità. Utilizzando luci molto fioche, al limite della visibilità, scopriamo i danzatori uno per uno. Ma non è subito chiaro quanti siano e come sia lo spazio in cui si trovano. C’è una sensazione di disorientamento. Ho trovato questo molto interessante perché quando ci troviamo in tempi oscuri, questa oscurità che sperimentiamo può disorientare. Ci sentiamo fragili, ma se ci arrendiamo adesso può darci di nuovo forza. La performance è un invito a scomparire nell’oscurità per trovare l’illuminazione, per vivere L’esperienza di poter uscire di nuovo dall’altra parte.
Come la tua storia personale ha influenzato la tua visione e la tua percezione dell’arte, del mondo e della società?
La danza come forma d’arte è arrivata tardi nella mia vita. Quando ho visto la mia prima performance di danza, credo che avessi circa 22 o 23 anni, sono rimasto stupito da come potesse generare emozioni, come potesse mettere le persone in contatto con loro stesse. Questa esperienza è stata molto importante per il modo in cui ora mi piace creare il mio lavoro. Mi piace avvicinarmi all’idea di una performance come a un’esperienza, qualcosa in cui ci si può immergere piuttosto che essere semplicemente osservatori. Trovo che sia anche un modo bello e importante di comunicare nel nostro mondo digitalizzato, quello di comunicare con i nostri sensi e di vivere qualcosa di significativo in questo modo.
Quali sono state le sfide e le scoperte più grandi che hai affrontato durante il processo creativo?
Quello che è stato difficile è stato che avevo bisogno dell’oscurità per capire su cosa stavo lavorando, ma lo studio non poteva diventare molto buio. Gli studi non sono fatti per questo. Ho dovuto usare molta immaginazione pensando continuamente a come sarebbe potuto apparire ciò che stavamo facendo. Una bella scoperta è stata l’importanza della scelta di avere i danzatori nudi nella performance. Quasi non si nota, soprattutto all’inizio, ma lo si percepisce E questo rende l’intera esperienza più raffinata a livello sensoriale. è stata una scelta importante per questo lavoro.
L’oscurità, il mistero possono essere disorientanti e minacciosi. Possono trasformarsi in potenziale umano?
Sì, penso che sia possibile. Ma prima devi arrenderti, devi entrarci dentro e guardare il leone negli occhi. Questo è essenziale affinché la trasformazione diventi potenziale. È lo stesso, per esempio, con il lutto. Può essere un momento molto difficile della vita, può sembrare molto oscuro, la perdita di qualcuno o di qualcosa. È importante arrendersi al lutto, per quanto difficile sia. Arrendersi a tutte quelle emozioni, sentirle tutte, altrimenti è difficile uscirne. È utile sapere e rendersi conto che è importante attraversare le emozioni oscure e che, attraversandole, si può ritrovare la speranza nei momenti in cui ci si sente completamente persi. In questo senso, le parole della scrittrice Rebecca Solnit sono molto precise: «La speranza è rischiosa poiché in fondo è una forma di fiducia, fiducia nell’ignoto e nel possibile».
Troveremo di nuovo l’intimità o resteremo permanentemente soli nell’oscurità?
Nella performance i danzatori si ritrovano e vedo la fine dello spettacolo come una conquista, una danza di vittoria sull’oscurità. Escono dall’altra parte insieme e generano un’energia molto forte. È questa energia che ci fa sentire molto connessi con i danzatori ed è piuttosto potente, credo.
Quali sono gli elementi chiave che dovrebbero essere presenti in una creazione di danza contemporanea per renderla veramente significativa?
L’onestà. Questa è la cosa più importante. Se sei onesto riguardo ciò che vuoi condividere e comunicare, allora hai già tra le mani le cose più importanti.
Nel tuo concetto di danza c’è o non c’è un limite concettuale o fisico per l’espressione?
Mi piacerebbe credere che non ci sia. Penso che tutto possa essere espresso, ma è il come farlo che può renderlo interessante da guardare e vivere.
C’è qualcuno con cui non hai ancora lavorato, non necessariamente nel campo della danza, con cui ti piacerebbe collaborare?
Ci sono molte persone con cui mi piacerebbe lavorare. Ci sono tantissimi artisti che mi ispirano! ma ce n’è una con cui scherzo sempre un po’, mi piacerebbe lavorare con Cate Blanchett. Lo farei davvero.
Se non fossi coinvolto nella danza e nella coreografia quale altro percorso artistico ti piacerebbe esplorare?
Forse sarei uno scrittore. Mi piacerebbe scrivere un libro. Non so di cosa tratterebbe il libro e non penso di essere molto bravo a scrivere, ma se posso fantasticare, questo sarebbe il percorso artistico che sceglierei.
Pensi che il futuro, il tuo futuro, il nostro futuro come generazione stia andando verso la luce o verso l’oscurità? Cosa pensi che accadrà a noi?
Penso che tutto dipenda da noi. Abbiamo una scelta, credo. Noi possiamo scegliere la luce.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
In occasione della ripresa delle molteplici attività invernali che lo storico Teatro dei Colori, conduce sul territorio della Marsica fin dal 1987, anno della sua fondazione, abbiamo discusso con Valentina Ciaccia, regista in pectore della compagnia, dell’azione di presidio culturale connaturata al Teatro di base, di figura e per i ragazzi.
Abbiamo più volte raccontato la moltitudine di attività che interessano il Teatro dei Colori. Un aspetto sul quale mi piacerebbe che ci concentrassimo è questa doppia natura, affatto scontata, della compagnia che da un lato è impegnata a investire risorse ed energie nella pratica e dunque nella produzione artistica e dall’altro nella promozione e circuitazione dello spettacolo dal vivo. Prima di addentrarci nello specifico delle vostre azioni progettuali, vorrei chiederti cosa significa per una compagnia assumersi la responsabilità di incidere culturalmente sul proprio territorio di riferimento con una proposta così ampia e continuativa?
Tutte le compagnie di teatro di base, nascono a partire dagli anni ‘70 proprio con l’intenzione di attivare i territori e le comunità. Con la passata riforma del Fondo Unico per lo Spettacolo, l’indicazione di “compagnie di produzione” ha in parte , credo, snaturato il nostro lavoro, dimenticando la grande funzione di servizio culturale nella programmazione territoriale. tutti noi abbiamo coniugato il nostro modo di operare con la necessità dei territori che abitiamo e che ci chiedono di garantire una molteplicità di linguaggi e di offerta culturale che non si può esaurire solamente con la proposta di spettacoli della nostra compagnia. Il teatro di base, in particolare teatro di figura, per ragazzi e teatro di strada, ha garantito la circuitazione e diffusione di diversi linguaggi in ogni parte d’Italia con l’istituzione di una vera e propria rete informale di compagnie.
