L’intervento curatoriale di Strabismi: fare comunità, costruire il futuro

L’intervento curatoriale di Strabismi: fare comunità, costruire il futuro

Da più di 10 anni il collettivo che anima la direzione artistica di Strabismi, interviene in maniera sostanziale sull’offerta culturale umbra.
Diverse sono le attività condotte da Strabismi, associazione nota per la realizzazione di spettacoli e per l’organizzazione di un festival multidisciplinare che nel corso del tempo ha fatto emergere e sostenuto il percorso di talenti oggi affermati sulle scene nazionali.
Questo processo di cura, però, si estende ben oltre il periodo festivaliero e caratterizza tutte le iniziative proposte, segno di una sensibilità artistica che intercetta nella proposta culturale uno strumento fondamentale per lo sviluppo della comunità e del territorio di riferimento. 

Rafforzare il senso civico e lo spirito critico delle giovani generazioni e creare concrete opportunità per percorsi artistici in fieri sono le matrici del nuovo corso inaugurato da Strabismi: da un lato il ritorno del Festival che inaugurerà a Perugia la sua XI edizione con una conformazione del tutto rivoluzionata, dall’altro un progetto di scoperta delle arti performative rivolto a studentesse e studenti delle scuole medie. 

Ne abbiamo parlato con Alessandro Sesti, regista, performer, direttore artistico di Strabismi.

Perché avete scelto di connotare il vostro lavoro con una simile visione curatoriale, cosa significa assumersi la responsabilità di un simile intervento? 

Quando abbiamo dato vita a Strabismi nel 2015 eravamo molto giovani, per il panorama teatrale italiano direi dei bambini, ma nonostante ciò avevamo percepito  un vuoto nella nostra regione per ciò che riguardava cura, sostegno e programmazione di giovani artisti.
La nostra intenzione iniziale fu di riempire quel vuoto creando un contenitore per ospitare e dare l’occasione di mostrare il proprio percorso artistico a tutti gli artisti emergenti che faticavano a trovare un’occasione quando muovono i primi passi. Pertanto tutte le nostre iniziative, da lì in avanti, hanno avuto tale unico vettore.
Ci siamo resi conto, edizione dopo edizione, che limitare il concetto di “emergente” al confine anagrafico dei 35 anni fosse un errore in quanto il percorso artistico non è sempre direttamente proporzionale all’età. Allo stesso modo ci siamo a lungo interrogati su cosa dovesse essere Strabismi in termini di ricaduta sociale sul territorio dove operavamo. 

Dopo i primi anni un po’ nomadi, finalmente abbiamo trovato casa in un piccolo paese umbro e lì abbiamo potuto esprimere al meglio ciò in cui credevamo: abbiamo dato vita a progetti di Direzione artistica Partecipata, progetti scolastici come StraBimbi, abbiamo creato un focus sui “giovani maestri” ovvero su quegli artisti che nonostante la giovane età hanno già un percorso artistico ben definito e soprattutto abbiamo potenziato il sostegno ai giovani artisti attraverso residenze autosostenute – Strabismi non ha mai fatto parte delle residenze artistiche nazionali – e collaborazioni con molte realtà artistiche del territorio nazionale. 

Una delle parole chiave che associo a Strabismi è continuità, proprio perché credo sia la grande assente per la nostra generazione. Siamo cresciuti e continuiamo ad invecchiare coscienti che “oggi sei utile, ma domani ci occorre qualcosa di più nuovo del nuovo”. Ogni anno assistiamo ad una proliferazione di bandi che cercano opere nuove, lavori inediti, concorsi che chiedono esclusive, insomma un meccanismo fagocitante dove a farne le spese è l’artista che probabilmente è stato confuso per una macchina a gettoni. Come si può costruire un percorso artistico di reale ricerca se cerchiamo sempre qualcosa di nuovo? Ed ecco che nascono e muoiono i famosi progetti “da bando” dove anche l’artista è costretto a perdersi per avere occasioni. 

Con Strabismi vogliamo che l’artista percepisca un senso di certezza, seppur piccolo, che lo spinga ad andare avanti sapendo che l’anno successivo presenterà ancora un suo lavoro nel nostro festival in Umbria, con un cachet adeguato e operatori partner per intercettare nuove occasioni. Anche per questo motivo abbiamo interrotto il meccanismo del bando e iniziato un processo di recupero di tutte le compagnie che avevano catturato il nostro interesse, ma che non eravamo riusciti a programmare. 

Crediamo che, oggi come oggi,  assumersi questa responsabilità sia necessario. Dare fiducia e occasioni a quelli che mi piace immaginare come “maestri del futuro” è però, credo, anche una vocazione: sull’under 35, da parte del Ministero abbiamo visto più e più volte delle modifiche nei piani organizzativi, ma se la mission è di sostenere i giovani vai avanti lo stesso, offrendo un servizio fondamentale per le nuove generazioni, perché sei cosciente che questo “non è un paese per giovani”. 

A proposito del Festival Strabismi. Le ultime edizioni hanno segnato un cambio di passo importante. Con lo spostamento dalla storica location di Cannara, il Festival ha assunto una nuova conformazione pur mantenendo le specificità che lo connotano fin dalla sua fondazione. In occasione della prossima edizione avete costruito il festival intorno a una serie di nuclei tematici di grande rilevanza sociale. Perché questa scelta e quali sono le aspettative riguardo all’impatto di queste iniziative sulla comunità perugina?

Le ultime due edizioni sono state di transizione, le abbiamo realizzate con l’ospitalità del Piccolo Teatro degli Instabili di Fulvia Angeletti e di Fontemaggiore, che ringraziamo. Abbiamo cercato di mantenere la nostra azione di sostegno alle giovani compagnie, ma altro non potevamo prevedere. Da quest’anno abbiamo potuto riprendere ad immaginare il futuro grazie alla collaborazione con Spazio Mai – Movement Art Is, che ci ha accolto nei propri spazi, in un progetto di residenza permanente. Spazio Mai è una realtà che da molti anni opera su Perugia e con la quale abbiamo trovato grande sintonia. 
Quindi possiamo finalmente dirlo, che dopo due anni di incertezze e difficoltà, oggi Strabismi Festival rinasce nel capoluogo della Regione, Perugia. 
Il motivo per cui abbiamo trasformato il festival in qualcosa di differente è relativo al territorio di riferimento, ma anche agli anni di Strabismi. Diciamo che ci eravamo dati come obiettivo quello di svecchiare il festival e di provare a immaginare qualcosa di differente in primis perché ciò che funzionava a Cannara, con ogni probabilità, non funzionerebbe a Perugia, ma soprattutto perché un festival di teatro (sia anch’esso multidisciplinare) inteso come una rassegna di eventi compressa in pochi giorni, oggi come oggi, a mio avviso è anacronistico e non in ascolto con il cambiamento che stiamo vivendo. 

Ciò cui abbiamo assistito negli ultimi 15-20 anni è stato un progressivo aumento di “festival vetrina” che sono certamente utili, ma non possono essere l’unica possibilità. Sono aumentati esponenzialmente anche i concorsi e i famigerati bandi per residenze e sostegni produttivi. Ciò che abbiamo perso nel tempo è il contatto con lo spettatore, ma non inteso come cittadino che acquista un biglietto e assiste a ciò che proponiamo, ma come fruitore attivo dell’offerta culturale. Abbiamo dimenticato la necessità di intendere il teatro come un veicolo utile a ricostruire una comunità di cittadini attivi e partecipi. 
Non ci sono colpe, è una constatazione dei fatti. Giriamo festival da artisti o da operatori e ci ritroviamo, ci riconosciamo fra di noi. Sono rari e preziosi gli esempi di luoghi dove questo non accade.
Perciò abbiamo cercato di creare un progetto che mantenga il sostegno alle giovani realtà, ma che richiami a sé la cittadinanza e soprattutto i giovani, di cui Perugia è grande attrattore essendo anche un’importante città universitaria. 

