Stiamo lavorando per voi (ci scusiamo per il disagio), il cantiere performativo di Claudio Larena

Stiamo lavorando per voi (ci scusiamo per il disagio), il cantiere performativo di Claudio Larena

Ad arricchire la programmazione del Romaeuropa Festival torna anche quest’anno la rassegna dedicata alla scena teatrale emergente Anni Luce, sotto la direzione di Maura Teofili. Per l’occasione abbiamo intervistato Claudio Larena, autore e performer dello spettacolo Stiamo lavorando per voi (ci scusiamo per il disagio) in cartellone il 3 e il 4 ottobre presso gli spazi del Mattatoio.

Lo spettacolo prende le mosse dalla visione abituale del cantiere stradale come ingombro, cercando di rileggerlo come luogo quotidiano del nostro spazio urbano: da cosa è scaturita l’esigenza di decostruirlo dalla sua funzione originaria e, anche attraverso lo spazio del teatro, volerlo raccontare in una maniera differente?

L’esigenza che sta alla base di questo testo è nata quasi per caso, da un pensiero che è nato ormai forse due o tre anni fa. Avevo montato questa struttura abusiva, clandestinamente, nella piazza d’ingresso del Mattatoio, che è questo enorme spazio a Roma dove ci sono diverse istituzioni culturali. La cosa che mi aveva più colpito è il fatto che questa struttura, che era una teca in legno con delle sculture all’interno, non era stata vandalizzata. Eppure era una scultura che non aveva nessuna motivazione, nessuna giustificazione per stare lì, non c’era nulla che dicesse che cosa o di chi fosse. Spesso incontravo delle persone che la commentavano dicendo “chissà da chi ha ricevuto i permessi questa struttura per essere qua”, e credo che pensassero che fosse della Facoltà di Architettura o del Mattatoio, o ancora del MACRO. La cosa in realtà più eclatante è stata quando un’amica che lavorava al MACRO, e quindi partecipava alle riunioni organizzative, mi ha raccontato che durante una riunione del MACRO il direttore diceva di voler togliere la struttura per organizzare un evento nella piazza ma pur avendo chiamato la Polizia Municipale, il Comune, nessuno paradossalmente poteva rimuovere la struttura dato che “era a norma”.

Questa situazione è stata un po’ per me l’inizio del pensiero di Stiamo lavorando per voi (ci scusiamo per il disagio) che nasce proprio come pensiero sull’occupazione legittima di suolo pubblico, e l’occupazione legittima di suolo pubblico la ottieni se ti appropri di un’estetica legale, che in questo caso è quella della cantieristica, un’estetica che è istituzionalizzata, nel senso che è riconosciuta. Se tu ti appropri di quell’estetica e la vai ad applicare in uno spazio pubblico probabilmente non succederà niente, tant’è che infatti tutti i primi esperimenti sono stati esperimenti di occupazione di suolo pubblico, occupazione che era l’occupazione preventiva di un cantiere. 

All’interno del cantiere accadevano delle cose che andavano a creare in qualche modo un cortocircuito, perché non era effettivamente un cantiere ma accadeva dell’altro, eppure non veniva notato, quel luogo poteva stare là, noi eravamo legittimati ad occupare una porzione di spazio pubblico, illegalmente, però consentita dato che ci stavamo appropriando di un’estetica legale e normalizzata. Da lì è nato anche un discorso sull’osservazione, sull’osservazione del circostante, su ciò che notiamo, ciò che non notiamo, e il cantiere di base è sempre un potenziale spazio immaginifico dove non sappiamo quello che sta succedendo. È sempre lì e lo diamo per scontato perché diamo per ovvia la funzione di contenitore, cioè ciò che contiene i lavori in corso e finiamo per basarci solo su quello.

Quindi partendo da questo avete provato a trasformare la funzione standard del cantiere come fucina, come luogo di creazione anche di altro. Lo spettacolo poi presenta due differenti versioni, è stato concepito in un primo momento per lo spazio pubblico e solo dopo all’interno di un teatro. Com’è avvenuto questo passaggio?

Sì esatto, il progetto è nato nel e per lo spazio pubblico, e chiaramente ci siamo accorti che alcune cose, che lì funzionavano, nello spazio teatrale avevano un risultato diverso. In un teatro la finzione la diamo per assodata, quindi nella scrittura della versione teatrale ci siamo soffermati sulla superficialità, intesa non come essere superficiali ma come ciò che sta in superficie. Un cantiere, anche se non accade nulla all’interno, è effettivamente un luogo esposto, quindi ciò che avviene per forza di cose non può nascondersi perché è in superficie; la versione teatrale è andata un po’ verso questa direzione ed è diventata quasi un manifesto della superficialità. Ovviamente il messaggio che vogliamo lanciare non ha niente a che fare con lo stare in superficie e non agire, non fare nulla, ma al contrario rendersi conto di quanta complessità ci sia già in superficie, e soprattutto di quanto già la superficie porti con sé la profondità. La profondità non è un pensiero che apre una ricerca che bisogna fare su ciò che necessariamente non conosciamo, ma su ciò che è già qui: il cantiere nella scrittura teatrale è diventato metafora di questo pensiero.

Nella performance questo discorso è portato avanti giocando anche sulla questione dello sguardo: il cantiere è un luogo da cui ciascuno passando cerca di rubare con lo sguardo qualcosa di nascosto, infatti, sono luoghi un po’ proibiti anche se pubblici, e nella vita reale come nello spettacolo arriva il solito anziano con le mani raccolte dietro la schiena a cercare di scoprire qualcosa.

Sì, diciamo che è come se il cantiere rappresentasse un luogo di lancio di una serie di possibilità, di pensieri che sono però immediatamente rivolti ad un ipotetico pubblico che è un pubblico di passanti, un pubblico di persone che incontrano il cantiere. I cantieri li incontriamo sempre, quindi è un po’ come se anche volendo idealizzare al massimo questo pensiero volessimo proporre il cantiere come luogo di dibattito, come luogo di confronto e come luogo di esposizione di una serie di pensieri e di proposte che magari a volte rimangono chiuse. In questo modo invece ci siamo sforzati di pensare ad un luogo in cui qualsiasi cosa fai puoi essere vista, perché sei in superficie. Poi ovviamente nel lavoro cerchiamo anche di contraddire questa cosa e quindi di fare in modo tale che il cantiere (proprio dal punto di vista fisico nello spettacolo) si apra oppure si chiuda, permettendo ad alcuni discorsi di essere trasparenti al pubblico e ad altri di rimanere nascosti.

Questo aprire e chiudere è ben rappresentato nel vostro lavoro grazie al gioco continuo delle quattro pareti, in questo caso delle grate che vengono continuamente riassemblate per creare immaginari coinvolgenti o esclusivi per il pubblico. Questo effetto è amplificato dal ruolo della parola: che spazio ha avuto nella costruzione dello spettacolo?

Una cosa che è emersa e su cui poi abbiamo avuto modo di lavorare stando in sala, durante una fase di ricerca, va in parallelo con il pensiero del cantiere come luogo che viene dispercepito, dato per scontato; questo discorso ci ha un po’ permesso di associare la figura del cantiere alla figura della persona. Da lì la questione del come veniamo percepiti: il cantiere viene percepito come luogo di cui non ci chiediamo che cos’altro potrebbe essere, noi sappiamo che un cantiere è un cantiere, che lì ci sono dei lavori in corso, sappiamo che un cantiere di base si apre e si chiude e che quando si chiude teoricamente dovrebbe portarci soddisfazione. Allo stesso tempo alimentiamo tutta una serie di desideri o di aspettative, chiedendoci come migliorerà la città, oppure al contrario di lamentele perché dovrebbe essere un luogo all’interno del quale si trasforma il contesto urbano e quindi se poi quel contesto urbano non si trasforma in meglio io mi lamento. Tutte queste riflessioni che si fanno attorno a un cantiere, che sono le stesse riflessioni che poi si pongono effettivamente gli umarelli, che sono gli anziani che guardano il cantiere, sono riflessioni che abbiamo trasposto su una sfera più personale, individuale.

