Quando inizia davvero una guerra? È da questa domanda, semplice solo in apparenza, che prende avvio The Book of The New Words, il progetto teatrale di also.known.as. a cura di Simone Corso e Jovana Malinarić. Una domanda che non cerca una risposta univoca, ma che si apre a una molteplicità di voci, lingue, esperienze. A partire dalla scrittura drammaturgica e passando attraverso una serie di residenze internazionali – da Trieste a Sarajevo, dalla Sicilia a Zagabria – il lavoro si costruisce come un processo vivo, che attraversa territori e corpi, e si nutre dell’incontro.
In questa intervista, Corso e Malinarić raccontano la genesi e l’evoluzione del progetto, riflettendo su come il linguaggio – nelle sue forme concrete e simboliche – possa essere al tempo stesso trincea e possibilità.
Il progetto The Book of The New Words nasce da una domanda molto forte e semplice: “Quando inizia davvero una guerra?”. Come è maturata dentro di te questa domanda e cosa vi ha spinto a cercare una risposta attraverso il teatro?
Simone Corso: Quello che posso ricavare dalla memoria è che l’idea di scrivere un testo che provasse a sprofondare nel macro tema della guerra mi è venuta in mente nel periodo del Covid, della quarantena. Le prime parole del testo, infatti, sono apparse sulla pagina nella primavera del 2021. Penso che quel periodo (che per certi versi abbiamo tutti tentato di rimuovere dal racconto odierno delle nostre quotidianità) abbia abbeverato i semi delle forti conflittualità che oggi infestano il nostro mondo. In quei mesi, il linguaggio di guerra – che da sempre conforma i nostri dialoghi – ha trovato “spazio fisico” nelle nostre relazioni, si è concretizzato diventando la nostra realtà: “la lotta contro la malattia” era qualcosa che tutti siamo stati chiamati a imbracciare; “la distanza sociale” ci faceva scavare delle trincee tra noi e qualsiasi altro essere umano potesse portare il virus addosso; “il coprifuoco” ci ha rinchiuso tra le quattro mura delle nostre case covando timori per tutto quello che stava al di là di quelle; il “conto delle vittime” come quello di un bombardamento; per non parlare dell’esercito arrivato nelle città e delle camionette mimetiche che circolavano per le strade facendo rispettare le nuove disposizioni del governo. Questa trasformazione del reale modellata dal linguaggio mi ha spinto a riflettere proprio sul momento in cui “una guerra può scoppiare”. Così ho iniziato un lavoro di scavo documentario per provare a trovare le molte risposte a quella stessa domanda; avvicinando la guerra più recente che avevamo avuto in Europa fino a quel momento (quella dell’ex Jugoslavia) e quella più prossima che muoveva moltissimi esseri umani verso i confini del vecchio continente (quella civile siriana). Da questi documenti ho provato a far emergere dei personaggi che attraverso il dialogo potessero guidarci nello scoprire quello che ancora si può dire sulla guerra. Persino quello che si può dire oltre la guerra, oltre ogni guerra. In questo, credo, si possa ritrovare anche la risposta alla seconda parte della domanda. Il teatro è il luogo del dialogo e delle immaginazioni, delle possibilità altre; è “l’arte vivente” che attraverso un certo uso del linguaggio si fa “vita in atto”. Il teatro, in questo senso, è proprio l’antitesi della guerra.
Il libro delle parole nuove è un testo che attraversa luoghi, lingue e tempi. Come hai lavorato per rendere drammaturgicamente coerente questo “andirivieni”? Quali sono state le sfide principali nella scrittura?
Simone Corso: Mi interessava lavorare su una forma di racconto teatrale che provasse a forzare le consuetudini. Questa scelta non si propone come un semplice esercizio stilistico, ma penso sia radicalmente ancorata al contenuto del testo. Assecondando l’idea che la lingua e i linguaggi modellino le nostre realtà e, dall’altro lato, pensando alla pièce come una delle possibili risposte alla domanda che funge da grimaldello drammaturgico, mi interessava provare ad hackerare le unità di tempo, azione e luogo unitamente alla comprensione deterministica della realtà (causa-effetto). Mi interessava provare a uscire da questo dualismo, dall’idea di azione/reazione; perché penso che tra l’uno e l’altro sia piuttosto facile trovare un qualunque casus belli. In qualche modo, quindi, mi interessava creare una specie di “nuova coerenza” drammaturgica. Per farlo ho preso ancora la lingua come campo di indagine: la battuta di un personaggio diviene quella di un altro in un andirivieni tra situazioni lontane nel tempo, nello spazio e nell’azione. In qualche modo, le parole di uno/a vengono prese in prestito da un altro/a per continuare a raccontare la sua storia. Se si sono presentate delle sfide, nella scrittura, posso dire che le più dure sono state quelle che mi si son poste prima di mettere parole sulla pagina; ovvero nell’imparare a destrutturare i miei stessi canoni, nel mettermi fuori da una possibile comfort-zone autorale, nel provare a sabotare me stesso in quanto scrittore, prima di tutto il resto.
Il progetto The Book of the New Words si è sviluppato in diverse tappe internazionali, con artisti provenienti da contesti geopolitici e culturali differenti. In che modo questa dimensione transnazionale ha trasformato il lavoro sul testo e sulla scena?
Jovana Malinarić: Le tappe internazionali sono la macro drammaturgia di questo progetto. Di conseguenza le intendiamo come una sua parte organica, e non una contingenza esterna che “trasforma” il testo o la scena. Il testo, la scena, i performer provenienti dalla Croazia, dalla Bosnia e dalla Siria, sono il nostro tentativo di rispondere a quella domanda che ha mobilizzato il processo creativo. Il nostro lavoro non è stato sul testo, ma con il testo, e dunque rendere il processo creativo transnazionale era drammaturgicamente correlato alla questione che la scrittura di Simone interrogava: chi sta parlando, quali corpi abitano la scena, quali lingue creano relazioni con il pubblico, e dunque quali aspetti invisibili al testo, rendiamo visibili e udibili sul palcoscenico. Lavorare con i performer di provenienza e background molto diversi fra loro ci ha portato a porre una particolare attenzione alle possibilità creative del dialogo, a mettersi in ascolto ancora prima di proporre una direzione, a sviluppare insieme un linguaggio che possa restituire al pubblico un’esperienza che decentri le loro abitudini di sguardo e di ascolto.
Simone Corso: Lavorando a Trieste, ospiti in residenza del Teatro La Contrada, nell’agosto 2023, abbiamo realizzato che il lavoro sul testo era tutt’altro che finito, ma che anzi, partiva proprio in quel momento, alla fine di quella residenza. Abitare per 15 giorni in un territorio di confine come quello triestino e far abitare con noi la prima versione di quel testo insieme ad alcune idee di sviluppo, lasciandosi attraversare dalle sollecitazioni che sono nate dagli incontri di quei giorni, ci ha portato a credere che se volevamo “fare” quello che il testo soltanto racconta, dovevamo aprire il nostro processo di creazione ad altri interventi e persone. Abbiamo scelto di non utilizzare il testo come un qualsiasi copione da portare in scena, ma come documento esso stesso, un elemento da questionare e “riattivare”. Solo così, abbiamo convenuto, lo si poteva far vivere sul palco, solo in quanto testimonianza di diverse realtà, oltre che di un modo di intenderle. Solo così, la performance, una volta debuttata, poteva esprimere tutto il suo potenziale artistico e politico. Dopo la seconda residenza, a Sarajevo, e grazie al lavoro che abbiamo portato avanti in quei giorni con la direttrice Maja Salkić e l’attrice Selma Alispahić, siamo arrivati a concepire appieno quest’aspetto. Selma porta avanti un lavoro sul suono della lingua che prende spunto dal libro The Right to Speak di Patsy Rodenburg. Lavorare con lei ci ha spinto a porre l’attenzione “sull’immagine della lingua”, su come ogni lingua porti con sé anche una specifica geografia del corpo. Per chiarire meglio quest’aspetto, Selma diceva, ad esempio, che il bosniaco sia una “lingua dal cuore spezzato”, che quindi risuona dal petto, mentre l’inglese-americano arriva dalla testa, in quanto una lingua che comanda e decide. Il suono di ogni lingua si è costruito sulla storia e la topografia di un determinato popolo. Quest’aspetto ha spinto ancora oltre la nostra ricerca. Il testo così ha perso quell’idea di verisimiglianza linguistica che ancora ci portavamo dietro, siamo arrivati a scartare la possibilità di utilizzare l’inglese quale lingua di comprensione comune tra i personaggi perché, essendo una possibilità-altra quella che portiamo in scena, ognuno di loro può parlare la propria lingua madre e comprendere quella dell’altro al contempo: la comprensione va oltre la lingua, oltre il conflitto primigenio della diversità linguistica, per creare una nuova geografia dell’umano.
In The Book of the New Words i sovratitoli non sono solo un supporto alla comprensione, ma diventano parte viva della scena. Come nasce questa idea e che ruolo ha il linguaggio nel dispositivo scenico che state costruendo?
J: Il nostro collaboratore Wael Kadour, con cui curiamo insieme la regia, durante uno dei primi incontri della residenza in Sicilia, mentre esploravamo il materiale, ha detto: “english is just a tool”, intendendo che la lingua che parlavamo tra di noi fosse soltanto lo strumento per poterci comprendere. Mi ha fatto pensare a quanto di noi ci sia nelle lingue che parliamo, a quanto di noi riusciamo a versare nel contenitore-italiano o inglese e che, viceversa, non possiamo versare nel contenitore-siriano o montenegrino. E, seguendo questa metafora, mi chiedo dove va questo liquido quando lo travasiamo da un contenitore all’altro? Forse non riesce a riempire perfettamente quell’altra misura; forse, inevitabilmente, una parte trabocca fuori. E forse proprio in quel liquido che si versa in molte direzioni proprio perché non ha spazio, ci sono cose che ci riguardano e che le lingue non riescono e non devono esprimere. Ecco, credo che da qui nasca l’idea di un lavoro creativo con il dispositivo-sovratitolo: cercando di spingere la sua funzione oltre il suo essere strumento verso l’essere contenitore, qualcosa che ci contiene, che ci accoglie. Per dare concretezza a queste idee abbiamo avviato la collaborazione con Yelo Production di Zagabria, che lavora con il multimediale, il sonoro e il virtuale nell’innescare nuove possibilità di incontro con i pubblici.