Siamo, inoltre, in fortissima relazione con il mondo della scuola. Quando si hanno relazioni preferenziali con il mondo della scuola, occorre anche rispondere ai desiderata di docenti, ragazzi, presidi. Quindi si crea un circolo virtuoso in cui se uno spettacolo risulta particolarmente interessante a livello didattico, si generano connessioni e possibilità di circuitazione anche per altre realtà non del territorio, con cui siamo in dialogo.
Lavorare sul territorio ha sempre fatto parte del nostro DNA sin dall’inizio, dall’87 quando è stato fondato il Teatro dei Colori. a livello tecnico, il Teatro dei Colori si pone sempre come ente di formazione, per docenti ed operatori, oltre che per i bambini ed i ragazzi e come ente di coprogettazione in relazione con le varie ammministrazioni. Ci facciamo portatori di progettualità costruite a misura sulla necessità del territorio ma anche sulle esigenze specifiche di apprendimento per l’infanzia, senza mai dimenticare l’obiettivo di fondo, garantire un livello culturale ed artistico molto elevato, cercando sempre di alzare l’asticella un po’ più su. Avendo una relazione così forte con le scuole, in base alla composizione delle classi, si offrono spettacoli che affrontano le tematiche più urgenti: inclusione sociale, l’accoglienza delle varie diversità e finalmente si comincia a parlare anche dei linguaggi adatti alle neurodivergenze, aspetto sul quale siamo molto sensibili.
Ancora in merito a meccanismi di sistema, mi piace inoltre sottolineare come nonostante l’iperproduzione imperante, le compagnie di teatro di base, figura e ragazzi hanno un repertorio che resiste nel tempo. Noi abbiamo spettacoli di repertorio che sforano i 30 anni, perché una volta realizzati si tesaurizzano, massimizzando le poche economie derivanti dai finanziamenti pubblici. Le nostre opere hanno una vita media di minimo cinque anni, garantendo peraltro continuità lavorativa anche agli artisti che vengono coinvolti nelle produzioni. Il pubblico dei bambini e dei ragazzi non è un pubblico clemente, loro sono la vera prova del teatro: solo uno spettacolo che sia arrivato a maturazione grazie anche a un’esperienza di palcoscenico rilevante può dirsi riuscito.
Io consiglio a tutti gli attori in fase di formazione di fare almeno un anno di teatro per ragazzi per rendersi conto di cosa voglia dire avere a che fare con un pubblico che se non riesci a portare un discorso culturale e artistico elevato, non ti dedica occhi e orecchie. Quando ti ritrovi di fronte a 800 ragazzi, se non riesci a convincerli, diventano la ola dello stadio. Abbiamo una grande responsabilità culturale, che mette alla prova gli attori ma soprattutto ci fa essere sempre pronti e sempre in grado di leggere come il pubblico si trasforma nel tempo. Negli ultimi anni il pubblico sta cambiando profondamente anche per l’impatto dei nuovi media.
Ancora a proposito del discorso territoriale, sento sempre più spesso parlare di Rigenerazione Urbana, un tema caldo che ci interessa moltissimo. La Rigenerazione Urbana ha molto a che fare con le compagnie che si occupano di teatro di base, di teatro di strada, di teatro di figura, di circo, perché noi rappresentiamo la prima linea, siamo quelli che devono arrivare per primi al pubblico, in modo tale da condurlo anche verso altri tipi di spettacolo. Quando prende avvio la stagione domenicale nel grande Teatro Dei Marsi, un teatro meraviglioso da 800 posti, la prima cosa che io dico ai bambini è “questa è casa vostra, questo teatro è vostro”. E lo dico perché è la verità, quel teatro è stato costruito anche con le tasse dei loro genitori e alla comunità va restituito.
I bambini devono imparare a stare nei luoghi istituzionali con un altro livello di socialità che non sia solo quello della famiglia, della scuola, in cui fare gruppo, condividere delle esperienze importanti dal punto di vista formativo, emotivo, culturale. Noi facciamo in modo di abitare i luoghi tutti, dal parco con gli alberi, alla strada, alla palestra, fino al grande teatro da 800 posti, trattandoli come dei contenitori che poi vengono caratterizzati con la nostra offerta culturale.
Il discorso degli spazi programmati dalle compagnie, è un argomento molto sensibile, perché la gestione diretta dei luoghi è qualcosa che ti condiziona e che ti definisce anche per il livello di riconoscimento ministeriale, ma spesso non è legata alla capacità degli operatori, quanto alle caratteristiche intrinseche delle regioni dove si vive, con il rischio che coloro i quali si assumono nella realtà il maggior rischio culturale non si vedano poi mai riconosciuti gli sforzi, e chi invece è più fortunato, ovvero riesca a creare collaborazioni virtuose nella propria regione, venga premiato. Se volessimo mettere insieme le capienze di tutti quanti i luoghi in cui il Teatro dei Colori programma in Abruzzo, la cifra sarebbe di gran lunga superiore al numero di posti che vengono richiesti per un grande centro di produzione.
Occorrerebbe un’attenzione in più, soprattutto per riconoscere lo sforzo delle compagnie che da sole fanno un’attività di rigenerazione del territorio. Investono tempo e denaro su spazi polifunzionali che per altro, in modo estremamente trasparente, ricoprono una funzione pubblica. Dal PNRR non è uscita neanche una linea di credito che riguardasse gli spazi polivalenti, polifunzionali. Esiste un solo bando del Ministero per la rigenerazione degli spazi urbani, che sta dando dei bellissimi frutti e che speriamo venga ulteriormente potenziato, ma non esiste altro che aiuti una compagnia a riattivare un luogo e metterlo a disposizione della comunità, mentre di anno in anno il numero dei teatri chiusi ed abbandonati cresce in ogni parte d’Italia.