Io che costruisco la mia vita ogni volta che compio un gesto, mi chiedo, quel gesto rimane nella percezione dell’altro? Come faccio ad essere costantemente novità, come faccio, dicendo oggi voglio essere questa persona, voglio cambiare questi comportamenti, questi caratteri, a non essere intrappolato nella percezione che gli altri hanno di me? La questione è come io mi comporto o come l’altro mi percepisce? Dov’è che si crea l’impasse per il quale effettivamente la novità poi non la vediamo, non la percepiamo, non ci sembra che ci sia tanto nel cambiamento della persona quanto nelle cose che ci stanno intorno? È per una questione di percezione personale oppure è perché effettivamente quella cosa non sta cambiando e sta rimanendo tale? Quindi il lavoro in fase di scrittura ha un po’ attraversato queste riflessioni e in questo modo è stato anche possibile spostarsi su una sfera che era più individuale e personale.

Di attese e promesse. Cosa cambia? Le novità politiche dello spettacolo dal vivo

Di attese e promesse. Cosa cambia? Le novità politiche dello spettacolo dal vivo

Oltre a rappresentare il patrimonio materiale e immateriale di un paese, la cultura è un termometro capace di misurarne la temperatura politica. In questo senso, i radicali cambiamenti che hanno investito l’Italia, l’avvenuto passaggio di testimone e di bandiera, hanno fatto trapelare una volontà di restaurazione che interessa in maniera sfaccettata le condizioni di vita e di lavoro dei cittadini e delle cittadine. E il comparto culturale non ne è affatto escluso.
Con un Codice dello Spettacolo ancora in attesa, un nuovo Decreto Ministeriale alle porte e delle assegnazioni che hanno fatto gridare all’allarme – fatto salvo per dei reintegri che confermano i meccanismi di funzionamento finora vigenti –, a un passo dal nuovo triennio ministeriale nel settore artistico-culturale regna l’incertezza. Quali sono, dunque, gli scenari futuri che ci attendono? 

Abbiamo provato a fare chiarezza in questa conversazione con Francesca D’Ippolito, Presidente di C.Re.S.Co – Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea, una delle realtà più attive a livello nazionale in materia di raccolta di istanze collettive e interlocuzioni istituzionali.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a uno spostamento radicale dell’assetto politico italiano che ha lasciato prefigurare una ridefinizione del settore culturale. Quali sono gli scenari futuri?

Pensando agli ultimi anni, mi ha colpito tantissimo il ricorso quasi quotidiano al termine identitario.
Anche per mezzo delle direttive europee, delle opportunità offerte dai bandi, il pensiero artistico e culturale è stato plasmato positivamente in termini di inclusione, di modalità di ingaggio, di sviluppo di pratiche innovative, mantenendosi in apertura e in dialogo con altre nazioni, con altri mondi. Questo riferirsi continuamente, come si trattasse di una sorta di mantra, a tutto ciò che è identitario, che rafforza la nazione, mi sembra – tanto in fatto di ripercussioni politiche, quanto a livello culturale e artistico – un’inversione di marcia molto pericolosa.

Le artiste e gli artisti hanno dimostrato che la contaminazione è sempre una risorsa e non un limite, sicuramente mai un pericolo: si pensi all’ibridazione tra i generi (danza, teatro, circo), o alla diffusione dell’utilizzo del digitale e delle nuove tecnologie, che ha offerto ad esempio la possibilità di moltiplicare le connessioni artistiche. 
Ecco, se dovessi sintetizzare la tendenza che più mi spaventa sarebbe questa: l’idea di cultura unicamente come espressione di una nazione e non più di mondi da esplorare.

Quali scenari futuri? Il migliore possibile è quello in cui il settore culturale insorge artisticamente, continuando a mettere in circolo linguaggi e pratiche inedite, in grado di elaborare questo presente così veloce. La paura, invece, è che per intercettare finanziamenti, favori o per entrare nelle corti del Re, si inciampi. Speriamo che gli artisti e le artiste, a differenza di come alle volte è avvenuto in tempi passati, non si pieghino a certi claim da campagna elettorale, da propaganda.

Che tipo di interlocuzione politica avete condotto in funzione del nuovo Decreto Ministeriale?

Il mese di luglio è stato molto positivo perché la Direzione Generale Spettacolo ha indetto tre incontri tecnici in cui erano presenti Agis, Federvivo e C.Re.S.Co, a riprova che l’interlocuzione con il direttore Parente e con il livello tecnico non si è mai interrotta. Sembravamo essere giunti alle soglie della pubblicazione del D.M.: si era parlato di un lavoro di confronto tra Direzione Generale e parte politica nel mese di agosto ed eravamo sicuri che a settembre avremmo visto circolare delle bozze. Dalle dimissioni del Ministro Sangiuliano in poi, non abbiamo saputo più nulla e temiamo che i tempi si prolungheranno ancora. L’aggravante è che a una tardiva la pubblicazione del D.M. potrebbe corrispondere un ritardo nei termini della domanda, con inevitabili ripercussioni sulle assegnazioni e quindi sugli operatori, che si troverebbero ad affrontare un nuovo triennio senza sapere per tempo su che tipo di dispositivo normativo improntare la progettualità triennale. 
Questa condizione rende il sistema ancora più fragile, più insicuro. Come organizzatrice, la parola che sto sentendo circolare più spesso tra le colleghe e i colleghi è prudenza. La prudenza, quando è sinomino di incertezza e timore, non può generare innovazione né sostegno al rischio culturale, diventando un freno che rischia di impattare fortemente sulla salute del sistema, e dunque su artisti e artiste. 

Dal punto di vista del Codice dello Spettacolo, la situazione è ancora più paradossale. Riferendomi all’esperienza di C.Re.S.Co, posso dire che già nel 2016 abbiamo dedicato l’Assemblea Nazionale alle idee degli operatori per una legge di settore, lo abbiamo fatto ancora in pandemia nel 2020, poi appena è finita l’emergenza pandemica siamo tornati a parlarne nel 2021 a Torino: mille incontri e nessuna bozza di testo ad oggi, contrariamente a quanto era stato annunciato durante la primavera. Siamo quasi al mese di ottobre e non è accaduto nulla. 
Per giunta, non possiamo non segnalare che le modalità di consultazione avvenute lo scorso marzo non hanno permesso un vero confronto con le sigle: la possibilità di dialogo è stata infatti molto risicata, con incontri svolti in presenza di centinaia di operatori provenienti da mondi diversi, dalla moda al gaming e allo spettacolo del vivo, includendo grandi soggetti privati, piccole realtà, senza creare un terreno comune di confronto. Lo trovo abbastanza preoccupante. 

Se posso aggiungere un altro dettaglio rispetto al reintegro, nel momento in cui tutti hanno cominciato a preoccuparsi giustamente dei tagli, come C.Re.S.Co. abbiamo cercato di fare chiarezza: il problema per noi era ed è politico, come dimostra una riduzione totale dei contributi di oltre 7 milioni. Per la prima volta negli ultimi dieci anni non solo le risorse stanziate nel bilancio statale 2024 per il FNSV non state pari all’anno precedente ma addirittura in significativa diminuzione. In aggiunta, abbiamo dichiarato una forte preoccupazione per l’entità delle dotazioni in alcuni settori e per alcune valutazioni di Qualità Artistica da parte delle Commissioni, che hanno penalizzato maggiormente i settori a più alto tasso di innovazione e sperimentazione: ad oggi il reintegro è stato annunciato verbalmente, ma non c’è un documento certo che ne attesti modalità e tempi. C’è un impegno da parte del Governo, di cui tutti ci fidiamo, ma sono ormai trascorsi diversi mesi. Al momento abbiamo tra le mani soltanto una promessa.

Quali sono le principali proposte integrative o di modifica avanzate da C.Re.S.Co. in vista del nuovo D.M.?