Il vostro lavoro, insieme a quello di also.known.as., sembra sempre muoversi su un confine tra finzione e documento, tra invenzione e realtà. Come definireste oggi il vostro modo di fare teatro?
S: Mi piacerebbe iniziare a rispondere a questa domanda riprendendo la definizione più universalmente condivisa dell’espressione “also known as”: a phrase used to indicate a different name or alias for a person, place, or thing. Abbiamo scelto questo nome proprio per provare a definire la nostra pratica come qualcosa di fluido, qualcosa che sia a metà tra i due o più sensi. Il nostro modo di fare teatro quindi, trova nell’incontro il proprio radicamento: incontro tra pratiche o discipline, incontro tra artisti diversi; cerchiamo infatti di instaurare collaborazioni di volta in volta sui diversi progetti che vogliamo portare avanti. E non parlo solo di performer, ma anche di co-creatori. È certamente più faticoso, ma indubbiamente anche molto più arricchente da un punto di vista artistico. Parallelamente è difficile anche provare a identificare “un genere” per definire il nostro modo di fare teatro. E penso, in realtà, che anche questo sia piuttosto arricchente. Riuscire a non scletorizzarsi in una forma o uno stile penso sia il miglior modo per tenere viva la ricerca che, sì, questo posso dirlo, affonda sempre in un’indagine socio-antropologica dell’esistente.
J: Io sono del Montenegro, Simone è italiano. Il mio modo di intendere la nostra pratica artistica è questa negoziazione tra le modalità in cui una certa cultura si inscrive sui nostri corpi, sui modi di pensare, di comunicare, di sentire. In un momento in cui stavamo a Malmö per il mio lavoro all’accademia teatrale, abbiamo realizzato che continuare a nutrire il movimento, che sia esso geografico o relazionale (le diverse collaborazioni), o linguistico, è il nostro modo di intendere e praticare teatro. Che l’incontro non sia solo tra il prodotto-spettacolo e il pubblico, ma anche nel processo di divenire, trasformativo per noi quanto, potenzialmente, per gli altri.
Dopo le residenze tra Trieste, Sarajevo, la Sicilia e a breve Zagabria, quali sono i prossimi passi per il progetto? E che tipo di dialogo vorreste che si innescasse con il pubblico a cui lo presenterete?
S: Completato il lavoro a Zagabria, realizzato con il supporto del programma Movin’Up Performing Arts 24/25, ci aspetta la fase di messa in prova con tutto il gruppo di attori e attrici. Insieme a Sardegna Teatro e al Sarajevo War Theatre stiamo valutando come meglio realizzare questa parte, anche da un punto di vista produttivo. L’ambizione è quella di debuttare nella seconda metà del 2026, dopo un lavoro di ricerca durato tre anni e che è stato inevitabilmente influenzato da tutto quello che è successo e sta succedendo nel mondo sin da quando si è cominciato. Quando inizia davvero una guerra? ci sembra una domanda che ha ancora molto da esigere da ognuno di noi.
J: In continuità con quello che dicevo prima vorremo prendere del tempo al pubblico per tentare di riflettere insieme sul nostro sguardo verso l’altro, sul nostro ascolto verso l’altro, sulle implicazioni di ciascuno di noi nel discorso che riguarda la guerra. Quando dico guerra non intendo soltanto la sua fase ultima, lo scontro armato, ma le fasi che la precedono e la seguono, e dunque intendo le modalità attraverso cui invisibilizziamo e oggettifichiamo l’altro. Vorrei dunque che il dialogo con il pubblico fosse all’esatto opposto insomma, che possa innescare un rapporto differente, un prendersi cura, ecco.
also.known.as. è un progetto di ricerca artistica a cura di Simone Corso e Jovana Malinarić che, attraverso pratiche collaborative, dà forma a performance, spettacoli teatrali, curatele ed eventi partecipati che esplorano le modalità con cui identità, narrazioni e strutture di potere prendono corpo nel presente. Negli anni ha collaborato con diversi enti di produzione ed è risultato vincitore di diversi riconoscimenti sia in Italia che all’estero.
“IL PROGETTO The Book of The New Words È REALIZZATO CON ILSOSTEGNO DEL PROGRAMMA MOVIN’UP SPETTACOLO-PERFORMING ARTS 2024/2025”MOVIN’UP SPETTACOLO – PERFORMING ARTS 2024/2025 A cura di MIC Ministero della Cultura – Direzione Generale Spettacolo e GAI – Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti Italiani insieme con Regione Puglia – Puglia Culture e con GA/ER – Associazione Giovani Artisti dell’Emilia Romagna
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
In un tempo in cui il corpo è campo di battaglia e linguaggio conteso, Sessuologia di una nazione: Bignami di bon tonsi presenta come un gesto scenico necessario. Non una denuncia, ma un’operazione chirurgica travestita da farsa: Antonio Framarin – attore, regista e autore – affonda il bisturi in quella sovrapposizione instabile tra biologia e cultura, tra genere e ruolo, tra identità e dispositivo di potere. Il teatro diventa così ciò che Michel Foucault chiamava una “pratica discorsiva” capace di smascherare le microfisiche del controllo.
Il punto di partenza è paradossale: un embrione chiamato Emb, unico candidato all’esame per “nascere”, deve dimostrare di saper abitare correttamente le categorie imposte dal mondo. Attorno a lui, una lezione tragicomica orchestrata da un corpo docente grottesco e affilato. Il tono è satirico, ma lo scavo è profondo: cosa significa incarnare un genere? Come si determina la legittimità del desiderio? A chi appartiene davvero il corpo?
Sullo sfondo, risuonano le teorie di Judith Butler sulla performatività del genere – secondo cui l’identità non è un’essenza da esprimere, ma un atto reiterato sotto costrizione culturale – e quelle di Paul B. Preciado, per cui il corpo contemporaneo è sempre più un’interfaccia biopolitica, medicalizzata e narrata da linguaggi esterni. Lo spettacolo prende questi riferimenti e li rovescia nella macchina comica: la scena diventa un laboratorio semi-serio dove si smonta, pezzo per pezzo, il catalogo normativo dell’educazione sessuale.
Ma c’è anche qualcosa di più personale e più feroce: Framarin – formatosi tra la provincia veneta e i circuiti indipendenti di Roma – porta con sé la tensione tra il corpo pubblico e quello intimo, tra l’identità come costruzione collettiva e la vulnerabilità che ogni maschera sociale impone. La sua regia non cerca pacificazione: preferisce l’ironia disarmante, il corto circuito semantico, il piacere dell’incongruo. Sessuologia di una nazione è infatti, prima di tutto, un dispositivo critico: usa la comicità come “tecnologia del sospetto” (per dirla con Ricoeur), per rovesciare le certezze del senso comune e restituire allo spettatore non risposte, ma nuove domande.
Vincitore del Premio “La Karl du Pigné” 2024, il progetto si è affermato come una delle voci più originali e corrosive del panorama teatrale indipendente italiano. Non solo per i temi affrontati – l’identità sessuale, l’educazione, il corpo come territorio ideologico – ma per la forma in cui tutto questo viene agito, incarnato, contraddetto. E forse è proprio qui che il teatro di Framarin trova la sua forza: non nel rappresentare, ma nel provocare. Non nel dire cosa siamo, ma nel mostrarci quanto fragili e arbitrari siano gli alfabeti con cui crediamo di definirci. Ne discutiamo in questa intervista.
Se l’embrione Emb potesse parlare prima della nascita, quale sarebbe la sua prima domanda metafisica sul Paese che lo attende?
Non tanto se potesse… perché Emb parla eccome in realtà e non solo lui, ma tutto il mondo che lo circonda e tra tutti i dubbi che gli sorgono, il primo è sicuramente: come si fa a vivere in un mondo fatto solo di regole?
Perché una lezione e perché una cattedra? La verità ha davvero bisogno di un piedistallo, o basterebbe un inciampo ben raccontato?
L’idea alla base del lavoro, parte proprio dallo scindere la verità in due: la prima è una dura lezione, impartita alla società, a tutti coloro che non si pongono più domande o che, più semplicemente, hanno rinunciato a farlo; la seconda è come un sussulto, un impeto che nasce spontaneo, ma solo dentro chi è capace di ascoltarsi veramente. Possiamo quindi distinguere chi viene istruito come fosse a lezione e chi vive la ricreazione come fosse una scuola di vita.
Che tipo di docente è la vostra Professoressa? Una sofista travestita da pedagoga o una cinica maieutica con l’orologio rotto?
La Prof, come sbadatamente viene chiamata durante tutta la lezione, incarna perfettamente lo stereotipo di chi ha rinunciato a porsi le domande ed è finito nel vivere in un limbo fatto di sterili convinzioni. Il suo orologio indica sempre la stessa ora, ma come tutti sanno, anche un orologio rotto ha ragione due volteal giorno ed é su questa verità che la Prof assume paradossalmente spessore, diventando anche pedagoga cinica e severa.
E l’alunno?