Quindi dopo il momento dedicato agli emergenti che prende il nome di Exotropia, inizierà il festival vero e proprio che avrà una durata di circa tre mesi, con eventi lontani fra loro nel tempo. Poiché crediamo anche che, al netto delle condizioni economiche sempre più precarie nel nostro Paese, c’è anche l’aspetto della mancanza di tempo per se stessi, che le nuove generazioni percepiscono molto chiaramente. Non siamo più disposti a “sospendere” la nostra vita per rincorrere una programmazione bulimica di eventi, questo credo valga per ogni manifestazione, non solo per il teatro. 
Riguardo i contenuti dell’XI° edizione di Strabismi festival, la prima a Perugia, abbiamo deciso di affrontare il tema dell’inquinamento ambientale e del cambiamento climatico, l’aumento dei casi di depressione e suicidi nei giovani adulti, la violenza di genere e la dipendenza affettiva e infine il bullismo e il bullismo omotransfobico nella dimensione scolastica. 

Di volta in volta intorno a questi argomenti costruiremo delle conferenze, dei panel in cui cittadini, studenti universitari, associazioni di categoria e rappresentanti delle amministrazioni cittadine e regionali possano confrontarsi, avere un dialogo, realizzare un documento utile a portare un cambiamento concreto nella dimensione sociale. Facile? Non lo credo affatto, ma se non puntiamo a qualcosa di ambizioso, in fondo, perché lo stiamo facendo?
Per entrare nello specifico della programmazione aspettiamo ancora un po’, ma una cosa possiamo già anticiparla. A Giugno, grazie alla collaborazione con Dance Gallery, storica realtà della città di Perugia, realizzeremo una Strabismi Festival Preview dove ospiteremo lo spettacolo vincitore del Premio Cantiere Risonanze 2024. 

Proprio con il Festival Strabismi avete avviato da diverso tempo un percorso di Direzione Artistica Partecipata che affida a giovani spettatori e spettatrici la selezione di alcuni degli spettacoli programmati, ma che si sostanzia soprattutto in un processo di avvicinamento alle arti performative. Avete poi esteso questa traiettoria a studenti e studentesse delle scuole di diverso grado del territorio. Qual è l’obiettivo principale della Direzione Artistica Partecipata (DAP) e come si è evoluta nel tempo, in particolare con l’inclusione degli alunni delle scuole medie nel processo di selezione e valutazione degli spettacoli?

Le DAP sono uno strumento che ormai tantissimi festival creano, curano e rendono parte integrante della propria progettualità. All’interno di Risonanze Network di cui Strabismi è partner, sono tantissime le realtà che considerano le DAP la normalità. Noi stessi l’abbiamo creata dopo aver conosciuto e visto questa pratica già attiva in altri festival come ad esempio Dominio Pubblico a Roma. Anche la DAP, purtroppo, è stata vittima del nostro addio a Cannara, poiché nel pieno di un processo di cambiamento obbligato non riesci a dedicare la giusta cura a un progetto così stratificato e complesso, ma ora siamo già a lavoro per costruire un nuovo gruppo che unisca i membri veterani con uno proveniente dal territorio perugino.

L’idea di estendere il progetto di DAP ai giovani delle scuole medie mi è venuta durante la pandemia. Allora c’era un grande affanno, tutti a trovare il modo di continuare a fare pur di non fermarsi. Ho vissuto quel periodo con particolare confusione e senso di inadeguatezza. Non mi sentivo a mio agio nel parlare di teatro attraverso un dispositivo, né tantomeno a chiamarlo con il suo nome. Quella cosa è stata un’altra cosa. 

Però, e qui l’idea, ci sono stati dei giovanissimi che hanno in un certo senso “saltato” due anni scolastici ritrovandosi catapultati dalla quinta elementare, in seconda media. Questi studenti appartengono alla Glass generation o alla Z generation, sono nati nell’epoca in cui tutto è smart e a differenza nostra non hanno vissuto il passaggio dall’analogico al digitale. Non è un caso o un lapsus il fatto che spesso chiamino “film” uno spettacolo visto attraverso uno schermo.
Da questi pensieri e ragionamenti ho strutturato un progetto di “Educazione alla visione”, che trasforma le alunne e gli alunni delle classi seconde nelle direttrici e nei direttori artistici della rassegna che sarà realizzata nella loro città. 

Il meccanismo è semplice: i giovani vedono una serie di spettacoli, di volta in volta, dopo la visione, si crea un dibattito in merito alla tematica, agli aspetti più tecnici e logistici legati all’ospitalità di quel progetto. Al termine sono chiamati a selezionarne uno o più, a seconda delle  disponibilità di Strabismi, e qui entriamo in gioco noi garantendo loro un rischio di impresa “protetto”. Loro scelgono come fossero dei direttori, ma è Strabismi a investire nelle loro scelte e offrire alla città quegli spettacoli, in replica mattutina per le studentesse e gli studenti e in replica serale per la cittadinanza. 

Qual è il ruolo curatoriale degli studenti nella scelta degli spettacoli da portare in scena, e in che modo questa partecipazione attiva contribuisce a rafforzare il loro senso di appartenenza alla comunità?

Credo che un simile processo crei un senso di responsabilità importante nei giovani e che soprattutto li porti a scoprire i meccanismi con cui si organizza una stagione teatrale o un festival, a dare meno cose per scontate e anche se il mondo gli ricorda ogni giorno che devono correre ed essere al passo con la “società dello spettacolo” possono anche fermarsi e confrontarsi per trovare “il meglio” da offrire alla propria città, ma in tempistiche lente e dilatate. Gli spettacoli selezionati infatti vengono poi portati dal vivo nel successivo anno scolastico, per necessità logistiche, ma anche per contrapporre il teatro alla pessima abitudine del tutto e subito.

Quest’anno stiamo già operando su Norcia, presso l’istituto De Gasperi – Battaglia (con il quale stiamo curando anche un progetto di teatro, legalità e musica, ma ne parlerò più in là) e stiamo sottoponendo loro spettacoli legati ai temi d’attualità più critici, notando, di anno in anno, quanto i giovani siano molto più consapevoli e inclusivi rispetto le generazioni precedenti.

Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III. Intervista a Gabriel Calderòn

Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III. Intervista a Gabriel Calderòn

Debutta al Piccolo Teatro di Milano Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III, il nuovo spettacolo del regista uruguaiano di fama internazionale Gabriel Calderòn con Francesco Montanari, attore unico di un monologo potente. L’ambizione di Riccardo per il trono d’Inghilterra si mescola fino a fondersi del tutto con quella di un attore di mezza età cui si spalanca per la prima volta l’opportunità di un ruolo da protagonista. Calderòn e Montanari danno luogo ad un’indagine senza spazi di riflessione sulla natura umana posta a tu per tu con l’occasione di una vita, ne abbiamo parlato con il regista.

Nel titolo dello spettacolo dai le prime informazioni allo spettatore, si tratterà della storia di un cinghiale. Perché il riferimento a questo animale? Cosa rappresenta nella tua drammaturgia?

Il simbolo del cinghiale torna nel dramma di Riccardo III perché in primo luogo richiama lo stemma della famiglia York. Per di più si tratta di un cinghiale bianco, che è una singolarità in natura, e mi colpiva come mi potrebbe colpire un cigno nero. Ma se il cigno nero è qualcosa di non particolarmente raro in natura, non capita invece di incontrare un cinghiale bianco, anche se perfettamente naturale. Cosa intendo dire? Che è qualcosa di raro, ma di insito in ognuno di noi, qualcosa che cerchiamo di contenere, proprio come l’ambizione di Riccardo. Questa era l’immagine iniziale: l’ambizione di Riccardo, la deformità di Riccardo, non erano qualcosa di raro, ma tutto il contrario, erano comuni.