Tralasciando gli aspetti più tecnici, l’istanza fondamentale che abbiamo avanzato non ha riguardato principalmente le singole tipologie di soggetto come ad esempio Teatri Nazionali, Tric, Centri di produzione. Abbiamo lavorato sull’impianto generale, su tutti i meccanismi e le regole del sistema previste dal Capo 1 del D.M., chiedendo innanzitutto una semplificazione dell’impianto normativo poiché negli anni, in assenza del Codice dello Spettacolo, si sono stratificate tante modifiche che hanno trasformato il D.M. in un piccolo Arlecchino con tante toppe colorate su un vestito ormai logoro. 

L’accumulazione di vincoli, norme, lacci, impedisce chiarezza, trasparenza e semplificazione. Abbiamo lavorato per una maggiore predisposizione del sistema all’innovazione e alle nuove generazioni, facendo inoltre fortemente leva sul riequilibrio territoriale, un tema rilevante guardando all’attuale fotografia del sistema del finanziamento pubblico e ai divari tra nord, centro, sud e isole, ma ancora di più tra capoluoghi e aree interne o di provincia. E ci siamo occupati dell’iperproduzione, nell’ottica di aumentare gli spazi di programmazione, di far sì che le produzioni possano avere un reale mercato e una circuitazione sostenibile dal punto di vista ambientale ed economico.
Volendo riassumere i temi cardine della nostra proposta: semplificazione, trasparenza, permeabilità, riequilibrio territoriale, ricambio generazionale, contrasto all’iperproduzione attraverso un sistema sano di programmazione in rete, una logica di filiera.

In merito ai possibili cambiamenti che interesseranno il settore, che grado di consapevolezza hai rilevato nel comparto artistico? Ritieni che vi sia una volontà di aggiornamento volta a comprendere le dinamiche incombenti nell’ottica di essere pronti, meglio preparati ai tempi che verranno? 

In questi anni, non mi è parso sempre questo l’istinto più diffuso, anche alla luce della situazione in cui siamo. Forse perché, vivendo una condizione di costante precarietà, abbiamo la tendenza come comparto a pensare al singolo caso e sempre meno in ottica di sistema.
Se dovessi raccontare uno dei progetti che ho più a cuore dei miei ormai quattro anni di presidenza di C.Re.S.Co., parlerei sicuramente di C.Re.S.Co. Studia. Nel realizzarlo, ho pensato che l’unico modo per creare in primis dentro di me una coscienza e poi una consapevolezza che potesse farsi collettiva, fosse maneggiare i dispositivi normativi, prendere confidenza anche con questioni molto ostiche come leggi e regolamenti per poter intrattenere un dialogo alla pari con i burocrati. Lorenzo Milani diceva che è la lingua che fa uguali. Abbiamo bisogno anche di conoscenze tecniche, se si conoscono poco i propri diritti si fa fatica a reclamarli.

Prestare attenzione a capire in quale punto si genera l’equilibrio tra le cose, in virtù di un benessere collettivo, può sembrare un’utopia ma in realtà è l’unico mezzo per giungere a una reale riforma di sistema. Il rischio che si corre altrimenti – ed è lo stesso rischio che stiamo correndo con il D.M. in arrivo – è che si tratti dell’ennesima collezione di minuscole e parziali risoluzioni che potrebbero frammentare ancora di più un comparto già totalmente disomogeneo come il nostro.

L’1 e il 2 ottobre si terrà a Prato l’assemblea nazionale 2024 di C.Re.S.Co, dal titolo “I nostri giorni felici”. Perché avete scelto di indagare il tema della felicità con i vostri promotori, ponendovi in controtendenza con la cupa incertezza delle manovre politiche in attuazione?

In un tempo di strazianti e molteplici crisi come il nostro, siamo consapevoli che sia molto rischioso intitolare in questo modo un’assemblea. Qual è il principio che ha ispirato questa scelta? Ci siamo guardati negli occhi e ci siamo reciprocamente chiesti “come stai?”. Le risposte hanno sempre a che fare con la stanchezza, con la demotivazione, con la frustrazione. Allora ci siamo detti che forse l’unico modo per rispondere a criticità importanti è provare a farlo attraverso la felicità personale e collettiva. Non può dirsi felice un pianeta che non gestisce il cambiamento climatico, che lascia morire i migranti in mare. Allo stesso modo non può dirsi felice un sistema in cui tutte le lavoratrici e i lavoratori hanno la stanchezza e il burn out come compagni di viaggio quotidiani.

L’idea è di concederci il rischioso privilegio di fermare tutto per due giorni e riservarci il tempo per costruire insieme il decalogo di una politica culturale sana, equa… e quindi anche felice. Il titolo scelto per l’edizione di quest’anno del Festival Contemporanea è L’emozione prima della sommossa. Voglio prenderlo in prestito e adeguarlo per spiegare il tema della nostra assemblea: felicità come presa di coscienza, una felicità propedeutica alla sommossa. È come dire che per fare la rivoluzione bisogna essere in salute perché ci sarà tanto da fare. Proviamo a ritemprarci per approcciare a tutte le riforme di sistema anche con uno sguardo più visionario, per evitare di concentrarci unicamente sulle urgenze del presente senza progettare un futuro più sostenibile. In fin dei conti, l’unico modo per farlo ci sembrano proprio la felicità e il benessere.

Teatro-danza e yoga, un circuito di continue risonanze

Teatro-danza e yoga, un circuito di continue risonanze

Danzatrice, allieva di Monica Francia e di Masaki Iwana poco più che ventenne, oltre che collaboratrice di Silvia Rampelli, responsabile della compagnia Habillé d’Eau, creata da Iwana nel 1996. Ma anche assistente coreografa del regista Romeo Castellucci per il progetto Tragedia Endogonidia dal 2002 al 2007.

Classe 1975, laureata in Conservazione dei Beni Musicali, Francesca Proia unisce la passione per la danza e la coreografia alla pratica yogica intesa come ricerca poetica appoggiata sulle tecniche sottili di cui ci parla nell’intervista. I suoi lavori coreografici, l’ultimo dei quali How to grow a lotus, frutto di un percorso di ricerca condiviso con il Teatro delle Moire di Milano, sono stati fin dall’inizio connotati dal supporto concettuale e sensoriale dello yoga. Allo yoga sono dedicate peraltro diverse sue pubblicazioni, tra le quali ricordiamo Declinazioni yoga dell’immagine corporea, (Titivillus, 2011); La strada collettiva (Il Vicolo Editore,2015) oltre al debutto online nel 2016 con il progetto Mìnera, scuola di yoga in absentia; La cattura del respiro: Piccola guida yoga del signor Pranayama per le Edizioni del Girasole, nel 2017, e l’ultima, dal titolo Yoga – La composizione delle tecniche per una pratica viva, ed. Astrolabio Ubaldini, del 2022.

Partiamo dalla pratica yoga e dal suo rapporto con la danza e l’elemento coreografico e con quello teorico-filosofico. Come si sviluppa una performance abitata da così tante dimensioni? Qual è il tuo punto di partenza e quand’è che intuisci di essere arrivata a una sintesi? 

In questo momento sono molto interessata a indagare come la pratica di un gruppo di persone possa diventare performance/coreografia senza che i performer perdano l’intento interiore proprio dello yoga, il suo tipico permeare la coscienza. È necessario perciò creare strutture coreografiche che inquadrino in una poetica lo stato di vera concentrazione intensiva di chi è in scena. Bisogna lavorare per sottrazione, togliere proprio tutto ciò che visivamente colleghiamo allo yoga, ed è proprio questo l’aspetto stimolante. Sicuramente il respiro è, in questo senso, un mezzo fondamentale. L’aspetto teorico/filosofico è una dimensione ulteriore, i cui germi si sviluppano dalla pratica ma che poi evolvono in concetti in modo indipendente. Si tratta pur sempre di un pensiero connesso alla percezione intensiva che la pratica innesca, ma che continua a fruttificare, a stratificarsi, a complicarsi. Spesso queste elaborazioni tornano poi come una strana linfa a nutrire la pratica, in una sorta di circuito di continue risonanze.

L’esperienza dello yoga porta ad un’amplificazione della corporeità e della percezione. Questo aiuta anche la creazione artistica e la dimensione coreografica? Ci sono immagini o suggestioni nel tuo lavoro con lo yoga che hanno ispirato i lavori coreografici che porti in scena?