Tutto è affidato al buon cuore delle amministrazioni locali che devono fare i conti con una grandissima povertà, con problemi sociali. In questo senso, vorrei spezzare una lancia per i colleghi di Instabili Vaganti di Bologna, che hanno gestito uno spazio per 15 anni che gli era stato assegnato e poi gli è stato tolto. In quel luogo avevano costruito una storia. Il lavoro culturale non si può mettere solo a bando, trattandoci come semplici fornitori di beni o servizi, il lavoro culturale va costruito nel tempo, e non ci entra nulla parlare della rotazione dei soggetti per garantire trasparenza. Bisogna finirla di applicare al mondo della cultura le logiche aziendaliste, l’arte è in perdita, fatevene una ragione, per questo l’articolo 9 la tutela, perché la ricchezza che crea è un’altra. Andrebbe fatto un check delle modalità legislative, che eviti lo sradicamento improvviso di tante, valide storie culturali, che peraltro creano posti di lavoro, versano contributi, pagano tasse, etc etc.
In che misura la produzione artistica e il lavoro di organizzazione e programmazione si influenzano nell’intera proposta progettuale del Teatro dei colori? Come si delinea, in questo duplice intervento, la vostra linea artistica?
Una novità del 2025 è che stiamo finendo di preparare lo spazio museale del Teatro dei Colori. Mettiamo a disposizione del nostro pubblico, ma soprattutto dei bambini e delle scuole, la possibilità di venire a vedere, toccare, giocare con tutto il nostro archivio storico di pupazzeria, di maschere, di costumi, di scenografie e questo è molto importante. Aiuta a far venire fuori una parte sostanziale soprattutto del teatro di figura: una stretta correlazione con le arti visive, in particolare per noi, con le arti visive della modernità, con i nuovi linguaggi, ma in generale con la scultura, con la pittura e tutte le arti applicate. Negli anni, ci tengo a ricordarlo, abbiamo avuto la fortuna immensa di collaborare con il grandissimo Bartolomeo Giusti, costumista e pupazzaro del Teatro dei Colori. Nella formazione delle professionalità di Teatro di Figura, è importante fare in modo che gli allievi imparino oltre alle varie tecniche della manipolazione, anche quelle della realizzazione degli oggetti e dei pupazzi.
È un artigianato artistico di altissimo livello e raccoglierlo in un archivio storico è una grande responsabilità perché ne conserva la memoria e aiuta a tramandarne le tecniche. La dispersione di questo sapere sarebbe un grande danno per tutta la Scena. UNIMA Italia si sta facendo carico di questo aspetto, in un modo molto accurato, e noi da soci siamo impegnati in questo, la tutela dei manufatti, e l’impegno nel garantire la continuità delle tecniche di figura.
Entrando invece nel dettaglio delle vostre attività, quali sono i progetti all’attivo e quali in arrivo nei prossimi mesi?
Le nostre progettualità sul territorio continuano a tendere verso l’attivazione di tutti quanti i nostri luoghi fondamentali. Passi sulla scena e Itinerari dell’arcobaleno, sono le due rassegne storiche che compiono 38 anni di programmazione ininterrotta nei teatri, nei centri polivalenti, nelle biblioteche, nelle scuole di tutti i comuni della Marsica, la parte della zona interna montuosa abruzzese. Continuano poi Le Domeniche da Favola ed il Progetto Scena Aperta, e molte altre piccole rassegne ed appuntamenti speciali. Abbiamo un rapporto molto lungo con l’amministrazione del Comune di Avezzano, dove ha sede il nostro Centro di produzione di ricerca e pedagogia. Altre relazioni importanti sono con il Comune di Tagliacozzo, con il meraviglioso Teatro Talia, e con il Comune di Pescina, dove hanno sede il Teatro San Francesco e il Centro Studi Internazionale Ignazio Silone, con cui collaboriamo da sempre, con il Comune di Celano, dove il cuore batte un po’ di più anche per motivi familiari, negli spazi dell’Auditorium e del bellissimo Teatrio, un teatro integrato nella scuola, un vero modello di architettura innovativa.
A Pescina poi abbiamo dedicato tanto impegno per la candidatura a Capitale della cultura che ci ha visto nella rosa delle dieci città finaliste. Pur non avendo vinto, partiranno numerose attività anche di ricerca, che ci vedranno coinvolti e che integrano dalla programmazione abituale In tutti questi luoghi, attiviamo anche i nostri percorsi di laboratorio teatrale. Questa estate poi, a conclusione di una edizione trionfale di Fiabe al Parco a Pineto festival giunto al ventesimo anno di programmazione, abbiamo deciso di potenziare la nostra attività anche nel tempo invernale anche nei territori della costa.
A livello progettuale, il Teatro dei Colori si configura sempre di più come un teatro di figura di ricerca, che si dedica ai bimbi ma anche agli adulti, è sempre strano per noi specificare questo, dato che i nostri spettacoli sono da sempre pensati tout public. Ovviamente andando nella direzione dell’arte visiva , la nostra caratteristica distintiva che quindi ci permette di giocare con linguaggi molteplici, fino alle nuove tecnologie.
Quali delle vostre produzioni sono in fase di circuitazione e quali gli appuntamenti della tournèe di Teatro dei Colori che intendete segnalare?
In questo momento sta circuitando lo spettacolo La Sinfonia dei Giocattoli,che ha debuttato lo scorso anno con un grandissimo successo, che è stato ospite del festival Arrivano dal Mare,e ha chiuso i lavori per la Giornata internazionale della marionetta a Lecce. Viene molto richiesto proprio per la capacità di ingaggiare un pubblico da 0 a 99 anni, ed è caratterizzato dalla nostra tecnica principale il teatro nero, ed è dedicato alla grande artista Sonia Terk Delaunay Siamo in fase di preparazione del nuovo capitolo che celebrerà i vent’anni di vita del nostro Storie di Kirikù, premiato quest’estate all’ EuroPuppetFest Valsesia Ci stiamo dedicando anche ad un grande progetto Escher. Escher è stato un grande affezionato dell’Abruzzo, anche per questo sentiamo un legame fortissimo, e sta avviandosi a diventare una vera e propria linea di ricerca a sé stante della compagnia, caratterizzata da più produzioni teatrali.
Prosegue chiaramente il lavoro sulla multimedialità e vanno avanti solidamente tutti i nostri spettacoli di tenitura, tra cui ci tengo moltissimo a ricordarlo La Cerva Fatata tratta da Il Cunto de li Cunti di Basile, un lavoro di scrittura drammaturgica che va in direzione di una valorizzazione del patrimonio favolistico e letterario del Sud Italia. Ovviamente non possono poi mancare i grandi monologhi del nostro Direttore Artistico, che porta in scena Il Segreto di Luca ed Uscita di Sicurezza dal grande Ignazio Silone, nostro vero nume tutelare.