Il cinghiale non è un animale strano, o particolarmente interessante, né tantomeno gradevole da vedere, se ne possiedo uno non vado certo ad esibirlo. Allora mi sembrava che lì ci fosse l’anima dello spettacolo: una cosa rara ma naturale e che non siamo orgogliosi di avere. Il Riccardo su cui io volevo lavorare poteva essere quel tipo di attore, un attore che tutti sappiamo esistere, però che raramente si vede nelle foto, con cui non ci congratuliamo, di cui non parliamo. Inoltre, al di là di questo, il cinghiale è un animale selvaggio, brutale, disgustoso, forte, è anche molto pericoloso e le metafore animali sono sempre molto presenti in Shakespeare.

Il tuo Riccardo, che è interpretato da un attore con caratteristiche fisiche molto lontane da quelle del personaggio di Shakespeare, sembra avere un aspetto molto più umano, perché hai scelto di fare questa inversione e qual era l’obiettivo?

L’intenzione era inizialmente quella di allontanarci un po’ dai preconcetti, ossia, quando uno va a vedere Riccardo III si aspetta una deformità, si aspetta un cattivo, e diciamo, per me questo era già presente perché, se è nella mente dello spettatore, noi non abbiamo bisogno né di confermarlo, né di sottolinearlo. La cosa interessante è iniziare a lavorare sull’idea preconcetta dello spettatore con alcune altre immagini, con qualche altra possibilità; in questo caso l’idea di avere un attore molto più, tra virgolette, normale, più vicino a noi, in cui deformità e cattiveria vengono da ciò che pensa, non dalla figura. In Shakespeare anche questo è molto comune, il deforme è una metafora, sebbene Riccardo lo fosse, però la deformità è una metafora del dramma, non una deformità reale. Si rappresenta sempre un Riccardo deforme, infastidito, arrabbiato, però forse in questi tempi di politicamente corretto, uno dovrebbe iniziare ad avere molta più empatia con quel Riccardo, no? Con quella persona con scoliosi, dall’aspetto sgradevole, che tutti allontanano, non scelgono. Allora, sarebbe interessante una versione di Riccardo dove lui è la vittima e non il carnefice. E questo è ciò che abbiamo provato a mettere in scena. Di per sé non c’è niente di originale, ma l’originalità viene dalla lettura di un’epoca. E nella lettura che propongo si tratta più di normalizzare o naturalizzare la deformità di Riccardo, la sua cattiveria, e cercare di trovarla in un territorio che conosco molto bene, o che conosco molto più del territorio dei re, cioè il territorio degli attori e del teatro.

Nel tuo spettacolo la drammaturgia ha un andamento molto denso, rapido, senza esitazioni. Che funzione ha la parola in un monologo con un ritmo così serrato?

La prima ragione è molto semplice, ed è perché a me piace così. Cercando di capire perché mi piacesse, mi sono risposto che credo che nella velocità si comprendano le cose in modo diverso che nella lentezza. Non c’è una cosa peggiore dell’altra, non è meglio andare più veloce, sì tratta di capire cosa ti piace della velocità. Per esempio, quando l’attore sta creando il suo personaggio ha bisogno di andare lento per comprendere via via. Invece io dico sempre, no, andiamo veloce e prendi quello che puoi. Non importa prendere tutto, importa quello che tu riesci ad afferrare. Se io ti dico, esci veloce da casa tua, fai in fretta e prendi quello che puoi, dopo quando saremo lontani da casa possiamo metterci a pensare perché hai preso quelle due o tre cose, e questo dice qualcosa di te.

Dopo c’è un’altra cosa, il ruolo della parola, cioè in questo caso non lasciarle tempo per spiegarsi da sola. Se io chiedo di dire “ti odio”, un attore generalmente cerca di motivare quell’odio. E se io vado a dire, dopo il “ti odio”, “ti amo”, l’attore deve fare un grande lavoro perché deve sostenere prima un odio e dopo un amore. Allora, il lavoro dell’attore diventa molto faticoso perché deve capire logicamente perché pronuncia quelle parole. Ma quando il lavoro è in velocità non c’è tempo e così non serve sistemare il corpo, impostare una reazione prima. In un certo senso, questo succede anche allo spettatore. E a questa velocità la parola diventa fondatrice del dramma e non conseguenza del dramma. Allora, la parola diventa promotrice di azione.

In un certo senso lo spettatore sta ricevendo e ricevendo, ad un tratto finisce lo spettacolo, deve uscire e dice, beh, adesso devo andare a lavorare con tutto questo perché non mi hanno lasciato tempo per decidere. Questo tipo di spettacolo è quello che a me piace fare. A me piacciono gli spettacoli che mi sfidano nella capacità di immagazzinamento che ho nel mio occhio, nel mio cervello e nel mio cuore. Regista, attori, datemi qualcosa, io dopo decido, non dirmi come gestire questo, come deve cadere questo, quanto è importante questo. Lasciami uno spazio in cui io faccio il lavoro. Quando si allestisce uno spettacolo con questa intensità e a questa velocità è fastidioso molte volte per lo spettatore. Lo spettatore vorrebbe andare un pochino più lento, godersela, però beh, per quello c’è la vita. Per quello il tempo è di tutti, e per tutti diverso: ognuno lo decide.

C’è una frase di Heiner Müller in Tutti gli errori in cui si dice che bisogna caricare sullo spettatore la maggiore quantità di informazione possibile. Che sia lui a decidere cosa si porterà via e cosa lascerà. È un modo di dare potere alla parola. Se la parola è lì, come proiettile, allora posso usarla per affondare, ossia, per promuovere azione e non per confermarla.

C’è poi un’ulteriore ragione che ho notato osservando i miei figli. Molte volte io arrivo a casa e dico ai miei figli cosa stanno facendo, e loro spesso mi rispondono niente. E io li vedo che stanno disegnando con la tv accesa mentre guardano un tablet lì accanto. Allora, loro mi dicono niente, però stanno facendo tre o quattro cose alla volta. Questo lo vedo tutti i giorni con i miei figli ma succede in tutto il mondo. Tutto il mondo dice, sono annoiato e nel frattempo sono al cellulare a parlare con amici che sono in un altro paese mentre sto comprando un mobile online. Ossia, io credo che il cervello, l’occhio e l’attenzione si siano allenati a ritmi elevati e molte informazioni. Però a volte a teatro è come se entrassimo in un tempio in cui ci diciamo, no, adesso tranquilli, ritorniamo alla lentezza. E io credo che il tempo e la lentezza del processo siano una delle possibilità del teatro, ma non l’unica, e io devo giustificare un’altra velocità, cioè un’altra possibilità a teatro. Ed è un modo per caricare informazioni sul pubblico. Quando questo spettacolo finisce io sento che gli spettatori hanno bisogno di tempo, hanno bisogno del bar. Io poi chiaramente amo il teatro, mi piace moltissimo e mi piace andarci, però chiedo sempre quanto dura l’opera, e se dura più di un’ora e mezza, c’è qualcosa dentro di me che muore. Ora, a me piace il teatro, ma perché voglio starci poco? Mentre io risolvo questo dilemma, so che questo mio cervello è uno dei cervelli dello spettatore. Allora parlare velocemente è anche un modo di arrivare ad uno spettatore come me prima che vada via, prima che perda l’attenzione.

Riccardo III, come molte delle opere di Shakespeare, presenta decine di personaggi, laddove tu hai scelto di mettere in scena un solo attore. Quali sono le sfide di una riduzione così drastica?