Certamente. Le immagini nutrono in modo costante il mio lavoro. Per esempio, l’insegnamento dello yoga per me passa attraverso la messa in vita di (l’offerta agli allievi/e di) una ghirlanda di immagini in grado di orientare l’esperienza che propongo ma facendo attenzione a non esaurirla: l’immagine deve essere più simile a un varco che a un quadro concluso. Ovviamente le immagini creano e supportano anche il lavoro coreografico: per esempio un mio assolo danzato, Qualcosa da Sala, era costruito a partire da quelle posture yoga in cui il corpo somiglia a un pugno chiuso ma, sempre, molte altre immagini fluiscono spontanee durante le prove e durante la danza, si impigliano nei gesti a suggerirne la possibilità di molti altri. Questo stato di ascolto alla potenziale ulteriorità infinita del gesto per me è fondamentale nella danza.

Pratica dello yoga e rappresentazione teatrale: qual è il loro rapporto? L’uno sembra richiamare uno sforzo di concentrazione e di ricerca sul sé, l’altro per sua natura non può prescindere dall’elemento della finzione. Qual è secondo te il loro terreno di incontro e di complementarietà?

Prima ancora che di finzione o di rappresentazione teatrale, in questo caso parlerei di struttura. Se c’è un’idea e c’è una struttura, allora abbiamo le condizioni affinché la materia viva dello yoga sia accolta entro un dispositivo teatrale e coerente con la visione e la percezione che il teatro richiede.

Altro rapporto importante tanto nel teatro-danza quanto nello yoga, è quello tra corpo, respiro e componente vocale. Ti chiedo sulla parte vocale, anche in relazione alla tua ricerca nell’ambito del centro Malagola di Ermanna Montanari ed Enrico Pitozzi.

Malagola è un bellissimo progetto, letteralmente un vivaio. Il respiro abita il corpo dalla testa ai piedi: fin sulla pelle se ne può percepire l’onda. Ogni respiro rinnova quella pulsazione primaria del corpo in rapporto allo spazio: l’alternarsi continuo di espansione e riposo/dissoluzione. Il respiro per gli indiani è il mantra originario, che se lo si ascolta suona so ham, ovvero io sono quello: io esisto ma sono pur sempre immerso in una trama generativa universale che mi ha emesso e che mi riassorbirà. La voce allora si origina da questa dinamica tra corpo e invisibile. A partire da questi presupposti, e pensando alla ricchezza delle tecniche yogiche che riguardano il respiro, la voce, l’ascolto, Ermanna ed Enrico mi hanno invitata a pensare per i ragazzi una strada che rendesse più percepibile il legame tra voce e “corpo sottile”. Il corpo sottile nello yoga è un concetto che indica la vita nelle sue espressioni invisibili. Abbiamo fatto un lavoro per sentire che la voce è a un tempo emanazione di tutto il corpo ed entità che addensa l’invisibile.

Cosa ci puoi raccontare della tua adesione, nel 2023, al progetto Scholé, una serie di proposte di studio sul corpo?

Scholé è una formazione di ricerca pura che coinvolge diversi docenti la cui poetica in qualche momento è entrata realmente in dialogo con l’anima del Teatro delle Moire, ovvero Attilio Nicoli Cristiani e Alessandra De Santis. Questo ha creato spontaneamente una scuola che è una comunità dinamica di ricercatori, sfaccettata ma risuonante. Ciascun docente porta i suoi temi e le sue pratiche ma nascono continui rimandi il cui merito va all’alchimia che Attilio e Alessandra hanno saputo predisporre. La formazione che porto avanti qui si chiama How to grow a lotus; si tratta di una serie di seminari sulla questione mai esauribile del corpo sulla scena: corpo come creazione che genera altra creazione ancora.

Il tipo di pratica teatrale che gravita intorno al pensiero filosofico orientale si propone di annullare il principio di individualità per giungere al principio del Tat tvam asi che porterebbe finalmente alla pace riconoscendo se stessi presenti in ogni forma di (apparente) alterità nel mondo vivente. Ti senti vicina a questo tipo di ricerca?

Di certo la scena induce una condizione permeabile, porosa, percettivamente unica. Non credo però che questo esaurisca la faccenda: c’è per esempio tutta la dimensione del rapimento, dell’ispirazione, del selvatico, e poi c’è la tecnica, che ha con l’ispirazione un rapporto misterioso e complesso. Penso che non sia possibile porsi in rapporto alla scena con un’attitudine troppo pacificata, o dominata da convinzioni troppo vincolanti.

Una considerazione infine sulla tua partecipazione, nei giorni scorsi, al Crisalide Forlì Festival di Gualdo con un’esperienza immersiva in un contesto naturalistico. 

Sarà una breve proposta, rivolta a tutto il pubblico, volta a indurre una maggiore disponibilità percettiva. Di certo la natura favorisce quella sensazione del sentire la risonanza delle cose nel proprio corpo. 

Quando hai iniziato la pratica yoga e quando la danza e la coreografia? Cosa ci puoi raccontare sulla tua formazione e quali sono stati i tuoi autori di riferimento per ciascun ambito?

Ho iniziato la danza e lo yoga nella primissima adolescenza. La pratica della coreografia è arrivata un po’ più tardi, intorno ai diciotto-vent’anni. Mi sono laureata in Conservazione dei Beni musicali e poi mi sono formata come insegnante di yoga a venticinque anni. In generale mi sono sempre spostata senza riserve per andare a incontrare i maestri il cui lavoro mi attraeva. Gli incontri importanti sono stati tanti ma non mi sono mai trovata nel desiderio di essere davvero, per lungo tempo, apprendista di qualcuno. Presto o tardi, anche nelle incertezze, ho sempre sentito che dovevo riprendere una strada mia. Sicuramente porto nel cuore il coreografo di danza butoh Masaki Iwana, per il quale sono stata danzatrice dai ventuno ai ventitré anni. Masaki univa in sé tanti aspetti contrapposti: una specie di  malinconia, finezza estetica, animalità, spirito; e poi Romeo Castellucci, che ritengo mi abbia insegnato a osare nella ricerca, a non risparmiarmi e a non avere paura di sbagliare né di non soddisfare aspettative, ma mi ha anche dato molto valore e questo mi ha aiutata a riconoscermi. Per lo yoga un mio riferimento sempre presente è il compositore e maestro di yoga Giacinto Scelsi.

La danza sperimentale e viscerale di Nunzio Perricone

La danza sperimentale e viscerale di Nunzio Perricone

Nunzio Perricone si forma presso il Teatro dell’Opera di Roma e il suo talento si è impreziosito mediante le sue numerose esperienze lavorative, nazionali ed internazionali, da Montreal a Chicago, da Singapore, alla Corea del Sud. La sua impronta di danzatore e di coreografo è tipica dell’isolano plasmato dal vivere in mezzo al mare. “L’isolano vive nell’attesa e nella paura dell’inabissamento” – ha scritto Leonardo Sciascia. Nato in Sicilia, come Sciascia, lo stile di Perricone è unico e riconoscibile. Cattura l’attenzione fin dal primo momento, creando una connessione con gli spettatori. Abita la scena mediante il suo corpo: fluttua, scivola e dal basso si solleva verso l’alto. 

La presenza di diversi linguaggi, nelle sue composizioni, e di diverse forme di espressione artistica, tra cui l’arte visiva e la ricerca sonora, rende universale l’estetica e la sua poetica. Si spinge fino a scendere nell’intimità dell’Io per risalire e raggiungere la superficie, la dimensione del Noi. E lì vi rimane, in sospensione, come un funambolo su una fune d’acciaio. 
In questa intervista abbiamo raccolto la sua testimonianza e quelle di Alessandro Floridia e Ivan Gasbarrini, con i quali forma il collettivo Secondonome.