Principali date della prima parte della tourneè 24-25 TEATRO DEI COLORI
OTTOBRE – DICEMBRE 2024
28 – 29 ottobre Teatro Grandinetti- Lamezia Terme
LA SINFONIA DEI GIOCATTOLI
9 novembre CRC Antella – Bagno a Ripoli
LA SINFONIA DEI GIOCATTOLI
10 novembre Teatro Corsini – Barberino Di Mugello
LA SINFONIA DEI GIOCATTOLI
17 – 18 novembre Nuovo Teatro delle Commedie – Livorno
STORIE DI KIRIKU’
23 novembre Teatro Francesco Stabile – Potenza
LA SINFONIA DEI GIOCATTOLI
8 – 9 Dicembre – Teatro delle spiagge – Firenze
CARNAVAL
GENNAIO2025
11 – 12 gennaio Teatro Casa di Pulcinella – Bari
LA SINFONIA DEI GIOCATTOLI
19 – 20 gennaio Centrale Preneste – Roma
LA SINFONIA DEI GIOCATTOLI
26 gennaio Teatro Arcobaleno – Fiumicello
LA SINFONIA DEI GIOCATTOLI
31 gennaio Teatro Comunale – Nardò
IL SEGRETO
1 febbraio Teatro Comunale – Nardò
IL SEGRETO
FEBBRAIO 2025
4 – 5 febbraio Teatro dei Fabbri – Trieste
LA SINFONIA DEI GIOCATTOLI
6 – 7 febbraio Teatro Cinema Esperia – Padova
LA SINFONIA DEI GIOCATTOLI
14 – 15 febbraio Teatro dei Piccoli Napoli
STORIE DI KIRIKU’
16 – 17 febbraio Teatro dei Piccoli Napoli
STORIE DI KIRIKU’
21 – 22 febbraio Teatro del Cerchio – Parma
STORIE DI KIRIKU’
21 – 22 febbraio Teatro Comunale – Gambettola
LA SINFONIA DEI GIOCATTOLI
23 gennaio Teatro degli Astrusi – Montalcino
LA SINFONIA DEI GIOCATTOLI
MARZO 2025
2 marzo Teatro Vittoria- Frosinone
LA SINFONIA DEI GIOCATTOLI
8 marzo Teatro Studio – Lanciano
USCITA DISICUREZZA
16 marzo Teatro Comunale Verdi – Pollenza
LA SINFONIA DEI GIOCATTOLI
18 marzo Teatro Comunale Pedrazzoli – Fabbrico
LA SINFONIA DEI GIOCATTOLI
21- 22 marzo Teatro Roots – Catania
IL SEGRETO
25 marzo Spazio Teatro Invito – Lecco
LA CERVA FATATA
26 marzo Teatro Società Operaia – Chiavenna
LA CERVA FATATA
30 – 31 marzo Teatro dei Monelli – Cagliari
LA CERVA FATATA
APRILE 2025
1 aprile Teatro dei Monelli – Cagliari
LA CERVA FATATA
6 aprile Teatro Tieffeu – Perugia
STORIE DI KIRIKU’
12 aprile Teatro Don Bosco – Molfetta
USCITA DI SICUREZZA
13 aprile Teatro Don Bosco – Molfetta
STORIE DI KIRIKU’
15 aprile Teatro dei Marsi – Avezzano
IL PICCHIO ROSSO
30 aprile Auditorium E. Fermi – Celano
IL PICCHIO ROSSO
Programmazione del Teatro dei Colori, STAGIONE 2024 – 2025, TEATRO COMUNALE DEI MARSI – AVEZZANO “LE DOMENICHE DA FAVOLA” TEATRO PER RAGAZZI E FAMIGLIE 12a edizione
24 novembre 2024 ore 17,00
LA FONTEMAGGIORE – LA BELLA E LA BESTIA
Regia di Massimiliano Burini
22 dicembre 2024 ore 17,00
TEATRO DEI COLORI -LA CERVA FATATA
da “Lo cunto de li cunti” di G. Battista Basile
Spettacolo vincitore Euro Puppet 2023
Regia di Valentina Ciaccia
19 gennaio 2025 ore 17,00 –
TEATRO DEL DRAGO-ATTICREP (TEXAS) – IL MAGICO CERCHIO DI PROSPERO
da “La tempesta” di William Shakespeare
Regia: Roberto Prestigiacomo, Mauro Monticelli
9 febbraio 2025 ore 17,00 – TEATRO DEL CERCHIO
IL LUPO E LA CAPRA (storia di un’amicizia in una notte di temporale)
Tratto dal racconto di Yuiki Kimura
Progetto e regia di Mario Mascitelli
23 febbraio 2025 ore 17,00 – MARIONETTE CARLO COLLA E FIGLI
TESTE DI LEGNO MARIONETTE MUSICAL
Regia di Franco Citterio e Giovanni Schiavolin
15 marzo 2025 ore 17,00 –TEATRO DEI COLORI E FALAUT FLUTE ORCHESTRA
LUPI, GNOMI E BABA JAGHE
dai “Quadri di una esposizione di Modest Musorgskij”
Regia di Gabriele Ciaccia – Direzione orchestra Paolo Totti.
“PASSI SULLA SCENA” 31° edizione
LETTERATURA, STORIA, TEATRO PER I GIOVANI
11 dicembre 2025 ore 11,00 Sport e civiltà
TEATRI D’IMBARCO – LA LEGGENDA DEL PALLAVOLISTA VOLANTE
con il Campione Andrea Zorzi , regia Nicola Zavagli
27 gennaio 2025 ore 11,00 Giornata della memoria
ERRARE PERSONA – LE CARLOTTINE dal libro di Elsa Morante
Scrittura e ricerca sul Lager di Terenzin, regia di
Progetto NOSTOS-RITORNO.
Regia Damiana Leone, Olimpia Ferrara
15 aprile 2025 ore 11,00
Giornata della Storia, della Legalità e della Giustizia
TEATRO DEI COLORI – IL PICCHIO ROSSO dal libro di Renzo Paris
La storia delle lotte per la terra nel Fucino e l’eccidio di Celano.