Ogni volta che appare qualcosa che non è possibile fare, allora è interessante per il teatro. Se no è semplicemente una ricetta, mi annoia, è già fatto, che lo faccia chiunque. Allora, ogni volta che appare uno spazio di impossibilità, il teatro ha una possibilità. Ha una possibilità di fare teatro, non di essere una buona traduzione. Questo è il primo termine. Il secondo termine, il bello di lavorare con i classici, è che ci sono molte informazioni che sono già nella testa della gente. E se non sono nella testa della gente, è un lavoro, è un debito che loro portano. Venire a vedere un adattamento di un’opera di Shakespeare e non sapere niente, beh, significa che hai grandi possibilità di uscire confuso. L’altra cosa è avere molto da fare, è una buona possibilità per non fare. Sembra una libertà. Se tu hai una cosa da fare, devi farla. Ora, se ne hai 27, beh, andiamo a vedere cosa puoi fare. E questo è l’interessante di essere un attore: farai 39 personaggi, e poi si vedrà, va bene? Allora diciamo che per me vale la regola, quanto più impossibile è l’impresa, quanto più impossibile è il progetto, più possibilità c’è di successo a teatro. Questo sembra un controsenso, però l’obiettivo del teatro non è tradurre, non è spiegare. Il teatro deve, diciamo, teatrare, deve fare teatro.

E allora, fare teatro ha molto più a che vedere con l’impossibilità. Noi non andiamo a teatro a vedere Amleto. Non esiste Amleto. Quello che vogliamo vedere è un attore che ci prova, e vogliamo vedere se gli riesce bene o gli riesce male. E se gli riesce male, cosa molto probabile, abbiamo cose da commentare dopo al bar. Se gli riesce bene, usciamo tutti come sorpresi, non riusciamo a crederci. Questo perché sappiamo che il buon teatro è molto difficile. L’usuale è cattivo teatro. E beh, allora questa è un po’ la ragione che mi motiva a dire che un attore che fa tutti i personaggi è un’impresa impossibile. E allora dai, andiamo a fare questa battaglia, nello stile di Riccardo III. Nel teatro, per me, è molto più importante il tentativo di fare qualcosa che il successo di farlo. E la gente viene a vedere quel tentativo.

Ora, Lagarce ha scritto un’opera che si chiama Le regole del saper vivere nella società moderna. È un monologo prezioso in cui una dama dell’alta società dà le regole per saper vivere da quando si nasce a quando si muore. È impossibile. Dice come nascere, come fare i primi passi, come innamorarsi, come sposarsi. Tutto è regolato. La vita non è così. Però è interessante per il tentativo di Lagarce di regolare tutto: è meraviglioso. Non appena ci si pone un obiettivo così grande, l’impresa diventa interessante, difficile, magari anche fastidiosa. Ma c’è abbastanza soddisfazione pronta all’uso targata Netflix per poter essere anche fastidiosi. Il teatro ha altre emozioni che non hanno a che vedere con la soddisfazione.

A proposito della funzione del teatro, qual è lo stato attuale del teatro in Uruguay? Quali sono le differenze principali che hai notato lavorando in Italia con una realtà come il Piccolo Teatro di Milano?

In Uruguay ci sono molti teatri e siamo un paese con una grande tradizione teatrale, di teatro indipendente. Lo Stato non sovvenziona alla maniera europea. Non ci sono teatri pubblici che producono teatro, bensì programmano gruppi indipendenti e non li pagano. Vivere di teatro è qualcosa che in Uruguay non si può fare, salvo qualche eccezione. Tutti gli artisti che io amo, ammiro, i miei maestri che hanno dedicato la loro vita al teatro, fanno altri lavori, in banca, danno lezioni, in una scuola. Così è come si fa teatro in Uruguay, le prove sono alle 20:00/21:00 perché è quando tutti escono dal lavoro e possono incontrarsi. Questo fa sì che il teatro sia una cosa molto passionale, molto seria. Questo dà molti svantaggi, ma anche alcuni vantaggi. Il primo è che nessuno fa teatro per denaro. Ma questo è anche un grande limite perché in questo modo il teatro diventa qualcosa di molto duro, perché se lavori tutto il giorno, alle 20:00 ti piacerebbe andare dalla tua famiglia, o dal fidanzato, dagli amici. Invece noi andiamo in una sala teatrale e proviamo fino a mezzanotte. Allora il teatro inizia a diventare una cosa per cui se non sei molto convinto, lo abbandoni, perché non ha senso, nessuno ti paga e in più ti toglie le migliori ore del giorno. Quindi posso dire che in Uruguay, come si Argentina e in Cile, si incontrano realtà teatrali piccole, di grande qualità, però non sovvenzionato, né sostenuto, né economicamente redditizio.

L’Uruguay ha attrici e di attori di grande talento, e dato che il sistema è indipendente, un attore medio in Uruguay arriva ai trenta o quaranta anni avendo recitato in venti, trenta spettacoli professionali con pubblico. E questo ti dà una muscolatura molto forte, un attore, un’attrice che ha venti spettacoli professionali alle spalle all’età quarant’anni, si sente, si vede nell’allenamento. La mia situazione è di un certo privilegio, perché io sono riuscito a lavorare fuori. Però a parte questo, l’Uruguay è un paese stabile, è un paese politicamente tranquillo, non ci sono guerre, non ci sono disastri naturali, è lontano dal centro economico del mondo perché siamo a sud, però è un paese con una qualità della vita alta.  Per quanto riguarda la possibilità di lavorare al Piccolo, invece, per prima cosa senti la consapevolezza di entrare in uno spazio mitico, un grande teatro europeo. Ho trovato molte, molte persone impegnate a fare teatro, ed è stato un piacere per me stare lì, lavorare nei laboratori, nella sartoria, nella scenografia. Essere un artista dell’Uruguay con un’idea pazza di fare qualcosa e vedere che tutta la macchina si mette in moto per produrre quello spettacolo per me è stato davvero una grande fortuna.

Della solitudine di Cassandra. Intervista a Elisabetta Pozzi

Della solitudine di Cassandra. Intervista a Elisabetta Pozzi

Il mito di Cassandra lascia sempre una sensazione amara: l’essere investiti del dono di vedere con chiarezza e prima di chiunque la realtà di ciò che sarà, la condanna a non essere creduti, la solitudine e l’impotenza, la cecità dell’essere umano. In Cassandra o dell’inganno, regia di Massimo Fini, Elisabetta Pozzi attraversa e va oltre il mito, ponendo l’accento sui molti cavalli di Troia che, in maniera più o meno consapevole, abbiamo lasciato entrare nelle nostre vite. Ne abbiamo parlato con la stessa interprete.

Quali sono i cavalli di Troia che oggi stiamo lasciando entrare nelle mura della nostra società? E, soprattutto, esiste un elemento, un denominatore comune delle criticità del nostro tempo a cui abbiamo aperto le porte della città?

Il comune denominatore è l’incapacità di accorgerci di un processo che ci depaupera della nostra umanità. Ci troviamo all’interno di uno strano vortice che ci porta via, che ci stacca dal tessuto reale della nostra vita. In ogni epoca questo è avvenuto per ragioni differenti, ma il denominatore comune è sempre lo stesso. Se analizziamo la storia dell’ultimo secolo, dall’ultima grande guerra, abbiamo avuto la percezione di tranquillità, di benessere. In particolar modo dopo la Seconda Guerra Mondiale è penetrata nelle nostre case l’idea di un mondo che diventava più semplice da vivere mentre si svincolava anche dalle istituzioni, dal pensiero che la donna dovesse essere chiusa in casa, lavorare per la famiglia e nient’altro. Ha avuto inizio così un’era che si pensava avrebbe migliorato la nostra vita grazie al progressivo aumento del benessere, semplificando e rendendo tutto facile.