Nunzio Perricone, raccontaci qualcosa sul tuo percorso di formazione

L’inizio della mia formazione nella danza è stata molto “tradizionale”, ho cominciato da piccolo in una scuola di danza di Catania, ho approfondito in seguito lo studio della danza classica e contemporanea al Teatro dell’Opera di Roma. Fu lì che capii quanto quel tipo di pratica non fosse adatta a me, quanto io non fossi adatto. Cominciai degli studi sulla sperimentazione corporea, che man mano si allontanavano sempre più dalle discipline prettamente coreutiche per avvicinarsi ad un approccio più performativo e sperimentale. Guardai per caso un documentario su I like America and America likes me di Joseph Beuys, fu la svolta nel mio pensiero. Sono sempre stato attratto dalla verità della semplicità nella comunicazione artistica, nei gesti e nell’approccio alla creazione. Da questo punto di vista trovavo la danza, tradizionalmente concepita, lontana dalle mie intenzioni.

Qual è stata la genesi del vostro progetto?

Alessandro Floridia: Il periodo di clausura pandemica mi aveva sottratto dal lavoro di “operaio della musica” e questa per me come per tante altre persone, è stata occasione di recupero di spazio mentale e tempo per affrontare tematiche e procedure creative in una modalità molto naturale e rilassata. Nunzio mi ha chiamato al telefono per spiegarmi che stava cercando un percussionista. Quando ci siamo incontrati ho subito chiarito che qualsiasi collaborazione sarebbe dovuta nascere da vere esigenze di ricerca da entrambe le parti. 

Ho cercato di proporre l’uso di strumenti alternativi alla percussione, ad esempio in ambito elettroacustico, e ho subito notato interesse e una grande voglia di novità anche da parte sua. Nessuno dei due conosceva precisamente il lavoro dell’altro ma nonostante questo è nata da subito una grande intesa sia a livello umano (non è difficile andare d’accordo con una personalità accogliente e solare come quella di Nunzio) sia artistico, vista la sua versatilità fisica e immaginativa e la sua grande esperienza di professionista.

N.P.: Su queste basi è cominciato il nostro percorso dapprima con una rivisitazione di Elogio del Silenzio, una mia performance che portavo in giro da qualche tempo. Poi con il progetto Antropo_Cenere che ha visto l’ingresso del video nel lavoro con l’importante apporto di Ivan Gasbarrini.Ed eccoci a Spettro Variabile che ci vede coinvolti tutti e tre (Nunzio Perricone per il movimento, Alessandro Floridia per il suono, Ivan Gasbarrini per il video).

La scelta del titolo Spettro Variabile e l’indagine intorno a queste due parole per la vostra performance

A.F.: Si tratta di un lavoro che vorrebbe restare aperto alla mutazione indotta dai luoghi e dalle circostanze: questa impostazione stimola Secondo Nome a un’indagine e un dibattito interno sull’idea di Improvvisazione e di rapporto rispetto all’idea di Opera. Possiamo dire che è uno dei temi centrali sui quali stiamo ragionando e mettendo alla prova come gruppo. Il nome di questo nuovo ciclo di performance Spettro Variabile, ci sembra una delle soluzioni scelte fra tante che lascia aperte molte interpretazioni, in linea con il discorso cui si accennava legato alla possibilità di questi tre linguaggi – corpo, suono, video – di comporre la propria poetica in una sorta di interplay entro uno schema nei quali trovare appuntamenti ma anche nuove zone di incontro e vie d’uscita.

Chi vi ha dato dei consigli utili per il vostro ultimo progetto e cosa, in particolare, avete condiviso?

Ultimamente abbiamo avuto l’onore di presentare Spettro variabile ad una straordinaria performer, Alessandra Cristiani. Il suo sguardo così acuto ci ha fornito degli ottimi spunti di riflessione. In particolar modo, abbiamo approfondito insieme, la tematica del tempo scenico, il timore del vuoto scenico, la possibilità di dilatare il tempo di un’azione, fino a che non muti in qualcos’altro ed avere il coraggio di spingersi fino a questi confini, che in prima analisi appaiono nascosti. È stato prezioso

Chi è Nunzio Perricone (persona/artista)? Che rapporto hai con te stesso?

N.P.: Mi ritengo una persona, irrimediabilmente curiosa. Ogni qual volta mi si presenta un nuovo argomento, inizia la fame insaziabile di sapere e questo richiede un consistente dispendio di energie. Artisticamente si traduce in una passione totale per il processo creativo respingendo spesso il compimento di un’Opera. In queste due fasi distinte, processo e concretizzazione, cambia il rapporto con me stesso.
Mentre nella prima fase riesco ad avere totale fiducia in me stesso, anche nei possibili fallimenti, lo stesso non avviene nella fase realizzativa, dove raggiungo livelli di lotta interiore davvero significativi. Solo la reale necessità di comunicare quanto pensato, fa sì che io esca da certi meccanismi di auto-sabotaggio.

Se dovessi scegliere una parola soltanto per descrivere la tua sensibilità artistica, quale sceglieresti e perché?

N. P.: Viscerale. Nel senso di profondità fisica. Nella mia espressione artistica tendo alla ricerca del ‘nucleo embrionale’ dell’argomento trattato, o anche semplicemente del movimento suscitato da tale argomento. Ecco perché parlo di semplicità nella domanda precedente. La mia azione tende sempre a “togliere” fino ad affrontare frontalmente l’essenza. Alessandro ed Ivan mi hanno molto spinto ed aiutato in questa direzione. È stato spesso doloroso. Asciugare il superfluo può risultare semplice se non addirittura necessario, ma sacrificare un atto proveniente dall’esigenza comunicativa o da un’idea forte e ben radicata, appartiene alla rinuncia e in quanto tale, violenta.

Qual è il tuo rapporto personale e artistico con questi due opposti: luce e ombra?

N. P.: Sono attratto dall’ombra in quanto spazio negativo, in quanto abitante dello spazio negativo. In Spettro variabile ad esempio, abbiamo utilizzato diverse torce da lavoro, rinunciando del tutto ai fari scenici, proprio per lasciare che la luce, ma soprattutto le numerose ombre, stessero sullo stesso piano degli altri elementi, il più naturalmente possibile e a più livelli. Solo a performance ultimata ci siamo resi conto del ruolo fondamentale che hanno ricoperto.

Quali sono (o sono stati) i tuoi riferimenti nel mondo della danza e dell’arte in generale?

N. P.: Il teatro di Carmelo Bene, di Bob Wilson, i saggi di Derrida e i libri di Gurdjieff, le performance di Bruce Nauman, i film di Tarkovskij ma soprattutto l’intera corrente dell’Arte Povera. La ritengo fonte inesauribile d’ispirazione. Ci sono moltissimi artisti che non cito, per ovvie ragioni di spazio e tempo, ma questi elencati rientrano sicuramente in ogni mia creazione. D’altra parte confesso anche, che solo da qualche anno concedo realmente un tempo di qualità allo studio. Sto scoprendo quotidianamente personalità e correnti di pensiero che mi affascinano. Tra un anno questa risposta potrebbe essere del tutto diversa. Per quel che riguarda la danza, sicuramente Omar Rajeh, con cui ho la fortuna di lavorare, rappresenta un esempio fondamentale, soprattutto per la pratica d’improvvisazione.

Verso quale direzione sta andando la Danza contemporanea? C’è ancora spazio, un’urgenza artistica per rielaborare uno o più linguaggi attuali e di rinnovamento?

N.P.: Ho dialogato con Alessandro di questa domanda e della possibile risposta, perché avvertivo una vena polemica nel mio pensiero. Lui mi ha fornito un ottimo spunto sul quale ragionare. Personalmente ritengo la danza la più restia, tra le forme d’arte, all’avanzamento, al rinnovamento, per una vera e propria direzione che ha l’intero circuito, a tutti i livelli e a tutte le latitudini, non di certo per mancanza di talento, che anzi ritengo debordante soprattutto tra i giovani artisti.

Alessandro giustamente ha però ribattuto a questa mia riflessione, ponendo al centro la questione dell’inserimento di linguaggi altri. Di pratiche creative trasversali, che integrino e coinvolgano altri approcci provenienti da un qualsiasi altro sistema. É lì che vedo ancora spazio e infinite possibilità di comunicazione, lasciando che l’urgenza di espressione tracci il cammino di un’Opera. Senza limiti e/o percorsi pregressi.