Regia di Gabriele Ciaccia
Programmazione del Teatro dei Colori, STAGIONE 2024 – 2025, ITINERARI DELL’ARCOBALENO -PROGETTO SCENA APERTA CELANO 19 -20 novembre 2024 ore 10 ,30 – Scuole dell’infanzia – TEATRO DEI FONDI
I COLORI DELL’ARCOBALENO
28 novembre 2024 ore 10 ,30 Auditorium E. Fermi – TEATRO INVITO
LEAR E IL SUO MATTO
19 dicembre 2024 ore 14,3020 dicembre ore 10,30 TeAtrio Scuola D’Annunzio – LA BOTTEGA TEATRALE
LA NOSTRA VERA STORIA DI NATALE 15 gennaio 2025 ore 10 ,30 – TeAtrio Scuola D’Annunzio – GLI ALCUNI
Il GATTO SENZA STIVALI 19 febbraio 2025 ore 10 ,45 – Auditorium E. Fermi – PILAR TERNERA
ARTEMISIA GENTILESCHI, PITTRICE. CRONACA DI UN PROCESSO PER STUPRO
25 febbraio 2025 ore 14,30-26 febbraio ore 10 ,30 – TeAtrio D’Annunzio – CENTOPERCENTO TEATRO
UN DUE TRE 10 marzo 2025 ore 14,30-11 marzo ore 10 ,30 – TeAtrio D’Annunzio – LA CONTRADA
I MUSICANTI DI BREMA
18 marzo 2025 ore 14 ,30-19 marzo ore 10 ,30 – TeAtrio D’Annunzio – TEATRO ACTORES ALIDOS, PAURA FATTI SOTTO! – dal libro “Il mostro peloso” di Henriette Bichonnier 9 APRILE 2025 ore 10 ,30 – Auditorium E. Fermi – LA CASA DI CRETA
SEMPRE TUA spettacolo e riflessione sul femminicidio Teatro d’attore – 30 APRILE 2025 ore 10 ,30 – Auditorium E. Fermi –TEATRO DEI COLORI
IL PICCHIO ROSSO
dal libro di Renzo Paris, sulla storia delle lotte per la terra del Fucino e l’eccidio di Celano.
Programmazione del Teatro dei Colori, STAGIONE 2024 – 2025, ITINERARI DELL’ARCOBALENO al Teatro San Francesco di Pescina
10 novembre 2024 ore 17,30 – Teatro con le famiglie – RUOTALIBERA 11 novembre ore 17,30 Teatro Scuola
LE STELLE DI SOTTO, UNO GNOMO CHIAMATO CUCUZZOLO 7 dicembre 2024 ore 18,00 – Teatro con le famiglie – GOMMALACCA TEATRI
IL DIARIO DI SOFIA 16 dicembre 2024 ore 10 ,45 – Teatro Scuola – TEATRO DEL LAVORO
MARIONETTE IN CERCA DI MANIPOLAZIONE 18 gennaio 2025 ore 17 ,30 – Teatro con le famiglie – TEATRO DEL DRAGO
Il MAGICO CERCHIO DI PROSPERO da W.Shakespeare 2 aprile 2025 ore 10,45 – Teatro Scuola – GRANTEATRINO
BUON COMPLEANNO GIULIO CONIGLIO
Programmazione del Teatro dei Colori, STAGIONE 2024 – 2025, ITINERARI DELL’ARCOBALENO al Teatro Talia di Tagliacozzo
23 novembre 2024 ore 17,30 Teatro con le famiglie – LA FONTEMAGGIORE
LA BELLA E LA BESTIA
29 novembre 2024 ore 10 ,45 Teatro Scuola – TEATRO INVITO
LEAR E IL SUO MATTO 2024 da W. Shakespeare
12 dicembre ore 10 ,45 Teatro Scuola – TEATRI D’IMBARCO
LA LEGGENDA DEL PALLAVOLISTA VOLANTE con il Campione Andrea Zorzi
28 gennaio 2025 ore 10 ,45 – Teatro Scuola – ERRARE TEATRO
Giornata della memoria – LE CARLOTTINE dal libro di Elsa Morante
Scrittura e ricerca sul Lager di Terenzin, Progetto NOSTOS-RITORNO.
13 febbraio 2025 ore 10 ,45 – Teatro Scuola – RUOTALIBERA
PINOLO
18 febbraio 2025 ORE 10 ,45 – Teatro Scuola PILAR TERNERA
ARTEMISIA GENTILESCHI, PITTRICE. CRONACA DI UN PROCESSO PER STUPRO
28 febbraio 2025 ORE 10 ,45, Teatro Scuola NOVE TEATRO
UN CURIOSO ACCIDENTE di Carlo Goldoni – Teatro d’attore
8 aprile 2025 ore 10,45 Teatro Scuola – CASA DI CRETA di Catania
SEMPRE TUA spettacolo e riflessione sul femminicidio – Teatro d’attore
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
Fondata a Parma nel 2015 da Maria Federica Maestri, compositrice teatrale e artista visiva e dal dramaturg e artista visivo Francesco Pititto, Fondazione Lenz emerge nel panorama della produzione e creazione teatrale contemporanea come una realtà tra le più poliedriche e complesse, in grado di unire le performance multidisciplinari al pensiero ecologico e filosofico, ma soprattutto di ripensare l’arte visuale in una fitta rete di relazioni ontologiche con il mondo della natura, della cultura e della psiche.
Riparazione e rigenerazione sono due concetti chiave con i quali il lavoro di Lenz, affiancandosi a quello delle associazioni ambientaliste, sta portando avanti la teatro-azione tesa a re-immaginarsi la natura antecedente al disumano processo di urbanizzazione degli ultimi secoli. A dare vita ad un’ecologia profonda che investa il pensiero stesso e la percezione di sé come parte di un tutto, di una molteplicità da cui l’essere umano è inseparabile e di cui non ha più memoria, a causa della sua visione antropocentrica. Riflessioni che riprendono il pensiero poetico-filosofico di Friedrich Hölderlin e di Jakob Lenz per quanto riguarda il rapporto tra uomo e natura, ma anche dello psicanalista di stampo junghiano James Hillman, scomparso nel 2011, tra i teorici della visione immaginale.
Di seguito l’intervista a Maestri e Pititto, a pochi giorni dalle Apocalissi Gnostiche, in scena dal 25 al 31 ottobre scorsi a Parma, negli spazi di Lenz Teatro e dopo la presentazione, nel marzo scorso, del progetto Haiku – Dove prima era Aria, poi riproposto a settembre, nell’ambito di Insolito Festival.
Partiamo dal vostro progetto Haiku- Dove prima era Aria che è parte di un progetto pluriennale. Come è nato e che cosa rappresenta in questo preciso momento per la vostra ricerca artistica?