E invece mi sono resa conto in prima persona che ormai non abbiamo più la capacità, ad esempio, di addentrarci in una città senza l’uso di un GPS, abbiamo perso alcune facoltà che erano nostre, anche se bisognava dedicarci tempo e impegno. Facilitare in maniera esagerata la vita dell’essere umano non ha migliorato la situazione. La gente mi sembra sempre più fuori di testa, presa dalla smania delle cose da fare. Inseguendo l’obiettivo del benessere, della semplificazione della vita, ci siamo trovati in un’esistenza molto più complessa.

Fino allo scoppio del conflitto in Ucraina, la guerra per l’Europa era qualcosa di lontano. E anche adesso che ce la siamo ritrovata un po’ più vicina non ci sentiamo implicati, non ci riguarda più. Sì, magari facciamo delle donazioni, ma credo che piano piano la facilitazione, l’aver introiettato questo benessere, averlo fatto nostro e deciso di goderlo, ci stia disumanizzando, privandoci della capacità di rapportarci all’altro in maniera adeguata. Questa tendenza è cresciuta in maniera spaventosa negli ultimi anni, e sta raggiungendo anche ciò che prima era scampato a questa ondata di superficialità. Il cavallo di Troia è questo. L’abbiamo acquisito, abbiamo approvato il suo ingresso.

Volendolo o no, ad esempio, ci siamo ritrovati in mano lo smartphone e adesso non c’è possibilità di farne a meno. Lo trovo spaventoso, le persone sono inghiottite. Non che prima vedessi tutte queste persone dedicarsi alla lettura, però ci si scambiava due parole, si iniziavano delle piccole discussioni. Ci tengo a sottolineare che non è la nostalgia a parlare, è un problema di perdita della qualità specifica dell’essere umano, cioè la capacità di comunicazione interpersonale. Il dramma è che quello che noi abbiamo accettato per semplificare le comunicazioni tramite la tecnologia in realtà le sta appannando, le sta lacerando, minimizzando, involgarendo. Arriverà un momento in cui assisteremo a una mutazione perchè nell’arco del tempo una specie cambia, si modifica, però ciò che qui stiamo modificando è la qualità umana, le nostre capacità di immaginazione.

Io dirigo la scuola del Teatro di Genova e negli ultimi due anni abbiamo avuto dei problemi spaventosi perché questi ragazzi – non tutti ma molti – hanno una grande difficoltà a immaginarsi, immaginare sé stessi come altro da sé, immaginare un altro mondo. Se il gioco del far teatro è finzione, è il “far finta di” – io faccio finta di essere una principessa, come si faceva da bambini, o un principe, un guerriero, un soldato – questa formula non si può più usare perché i giovani non sono in grado di “far finta di”. È una sensazione per me davvero di grande pena – lo ripeto – per la perdita di questa meraviglia che è l’essere umano, cioè la capacità cognitiva dell’uomo di mettere insieme i pezzi, di scrivere, di leggere, di disegnare, di inventare mondi. L’acquisizione di questo mondo facilitato, più leggero, più semplice, in realtà ha confuso e ha messo al tappeto l’essere umano.

Lo spettacolo prende le mosse dalle parole di alcuni grandi autori, da Eschilo a Seneca, da Ghiannis Ritsos a Wislawa Szymborska, fino a Augè e Baudrillard. Esiste oggi un profeta, una Cassandra contemporanea che ha ravvisato i segnali di questa mutazione che tu descrivi degli esseri umani?

Gran parte degli autori di fantascienza – penso ad Orwell, Wells, Bradbury, Huxley – avevano già percepito ciò che poteva accadere. La scomparsa della realtà, per esempio, è un tema molto interessante, già sviluppato da molti scrittori nel secolo scorso. Nel loro immaginario un mondo tecnologico e virtuale si trasforma in una realtà altra che si sovrappone al reale e fa perdere il contatto con esso, con quello che succede. Tanti dei problemi attuali derivano dal fatto che i canali attraverso cui passa l’informazione non possono essere decifrati con facilità, tanto che non è possibile capire quali siano le notizie vere. Ed è un meccanismo meraviglioso – lo dico in senso satanico -, è fantastico sapere con precisione come rendere la gente del tutto priva di possibilità di giudizio.

Cosa sappiamo davvero di ciò che sta combinando Trump? Se diamo retta alla maggior parte dei media, sta prendendo provvedimenti che sembrano appartenere ad un film distopico: l’annessione del Canada agli Stati Uniti, il muro in Messico, far diventare Gaza un resort. Poi ti capita di leggere una testata d’altro genere e capisci che queste sono fake news. Viene meno la capacità di discernimento e in questo modo l’essere umano viene sottomesso. Il dissenso è nella pratica impossibile ormai: su cosa si può dissentire se non si sa che statuto di verità ha quella notizia?

Su Cassandra grava la pena di conoscere senza poter essere mai creduta. Esiste un antidoto alla sua condanna? C’è un modo oggi per accorgersi del cavallo di Troia e spezzare questo meccanismo di perdita della qualità umane?

Bisogna rimanere il più possibile autonomi, cercando le vie per realizzare se stessi. Realizzarsi vuol dire restare vivi, accendersi, riuscire a comunicare davvero, non diventare liquidi. Questa è la paranoia che, più o meno intorno al 2011, ho cominciato ad avere e che mi ha spinto a discutere con Massimo Fini, uno dei pochi intellettuali che ancora ragiona in maniera lucida. Il mito di Cassandra ci domanda: “è possibile che si diventi così ciechi da non vedere ciò che abbiamo di fronte?” Cassandra, sapendo di non poter essere creduta, rimette la scelta ad ognuno di noi e questo è il suo dono per un futuro diverso. Il futuro lo si crea in un istante, nel momento preciso in cui si decide di prendere in mano una situazione, di tentare una via diversa. Sto leggendo spesso notizie di gruppi di giovanissimi, soprattutto nel nord Europa, che ricominciano a incontrarsi evitando l’uso di tecnologie di ogni genere, ricominciano a vedersi, a studiare insieme, a parlare, a giocare, ad andare a sentire musica. Credo che da noi prima che si possa arrivare a questo passerà molto tempo, se mai si arriverà all’idea del rifiuto di questa trappola. Come da testo, torna la metafora dell’essere umano che «è ormai diventato un minuscolo ragno al centro d’una immensa tela che si tesse ormai da sola, e di cui è l’unico prigioniero».

Totale, cosa rimane di una coppia. Intervista a Pier Lorenzo Pisano

Totale, cosa rimane di una coppia. Intervista a Pier Lorenzo Pisano

Tirare le somme di una relazione, di una storia d’amore che dura da diversi anni, è forse un’impresa impossibile. Come impossibile e forse non auspicabile è evitare la trappola, resistere alla tentazione di cercare una spiegazione unica ed esaustiva, quelle formule alchemiche che legano e separano due anime. Questo sembra l’obiettivo dei due protagonisti di Totale, interpretati da Gioia Salvatori e Andrea Cosentino, andato in scena al TeatroBasilica di Roma.
Il pubblico in sala fa presto ad affezionarsi ai due poli, ai due termini di questa coppia che, mentre strappa qualche risata, dimostra tutto il sentimento, l’impegno e la pazienza messi in una relazione che alla fine ha visto sfasciarsi. Ne abbiamo parlato con l’autore del testo e regista Pier Lorenzo Pisano.

Perché hai deciso di scrivere e di mettere scena uno spettacolo che parla di amore, di relazione di coppia? Da cosa è nata l’idea?

L’idea dello spettacolo è nata da un’installazione che ho creato tempo fa: uno scontrino lungo metri che riporta tutti gli acquisti fatti da una coppia. Per ogni acquisto c’è una breve storia e, alla fine dell’elenco e della relazione, c’è un totale. Cranpi, i produttori, l’hanno visto e mi hanno chiesto di sviluppare uno spettacolo a partire da quell’idea. Totale è nato da quell’oggetto, che poi ho rielaborato per raccontare un’altra storia, quella della personaggi interpretati da Andrea Cosentino e Gioia Salvatori. L’originale parlava di una coppia più giovane, quindi le voci degli acquisti erano diverse, così come i temi che sollevavano. Invece lo spettacolo è stato scritto su di loro e per forza di cose il tipo di relazione che affronta è differente. Credo comunque che il cuore molto emotivo del testo sia rimasto.  