Dal canto suo, Emb è il classico alunno pasticcione ma allo stesso tempo forte della sua giovanissima età. Con energia ed entusiasmo cerca di capire tutto quello che gli viene insegnato ma, come per ogni bambino, arriva un momento in cui non importa ciò che sarà detto perchè…sta certo che farà il contrario. A scuoterlo, non sarà affatto il tradizionale suono della campanella di fine ora, ma qualcosa di molto più intimo che lo spingerà a stravolgere la sua intera carriera scolastica.
In un mondo dove tutti spiegano e nessuno ascolta, l’ascolto è ancora un atto politico o è solo una forma di nostalgia?
La parola ci offre la possibilità di comunicare e di metterci in relazione gli uni con gli altri, ma è proprio quando cala il silenzio e pare non esserci più alcuna forma di dialogo, che le persone riescono veramente ad entrare in contatto tra loro e coniare un’idioma universale senza né politica né nostalgia.
In quale momento lo spettacolo fa trattenere il respiro al pubblico e in quale lo fa dubitare di ciò in cui crede?
Una volta iniziata la lezione, sono diversi i momenti in cui chi partecipa, non ha ben chiaro cosa stia provando veramente, perché dubitare in alcuni casi vuol dire anche trattenere il respiro. Tuttavia più la spiegazione prosegue, più diventa difficile non esserne coinvolti come quando hai finito le giustificazioni e la prof decide, a sorpresa, di interrogare.
Se doveste scrivere un’appendice al vostro manuale, quale sarebbe il nuovo capitolo?
Sessuologia di una nazione: Bignami di bon ton – (S) consigliato e basta. Così, su due piedi, potrebbe essere questa…ma anche completamente diversa.
Cos’è per voi il “permalo-socialismo”? È possibile una comicità che non tema il fraintendimento e miri, invece, al pensiero critico?
Quando esprimi un’idea, non sempre chi ascolta é predisposto a capirla o rispettarla, quindi spesso si crea una distanza. Partendo proprio da questo presupposto e giocando con le parole: (s) consigliamo la visione ad un pubblico (s) permaloso. Nella maggior parte dei casi, quando le persone non capiscono o gli viene detto qualcosa di (s) comodo – ok, ora smetto – se la prendono e diventano scontrosi. L’idea che mi ha spinto a fare questa scelta, è stata quella di non voler per forza accattivarmi il pubblico ma di metterlo a nudo assieme a noi e se necessario, di criticarlo e spogliarlo di tutte quelle sovrastrutture che ci paralizzano.
Avete più fiducia nel corpo o nella parola? E sul palco, chi dei due è più rivoluzionario quando si tratta di scuotere le coscienze?
In questo lavoro, testo e parola vanno a braccetto, accompagnati dall’emozione. Tanta fatica è stata fatta nel trovare il modo che più rappresentasse quello che volevamo esprimere e altrettanta nel veicolarlo con il corpo. Sia la Prof che Emb sono rivoluzionari a modo loro, chi rompendo la catene che l’attanagliavano, chi nel coraggio di ascoltare se stesso.
Se domani doveste insegnare questo spettacolo a scuola, cosa fareste scrivere sul registro, alla voce “obiettivi dell’apprendimento”? Risveglio critico? Educazione al dubbio? Autodifesa poetica?
Forse, ci basterebbe sapere di aver alimentato un pizzico di coraggio in più a chi crede ancora nel cambiamento.
Chi sono le persone invisibili che vi hanno insegnato di più, quelle a cui forse non avete mai detto “grazie”?
Probabilmente sono quelle a cui non rivolgiamo più la parola da tempo, ma rimangono comunque indissolubilmente legate alla nostra persona.
Quale odore, suono o dettaglio quotidiano vi riporta istantaneamente dentro il teatro, anche quando siete lontani?
Non credo ci sia un richiamo più forte di un altro, ma solo una presenza costante ci accompagna e ci fa sentire parte di qualcosa.
Qual è la scena che vi fa ancora tremare un po’ le mani, ogni volta?
Direi che l’inizio è il momento in cui tutto si delinea, perciò credo che partire bene sia molto importante, ma anche quello che succede prima, non è da meno.
Se poteste custodire un solo ricordo di tutte le repliche fatte, quale scegliereste?
Credo di parlare a nome di tutti e di non sbagliarmi, se dico che sicuramente sono i momenti in cui Cecilia ci copriva le spalle, Francesca era soprattutto la Prof e Antonio, Emb a renderci complici. Credo che quei brevi momenti siano stati davvero unici, ma anche le bevute post replica.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Per la 60° Stagione al Teatro Greco debutta a Siracusa con Lisistrata di Aristofane la regista Serena Sinigaglia,con Lella Costa nel ruolo di protagonista e un ricco cast composto da Marta Pizzigallo, Cristina Parku, Simone Pietro Causa, Marco Brinzi, Francesco Migliaccio, Stefano Orlandi, Pilar Perez Aspa, Giorgia Senesi, Irene Serini, Aldo Ottobrino, Salvatore Alfano, Didi Garbaccio Bogin, Beatrice Verzotti, Alessandro Lussiana, Stefano Carenza e le giovani attrici e i giovani attori dell’Accademia della Fondazione INDA.
La scena firmata da Maria Spazzi è dominata da un grande telaio i cui bandoli rossi si dipanano per tutto il palco suggerendo l’idea di una matassa incontrollabile. Lo spettatore intento a scoprire il significato di quell’immagine è presto accontentato dalle parole della stessa Lisistrata: si tratta dei fili del governo, della politica che persegue l’interesse del più forte e dimentica il bene e il giusto. L’esito della peggiore politica è noto, è la guerra. In questa trama lacera e intricata, con abiti altrettanto lisi si muove smarrito il personaggio della Pace – non presente da testo e voluto da Sinigaglia, interpretato dalla danzatrice Giulia Quacqueri.
Il testo e la regia pongono così fin da subito la questione: chi è che paga la scelta di pochissimi di andare in guerra? In questa gerarchia di sconfitti, emergono le donne; madri, mogli, sorelle di uomini mandati a morire da altri uomini che, incapaci di fare politica per la città finiscono per farla contro la città. Aristofane intercetta in questo senso una delle chiavi di lettura più feroci e squallide del maschile, vale a dire il bisogno di violenza declinato su due livelli: le relazioni pubbliche e quelle private. Per entrare nel vivo del concetto ne abbiamo parlato con la regista.
Nella costruzione di un nuovo spettacolo lei talvolta parte da “l’impulso informe”, vale a dire un’urgenza comunicativa primaria a partire da cui articolare il lavoro. Nella messa in scena di Lisistrata qual è stato l’impulso che ha seguito?
SerenaSinigaglia: Il mio impulso informe, – termine che ho rubato a un grande maestro del teatro del Novecento che è stato Peter Brook – leggendo e lasciando risuonare le parole di Aristofane, si muoveva su due piani. Il primo è stato: qui si parla di qualcosa di profondamente tragico, di profondamente serio, si ride ma si ride di qualcosa che è serissimo, cioè la guerra, e questo testo è un’operazione sana e feroce di satira contro i malgoverni che ci portano alla guerra. Aristofane da autore enorme quale era riesce a declinare un discorso politico, cioè il malgoverno genera la guerra e la guerra genera la fine della civiltà, anche nel rapporto tra i sessi, che è forse la parte più famosa del testo. Ma in realtà queste due parti a mio avviso sono parimenti importanti perché sono lo stesso concetto declinato uno su una visione pubblica e l’altro su una visione privata, cioè se le relazioni tra gli esseri umani si fondano sulla violenza e sul possesso non possono fare altro che creare distruzione; se le relazioni umane si rivolgono all’amore, alla cura, alla comprensione, all’ascolto, invece, creano.
Questa polarità tra due modi di costruire e decostruire i rapporti è enfatizzata in scena dall’opposizione donna-uomo. Lo spettacolo si articola in un susseguirsi di quadri, arricchiti dai movimenti di Alessio Maria Romano e dai canti della coppia Francesca Della Monica, Ernani Maletta, in cui la fedeltà al giuramento di castità prestata dalle donne – ora nei panni della cerchia politica di Lisistrata, ora nella terna delle vecchie o ancora nel coro delle giovani – ha la meglio sull’inconsistenza delle ragioni degli uomini. Lo scontro tra i due sessi apre a due visioni del mondo antitetiche, ben sintetizzate dallo strumento del telaio: da un lato la pazienza e la cura del femminile, dall’altro l’irruenza e l’irascibilità del maschile. Qual è in questo contesto la funzione dell’espediente centrale dello sciopero del sesso?
S.S.: Qui arriviamo al secondo forte impulso che ho sentito di dover seguire: il sesso è solo una metafora, un pretesto per parlare della qualità di relazione nei rapporti. È una metafora fortissima perché l’istinto sessuale è identico nella relazione tra due individui ma sta alla base anche dell’impulso di guerra, le armi stesse sembrano delle protuberanze simili a quel maschile che Aristofane irride. Sentivo il bisogno che in questo quadro ci fosse anche eleganza, grazia, che non ci fosse mai scontatezza, che non si cadesse mai nella parodia, che si tenesse sempre presente questa luce della disperata ricerca di pace senza l’illusione di trovarla ma con l’intenzione di non smettere di cercarla. E che quella rivoluzione è una rivoluzione anche nella qualità di relazione tra gli individui, questo è stato l’impulso che mi ha guidata alla messa in scena.
Questo bisogno di grazia, eleganza, fuggendo il rischio di cadere nella banalità così come nel registro comico-grottesco di Aristofane, è perfettamente rappresentato dalla figura di Lisistrata. Da un punto di vista registico cosa ottiene in questo modo il suo personaggio?