Il pensiero performativo di Haiku_Dove prima era Bosco|Acqua| Aria|Roccia interpreta artisticamente i presupposti politico-culturali delle associazioni ambientaliste per potenziare le azioni pratiche di ripristino della natura su larga scala. Il progetto tende a re-immaginare la natura scomparsa nelle città e a restaurare la memoria dell’ambiente perduto, attraverso la potenza di versi brevi secondo la formula giapponese dell’haiku dedicati alla sacralità dell’esistenza nel ri-vivente animale e vegetale.
Come dice Danilo Selvaggi, Direttore generale Lipu – Bird Life Italia e Coordinatore Policy, Ecologia della cultura: “Abbiamo bisogno di due grandi opere di rigenerazione: quella della natura, che è stata progressivamente impoverita dall’avanzare dell’urbanizzazione, e quella della cultura, che deve riscrivere il proprio alfabeto ecologico con nuove consapevolezze scientifiche e morali. Anche per questo il contributo di Lenz è prezioso: ci aiuta a guardare la realtà con occhi diversi, sorpresi, non abitudinari, il che in molti sensi è già un esercizio ecologico”.
“La poesia in atto agisce secondo il principio della riparazione: il danno che l’uomo ha provocato nella natura non si limita infatti alla distruzione effettiva dell’ambiente, ma intacca la capacità stessa di saperci/sentirci nel tutto, parte di una cosmogonia plurale: esseri nel molteplice. Quindi la rigenerazione dovrà essere duplice: riparare la perdita e ricostruire ciò che abbiamo perduto ‘fuori’ e ‘dentro’.”
Installazione, performance, arte visuale, drammaturgia, pensiero ecologico e filosofico: in che modo si sviluppa la vostra ricerca in cui co-esistono e si incrociano molteplici prospettive? Qual è il punto di partenza e quale il momento in cui avete consapevolezza di aver raggiunto una sintesi tra tutti questi differenti sguardi?
In una convergenza estetica tra fedeltà esegetica alla parola del testo, radicalità visiva della creazione filmica, originalità ed estremismo concettuale dell’installazione artistica, le opere di Lenz riscrivono in segni visionari tensioni filosofiche e inquietudini estetiche del presente. Illuminati fin dagli inizi del nostro percorso artistico dal pensiero poetico-filosofico di Friedrich Hölderlin e di Jakob Lenz abbiamo sempre sentito che non possiamo prescindere dall’unità tra uomo e natura, una fusione profonda con la radice da cui veniamo, liquida, magmatica, ibrida, ctonia. Ce ne siamo allontanati ed è per questo che stiamo morendo, che siamo irreparabilmente malati. Ma aspettando la fine “continuiamo a gridare fino all’esaurimento impossibile dell’eternità immensa”.
Il concetto di imagoturgia e il modo in cui si inserisce nella vostra pratica drammaturgica e performativa.
Dagli inizi del Duemila la ricerca plastica e visuale diventa centrale nel nostro processo creativo: la partitura attoriale si incunea tra la scrittura per immagini e la re-invenzione materica dello spazio, che eccede i limiti funzionali dell’impianto scenografico per farsi opera artistica non subordinata all’azione performativa. Dagli anni Dieci il lavoro è caratterizzato da una più ampia e articolata azione installativa che ci porta a creare, in stretto dialogo con le imagoturgie di Francesco Pititto e il disegno sonoro di diversi musicisti della scena elettronica internazionale ambienti performativi e visuali site-specific in importanti complessi architettonici e monumentali.
Rimangono sempre sopra ogni cosa, ogni atto, ogni fatto sempre le stesse domande: perché fare, perché per-formare, perché teatr-agire, a quale fine, superato ogni intento comico-tragico delle più svariate forme della finzione, ricercare infine quel che dovrebbe essere sinceramente la verità vera; il mondo come io lo vivo e vedo? Serve un corpo altrui per svelarmi il mio interno? il mio esterno mondo? Anche se io sono cieco io vedo di dentro, immagino e creo il mio mondo fuori. Movimento empatico non verso l’altro ma con l’altro. Sono immagini quelle che vediamo, ogni istante immagini che si fanno toccare, intoccabili e irreali, ma anche al tocco una pietra è sempre, prima, una pietra-immagine.
Tra l’Io e il mondo il dialogo è per immagini, e anche oltre, nell’inconscio di un sogno, nel delirio di una patologia, di un rito sciamanico, di un haiku 7+5+7 sillabe poi immagini, la Natura e il pensiero. Ma immaginare per dare uno scopo al fare forse non è abbastanza, fare altre immagini-pensiero, immagine_emozione, riflessi e rifrazioni, immaginazione al potere per il tempo del per-formare. Ma non è sufficiente, forse creare realtà dal fare immagine, ma quale immagine? Immaginarsi l’utopia, una realtà che verrà mai? Divisa dal nostro tempo interiore che la desidera adesso e non domani?
L’immaginazione non è soltanto pensiero ma il luogo dove abitano insieme la realtà esterna, concreta e tangibile, e la realtà interna, invisibile e intangibile. L’immaginazione è il tramite tra le due, comunicano tra loro. E comunicare forse non basta, serve il fare nel suo habitat. Un luogo originario, quello del cuore e del pensiero insieme. Dove si fa l’anima.
“Nelle tradizioni sapienziali e spirituali antiche l’anima selvaggia, l’io istintuale, si esprime nell’immaginale o “liminale” la zona tra inconscio e conscio dove immaginazione e realtà operano congiuntamente. In questo “luogo”, che è un non luogo, troviamo i simboli e gli archetipi, che sono le forme dell’esperienza umana…Prende le sue radici dalle tradizioni spirituali, i rituali sciamanici delle tribù animiste, la mitologia greca, l’arte, la letteratura, la poesia, l’ecologia profonda. Capacità di stimolare una percezione differente degli eventi, considerando la realtà come una proiezione della propria psiche e trovando in se stessi le risorse per agire costruttivamente su questa. Quindi utilizzare un approccio immaginale significa, in primis, lavorare con le immagini.” (Rifrazioni da Mundus Imaginalis, o l’Immaginario e l’Immaginale di Henry Corbin e James Hillman).
Lavorare con le immagini dentro se stessi per cambiare lo stato di cose fuori, di ognuno e per ognuno. Nello stato di rappresentazione del Sé, nel tempo performativo, l’agente artistico può tendere a vivere una realtà ricreata in un tempo percepito che non corrisponde al tempo codificato. E, rifratta, farcela vivere. Ogni capitolo creativo di Lenz pone al centro queste questioni fondamentali per l’arte teatrale, coinvolge persone artistiche per le quali cambiare lo stato di cose diventa l’opera più compiuta, o incompiuta ma sempre permanentemente in costruzione. L’utopia è capovolta, il Potere è all’Immaginale.