Quindi quando hai scritto il testo sapevi già che sarebbero stati Gioia Salvatori e Andrea Cosentino ad interpretarlo? 

Sì, li conoscevo e apprezzavo già come attori. Dopo aver proposto loro di partecipare allo spettacolo ci siamo chiusi in sala prove per qualche giorno. Ho cominciato a scrivere e ho fatto loro leggere alcune bozze. Poi ho buttato giù il copione da solo e ci siamo rivisti mesi dopo, quando il testo era già pronto. Comunque Totale è scritto su misura per loro, tenendo a mente il loro modo di parlare e di fare. Per questo dico che lo scontrino era solo il nucleo, il resto del testo l’ho sviluppato pensando a come loro avrebbero messo in scena la storia. Il modo in cui funziona lo spettacolo in un certo senso li prepara all’interpretazione, perchè inizia con Gioia Salvatori e Andrea Cosentino che si costruiscono i personaggi. Loro inventano le loro storie e ne discutono. A ogni replica fanno un percorso: creano la storia e si innamorano, formano e rompono la coppia ogni sera.

Lo spettacolo, infatti, mostra soprattutto all’inizio una componente metateatrale molto forte, delle lunghe scene in cui i due attori giocano a inventare da zero i due personaggi che si sono appena incontrati. Più si va avanti nella rappresentazione, però, più questo aspetto si perde. Perchè? 

I due interpreti sono due autori-attori e mi sembrava interessante metterli nella posizione di creare la storia. Sono dei panni che sono abituati a vestire e mi interessava mostrare una sorta di processo creativo in diretta, per quanto prestabilito dal copione. Ma, una volta gettate le fondamenta dei protagonisti e della relazione, loro la vivono e basta; la storia d’amore prosegue per conto proprio, di scena in scena. Anzi, continua anche fuori dai confini della scena, come se ormai i personaggi appartenessero alla realtà, come se fossero indipendenti. Quando tirano le somme alla fine, fanno riferimento anche a momenti che noi non abbiamo visto

Però questa tendenza torna un po’ sul finale, loro riflettono su quello che è stato. E a proposito di questo, sembra quasi che il personaggio di Andrea Cosentino lasci aperto uno spiraglio alla loro storia d’amore. Il finale è aperto? 

No, il finale è chiuso: è già stato scritto. Esiste già un totale, lo scontrino è già stampato dalla prima scena, è solo in attesa di essere srotolato. Così come gli elementi di scena: c’è già tutto, è solo nascosto dietro le tende. E anche i costumi, sono già lì, coperti da una tuta neutra. Loro scoprono in scena, con sincerità ed emozione, una storia che è già tracciata. Nell’inizio c’è già la fine, viene detto. C’è qualche tentativo di cambiare il finale da parte di lui, ma restano tentativi. Forse però c’è una speranza, anche se irrealistica: che un giorno l’universo possa ricominciare da capo, riavvolgersi su sé stesso, e che loro possano rivivere tutto quello che è stato. C’è qualcuno che spera davvero che questo possa succedere nelle storie che vive, ma per loro avviene a ogni replica.

Nello spettacolo si fa spesso riferimento alla storia del mondo e dell’Universo, a un’era “trilobitica” in cui tutto era fermo e gli esseri viventi si amavano senza consapevolezza. Qual è il significato di questa immagine? 

Volevo che il rapporto tra i due personaggi non si basasse su un classico conflitto tipico delle storie d’amore. I protagonisti rappresentano due tendenze quasi più cosmiche che umane: da una parte la tendenza a restare, alla stasi assoluta, a voler tenere tutto fermo affinché le cose non finiscano mai e per tenere lontana la morte e dall’altro lato invece la tendenza all’evoluzione, all’espansione dell’Universo, al conflitto inteso come sviluppo della storia. Per me era più interessante mettere una coppia su questi due binari opposti piuttosto che farli confrontare su un piano emotivo e sentimentale.

La scenografia di Totale, curata da Rosita Vallefuoco, è molto espressiva, gli oggetti di scena sono in prevalenza in bianco e nero e vogliono sembrare bidimensionali, piatti. Qual è la ragione di questa scelta? 

Anche la scenografia è un richiamo al processo della scrittura. Loro stanno scrivendo la loro storia, quindi è come se inventassero e disegnassero anche scene e costumi. All’inizio sono solo due figure che emergono da uno sfondo nero, non c’è nulla. Poi tutto comincia a comparire quando lo nominano, con un rapporto con la parola quasi magico. La parola è creatrice, rende le cose vere a tal punto che i personaggi e gli attori ci restano dentro. E il bianco e nero sono anche un richiamo alla musica, agli spartiti, ai tasti dei pianoforti. La componente musicale, sviluppata insieme a Francesco Leineri, è molto importante, e li porterà poi a scrivere insieme la loro canzone.

Qui e altrove. La rifrazione social dell’esistenza in RMX

Qui e altrove. La rifrazione social dell’esistenza in RMX

Lo vediamo accadere tutti i giorni: i confini tra reale e virtuale sono sempre più labili. Stare al mondo, oggi, corrisponde a essere qui e altrove contemporaneamente: a farci dono dell’ubiquità sono gli smartphone con cui documentiamo la nostra esistenza e spiamo il vivere altrui. Dunque è possibile costruire il proprio essere sociale prescindendo dalla rifrazione social di ciò che siamo? E cosa accade se reel, selfie, loop abdicano allo schermo per irrompere nella costruzione drammaturgica di una performance?

Se lo chiedono Pietro Angelini, attore e regista, e Karlo Mangiafesta, artista multimediale e performer, ideatori del concept di RMX, rilettura contemporanea del mito di Narciso, portata in scena dai danzatori Francesca Santamaria e Vittorio Pagani. Uno studio sulle declinazioni del corpo e della sua immagine nell’epoca digitale, nutrito dalla cooperazione tra giovani artisti dalla spiccata cifra autoriale.

Ne abbiamo parlato con Pietro Angelini, regista di RMX che il 1° marzo incontrerà il pubblico del Teatro del Lido di Ostia. 

RMX affronta la permeabilità tra il mondo virtuale e quello reale, a partire da una rilettura del mito di Narciso. La nostra è una società bifronte che costruisce la propria narrazione di sé online e offline, con strumenti di comunicazione e di relazione che, seppur difformi, rintracciano nel protagonismo una fonte comune. In quale specchio d’acqua riflette l’immagine dei personaggi di RMX?

Se nel mito di Narciso lo specchio d’acqua era naturale, quello di RMX è digitale: la superficie touch screen dello smartphone in cui, attraverso la telecamera frontale, i personaggi vedono la loro immagine rappresentata. Da qui comincia il loro viaggio che li porta a sprofondare in questo lago fatto di pixel, risucchiati alla stessa maniera in cui il dispositivo risucchia il nostro tempo e la nostra attenzione. Un viaggio generativo di estetiche ed effetti ipnotici. 

Nel lavorare a RMX avete riunito artisti che conducono, in maniera individuale e in questo caso collettiva, una ricerca di stampo fortemente autoriale. In che modo le diverse autorialità sono state poste al servizio del processo creativo?