S.S.: In primo luogo, ottiene il fatto di essere super partes e questo aiuta il meccanismo comico, perché diventa così l’unica figura raziocinante in un mondo in preda agli istinti dionisiaci; questo suo essere assennata crea di per sé un contrasto comico che credo Aristofane avrebbe apprezzato. Francamente io penso che anche Aristofane la vedesse così perché questo aspetto sacerdotale, serio, le è proprio, anche se poi di fatti è semplice razionalità. Lisistrata è una persona intelligente che usa la sua intelligenza per cercare di portare buonsenso intorno a sé, ma se intorno a sé c’è il circo e il delirio, questo oltre a ricordarci come siamo ridicoli e pericolosi quando silenziamo la ragione, mi permetteva di potenziare anche la dinamica comica. In questo va poi sottolineata la bravura di Lella Costa, l’attrice perfetta per fare questo ruolo perché ha intelligenza, eleganza, grazia ed è dotata di un’ironia sottile e credo che poi all’atto pratico il pubblico abbia compreso e apprezzato questa scelta.
Nel corso delle repliche ho visto che ridono moltissimo, poi si commuovono e restano, giustamente turbati dalla serietà della materia. D’altronde il meccanismo di questa commedia è quasi perfetto, quasi tutta la commedia successiva ha imparato su Aristofane e Lisistrata è uno dei testi su cui più si impara, non mi serviva neanche capire come far ridere perché a questo ci aveva già pensato lui. Ho pensato che il mio dovere fosse far emergere tutta la profondità del discorso, tutta la rivoluzione politica, tutta la grazia e perfino la forma ironica di sguardo verso un’umanità che sembra proprio non essere all’altezza della situazione.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.
Cosa succederebbe se un pesce cominciasse a ricordare?
È da questa domanda semplice che prende corpo il testo di Victoria Blondeau – nata a Terni nel 1999 e cresciuta a Castel dell’Aquila – frazione umbra minuscola, lirica, fuori dal tempo. I suoi spettacoli non archiviano la memoria: la fanno vivere, la inseguono. Nella scena teatrale italiana sempre più polarizzata tra l’accademia formale e la performance radicale, la sua voce ibrida è difficile da classificare: colta ma popolare, ironica ma lacerata, femminile ma mai definita dal genere. La sua ossessione? Il tempo. O meglio: ciò che il tempo cancella.
Immaginate un acquario. Trasparente, claustrofobico, invitante. Dentro, tre corpi che nuotano – o affogano – nel proprio passato che evapora. I corpi degli attori – Alessandro Mannini, Caterina Fontana, Damiano Venuto – sono relitti e rituali, frammenti post-umani che ci costringono a guardare ciò che abbiamo smesso di voler vedere. Quando i pesci ricorderanno allora noi, lo spettacolo firmato dalla regista Simona De Sarno è un morso proibito alla memoria collettiva. Un’esperienza sensoriale e feroce che ha incantato il pubblico del Teatro Basilica di Roma, trasformando un universo minimale in una trappola esistenziale e visiva.
“Il vero trauma non si ricorda: ritorna.” Così scrive Cathy Caruth, teorica della trauma theory. È da questo paradosso che sembra scaturire Quando i pesci ricorderanno allora noi. L’acquario – cuore scenico dell’opera – diventa luogo dell’eterno presente: nessuna storia, solo ripetizione. Nessun tempo lineare, solo un ciclo mnemonico inceppato. Come in Differenza e ripetizione di Deleuze, ciò che ritorna non è identico, ma mutato, contaminato, segnato dalla perdita.
Victoria Blondeau scrive testi che sembrano partiture per la mente: ossessive, tagliate, ellittiche. I suoi personaggi, ridotti a sagome parlanti, abitano un acquario che è metafora del potere (biopolitico, direbbe Foucault) e della dimenticanza istituzionalizzata. Perché ricordare, in fondo, è anche un gesto sovversivo. La regia di Simona De Sarno spinge lo spettatore verso una posizione scomoda, quasi etica. Non ci è concesso osservare da fuori: siamo nel vetro, nel sistema. Il gesto teatrale si fa interrogazione ontologica.
In un’intervista a due voci, abbiamo messo a confronto la visione registica di De Sarno e l’universo drammaturgico di Blondeau. Ne emerge un dialogo fertile, radicato nella contemporaneità e affamato di domande. Una conversazione come un frammento di Walter Benjamin: “Solo a chi non ha più speranza è data la speranza.” E forse è proprio lì, nel cuore molle dell’acquario, che si nasconde la scintilla sovversiva del teatro.
Il titolo Quando i pesci ricorderanno, allora noi evoca un’immagine sospesa tra poesia e inquietudine. Sembra contenere un cortocircuito temporale, una tensione tra memoria e futuro. È stato un punto di partenza per la scrittura o è emerso dopo? Che significato ha per lei?
Quando i pesci ricorderanno, allora noi è un titolo che è nato dopo, ma poi è diventato guida. Non c’era nella prima fase embrionale del lavoro nel 2021, in piena pandemia, durante un’esercitazione di drammaturgia condivisa con una mia collega di accademia,Valentina Brancale. Allora il centro era la costrizione, il respiro, ma anche l’assurdità. Pensare a questi animali persi in una boccia ci ha fatto scrivere questa prima scena come un gioco, ma un gioco serio, nato in un tempo fragile e sospeso. La memoria c’era, ma era più un espediente, un pretesto teatrale per parlare d’altro. È stato solo nel 2024, rileggendo quelle prime battute con Simona De Sarno (la regista), che ci abbiamo visto altro. Con il forte, fortissimo eco dei primi eventi a Gaza nell’ottobre 2023, il testo ha trovato una direzione più chiara. Il bisogno di parlare davvero della memoria è diventato centrale, non più un espediente, ma un fondamento, perché non può esserci comunità senza memoria. Da lì sono arrivate le prime pagine della demo e con loro, il titolo.
“Quando i pesci ricorderanno” è una frase paradossale, perché si dice che i pesci non abbiano memoria. Ma se un giorno ricordassero, allora dovremmo farlo anche noi, che dovremmo avere tutti gli strumenti per ricordare, eppure… “Allora noi” è una frase sospesa. Manca qualcosa: un verbo, un’azione, una presa di responsabilità. Forse una promessa, forse una minaccia. Forse solo una frase da continuare, ma sospesa, volutamente.
La sua drammaturgia lavora su una conservazione, una lieve frammentazione o su un sabotaggio della narrazione lineare? Come si organizza nella scrittura? Lavora per accumulo, per scarti, per visioni?
La drammaturgia parte da una tensione verso la narrazione, ma non la conserva mai del tutto. C’è una volontà di rompere la linearità, ma senza cancellarla. I pesci resettano la loro memoria, è dunque impossibile creare una trama, dal momento che ogni volta è un nuovo incontro. La frammentazione non è un sabotaggio, è una forma di fedeltà all’esperienza stessa della memoria, che non procede per causa ed effetto, ma per ritorni, mancanze, sovrapposizioni.
Fin dall’inizio, l’espediente della memoria è stato un vincolo narrativo forte: una scelta consapevole, che ha creato una gabbia formale a cui siamo rimaste fedeli. Non abbiamo cercato di evaderla, ma di abitarla fino in fondo, e questo ha generato inevitabilmente una drammaturgia frammentata, che vive di vuoti, slittamenti e voci che non sempre si ricongiungono.
Come pensa il rapporto tra parola, voce e carne? La scrittura nasce già con un ritmo fisico?
Non so se ho una teoria precisa sul rapporto tra parola, voce e carne. O meglio, so che c’è, ma si muove più che spiegarsi. Quando scrivo per la scena, penso subito all’azione che le parole stanno portando avanti, così come penso a quando di parole non se ne devono scrivere proprio, perché l’azione non deve essere verbale. È lì che inizia il lavoro più interessante: capire cosa tiene, cosa vibra, cosa non funziona.
Il tema della memoria attraversa il suo lavoro come ricordo nostalgico o come qualcosa di perturbante, forse tossico? In che modo lavora con la memoria nella scrittura? È un atto di cura, di ricerca o entrambe le cose?
La memoria, nel lavoro di quando i pesci ricorderanno, non è né solo nostalgia, né totalmente perturbante. È qualcosa di necessario. Un elemento che non può essere perso, rimosso, ignorato, perché quando lo è, le conseguenze si vedono (e sono spesso terribili). Non è solo tema, è anche struttura: frammenta, ritorna, interrompe. Per questo non posso trattarla solo come un atto di cura: è anche un campo di tensione, in cui la scrittura cerca, ma non sempre trova. O trova troppo.
Scrivere con la memoria, per me, è anche un modo per togliere l’alibi al presente. Per guardarlo sapendo che non arriva dal nulla, e che ogni comunità, se vuole esistere davvero, deve farsi carico del proprio passato, anche quando è scomodo.
Qual è il ruolo del silenzio nella sua drammaturgia?
In un testo che lavora con la memoria, il silenzio è fondamentale: è il luogo delle cose non dette, dimenticate, rimosse. Ma è anche il luogo da cui può riemergere una parola vera, che riaffiora. Insomma, il silenzio non è mai lì “per caso” o per riempire un buco. È materia drammaturgica, con un suo peso specifico, come fosse una battuta senza testo ma con corpo, ritmo e direzione.
I pesci di questa storia dimenticano tutto, anche il lutto. Ma noi, siamo davvero tanto diversi?
No, non siamo così diversi. Il pesce è una metafora dell’uomo. Abbiamo costruito tanto, noi umani, sull’abilità di rimuovere, di lasciar scivolare nel fondo quello che non vogliamo più vedere. Dolore, colpa, responsabilità collettiva. Dimentichiamo per sopravvivere, ma anche per non cambiare. Nel testo, il pesce non è altro da noi: è noi, solo un po’ più onesto. Quando diciamo che i pesci dimenticano, forse stiamo solo cercando di convincerci che noi, invece, ricordiamo. Ma non è sempre vero.