Continua questa frase: se potessi cambiare qualcosa di te, del mondo, della danza, sarebbe…

N.P.: Se potessi cambiare qualcosa di me, cambierei la gestione del tempo. Me ne concederei molto di più per lo studio, per l’ozio (alla maniera dei greci antichi), invece che questa sorta di horror vacui che mi accompagna. Del mondo cambierei, l’animale umano. Porrei a margine il punto di vista antropocentrico. Della danza cambierei il fine ultimo. Vorrei fosse espressione massima del brutto e non ricerca di bellezza. Vorrei crollasse definitivamente il pilastro dell’estetica.

Dove e come ti immagini tra 10 anni?

N.P.: Mi piace immaginarmi, abbastanza interessante da suscitare continuamente curiosità, in un pubblico. M’immagino a raccontare ad una platea di giovani il processo creativo della mia ultima creazione presentata. Un’ alternativa sarebbe invece, una vita alla Thoreau di Walden o la “casa al mare” di Le Corbusier, rinunciando completamente alla socialità così come la concepiamo quotidianamente. In questo caso però, dovrei coinvolgere anche mia figlia, non potrei rinunciare a lei.

La danza oltre i limiti del corpo umano di Frantics Dance Company

La danza oltre i limiti del corpo umano di Frantics Dance Company

Carlos Aller, Marco Di Nardo, Diego de la Rosa e Juan Tirado danno vita e formano, dal 2013, la compagnia chiamata Frantics Dance Company. Un progetto con un respiro internazionale che unisce l’Italia con la Spagna e ha come quartier generale Berlino. Il loro stile, la loro impronta è decisamente fisica, energica ed emotiva. I loro spettacoli armonizzano tra loro diversi codici di danza e movimento, sia urbani che contemporanei, teatro di parola e fisico. Tutto questo viene arricchito con influenze che provengono dal mondo della letteratura e di alcuni saggi filosofici.

I co-fondatori, Carlos, Marco, Diego e Juan, creano composizioni per spazi teatrali tradizionali, ma anche per luoghi specifici e all’aperto, volte a comunicare con un pubblico versatile e con spettatori diversi.
Con la loro compagnia si sono esibiti in tutto il mondo: Germania, Svizzera, Spagna, Italia, Irlanda, Francia, Olanda, Grecia, Israele, Taiwan e altro ancora. Qualunque superficie viene da loro abitata e trasformata magicamente in un set cinematografico o un ring dove i limiti vengono esplorati, disegnando linee e forme in movimento. Trasmettendo in modo chiaro e forte messaggi, idee, emozioni. La domanda che sembra scuotere l’attenzione dello spettatore è: fino a che punto è possibile spingere il corpo umano oltre i suoi limiti?

Ne abbiamo parlato con Marco Di Nardo, a seguito della visione di Dystopian della Frantics Dance Company al Teatro Biblioteca Quarticciolo, nell’ambito del festival Fuoriprogramma.

Qual è l’idea principale che muove la vostra compagnia e il vostro progetto artistico?

L’idea principale che muove la nostra compagnia è cercare di rinnovare l’ambito della scena contemporanea, apportando una nuova visione artistica che proviene dall’urban dance, che è il background della nostra compagnia, cercando di fonderlo con altri stili ed idee.

Voi unite il linguaggio della danza urbana, la street dance, con la danza contemporanea. In che modo bilanciate l’old style, il classico con il contemporaneo?

Il nostro linguaggio di danza urbana è sempre presente, e lo sarà sempre, poiché portiamo con noi non solo lo stile di danza urbana, ma anche la mentalità di una cultura come l’hip hop, che è aperta all’innovazione e trova sempre il modo di evolvere ed essere accessibile a tutti. Diciamo che il nostro obiettivo è sempre stato quello di creare un ibrido tra ciò che può essere il contemporaneo e il mondo urban, cercando di creare uno stile personalizzato, che possa essere riconoscibile, un marchio tutto nostro. Questa è una ricerca che è ancora in corso e che si arricchisce, anno dopo anno.

Come e quando hai iniziato a danzare? Cosa ti ha portato a ballare?

La danza per tutti noi è sempre stato un hobby coltivato in età adolescenziale e la Breakdance, in quel momento, era una disciplina che univa in sé lo spirito di ribellione con la voglia di appartenenza a un gruppo, con il quale si facevano le battle. Ad un adolescente come me è riuscita a farmi scoprire il valore della disciplina, la voglia di scoprire ed essere riconosciuto in gruppo. Ed è proprio per questo che abbiamo iniziato a ballare breaking e questa forte passione ci ha portati ad incontrarci a Berlino e a creare la nostra compagnia.

Cosa c’è nella tua playlist e cosa leggi mentre sei in viaggio?

Purtroppo nella maggior parte dei casi nella mia playlist ci sono email da leggere o applicazioni ministeriali da mandare, ma quando ho tempo mi piace ascoltare interviste di attori o registi.

Seguire un tipo di processo particolare oppure vi lasciate ispirare in modo libero e spontaneo?

All’inizio sì, ci piaceva essere ispirati dal momento e creare strada facendo, ma con gli anni abbiamo dovuto cambiare un po’ strategia poiché la modalità spontanea funziona quando in sala siamo solo noi quattro. Quando si lavora con un gruppo più grande di collaboratori bisogna essere organizzati. Tra di noi riusciamo a dividerci i compiti di chi si occupa di cosa, in modo da gestire il tutto in sintonia, anche se si lascia sempre una percentuale di spontaneità.

Raccontaci com’è una giornata tipo in sala prove.

La nostra giornata tipo in sala è molto differente in base a diverse situazioni. Se siamo in creazione per un nuovo pezzo, iniziamo con un warmup e poi seguono varie task di creazione le quali possono essere improvvisazioni teatrali o di danza oppure semplicemente scrivere idee. Solitamente verso la fine della giornata si cerca di fare un resoconto e di filmare il tutto così da poter poi vedere il video e fare delle correzioni il giorno dopo. Nel caso in cui non siamo in creazione, la sala prova è molto più aperta a sperimentazioni e a provare cose nuove; a volte invitiamo ospiti per tenere workshop in altre discipline, così da imparare sempre qualcosa di nuovo.

Com’è nato, cosa c’è dentro e qual è stato il processo evolutivo di Dystopian?

Dystopian è nato con l’idea di creare qualcosa che rispecchiasse un po’ il nostro rapporto come amici/colleghi, dove sono presenti un po’ tutte le sfaccettature di questo tipo di relazione e su come le affrontiamo giornalmente. Il pezzo è ancora in stato di rifinitura poiché prima aveva una durata di 15 min ed ora di 31 min, e siamo ancora in fase di ricerca per migliorarlo e farlo crescere.

La Germania, Berlino (la vostra sede) in particolare, produce tanto nel campo della danza ed è un polo culturale notevole, ma se potessi vivere e lavorare un anno in qualsiasi altra parte del mondo, dove andresti?

Sì, Berlino è la nostra sede e la nostra città di residenza da 12 anni. Anche se viviamo lì, in realtà quasi mai lavoriamo a Berlino, tutte le produzioni e creazioni sono sempre in altre città, in Germania o in altri paesi. Un po’ per caso, un po’ è voluto perché quando siamo a casa siamo lì per riposarci! Scegliere un’altra città è difficile perché con Berlino c’è sempre una relazione di odio e amore, poiché ci sono cose che ci sono solo lì ed altre no, ma se dovessi scegliere un posto in particolare direi Taiwan, perché è un paese che mi ha dato tanto dal punto di vista artistico ed è sempre stato un piacere tornare lì.

Qual è il rischio più grande che hai corso finora e quale soddisfazione ha regalato quell’azzardo?  

Io direi che il rischio più azzardato per me come per gli altri è stato quello di voler creare una compagnia di danza. Poiché nessuno di noi ha veramente studiato danza, tutti noi abbiamo studiato tutt’altro e lavoravamo in altri settori prima di conoscerci. Quindi l’idea di creare dal nulla, senza nessun tipo di esperienza, e di portare avanti una compagnia è l’azzardo più rischioso ad oggi.