RMX è l’incontro di più artisti differenti, il concept originale è nato da me e Karlo Mangiafesta durante una residenza creativa nel contesto di Playtime a Spazio Mensa, a cura di Gaia Petronio e Sebastiano Bottaro, il cui obiettivo era far incontrare per una settimana di residenza un artista performativo (in questo caso io) e uno che si occupasse di arte visiva (Karlo Mangiafesta) e capire cosa potesse nascere. Il successivo trasferimento di Karlo a Madrid ci ha portato poi a proseguire a distanza il lavoro iniziato durante la residenza, continuando sempre a confrontarci ma da quel momento ho preso in mano io il timone della regia, decidendo anche di non essere più in scena, come previsto inizialmente. 

Il lavoro vede in scena Francesca Santamaria e Vittorio Pagani, abbiamo deciso di lavorare con questi due bravissimi danzatori per dare spazio al lavoro sul corpo che infatti domina la prima parte dello spettacolo e riesce a controbilanciare così la seconda parte, in cui si assiste a una vaporizzazione del corpo con le immagini che prendono il sopravvento. Ognuno con le sue competenze è stato fondamentale nel processo creativo, sicuramente il dispositivo digitale che domina la seconda parte l’abbiamo esplorato molto io e Karlo sin dall’inizio e il contributo dei danzatori in questo è stato necessario per amalgamare, legare, far reagire i loro corpi a quel dispositivo, mentre la prima parte è stata interamente creata dai danzatori con la mia supervisione.

Come è intervenuto sulla scrittura l’utilizzo degli smartphone come dispositivo drammaturgico?

Gli smartphone sono collegati in tempo reale al computer attraverso un programma di mirroring che si chiama Reflector, tutto quello che accade sullo smartphone è specchiato su un computer legato a un proiettore. Attraverso questo circuito abbiamo scoperto per esempio che se si proietta con lo smartphone ciò che viene ripreso si crea un loop,  o quello che nella videoarte degli anni 70 prende il nome innesco, vale a dire che nell’immagine si crea un buco infinito, come fosse uno specchio davanti a uno specchio. Questo effetto, così come anche il riverbero, il rewind e tutti gli escamotage tecnici hanno contribuito alla scrittura di RMX che è una scrittura per immagini.

La specificità della creazione performativa, coreutica e multimediale che determina i vostri percorsi artistici trova una sintesi corale in RMX. Da cosa deriva la scelta di adottare tali, molteplici linguaggi?

Ci sono sicuramente più specificità che si sintetizzano in RMX in maniera corale, siamo singoli artisti ma lavoriamo spesso insieme, ci coinvolgiamo a vicenda nei nostri lavori, c’è una stima reciproca e un’amicizia. La scelta di adottare molteplici linguaggi è stata una scelta naturale legata alla mia formazione altrettanto molteplice, utilizzare il video a teatro per me è ormai imprescindibile perché fa così tanto parte della nostra vita che è come domandarsi perché usare la musica o le luci in scena, sono tutti elementi che oggi abitano nello stesso spazio sia a teatro che fuori. 

In The third wave il sociologo Alvin Toffler inventa il neologismo prosumer, una crasi tra produzione e fruizione quali atteggiamenti coesistenti nel consumatore che nell’epoca dei social network ha dato vita a un genere mediale inedito, quello dei contenuti generati dagli utenti. Il pubblico, fruitore di RMX, che ruolo ha? Detiene una parte attiva?

Sì, siamo partiti proprio dal concetto di prosumer, infatti i nostri personaggi prima di agire in scena con la tecnologia, la subiscono. Ci interessava, nella loro traiettoria, contrapporre l’utilizzo passivo e attivo del mezzo. Il pubblico di RMX osserva e fa il suo viaggio, è uno spettacolo ipnotico così come lo è lo smartphone per gli esseri umani, quindi si ricrea quella dinamica. 

Andrea Argentieri, nel labirinto di Manson

Andrea Argentieri, nel labirinto di Manson

“Io sono dentro ognuno di voi”. Parola di Charles Manson, condannato quale mandante della strage di Cielo Drive, in California, che avviene tra l’8 e il 9 agosto 1969 in cui muoiono l’attrice Sharon Tate, 26 anni, incinta all’ottavo mese e altre 4 persone presenti nella villa. Alla controversa figura di Manson, musicista mancato, figlio di una prostituta, iniziato al crimine fin dall’adolescenza e fondatore della setta religiosa Manson Family, a cui appartengono gli esecutori materiali del pluriomicidio, Fanny & Alexander, compagnia teatrale fondata nel 1992 dal regista Luigi De Angelis e dalla drammaturga Chiara Lagani, hanno dedicato lo spettacolo Manson. Protagonista Andrea Argentieri, lo spettacolo è andato in scena al Teatro Rasi nell’ambito della Stagione curata dal centro di produzione Ravenna Teatro.
De Angelis e Lagani scelgono un impianto narrativo di forte impatto, un radiodramma sonoro in 3d che, nel buio della sala, scandisce sinteticamente le fasi in cui il delitto avviene, per poi consegnare la figura di Manson, seduto su uno sgabello e immerso nella potente luce rossa, al pubblico in sala, nella veste inedita di giuria postuma.

Anche questa volta, come già in I sommersi e i salvati, Argentieri si fa medium, corpo che viene attraversato dal personaggio. È il Manson istrionico, scomposto e ferino, farneticante, a volte grottesco, persino comico nelle sue smorfie. Iperbolico, capace di cambiare aspetto man mano che gli ci si avvicina, pericoloso, proprio in forza di questa ambivalenza perché capace di attrarre e disorientare.
Il pubblico dovrà fare a Manson le stesse domande che gli sono state rivolte nel corso delle interviste che ha rilasciato durante la sua lunga detenzione, durata 45 anni. Lui risponderà in lingua inglese, con il marcato accento dell’Ohio. Se le risposte di Manson-Argentieri saranno le stesse date quando lui era in vita, a cambiare sarà invece il modo del pubblico di stare a teatro. Attraverso le domande che pone, infatti, esce dalla modalità passiva tipica dello spettatore, ed è chiamato a interrogarsi esso stesso su ciò a cui sta assistendo. 

La modalità interattiva, come dichiarato più volte da De Angelis e Lagani nel corso delle interviste in questi ultimi anni, permette a chi assiste di scegliere il modo in cui porsi di fronte allo spettacolo e al tempo stesso di essere consapevole dell’irrevocabilità di quel gesto, decidendo di porre una domanda anziché un’altra nella lista che viene consegnata agli spettatori prima dell’inizio dello spettacolo. Una decisione su cui non si potrà più ritornare. Si accentua così la dimensione di evento irripetibile.
Ma riguardo Charles Manson, che sfida rappresenta per un attore portare in scena un personaggio così oscuro? Ne abbiamo parlato con Andrea Argentieri

Da quali fonti hai attinto per conoscere il personaggio di Manson? Libri, articoli di giornale, testimonianze, biografie…?

Andrea Argentieri: Lo spettacolo Manson è basato sulle interviste che Charles Manson ha rilasciato durante il corso della sua vita in carcere, quindi il mio principale materiale di studio sono state le sue interviste, ho osservato molti video e soprattutto ascoltato a lungo la sua voce.
In più mi è stata molto utile la lettura di Your Children, così intitolata la stesura della sua dichiarazione integrale al processo che lo condannò alla pena di morte il 25 gennaio 1971, che poi fu abolita nel 1972 dallo Stato della California, condannando Manson all’ergastolo. Oltre a questo testo ho letto anche Helter Skelter di Vincent Bugliosi, avvocato dell’accusa e Manson in his own words, libro scritto dallo stesso Charles Manson insieme all’autore Nuel Emmons
Queste sono state letture salienti, ma il fulcro della mia concentrazione è stato rivolto all’osservazione e all’ascolto dei materiali video presenti su fonti on line, come ho già fatto per altri progetti di mimesi, come ad esempio Se questo è Levi. 