Qual è stato il dialogo tra scrittura e regia in “Quando i pesci ricorderanno, allora noi”? Ha scritto pensando già allo spazio, al suono, alla luce?
Il confronto con la regia è fondamentale in questo testo, che altrimenti non sarebbe neanche nato. Abbiamo pensato insieme all’andamento delle scene, tenendo d’occhio i temi e l’esito che avevamo chiaro nelle nostre teste. Poi abbiamo visto insieme, prova dopo prova, che certe parole funzionavano e altre no, avendo sempre il coraggio di togliere o aggiungere quando serve. Scrivere per la scena significa anche far parlare le parole con la voce di qualcun altro. E lasciarsi sorprendere quando una frase, scritta a tavolino, prende fiato e cambia faccia.
Chi sono gli autori, le artiste, i territori estetici che hanno formato la sua visione del teatro? E da cosa oggi sente il bisogno di prendere le distanze?
A livello drammaturgico, sono passata attraverso i classici, come credo sia successo a molte e molti. Shakespeare, Tennessee Williams, Čechov sono stati punti di partenza fortissimi, e poi Mamet, Crimp – ognuno con un ritmo, un’intenzione, una crudeltà diversa. Per quanto riguarda il teatro visto, lo spettacolo più memorabile per me degli ultimi tempi, tanto che l’ho visto due volte nel giro di due mesi è stato Una giornata qualunque del danzatoreGregorio Samsa di Eugenio Barba, e ho capito che ci sono linguaggi che si imprimono addosso anche quando non si capiscono subito. A teatro mi sono goduta anche Carrozzeria Orfeo, Filippo Dini, Sotterraneo… Anche se l’obiettivo, la prossima volta che rinasco, è essere Slava Polunin.
Quello da cui sento il bisogno di prendere le distanze è il teatro autoreferenziale, quello che si parla addosso o quello che ti lascia esattamente come ti ha trovato. Mi interessa un teatro che ci sposti, anche solo di un centimetro. Non necessariamente verso qualcosa di bello o risolto, ma verso qualcosa che ci aggiunge.
In un tempo in cui molte drammaturgie cercano di rispondere alla realtà, la sua sembra piuttosto porre domande senza risposta, lasciando lo spettatore in uno stato di sospensione. Qual è, secondo lei, la responsabilità politica del teatro oggi?
Credo che la responsabilità politica del teatro, oggi, non sia tanto “dire la verità” o “prendere posizione” in senso ideologico, quanto creare uno spazio reale dove le persone possano tornare a sentirsi parte di qualcosa. Il teatro ha un compito antico, ma ancora urgente: aiutarci a essere comunità. Farci stare insieme nello stesso luogo ad ascoltare una storia che, se funziona, tocca qualcosa che ci riguarda tutti. Non è poco. Mi interessa un teatro che ci sposti, anche solo di un centimetro. Non necessariamente verso qualcosa di bello o risolto, ma verso qualcosa che ci aggiunge.
Che tipo di relazione desidera instaurare con lo spettatore? Uno sguardo complice, un ascolto perturbato, una distanza critica?
Ultimamente dopo un po’ di repliche in posti piccoli dove potevo vedere ogni singolo spettatore in faccia per tutto il tempo (una tortura morbosa e allo stesso tempo estremamente educativa) ho capito che non esiste “uno” spettatore. Ogni sera è diversa. Lo spettacolo è lo stesso – passatemelo – ma la reazione no, mai. È una relazione completamente fuori dal tuo controllo, e forse è questo il bello. Non cerco una reazione precisa. Mi interessa che qualcosa succeda, anche minimo. Un piccolo disallineamento, una vibrazione. Ancora mi sorprende il fatto che qualcuno, nel buio, si lasci toccare da qualcosa che non avevamo nemmeno previsto.
Può raccontarci qualcosa del suo laboratorio di scrittura quotidiana? Esistono rituali, vincoli, ossessioni formali?
Non ho rituali o ossessioni formali particolari. Scrivo insieme ad altri, quasi sempre. Il confronto mi è necessario, forse perché il teatro non si fa da soli – o forse perché da sola mi perdo. Fatto sta che l’occhio esterno mi serve: per capire se un’idea regge, se può andare avanti o ha bisogno di disfarsi. Non credo molto nella scrittura quotidiana solitaria. Il mio laboratorio è il dialogo, anche acceso, anche pieno di dubbi. Non cerco approvazione, cerco reazioni.
Ultimamente, studiando per un esame all’università, ho scoperto che anche tra i compositori c’erano enormi differenze di metodo. Haydn, per esempio, scriveva una sinfonia a settimana, tipo catena di montaggio del genio. Beethoven invece ne ha scritte nove in tutta la vita, e teneva gli spartiti sul comodino per anni. Io pure ho sempre più idee aperte contemporaneamente, che chiedono attenzione, che si contaminano, che fanno resistenza e poi magari, a un certo punto, si sbloccano.
Dopo “Quando i pesci ricorderanno, allora noi”, che domande sente ancora aperte nel suo percorso? Dove sta andando, ora, la sua ricerca?
Dopo Quando i pesci ricorderanno, allora noi, le domande non si sono chiuse, anzi. Forse il testo ha chiarito alcune urgenze – il bisogno di memoria, di comunità, di responsabilità condivisa – ma ha anche lasciato aperto un vuoto, uno spazio di interrogazione da cui ora sto ripartendo. Mi sto chiedendo, per esempio, come parlare dell’oggi senza divorarlo o essere divorati, senza ridurlo a commento. Come restituire la complessità del presente con forme che non siano solo cronaca, o solo astrazione. Quindi, sì, la mia ricerca sta andando avanti, ma più che altro sta continuando a fare domande perché risposte ne ho poche. Però si accettano suggerimenti.
Il titolo “Quando i pesci ricorderanno, allora noi” sembra evocare una soglia tra l’impossibile e il necessario. È una profezia, una speranza o un’illusione?
È una speranza, che si nega nella sua stessa contraddizione e di conseguenza diventa illusione.
Qual è la prima immagine della sua infanzia che oggi riconosce come “teatrale”, come se contenesse già una scena che ancora non sapeva di dover mettere in vita?
Io e mio padre in barca. Lui pesca e io, di nascosto, rigetto i pesci a mare.
Cosa significa per lei mettere in scena la dimenticanza? Come si rappresenta l’oblio senza trasformarlo in silenzio?
Significa lavorare su un tempo ciclico che si sovrappone ad un tempo lineare. L’oblio si presentifica, dopo vomiti di parole, nella sospensione di un accadimento.
L’acquario è una prigione trasparente. Che tipo di spazio teatrale ha immaginato per restituire questo paradosso?
Uno spazio angusto, tossico, sporco, che cerco di restituire attraverso le azioni reiterate degli attori, confidando i personaggi in un angosciante loop, dal quale non possono uscire. La scala su cui salgono, ovvero il castello, aiuta ad evidenziare, attraverso un enorme sforzo fisico, la possibilità di una fuga illusoria.
Ha pensato a questo spettacolo come a una favola, a una tragedia, a un esperimento percettivo?
Ho pensato a questo spettacolo come a un cartone animato, tutto è sopra le righe e l’azione è portata all’estremo. Un conto è vedere un cartone animato quando si è piccoli, un altro quando si è adulti. Mi interessa scaturire, attraverso la risata, un senso di inadeguatezza, un sentirsi fuori luogo.
Spesso il teatro nasce dal non sapere. Da quale domanda senza risposta ha preso forma questo spettacolo
Siamo in grado di parlare di memoria, quando siamo i primi a dimenticare?
Cosa significa per lei “ricordare” in scena? È un atto individuale, collettivo, oppure una forma di resistenza al tempo?
È sia un atto individuale, che collettivo. Il tempo non contrasta la memoria, anzi, credo aiuti a preservarla. Noi tendiamo a resistere, nella nostra eterna contraddizione umana, al tempo e di conseguenza rimuoviamo i ricordi, per non sentirne il peso.
In che modo il suo lavoro di regia si fa custode di qualcosa che rischia di perdersi? E che cosa cerca, attraverso la scena, di salvare?
Purtroppo e per fortuna il teatro è nell’accadimento e si fa custode dell’attimo, il resto sta a chi guarda. Il rischio della perdita è sempre molto alto. Mia mamma mi ha sempre raccontato le favole e tutt’oggi ho il privilegio di ricordarle, lei mi ha lasciato una testimonianza non scritta. Credo che mettere in scena un testo sia un lavoro di testimonianza, nella speranza che possa lasciare un segno, anche se piccolo.
Che tipo di tempo ha cercato di generare in scena? Un tempo senza storia, un presente ripetuto, una soglia che sfugge?
Un tempo ciclico, dove il ripetersi della stessa storia, divide la scena in due piani, uno irremovibile e costante, l’altro distruttore e mortale.
Un gesto teatrale può contenere una verità più profonda di qualunque parola?
L’azione viene prima della parola. È nel gesto che trovi la verità, come nella vita.
Quando mette in scena una storia, sente di farlo per consolare, per inquietare, per far ricordare, o per aprire uno spazio nuovo?
Il tentativo è sempre quello di raccontare innanzitutto una storia che sia comprensibile per chi guarda. Lo faccio perché lo sento necessario.
C’è una forma di pensiero — una filosofia, una visione del mondo — che accompagna in modo sotterraneo il suo modo di fare teatro?
Homo homini lupus.
Qual è il confine, per lei, tra regia e cura? In che modo dirigere è anche prendersi cura dell’altro? Ha sentito il bisogno di proteggere emotivamente gli attori da questa materia o li ha spinti verso il limite della sparizione?