Se potessi collaborare con un danzatore/compagnia e/o coreografo, vivo o morto, chi sceglieresti e perché?

Mi piacerebbe collaborare con Tom Visser, uno dei più grandi light designer oggigiorno, e Lloyd Newson, direttore della compagnia di teatro fisico DV8.

 In che modo la tecnologia, l’intelligenza artificiale e i social media influenzano ladanza urbana e contemporanea e quali sono i vantaggi e gli svantaggi che si possono ricevere?

La tecnologia ormai ha invaso tutti i campi e settori, ed all’inizio c’è sempre un po’ il timore di essa, ma poi si impara a capirla ed utilizzarla, e poi dopo ci si rende conto che tante cose sarebbero state impossibili da fare senza di essa. Oggi giorno penso sia una componente importante per qualsiasi lavoro, sia coreografico che non, ci aiuta a semplificare ricerche o compiti che prima ci sarebbe voluto molto più tempo, quindi ci dà un vantaggio sotto il punto di vista della produttività, e uno svantaggio dal punto di vista delle ore che si passano davanti al pc e alla sua dipendenza.

Vi sarete esibiti in tanti posti diversi e incredibili. Qual è la cosa più strana che vi è capitata?

Sicuramente quella di esibirsi nelle scalinate del palazzo San Felice a Napoli, dove due minuti prima di cominciare lo spettacolo la polizia venne ad arrestare due ragazzi che vivevano nel palazzo.

Come racconteresti l’esperienza di fusione, di melting pot culturale tra Italia, Spagna e Germania?

È un milkshake di informazioni che ogni giorno si arricchisce di nuove emozioni. Lavorare e vivere circondati da una realtà multiculturale ti aiuta ad abbattere pregiudizi e ti arricchisce sempre di qualcosa di nuovo. Per me è un aspetto molto importante il fatto di essere a contatto sempre con culture differenti ed è qualcosa che mi ha sempre affascinato, ed è forse stata proprio questa voglia di conoscere che mi ha spinto a lasciare l’Italia.

Per concludere l’intervista, con quali parole definiresti il progetto e lo stile di Frantics Dance Company?

Innovativa, frenetica, multidisciplinare.

Abitare gli spazi: Teatro dei Colori nella sua nuova programmazione estiva

Abitare gli spazi: Teatro dei Colori nella sua nuova programmazione estiva

Dal 2 luglio si inaugura la nuova stagione estiva del Teatro dei Colori, che si protrarrà fino al 27 di agosto. Fondato nell’87 da Gabriele Ciaccia, il Teatro dei Colori rappresenta una straordinaria istituzione culturale del nostro paese: perenne rinnovamento interno, identità artistica imperniata sulle forme del teatro di figura, recupero delle periferie e una presenza capillare sul territorio in ben 15 regioni, sono gli elementi cardine di una compagnia che da quasi 40 anni scrive un capitolo fondamentale del panorama teatrale italiano. A raccontarci le novità e la storia della compagnia è Valentina Ciaccia, regista, drammaturga, artista e tutto tondo e ormai da molti anni figura centrale del Teatro dei Colori.

La vostra storia è tenuta insieme da un filo rosso che in qualche modo accompagna tutta la vostra produzione, tutta la vostra esperienza come compagnia, ed è la complementarità di centro e periferie. Da un lato la vostra idea di teatro esprime un’esigenza culturale e sociale molto forte, che è quella del recupero degli spazi anti-istituzionali del teatro, delle periferie, dei centri meno abitati, e dall’altro, rivendicate il ruolo istituzionale che rivestite, portando il vostro lavoro nelle piazze più prestigiose, nei capoluoghi, recuperando quello che è il mestiere del teatrante come compagnia di girovaghi. In che modo, in questi ormai 37 anni di esperienza sul campo siete riusciti a tenere insieme questi due aspetti?

Questa domanda è alla base del discorso problematico che si fa in questo momento tra le compagnie e i centri di produzione di teatro per ragazzi e di teatro di figura, che sono appunto quelli che si occupano di un teatro molto vero, molto vicino alle persone, perché arriva ovunque, in tutta Italia. Il discorso verte proprio sul capire come risultare efficaci per erogare quello che è un servizio culturale dedicato alle fasce di popolazione che sono quelle meno abbienti, quindi più bisognose di avere un supporto culturale, riuscendo al tempo stesso a mantenere un elevato grado di ricerca artistica e di preparazione culturale.

Il Teatro dei Colori in questo senso ha sempre avuto l’obiettivo di mantenere altissimo il livello di ricerca artistica e di preparazione interna della compagnia, facendo la scelta di portare avanti spettacoli di ricerca anche per i bambini, nelle varie forme del teatro di figura, pur arrivando veramente ovunque. Questo perché, essendo abruzzesi, siamo abituati a scavallare le montagne; chi invece ha fatto la scelta di andare verso prodotti di consumo e di cassetta, purtroppo si sta vedendo sconfitto davanti ai grandi blockbuster americani dei musical. Di conseguenza, se non hai una tua autenticità artistica, un tuo linguaggio, una tua tecnica specifica (come, per esempio, per noi la tecnica del Teatro su Nero), non sei riconoscibile e quindi hai poco da offrire.

Il Teatro dei Colori come porta avanti questo discorso? Sicuramente con un grande rinnovamento interno, nel senso che è una compagnia che arriva ai 37 anni di età avendo avuto all’interno generazioni di artisti che vanno, vengono, ritornano, fanno altre esperienze, in una grande libertà creativa. E soprattutto ha sempre dato spazio ai giovani, senza proclamare retoricamente questo principio, ma rendendolo un discorso anche di formazione professionale, sia per quanto riguarda il cast artistico che per quanto riguarda il cast tecnico. Insomma, siamo abbastanza ligi in questo senso e continuiamo ad insistere tanto sui territori, soprattutto abruzzesi, prova ne è la longevità delle nostre rassegne artistiche e anche dei nostri festival.

Dal 2 Luglio inizierà il Festival Fiabe al Parco a Pineto in provincia di Teramo, che quest’anno compie 20 anni e che non posso esimermi dal ringraziare per questa straordinaria e longeva esperienza progetto di coprogettazione artistica del festival. Ci tengo poi a definirlo festival, perché alcuni pensano che i festival siano solamente quegli eventi di tre giorni stracolmi di cose e che poi così come iniziano, finiscono in fretta. Un festival invece, secondo noi, si deve declinare anche in base alle necessità del territorio; in questo caso noi abbiamo ascoltato le necessità della città di Pineto che ci ha ospitati, e negli anni abbiamo deciso di allargare le maglie del festival proprio perché attorno a noi, e anche grazie a noi, sono nate altre iniziative.

Credo che questo sia molto importante perché ci deve essere un humus culturale in cui tutti gli operatori riescono a collaborare: questo discorso della competizione infinita nel settore dello spettacolo deve finire, non serve a niente, l’abbiamo visto e sappiamo che, al contrario, è più intelligente creare un’offerta culturale variegata e dilazionata nel tempo, sulla base delle esigenze di un determinato territorio. Non viviamo tutti a Milano e quindi se io sto in Abruzzo, quello che Milano ha inteso come festival, in Abruzzo lo intendiamo in un altro modo. Il rischio insito in queste definizioni è l’imposizione di canoni e format che non sono poi coerenti con la necessità dei territori e del pubblico.
Perché poi ci sono anche spettacoli non solo per i bambini, quelli che sono gli spettacoli di teatro di figura noi li intendiamo, di fatti, come dedicati al bambino che c’è ancora dentro ognuno di noi, nel senso che è un altro tipo di arte, un altro tipo di linguaggio: sono dedicati alla nostra parte creativa e poetica, ecco.