Il rapporto tra spazio naturale e testo, con particolare riferimento alla poetica di Pier Luigi Bacchini e alla sua influenza nella vostra pratica drammaturgica.
In Haiku_Dove Prima Era scorrono in un flusso pulsante le liriche di Emily Dickinson, Rainer Maria Rilke, Ingeborg Bachmann, Ezra Pound, Antonia Pozzi, Friedrich Hölderlin, Patrizia Cavalli, Marina Cvetaeva, e naturalmente le poesie di Pier Luigi Bacchini, poeta parmigiano scomparso nel 2014, autore amatissimo a cui Lenz ha dedicato dal 1996 al 2015 numerose e vibranti letture sceniche curate dal dramaturg e artista visuale Francesco Pititto.
E a proposito del progetto triennale Natura dèi Teatri, teso verso l’ibridazione di materia filosofica, scientifica e artistica? Questa contaminazione ha sempre fatto parte del vostro percorso?
La drammaturgia del nostro primo lavoro del 1986 Lenz da Büchner, si apriva con una lunga citazione dal De Rerum Natura di Lucrezio, ma conteneva anche un frammento dell’Apocalisse. Quindi fin dall’inizio abbiamo sentito necessaria una duplice visione: quella della visione scientifica del mondo, dell’universo, dell’infinitamente piccolo che contiene il tutto e quella del mistero, del sacro, dell’ignoto, dell’inspiegabile, di cui si nutre l’atto artistico.
Delle vostre passate esperienze nelle Associazioni Culturali Lenz Rifrazioni e Natura Dèi Teatri cosa avete conservato e cosa avete rielaborato/trasformato o abbandonato?
Nella Fondazione si sono fuse le due anime, quella creativa e produttiva di Lenz Rifrazioni e quella dialogica di Natura Dèi Teatri, confluita nel progetto Parentele_Femminile_Animale portato avanti nello scorso triennio. Si sono stretti i legami con un’area molto interessante del panorama italiano, interpretata da artiste dallo sguardo aperto, autentiche, dalla forte identità linguistica.
Apocalissi Gnostiche chiude il progetto sulle Sacre Scritture. Come siete giunti ad interrogare i Codici di Nag Hammadi?
Dopo La Creazione (2021), Numeri (2022) e Apocalisse (2023), Apocalissi Gnostiche prosegue la nostra ricerca sulle scritture del sacro e apocalittiche, dando corpo scenico ad alcuni Codici di Nag Hammadi, un antico tesoro testuale di recente e casuale ritrovamento (Egitto, 1945), costruito con sequenze narrative oscure e lampeggianti, denso di immagini criptiche, radicali e brucianti, che indicano strade ignote per arrivare alla nuova conoscenza. La ragione della ricerca di Lenz nelle pieghe dei codici gnostici, la cui datazione risale al I e II secolo dopo Cristo, sta nel bisogno di essere narrati da una diversa apocalittica – così già processata dalla storia passata e presente – di essere ‘illuminati’ da una nuova e divergente Rivelazione. Le Apocalissi Gnostiche annunciano con parole-immagine l’avvento di un’altra sapienza umana_non-umana, senza età, senza ordine, senza volontà, una Sophia che ci invita a percorrere la via del paradosso linguistico per tornare alla radice ed essere guidati nelle tempeste della materia del presente da una ‘femmina nata dalla femmina’.
Progetti futuri?
Un nuovo progetto pluriennale sulla violenza con un lavoro anatomico sull’Iliade, come il primo grande libro dell’Occidente che trascrive poeticamente i temi quali il conflitto, la prevaricazione, la violenza, l’empietà, affiancati in questa indagine dal pensiero di Hannah Arendt e Simone Weil. Parallelamente a questa ricerca drammaturgica e proseguendo il lavoro iniziato nel 2024 con Gina Pane, ci avventureremo, sempre nei prossimi tre anni, nella ri-trascrizione performativa delle opere di alcune artiste fondamentali per il nostro percorso estetico: Leonora Carrington, Marisa Merz di cui ricorrono nel 2026 i 100 anni dalla nascita e la grandissima Louise Bourgeois.
Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.
Nelle scienze umane si parla molto, e da molto tempo, di “rappresentazione”: un successo dovuto senza dubbio all’ambiguità del termine. Da un lato, la “rappresentazione” sta per la realtà rappresentata, e quindi evoca l’assenza; dall’altro, rende visibile la realtà rappresentata, e quindi suggerisce la presenza.
C. Ginzburg
Cosa succede quando l’ambiguità e l’ambivalenza di cui parla Ginzburg vengono vanificate? Quando la corrispondenza tra una rappresentazione/presenza esteriore imprigiona un’identità interna che insiste e spinge verso la sottrazione alla presenza? È questo cortocircuito a muovere Yeong-Hye, la protagonista de La vegetarianadi Han Kang: un processo che, nell’adattamento scenico di Daria Deflorian, diventa serpeggiante. Così, in scena, la protagonista non muta, ma rinasce da un’altra parte, diventando una presenza mutevole e complessa, rendendo la sua sparizione e metamorfosi impossibili e enigmatiche, incomprensibili fino alla fine. Abbiamo discusso di nascondimenti, sottrazione e qualità di presenza con la regista Daria Deflorian.
Al centro del romanzo e dello spettacolo c’è una donna che si svuota progressivamente, e in scena assistiamo a questa sottrazione. Nonostante il personaggio rimanga sempre in scena, il suo percorso e processo di mutazione creano uno spazio di interesse intorno a sé. Come ha lavorato sulla sparizione?
Prima di tutto ci lavora il romanzo. Noi siamo rimasti sempre molto in contatto con il testo originale, anche dopo la versione preparata con Francesca Marciano (autrice dell’adattamento del romanzo insieme a Daria Deflorian, ndr.), che ci ha fatto da spina dorsale. Siamo tornati tante volte, con tutto il gruppo di lavoro, al romanzo: ci sono delle parti che non sono inserite nello spettacolo ma che esistono nel lavoro, delle zone del romanzo che abbiamo aperto per comprendere meglio.