Una questione su cui credo non smetterò mai di interrogarmi. Non mi è sempre chiaro il confine, so solo che sto evolvendo, soprattutto in base alle energie che gravitano attorno a me. Ti prendi cura di tutta la macchina, devi essere lucido e avere un occhio generale sul tutto, senza dare per scontati i dettagli. In certe circostanze ho sentito il bisogno di proteggere emotivamente gli attori, non tanto dalla materia, quanto dalle emozioni che attraversano la persona stessa. Vederli uomini e non macchine sicuramente aiuta a cercare dialogo e a creare empatia.
La morte del terzo pesce è al centro di un gesto collettivo. Come hai guidato gli attori nel rendere questo atto senza moralismi?
Lasciando emergere quella parte animale che è in tutti noi. Siamo tutti potenziali predatori, in ognuno di noi c’è un lato oscuro. L’uomo, fortunatamente, ha la libertà di scegliere quale parte di sé far emergere. In teatro è sano e necessario conoscere quel lato, che si spera nella vita teniamo a bada.
In uno spettacolo dove tutto viene dimenticato, qual è il rischio più grande: perdere il senso o restare intrappolati nel significato?
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Ci sono progetti che travalicano, per rilevanza, la soggettiva professionale. Accade quando il lavoro prende le mosse da un ascolto autentico delle necessità di un territorio e di un settore e, alla via colonizzatrice che cala modelli fac-simile anche in contesti inadatti a riceverli, preferisce quella della semina. È il tratto caratterizzante dell’intervento curatoriale di Valentina Marini, direttrice artistica di Orbita – Centro Nazionale di Produzione della Danza e del Festival Fuori Programma, la cui decima edizione si terrà dal 16 giugno a Roma.
In occasione dell’avvio del festival, abbiamo intervistato Valentina Marini cogliendo l’opportunità di intessere un dialogo intorno all’architettura, ai pieni e ai vuoti dell’offerta culturale capitolina, allargando la riflessione a questioni di sistema e di advocacy che interessano ad ampio raggio il comparto nazionale della danza e delle arti performative.
La decima edizione di Fuori Programma si intitola In-canti. Più che mai in questo tempo, le parole che scegliamo di usare hanno un riflesso altro dal nominare le cose, si tratta di rendere tangibili dei concetti che possono essere riformulati anche nel lessico quotidiano. L’incanto è un termine che viene associato alla magia, alla meraviglia improvvisa, allo stupore dell’inatteso. Con Fuori Programma questo portato simbolico non si sfilaccia ma si amplia e si fa sforzo proteso alla riacquisizione collettiva del potere dell’immaginazione. In-canti, con un trattino a sillabare lo stare dentro (in) a uno spazio-tempo inafferrabile come quello prodotto dal suono, dal canto, o meglio da molti altri canti quanti sono i mondi ancora da immaginare. Una dichiarazione d’intenti che tiene assieme il percorso fin qui tracciato dal festival ma che, anziché preoccuparsi di “chiudere” un cerchio, tende all’apertura, a costruire il futuro più che ad aspettare passivamente che si compia. In questo senso, cosa può l’arte?
Sottoscrivo quanto dici. Rispetto all’espressione In-canti, all’idea di meraviglia e di immagini che si squadernano di fronte a noi, vanno sottolineati l’assetto open air e la matrice identitaria del festival: abitare spazi naturali con una programmazione al tramonto, fa sì che le comunità che si incontrano all’interno delle attività del festival si riconoscano, si vedano e si scoprano anche in termini visivi. Si tratta di una forma di incontro più tangibile, poiché non si è nascosti da quella camera oscura che, negli eventi indoor, crea una sorta di anonimato della platea. Partecipare a una passeggiata, assistere a un evento all’aperto, o anche semplicemente lo stare in una visione a 360° che consenta allo sguardo di attraversare lo spazio e toccare anche il resto del pubblico, le altre persone, ci pone in uno stato di veglia reciproca. Questo modo di stare insieme ha anche favorito la riconoscibilità, l’emersione di punti di contatto tra i pubblici stessi. Si tratta di uno degli aspetti che personalmente mi piace molto sostenere e perseguire. Dunque, una versione al naturale del festival, con una dimensione molto umana, sono alcuni dei tratti caratterizzanti di Fuori Programma.
La novità di quest’anno è che il festival entra a tutti gli effetti a far parte della grande casa di produzione di Orbita – Centro Nazionale di Produzione della Danza, un accorpamento che ufficializza una gestione precedentemente separata e che, in questo modo, determina l’organicità di un insieme di attività che hanno a che fare con le pratiche del corpo. In virtù di questo, sento a maggior ragione l’esigenza di differenziare per identità il percorso invernale, corrispondente alla stagione, dalle proposte estive, recuperando innanzitutto la funzione originaria dei festival: per statuto, un festival dovrebbe essere il luogo della scommessa, del rischio, uno spazio di un’immaginazione, di scoperta.
Potendo giocare su una programmazione unica, quindi su un palinsesto annuale che si differenzia per segmenti, ho voluto evidenziare ancora di più come invece lo spazio del festival – non a caso è anche l’ambiente in cui prediligiamo, oltre a quella nazionale, una certa presenza internazionale – debba costruirsi a partire da uno sguardo lungo, che attraversa la scena per arrivare all’altra parte di pubblico, ma che attraversa anche i continenti, i formati, i modelli performativi, e che preveda l’introduzione di progetti multidisciplinari. Un palinsesto che tenga conto sì della piacevolezza dello stare, ma che sia in grado di suggerire anche dell’altro in termini di contenuti.
Il cartellone di Fuori Programma rende visibile una “cifra” curatoriale che contraddistingue il tuo lungo impegno di operatrice culturale. Pur nella specificità dei singoli progetti, la tua visione pare scaturire da un’osservazione delle mancanze nel sistema nazionale della danza e delle arti performative, da vuoti da riempire. È accaduto con la messa a sistema di una stagione di danza che mancava alla città e che, oltre a scardinare il solito impasse dell’illeggibilità della danza contemporanea per il pubblico, ha generato alleanze e reti di sostegno (sia dal punto di vista produttivo che distributivo) per gli artisti. E anche questa edizione del festival contempla molteplici linguaggi, artisti con percorsi più o meno longevi, uno sguardo sempre presente alla proposta internazionale, opere di diversi formati e le residenze artistiche. Nonostante la ricchezza della proposta, nella vostra comunicazione si parla poco di numeri e molto di possibilità. Come si è cristallizzato nel tempo il progetto di Fuori Programma e come si fa, pur dentro a un sistema che lo richiede insistentemente, a resistere al rischio del “numerificio”?
Parto dal fondo. Anche per il tipo di spazi che abitiamo, il tipo di proposta che costruiamo all’interno del festival non nasce per un pubblico estremamente generalista. Non avendo platee da migliaia di posti, la frenesia numerica è immediatamente contingentata. Siamo in ambienti con uno spazio scenico che normalmente sarebbe da considerarsi sproporzionato: è più ampio lo spazio della scena che quello riservato al pubblico. Il format ideato per l’arena del Teatro India, prevede proprio una costruzione a pedane di quadri scenici con due anelli di pubblico intorno. Avremmo potuto studiare delle programmazioni frontali e una tribuna da 400 posti, ma abbiamo scelto di affrontare certe questioni e di invertire delle prassi.
Vale lo stesso discorso per le attività al parco: per natura e per fisionomia degli ambienti che accolgono le attività del festival, non ci sono spazi per montare grandi platee. Questo non è né un valore aggiunto, né un demerito, nel senso che per noi non è un tema. Puntiamo all’ambiente che abbiamo intorno e alla proposta. Ad esempio, abbiamo deciso di presentare il progetto Veduta di MK per tre anni consecutivi, facendogli abitare spazi meravigliosi della città di Roma: da Castel Sant’Angelo alla Terrazza del Laboratorio dei Cerchi. Quest’anno saremo in un altro luogo iconico e museale, i Musei dei Mercati di Traiano, che prevederà turni di ingresso con gruppi di pubblico contingentati. Immergere nella città dei progetti artistici che si fondano col paesaggio intorno, serve per noi a riscattare l’idea dell’azione performativa come un fatto di nicchia. Certamente non per forza deve generarsi una sorta di “eventismo del centro storico”, infatti non è un caso che organizziamo attività anche al Parco Alessandrino Tor Tre Teste, situato accanto al quartiere Quarticciolo che oltre che decisamente periferico è al centro dell’attenzione più per questioni di emergenza sociale.
Non abitando un solo spazio, abbiamo fatto del nomadismo la nostra matrice. Il nostro pubblico è randagio come siamo randagie noi, poiché non è cristallizzato nella relazione con uno specifico luogo ma con il progetto. I numeri sono importanti perché rappresentano una misura del gradimento, saremmo ipocrite a dire il contrario, ma il fulcro del nostro lavoro e del racconto che ne facciamo è un altro: ci interessa molto di più rilevare la migrazione di spettatrici e spettatori tra la stagione e il festival e, all’interno di Fuori Programma, tra gli stessi luoghi. Invertire i ruoli, rimettere al centro altri discorsi e scardinare l’idea che l’azione performativa abbia dignità di esistere solo se consente il riempimento di migliaia di posti. Esiste un altro tipo di profitto, che io definisco profitto sociale, e non ha niente a che vedere con quello di bilancio. Questo è un tema a noi molto caro.
Rispetto all’incipit della tua domanda, dunque alla genesi e all’evoluzione, ci tengo sempre a ricordare, per onestà intellettuale, che il festival è nato su idea del Teatro Vascello. Ho iniziato a lavorarci perché collaboravo con Marco Ciuti all’ideazione di un progetto di programmazione estiva per la danza. Chiaramente, essendo il Teatro Vascello un Centro di produzione votato alla prosa, faticava a sostenere economicamente il festival. Si è deciso insieme questo passaggio, dal momento che già in quel periodo stavo intensificando l’attività di programmazione. Dovendo uscire dal Teatro Vascello, che al tempo era interessato da lavori di ristrutturazione, ci siamo messi in affaccio verso la città. Avevamo l’oggetto ma non il contenitore e così si è sviluppata una relazione randomica con gli spazi e il progetto di un festival come percorso per la città, che attraversava la città. Un fuori programma in tutti i sensi.