Come ti sei preparato ad interpretare il personaggio? Ho letto che per la voce sei stato affiancato da un coach dell’Ohio e che hai seguito una metodologia Actor’s Studio per affrontare la parte. Quali le difficoltà, sia tecniche che psicologiche? In cosa ti sei sentito invece agevolato? Ad esempio avevi già recitato in lingua americana o inglese?

A.A.: Manson è nato grazie all’ospitalità e alla collaborazione di un luogo che ho nel cuore, l’ex Istituto Psichiatrico Paolo Pini di Milano, nel quale per oltre due settimane intense mi sono immerso nella grana della voce di Charles Manson. Questo con non poca difficoltà. Quando si affronta un personaggio del genere bisogna fare i conti non solo con lui, ma anche con se stessi. Dai primi ascolti della sua voce ho intuito subito che non sarebbe stato un attraversamento semplice. 
Sarebbe stato facile saltare sul cavallo dell’istrionismo e fare il matto, specialmente durante i suoi momenti di euforia o agitazione, ma sarebbe stata una caratterizzazione, mentre la mia intenzione da subito è stata quella di lavorare sulla questione del bassorilievo, secondo cui mi faccio veramente tramite della voce di Manson connettendomi intuitivamente alla sua esigenza di parlare. 
Nel momento in cui il corpo e la mente fanno spazio a un’altra voce succede una cosa strana: la voce cambia, il corpo si muove diversamente, ma senza una perdita totale del controllo. Avviene come una sedazione dalla quale appare Manson, ma in cui sono presente anche io e il risultato è simile a quello di una scultura nella quale le figure sono rappresentate su un piano di fondo con un rilievo ridotto rispetto alle sculture ad altorilievo e a tuttotondo. 

Tramite il metodo dell’eterodirezione della compagnia Fanny & Alexander io ascolto la voce di Manson, e me ne faccio tramite all’istante sia fisicamente che vocalmente attraverso quella che io chiamo una possessione controllata. Questa volta al fine di avvicinarmi il più possibile alla figura di Manson ho anche cercato di modificare il mio aspetto fisico nella vita di tutti i giorni, facendo crescere barba e capelli e seguendo una dieta ferrea per perdere peso e impersonare al meglio un corpo abituato alla vita in carcere. La divisa da carcerato che indosso durante lo spettacolo è un dono dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini; era una delle uniformi che indossavano gli ex pazienti psichiatrici, questo per me ha avuto molto significato. Il viaggio di Charles Manson è un viaggio nella psiche. 

Manson era una persona estremamente intelligente ed anche estremamente manipolatoria, sicuramente molto complessa mentalmente, anche per via delle esperienze di vita, per la sua infanzia e soprattutto per il carcere. Di termini a riguardo se ne potrebbero facilmente usare, come schizofrenico o bipolare, ma a me personalmente non hanno mai interessato le definizioni dirette della psiche umana, perché la reputo più ampia.  
Ad ogni modo per me non è stato facile muovermi all’interno del suo labirinto, perché il rischio è che da un labirinto non è sempre facile uscire, ma in questo mi hanno aiutato le parole di un caro amico e bravissimo psichiatra che da anni lavora all’ex Istituto Psichiatrico Paolo Pini: Thomas Emmenegger, il quale afferma che del labirinto non bisogna avere paura, bensì accoglierlo. Dunque mi sono addentrato nel labirinto.

Sviscerare la lingua inglese è stato fondamentale. Al fine di incarnare al meglio il dialetto dell’Ohio, parlato da Charles Manson, ho avuto l’occasione di lavorare con un musicista americano, David Salvage, originario di quelle zone, e sua moglie Gabriella Gruder Poni, che mi hanno aiutato a muovermi nei meandri della lingua di Manson. Per fortuna l’inglese è una lingua che ho sempre sentito molto vicina per vari motivi e che ho sempre parlato fin dall’infanzia avendo anche parenti americani. All’inizio non è stato facile perché la lingua parlata da Manson non era proprio lineare, ma dopo poco non ho avuto problemi con l’aggancio mentale.

Che cosa rappresenta il personaggio di Manson nel tuo percorso artistico? Tu hai interpretato ad esempio Primo Levi, che al contrario è un personaggio di grande coraggio e forza per la sua testimonianza sulla Shoah: è importante per te la versatilità?

A.A.: Manson rappresenta una tappa fondamentale nel mio percorso artistico. Per fortuna è arrivato ad un punto della mia carriera d’attore e di performer in cui ho acquisito una consapevolezza scenica maggiore, perché per affrontare Charles Manson in scena bisogna essere molto saldi. Per me ha rappresentato il mettermi seriamente in gioco a livello psichico. La versatilità è molto importante. Sicuramente Levi e Manson sono due figure molto lontane fra loro, ma comunque affrontano un tema comune: il male, indagando e interrogando le forze che spingono l’uomo a commetterlo. 

Vuoi descrivere le fasi della realizzazione dello spettacolo? Quale è stato il punto di partenza?

A.A.: Il punto di partenza è stata l’intuizione del regista Luigi De Angelis, che come nel caso di Se questo è Levi, ha capito che avrebbe potuto lavorare con me su Charles Manson. Insieme abbiamo deciso che non c’era altro luogo se non l’ex Istituto Psichiatrico Paolo Pini per farlo nascere. Abbiamo fatto una residenza dove abbiamo effettuato vari esperimenti fino ad arrivare al risultato finale, grazie anche all’intervento drammaturgico di Chiara Lagani. 
Durante quel periodo la colonna sonora delle mie giornate era il White album dei Beatles, molto amato da Charles Manson, che ancora oggi ascolto in camerino in fase di preparazione prima di ogni replica di Manson. Lo spettacolo ha debuttato proprio lì, al Teatro La Cucina.

La parte interattiva dello spettacolo, con cui il regista De Angelis rende partecipe il pubblico con le domande in diretta, rende il lavoro ancora più difficile, perché immagino che le stesse domande vengano fatte ogni volta in ordine diverso…

A.A.: Per me fa tutto parte del vincolo di verità. Sono felice che il pubblico crei la drammaturgia delle domande a seconda di come se la sente, ogni volta l’andamento è diverso, proprio come se realmente Manson incontrasse una giuria diversa ogni volta. 

Cosa dice il personaggio di Manson al mondo di oggi?

A.A.: “Am I responsible for your children?” (“Sono io responsabile dei vostri bambini?). Credo che Charles Manson potrebbe rispondere in questo modo a questa domanda. Ovviamente gli omicidi commessi dalla “Family” di Manson non possono essere trascurati e infatti è anche il punto di partenza dello spettacolo di Fanny & Alexander
Lo scopo delle domande del pubblico però non sono solo le risposte di Manson, ma anche le risposte che diamo a noi stessi. Prima di diventare degli assassini i suoi seguaci erano i figli dei propri genitori, cosa gli è successo per commettere tali omicidi, e cosa è successo a Charles Manson? È lui il vero mostro? Dal labirinto di cui ho parlato prima ho appreso che è anche una questione di contesto e non solo del singolo individuo. 
Fra l’altro per me c’è una grande riflessione sulla situazione delle carceri di tutto il mondo, Manson ci ha vissuto tutta la vita e sicuramente ciò ha condizionato la sua esistenza profondamente. A cosa serve veramente il carcere se vissuto come un luogo di sofferenza, tortura e perdizione fisica e mentale? Tutta questa sofferenza cosa genera veramente? In questo momento nel mondo stanno avvenendo vicende atroci, basti pensare ai conflitti in Libia, o la situazione in Palestina che sta raggiungendo delle vette di morti inaudite. Cosa stiamo facendo noi per impedire veramente tutto questo? 
Qualsiasi crimine va condannato, ma purtroppo ce ne sono tanti nel mondo di cui i grandi potenti della terra non se ne stanno veramente occupando, o peggio ancora sono loro gli stessi artefici di tali atrocità.