Trovandoci di fronte a un romanzo molto denso e complesso, è stato necessario fare delle scelte, dei salti. Sicuramente la vicenda permette di riflettere e di vivere, proprio in termini esperienziali, questo rinascere da un’altra parte, questo rapporto con un sogno che di fatto apre alla vita, al vivere. In qualche modo, questo effettivamente la rende visibile agli altri, ma non è fatto per gli altri; non è uno spettacolo, non è un’esibizione: è qualcosa che lei vive per sentirsi. Questo è stato possibile grazie a un lavoro attoriale di Monica Piseddu, suo, segreto, che non è una forma di regia ma una qualità di presenza.
Una fonte risuonata spesso durante l’ideazione de La Vegetariana è stato Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Luca Ronconi. Effettivamente si nota un’affinità con quel lavoro, per quanto riguarda il movimento dei personaggi in scena e il loro modo di incastrarsi. È molto interessante che in questo spettacolo questo disegno dei personaggi sia dato dai colori attribuiti a ciascuno. In che modo ha lavorato alla costruzione di questi personaggi?
Quello che mi aveva colpito allora era il fatto che la letteratura non era stata alterata dal teatro pur trovandosi di fronte a uno spettacolo vero e proprio. Questa cosa mi aveva molto segnato, proprio come spettatrice. Abbiamo avuto la fortuna di avere un mese a luglio, senza lavorare già direttamente sulla costruzione di nulla: abbiamo passato tre settimane molto libere, ricche di conoscenza nostra e di conoscenza di queste figure, senza darci nessun obbligo di costruirle. Ho osservato molto, ci siamo divertiti, facendo lavoro fisico e usando pochissimo la parola. Credo, a posteriori, che questo abbia creato delle fondamenta solide.
Anche se poi la costruzione è stata abbastanza lineare, abbiamo cominciato dall’inizio e abbiamo proseguito fino a svolgere le scene che avevamo scelto di portare in scena. Ma per un mese, nel nostro codice interno, abbiamo chiamato questo periodo di free jazz ci permetteva di non pensare alla rappresentazione, ed è stato molto bello. Poi ho potuto lavorare con tre grandi figure del teatro contemporaneo. La fortuna è stata che la regia si è configurata più come una regia drammaturgica, di composizione di tutte le questioni che dovevano armonizzarsi con gli ingredienti che avevamo messo in campo. C’è poi una sorta di auto-regia attoriale in cui ognuno ha portato un proprio sapere.
Credo sia interessante riflettere sullo spazio, in relazione allo spazio del femminile nell’economia dello spettacolo, che non è mai uno spazio neutro. Secondo alcune visioni urbanistiche di stampo femminista, nella costruzione degli spazi contemporanei, la prevalenza dello spazio dato agli uomini non è dovuta al fatto che le donne siano state annullate, ma perché sono state nascoste. Le due donne protagoniste in scena sembrano combattere costantemente con questo stato di nascondimento e svelamento. Come è stato lavorare su questa ambivalenza da regista e da attrice?
Sicuramente la questione dei luoghi nascosti è presente. Per me, in particolare, il bagno e la vasca da bagno sono stati tra le prime cose che ho costruito mentalmente, perché per me il bagno è proprio il luogo del vero io. Anche in questo lavoro, quindi, anche in questo spettacolo, i momenti di contatto con l’altrove, con il senso e con il non senso avvengono in bagno. Inoltre, sicuramente volevo uno spazio che fosse uno spazio di “finta convivenza”, cioè una convivenza relazionale matrimoniale, ma che in realtà permettesse di vedere la distanza: ci si parla con una persona che non c’è, vedi sempre uno dei due. Certo, c’è il letto, un altro luogo fondante, arrivato fin dall’inizio.
Sapevo che di tutto questo non c’era ancora una struttura architettonica di questa casa; per me era una casa già abbandonata, come se fosse già una casa dove tutto è finito. Come quei luoghi dove, dopo un po’ di anni, cominciano a entrare le piante, perché questo è il destino di certi luoghi abbandonati. Però il letto e la vasca da bagno erano fondamentali, perché credo che siano luoghi segreti, luoghi dove ci possono essere dei segreti. Mi interessava che i sogni di Yeong-Hye fossero sempre raccontati a un marito sotto la doccia, o a un marito che si addormenta, o a un marito che guarda la televisione: quindi, questo rapporto di distrazione rispetto all’esperienza dell’altro.
La vegetariana è sicuramente uno spettacolo e un testo in cui le autorialità messe in gioco sono distinte e riconoscibili, formando un quadro omogeneo ma distinguibile nelle sue parti…
La regia di questo spettacolo non è solo attoriale, ma è visiva, grazie all’apporto di Andrea Pizzalis per tutta la parte visiva e, chiaramente, anche per quanto riguarda lo spazio. C’è una drammaturgia della luce e una drammaturgia del suono che non sono nate al servizio di un’idea precostituita. Nel momento in cui le progettualità attoriali, drammaturgiche, registiche, spaziali di luce e di suono sono riuscite a non affastellarsi, c’è sempre stato qualcosa che ha fatto un passo indietro. Poter provare al Teatro Vascello per tre settimane è stata una grandissima fortuna; non avremmo potuto fare il lavoro in altre condizioni.
La vegetariana scene dal romanzo di Han Kang adattamento del testo Daria Deflorian e Francesca Marciano co-creazione e interpretazione Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese regia Daria Deflorian aiuto regia Andrea Pizzalis scene Daniele Spanò luci Giulia Pastore suono Emanuele Pontecorvo costumi Metella Raboni consulenza artistica nella realizzazione delle scene Lisetta Buccellato collaborazione al progetto Attilio Scarpellini consulenza alla drammaturgia Eric Vautrin direzione tecnica Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli stagista Blu Silla aiuto regia Andrea Pizzalis regia Daria Deflorian
per INDEX Valentina Bertolino, Elena de Pascale, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani
Nata a Pescara nel 1995, diplomata al Liceo Classico G.D’Annunzio di Pescara nel 2014, consegue la doppia laurea in Filologia Moderna e Études Italiennes all’interno del progetto di codiploma fra l’Università la Sapienza di Roma e La Sorbonne Université di Parigi con una tesi dal titolo La Nuit des Rois di Thomas Ostermeier alla Comédie-Française: per una definizione di transnazionalità a teatro. , svolgendo inoltre ricerca archivistica presso la biblioteca della Comédie-Française. Scrive per diverse testate online di critica e approfondimento teatrale, occupandosi soprattutto di studiare gli intrecci fra i linguaggi e le estetiche dei vari teatri nazionali europei.
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