Trovo poco calzante l’idea di “sfida” associata alla parola “cultura” poiché rischia di rimandare a un antagonismo capitalistico che ci vede conquistare risultati in contrapposizione, a discapito dell’altro. Preferisco attestarmi su un concetto di sfida come atto generativo, innesco di reazioni. Fatta questa premessa, se fare cultura in Italia è una sfida di per sé, farlo a Roma è una sfida-matrioska: un territorio molto vasto, con un’offerta culturale mainstream sempre più ampia e centralizzata, al servizio delle logiche di turistificazione, e molti, troppi spazi tolti non solo alla ricerca, ma anche a una programmazione capace di intessere nuovi patti di fiducia e nuove relazioni con con i suoi pubblici. Anche qui, credo di poter dire che, con Fuori Programma prima e con Orbita dopo, il punto di partenza sia stata la contemplazione di un vuoto e una successiva germinazione. Come hai costruito il dialogo con il territorio e in che maniera il festival ha determinato nuove traiettorie di abitabilità dei luoghi?
Oltre alla fuoriuscita dal Teatro Vascello e alla migrazione in altri luoghi, anche la pandemia ha avuto un ruolo importante, perché ha determinato delle scelte fondamentali. Inizialmente il festival aveva un formato frontale, più convenzionale, potendo usufruire della sala teatrale del Vascello prima e di quella del Teatro India dopo. In entrambi i casi operavamo al chiuso, poi la pandemia ci ha rivelato delle possibilità contestualmente all’avvio del percorso di programmazione presso il Teatro Biblioteca Quarticciolo. Per motivi diversi, che vanno dall’immaginare nuove pratiche di condivisione alla complessità del tessuto sociale del quartiere, avevamo capito che dovevamo andare verso il pubblico, anziché chiedergli di venirci incontro. Quest’esperienza ha sovvertito il paradigma e cambiato la direzione del nostro sguardo sulla relazione oggetto artistico-spazio performativo-pubblico. Il vantaggio di lavorare con dei gruppi più ristretti di spettatori, risiede soprattutto nella possibilità di incontrarli, conoscerli, di avviare un rapporto anche personale, accelerando il processo di fidelizzazione. Ciò significa anche che riusciamo ad avere con il nostro pubblico un rapporto dialogico e di confronto costante che è un metro di misura fondamentale per valutare il lavoro che svolgiamo.
Il principio dell’evoluzione dei nostri progetti e in particolare di Fuori Programma, sta nel rimetterci in gioco ogni volta: nei formati, nella scelta delle traiettorie, nelle opportunità, soprattutto in virtù di una complessità assoluta come quella di Roma, che mette in campo tutte le difficoltà esistenti e le concentra in un’unica metropoli. Il modello che abbiamo costruito era per noi una sacca di sostenibilità, non sarebbe stato intelligente e neanche necessario per la città realizzare un altro festival mainstream, cioè infarcire di doppioni e triple proposte un ambiente già ben servito. Roma è una città con quasi 3 milioni di abitanti, dire che qui esiste un problema di pubblico è un falso storico, i corpi che abitano questa città tra residenti e turisti dovrebbero soddisfare milioni di miliardi di stagioni. Ha molto più senso intercettare i gruppi di interesse, provando a soddisfare la varietà della richiesta lavorando per complementarità e collaborazione, immaginando quindi che tra i soggetti che abitano la stessa città ci sia una relazione di filiera.
In questo modo, da un lato anche gli artisti italiani riacquisiscono il diritto sacrosanto di attraversare la capitale e non soltanto i grandi nomi della danza internazionale, dall’altro si struttura un ventaglio di proposte che soddisfano tutto il tessuto cittadino in maniera geograficamente più equilibrata. Il problema è che, per mancanza di idee o per bisogno di competizione, nel nostro settore spesso si tende a emulare l’esistente, piuttosto che a trovare delle forme complementari, a quel punto si crea assuefazione. Il bello risiede nell’immaginare, nel riempire la tavolozza.
I percorsi artistici a cui guardi hanno generalmente un segno autoriale molto forte. Nel nuovo Decreto Ministeriale, il termine “autore” viene nominato in maniera inedita e attraversa le varie pratiche artistiche, all’interno delle quali, però, l’autorialità corrisponde a ruoli, funzioni, esperienze creative e posizioni professionali molto difformi. Il target dell’under 40 è invece insindacabile, pertiene a un dato anagrafico e prescinde da interpretazioni. Posto che un ragionamento su cosa s’intenda quando si parla di autorialità in maniera espansa, potrebbe consentire una lettura di sistema più determinata – il criterio che incentiva l’investimento su una certa fascia anagrafica, dice anche che l’emersione nel nostro Paese è tanto lenta e complessa, che un’artista con vent’anni di mestiere è ancora una scommessa. Nel contesto di un Decreto Ministeriale che da un lato premia il coinvolgimento di artisti e artiste under 40, dunque con un percorso di ricerca in fieri, e dall’altro cancella la dicitura di “rischio culturale” – come si fornisce tale sostegno?E, ancora, dove finisce la libertà del tentativo, e dunque anche del fallimento, in un percorso artistico in costruzione, se l’iperproduzione detta la legge della presenza: quella per cui si può esistere solo con una presenza di palcoscenico che spreme i progetti spettacolari nel tempo di una stagione, mentre invita al prossimo lavoro che tra i propri presupposti creativi è obbligato a varare anche la sua vendibilità?
Il tema dei giovani è molto spinoso perché il nostro sistema è ingessato e spesso si deve arrivare a delle azioni di forza per consentire uno spostamento dell’esistente. Abbiamo un problema sulle figure apicali che non riguarda soltanto la questione di genere ma anche quella anagrafica. Ci sono figure che saltano da una direzione all’altra non fino alla pensione ma praticamente fino al termine della vita naturale su questa terra. Lo spazio per il resto non c’è e questo significa che, oltre alla mancanza di crescita e opportunità professionali, sempre più frequentemente chi ha potere decisionale rischia di non avere uno sguardo preparato sull’oggi. Sono profondamente contraria all’idea che si debba forzare la programmazione con una massiccia presenza di progetti firmati da autori under, per il principio ideologico che si crea un ricambio generazionale.
Innanzitutto bisogna tenere in considerazione il rapporto col pubblico: se i progetti non sono maturi e quindi il pubblico non riceve una proposta valida, non stiamo rendendo un servizio né all’artista né al sistema. Tutto questo avrebbe senso se in parallelo fosse costruito realmente un percorso di accompagnamento, ma che non è soltanto quello di immaginare delle scatole di favoritismo one shot per i giovani senza fornire loro gli strumenti per crescere progettualmente e artisticamente. Di contro, è falsa anche la narrazione per cui la giovinezza è per forza sinonimo di talento e creatività, non si può pretendere di sfornare chissà quanti nuovi talenti all’anno. Tornando al tema dei numeri, massificare la presenza di nuovi autori ogni anno, crea un doppio, tocca il sistema su due fronti: tanto sull’idea che l’anagrafica sia sufficiente come elemento premiante, quanto sul generare nel soggetto giovane l’illusione e la presunzione di avere qualcosa da dire in ogni caso, a discapito poi di tutta la filiera. Non rinnego l’importanza di riservare spazi per l’emersione, non approvo le pratiche più diffuse. Io sono stata una giovane che non ha mai avuto spazio, ero circondata da persone di vent’anni più grandi di me che non mi ha mai incaricato di qualcosa, mi sono sempre costruita da sola le mie scatole da abitare.
Il problema del decreto è molto ampio. Personalmente, per come cerco di lavorare nella programmazione, ho sempre mescolato le autorialità e miscelato proposte di autori più maturi e di autori emergenti. Quello che detesto è creare le sacche dei panda: la rassegna, il focus giovani. Mi sembrano ghettizzanti, come dichiarassero fin dall’inizio una debolezza, una fragilità. Il punto dovrebbe essere in quali contesti di lavoro si immettono gli artisti, perché non ha senso vantarsi di una grande quantità di aperture di sipario a favore di giovani che, però, non ricevono sostegni produttivi sufficienti a produrre qualcosa di senso e che vengono messi in condizioni marginali di presenza tecnico-scenica, o ai bordi di una programmazione. Per me quei numeri sono falsati, preferisco ridurre le finestre di visibilità per garantire condizioni di valore.
Per fare un esempio, da quest’anno, con il Centro di Produzione Orbita, abbiamo messo in piedi un progetto pilotaMoveOn, una rete di festival mainstream, di cui sono parte Romaeuropa, Danza in Rete, Torinodanza, MILANoLTRE Festival, Civitanova Danza, allo scopo di dialogare intorno ad autori giovani coprodotti dal nostro centro di produzione, ammettendo i loro progetti a palcoscenici accreditanti dal punto di vista mediatico e di settore. Pensiamo che una simile tensione valga molto di più in termini di ricadute effettive sulla carriera degli artisti e delle artiste rispetto a forzare la mano sul quantificare per mera alzata di sipario il numero di presenze giovani, sganciandole da una analisi del contesto.
Certamente anche la questione dei lavori in progress è rischiosa e lo è allo stesso modo per gli autori maturi. Per inseguire la legge dei numeri, non si possono dopare i propri rendiconti di quantificazioni delle attività con una quantità smisurata di studi, giustificando un’incompiutezza che molto spesso si cronicizza. Tra l’altro si pone il grande problema dello sguardo: un operatore ha un occhio allenato per guardare un processo, ma se si pretende di spacciare a un pubblico generalista un lavoro non compiuto come un oggetto da condividere, senza fornirgli strumenti di comprensione, si ritorna a tradire quel patto col pubblico e ad abbassare di livello della qualità dell’intero sistema in un’ottica di filiera. Anche noi facciamo delle aperture al pubblico di alcuni progetti di residenza, ma è un pubblico contingentato al quale viene chiarito che stanno spiando qualcosa in costruzione e che partecipa a una visione in conversazione con gli stessi artisti.
I temi si intrecciano e sicuramente c’è anche una schizofrenia nelle richieste del sistema: perché se da un lato si pretende che ci sia un’attenzione maggioritaria alla nuova generazione autoriale – che per definizione ha meno esperienza e quindi ha più probabilità di rischiare di arrivare a con progetti non ancora maturi, non ancora compiuti –, dall’altro si chiede alla stessa fetta curatoriale di garantire e assicurare grandi presenze di pubblico e quindi di andare a colpo sicuro. Ecco, le due cose non coincidono. Si è bannato il termine di rischio culturale perché era una parola che spaventava probabilmente, dando adito a far passare per la programmazione culturale qualsiasi cosa senza tener conto forse di alcuni fondamentali. In realtà ci viene chiesto un rischio maggiore se diventa premiate mettere in scena persone che non hanno una maturità artistica e dunque un paragone, col solo obiettivo di accontentare un’anagrafica. Lo trovo assolutamente contrario alla crescita di una nuova generazione che tra l’altro non deve essere sostitutiva, ci deve essere un’integrazione nelle proposte, tema per cui ci siamo sempre battute anche sui tavoli.
Anche quello con la politica è un patto di fiducia che non gode di buona salute e che necessita di essere ristabilito. In seno ad AIDAP e in molti dei progetti che hai ideato, il tuo impegno si è rivolto al rafforzamento di una comunità artistica e di operatori e ad amplificarne la voce nel dialogo con le istituzioni. Qual è per te o quale dovrebbe essere la missione dell’advocacy nel comparto italiano della danza?
Il lavoro associativo negli ultimi anni è cresciuto tantissimo. Questo è sinonimo del bisogno di rappresentanza, di sentirsi parte di una comunità, soprattutto nell’ambito della danza, confinata nell’immaginario collettivo a una percezione pedagogica più che di professionalizzazione del sistema, per una questione di nuovo di numeri o di percepito. Dal covid in poi ci siamo accorti che anche la relazione tra i corpi in movimento e gli spazi, la relazione tra il teatro convenzionale e la danza, è stata invertita e si sono ampliati scenari e mondi possibili. Quello della danza è forse il comparto che ha più margine di evoluzione in assoluto, nel senso di scoperta di nuove forme e nuovi modelli sia gestionali che artistici. Proprio per questo si sente una forte responsabilità, da un punto di vista di possibilità e capacità, nel tentativo di trasmettere questa forza che viene dal basso e fare in modo che ai tavoli, o comunque nella relazione con chi si occupa di politica culturale, questo potenziale venga non soltanto capito, ma venga finalmente iscritto nei sistemi che ci regoleranno da domani in poi.
Ornella Rosato è giornalista, autrice e progettista. Direttrice editoriale della testata giornalistica Theatron 2.0. Conduce corsi formativi di giornalismo culturale presso università, accademie, istituti scolastici e festival. Si occupa dell’ideazione e realizzazione di progetti volti alla promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
In un’epoca in cui la tecnologia attraversa ogni ambito della nostra vita, anche la danza contemporanea trova nuove strade per raccontarsi, aprirsi e coinvolgere. Emotion APP, ideata dal Gruppo e-Motion, è un’applicazione che coniuga realtà aumentata, didattica del movimento e ricerca coreutica, proponendo un approccio inedito e accessibile all’esperienza del corpo in movimento. Non si tratta di una semplice app, ma di un vero e proprio strumento artistico, educativo e sensoriale.
Abbiamo intervistato Francesca La Cava, coreografa e ideatrice del progetto, per scoprire come nasce Emotion APP, come si articola il lavoro sui contenuti, e in che modo l’AR può amplificare l’espressività e la comprensione del linguaggio della danza.
Da dove nasce l’idea di utilizzare la realtà aumentata per avvicinare il pubblico alla danza contemporanea?
L’idea nasce dal contesto digitale in cui viviamo, dalla presenza pervasiva della tecnologia nella nostra quotidianità e dalla possibilità concreta di accedere a un finanziamento (il progetto è sostenuto dall’Unione Europea – Next Generation – Ministero della Cultura). Da tempo sentivo il desiderio di lasciare una testimonianza della mia ricerca nell’ambito delle pratiche performative e coreutiche. Ho scelto la realtà aumentata perché permette di arricchire l’ambiente reale con una nuova esperienza visiva e sensoriale, a differenza della realtà virtuale che tende a sostituirlo. Trovo stimolante l’idea che ognuno possa visualizzare differenti partiture fisiche in luoghi differenti, a propria scelta. Una volta deciso di usare l’AR, ho riflettuto sul formato da dare ai contenuti: inserire semplicemente i video degli spettacoli non avrebbe consentito una visione tridimensionale utile all’osservazione dettagliata del corpo in movimento. Ho quindi accolto la proposta della società Sjm Tech S.r.l., partner del progetto, di utilizzare la Motion Capture (Mocap) per registrare i movimenti di una danzatrice e creare il suo avatar. Ho coinvolto nel processo due artiste e socie dell’associazione, Maria Borgese e Stefania Bucci: insieme abbiamo selezionato il materiale da registrare e realizzato una guida per ciascuna consegna di movimento. Abbiamo arricchito i contenuti con testi, traduzioni e spiegazioni, per garantire un’esperienza davvero accessibile a chiunque.
Come ha influito la vostra esperienza coreutica e di ricerca sul movimento nella progettazione dei contenuti AR
Il progetto parte da un’analisi approfondita della pratica di movimento che utilizzo quotidianamente nella mia ricerca coreografica e nell’insegnamento della danza contemporanea. Il mio riscaldamento (Warm up) si fonda sulla ripetizione di azioni corporee nello spazio che, grazie alla reiterazione, si trasformano in partiture fisiche. Nascono dalla necessità del corpo di riconoscere la verità del suo agire. Dopo aver creato una mappa ampia di azioni, abbiamo selezionato ciò che ritenevamo essenziale trasmettere attraverso l’app. Il supporto scelto è stato quello di 12 carte stampate, ciascuna con una grafica che anticipa i contenuti. Il budget ci ha imposto un vincolo: otto carte dovevano contenere cinque azioni ciascuna, e quattro carte una partitura fisica ciascuna. Ma i limiti sono stati utili: ci hanno aiutato a focalizzare meglio la ricerca. Il materiale condiviso nell’app è frutto del desiderio di permettere a chiunque di partire dalle azioni quotidiane e dal naturale “fare” del corpo per trasformarle in danza.
Come sono stati selezionati i dodici temi delle carte? Qual è stato il criterio guida nella loro definizione?
Il criterio principale è stato includere nell’app alcune delle azioni corporee più semplici e quotidiane. Abbiamo adottato come approccio il concetto di semplessità, mutuato dalla biologia, che descrive la capacità degli esseri viventi di adattarsi alla complessità semplificandola. Pensiamo che l’apprendimento della danza possa avvenire tramite strategie semplici, istintive e individuali, capaci di aiutare ognuno ad affrontare la complessità del movimento a partire dalle proprie abilità. Seguendo questa direzione, la ricerca ha prodotto molto materiale che poi abbiamo selezionato e sintetizzato, conservando solo ciò che riteniamo fondamentale: l’osservazione degli animali e delle loro azioni fisiche; il flusso del movimento e la scrittura nello spazio; le azioni primarie del nostro corpo; la relazione con lo spazio che ci circonda; il gioco e la centralità dei sensi – tatto, vista, olfatto, gusto, udito.
Che tipo di contenuti si trovano nella piattaforma digitale? È pensata per un pubblico generalista o per chi ha già una base nella danza?
L’app è pensata per tutti. L’intento è far vivere la danza come linguaggio naturale, accessibile, che appartiene a ogni essere umano. Questo è il nostro obiettivo. Vogliamo che le persone possano usare il linguaggio del corpo con più libertà, oppure – nel caso di professionisti – che possano cambiare prospettiva rispetto al proprio modo di agire. Conoscere a fondo le possibilità del proprio corpo significa riscoprire e reimparare ciò che già ci appartiene. Il corpo è un archivio di memorie: accedervi ci permette di raccontarci, di continuare il nostro percorso di ricerca, trasformazione e crescita personale.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti per garantirti la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. These cookies ensure basic functionalities and security features of the website, anonymously.
Cookie
Durata
Descrizione
cookielawinfo-checkbox-analytics
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Analytics".
cookielawinfo-checkbox-functional
11 months
The cookie is set by GDPR cookie consent to record the user consent for the cookies in the category "Functional".
cookielawinfo-checkbox-necessary
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookies is used to store the user consent for the cookies in the category "Necessary".
cookielawinfo-checkbox-others
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Other.
cookielawinfo-checkbox-performance
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Performance".
viewed_cookie_policy
The cookie is set by the GDPR Cookie Consent plugin and is used to store whether or not user has consented to the use of cookies. It does not store any personal data.
Functional cookies help to perform certain functionalities like sharing the content of the website on social media platforms, collect feedbacks, and other third-party features.
Performance cookies are used to understand and analyze the key performance indexes of the website which helps in delivering a better user experience for the visitors.
Analytical cookies are used to understand how visitors interact with the website. These cookies help provide information on metrics the number of visitors, bounce rate, traffic source, etc.
Advertisement cookies are used to provide visitors with relevant ads and marketing campaigns. These cookies track visitors across websites and collect information to provide customized ads.