A tal proposito, infatti, nella tipologia di strumenti e di riferimenti che mettete in campo, è evidente – come anche voi stessi rivendicate pubblicamente – il richiamo ad alcuni degli elementi e delle geometrie tipiche del futurismo e della Bauhaus. Ecco, mi chiedevo, un teatro che è pervaso da questa intenzione pedagogica, che ha un pubblico tendenzialmente molto giovane, che tipo di risposta ha dall’utilizzo in scena di questo tipo di elementi che possiamo definire “colti”, seppur riletti e ridimensionati per lo spettacolo dal vivo. Qual è il feedback che ottenete?

Ti voglio raccontare un piccolo aneddoto. Questa tecnica è nata nell’87 con il primo spettacolo del Teatro dei Colori che si chiamava Colori, immaginare l’immagine, del mio papà Gabriele Ciaccia, che vinse il primo premio attribuito dall’Osservatorio Critico dell’ E.T.I. Quando venne rappresentato a Milano, presso la Sala Fontana, c’era ancora il grande Bruno Munari che venne a vedere lo spettacolo. Ecco, in quell’occasione (ovviamente avevo quattro anni, quindi questo è un ricordo che ti riporto da mio papà) – era una matinée per le scuole – Munari venne a vedere lo spettacolo, e tra il pubblico c’era un bimbo che oggi definiremmo nello spettro autistico. Ebbene, questo bimbo ebbe una reazione eccezionalmente gioiosa alla visione dello spettacolo, che un po’ stupì anche le maestre, e Munari, molto semplicemente invece disse: “questo è quello che si deve fare con i bambini”. Certe volte noi adulti ci facciamo troppi problemi, mentalizziamo, quando invece l’intelligenza infantile in qualsiasi modo la si voglia declinare è estremamente duttile. I bambini sono molto reattivi e posso assicurare che questa tecnica funziona più con i bimbi che con gli adulti, perché i bambini sono più rapidi a capire le trasformazioni delle immagini rispetto agli adulti – d’altra parte, loro passano attraverso il linguaggio prefigurativo. Quando un bambino inizia a disegnare, le prime cose che proietta sul foglio sono linee, punti, cerchi, quadrati. Passa per la geometria.

Non è un caso che stia facendo questo paragone, perché Kandinsky, Klee e gli artisti del Bauhaus hanno studiato queste cose, sono andati ad osservare la creatività infantile, sono tornati indietro, all’origine, e da lì poi hanno sviluppato il concetto di arte non-figurativa, di arte astratta. Questo per dire che, è una cosa immediata per i bambini, e ciò che ci permette di continuare a riproporre questa tecnica è la sua inesauribilità, nel senso che le combinazioni sono infinite, non annoia mai non solo il pubblico ma noi stessi che la facciamo. Anche perché viene poi abbinata a dei movimenti di mimica che nel corso degli anni abbiamo sviluppato con una tecnica estremamente raffinata, così anche con delle basi di danza classica. Questa tecnica è collegata poi a un uso molto sapiente della musica, c’è un grande lavoro dietro con dei compositori che collaborano con noi. Quindi non è solamente pedagogia della scena, ma insisto a dirti che sono spettacoli veramente (questi in particolare del Teatro su Nero) tout public, perché gli stessi spettacoli li posso fare in matinée come in serale senza cambiare una virgola, e ti assicuro che il pubblico serale lo apprezza esattamente come un bambino di 6 anni, non cambia niente.

Questo fatto è estremamente sorprendente perché appunto siamo abituati a pensare che uno spettacolo per un pubblico di bambini debba avere meno contenuto, o comunque una riduzione, e invece ci sono strategie e forme che colpiscono indipendentemente dall’età, anzi, addirittura in certi casi sono colte maggiormente da un pubblico giovanissimo.

Sì, poi la sensibilità ovviamente si modifica e voglio farti un esempio. L’ultimo spettacolo prodotto da noi, dal titolo La Sinfonia dei giocattoli, è dedicato ad una grande artista, Sonia Delaunay che purtroppo si sta dimenticando; io come donna cerco sempre di parlare di storie di donne quando faccio spettacoli di drammaturgia di parola, ma soprattutto di far vedere quelle che sono state le artiste del Bauhaus, del Dada, perché ci sono state tantissime donne in questi movimenti, ed è come se ci fosse una specie di oblio della memoria. Infatti, Sonia Delaunay che appunto si chiama in realtà Sonia Terk, poi ha sposato Robert Delaunay, che era un bravissimo pittore anche lui, ed è stata un po’ messa in secondo piano, è diventata la moglie di -, quando invece no, era un’artista a tutto tondo. Quindi abbiamo voluto dedicare proprio a lei questo spettacolo riprendendo alcune sue forme disegnate appunto per i bozzetti di costumi che noi abbiamo rifatto esattamente in scena con le stesse geometrie, mettendole in movimento.

Lo spettacolo ha debuttato a dicembre dello scorso anno, e ha partecipato anche come spettacolo conclusivo delle manifestazioni a Lecce per la Giornata Mondiale della Marionetta di UNIMA, che quest’anno era organizzata da Teatro Le Giravolte. Eravamo in una chiesa del barocco leccese, quindi è stato il nostro momento dello spirituale nell’arte, come direbbe Kandisky, chiusi in questo luogo meraviglioso con la musica elettronica a palla, con quelle geometrie; è stata un’esperienza pazzesca che a ripensarci mi fa venire i brividi, e c’erano i bambini che magari si emozionavano e ridevano in alcune scene, e gli adulti che si emozionavano in un modo diverso, magari qualcuno addirittura commuovendosi, per un ricordo di infanzia che è dentro di loro. Quindi è bello fare anche spettacoli in cui la stessa immagine la si legge in modi diversi, in base anche a quello che tu sei, quello che è il tuo vissuto, le tue esperienze, ed è uno spettacolo che io chiamo uno spettacolo semplice, perché dopo tutto quello che abbiamo visto negli ultimi anni ho notato che i bambini sono un po’ in ansia e quindi cerco di fare spettacoli che diano stimoli culturali percettivi e che siano meno pesanti, meno didascalici, meno didattici, perché hanno bisogno di essere un po’ accolti questi bimbi, di essere un po’ non solo divertiti, ma stimolati a livello del sogno, della creatività, dell’immaginazione.

Beh, anche lì c’è una missione pedagogica fortissima che accompagna questa intenzione.

Sì, poi adesso siamo anche a lavoro sul nuovo spettacolo che sarà pensato principalmente per un pubblico adulto, dedicato al genio olandese di Maurits Escher e che invito caldamente a venire a vedere. Tornare dopo tanti anni a fare un teatro di figura programmato per gli adulti, con una forte presenza di nuovi strumenti tecnologici, rappresenta una grande sfida in Italia, quando invece in Europa è una cosa normale. Quindi piano piano alcuni fra noi, fra programmatori e produttori di teatro di figura stanno cercando di riportare anche questo livello in Italia, perché il teatro di figura in generale vive un momento di grande rinnovamento, di grande stimolo. Io credo che sia in questo momento il settore del teatro che ha più da dire per quanto riguarda la ricerca, anche per la naturale compromissione con le nuove tecnologie, per esempio con la scenografia in digitale che, per il teatro di figura, è normale e rientra all’interno dell’alveo delle tecniche, non è una cosa posticcia, e quindi torneremo moltissimo anche sulla multimedialità.

Quindi è già in qualche modo, per natura, il teatro più adatto a intercettare tutta una serie di novità dal punto di vista tecnologico.

Assolutamente. Se ci pensi bene forse è la forma più antica che esista di teatro, e mi occorre ricordare in questo momento il grande professore Nicola Savarese, che è venuto a mancare giusto ieri, che è stato mio professore, mio grande mentore, come tanti altri della mia generazione. È stato forse il primo a portare in Italia un insegnamento di certe tecniche importanti dell’Oriente, dalle quali noi ci siamo tutti quanti abbeverati, abbiamo capito tante cose, perché ovviamente anche nella tecnica del Teatro dei Colori c’è tanto di Oriente, c’è Giappone, c’è Kabuki, ci sono tante cose e, secondo me, è una linea lunghissima ininterrotta con l’Oriente. È forse l’unico teatro che può inglobare le nuove tecnologie senza esserne inglobato, senza esserne mangiato vivo, perché ha le spalle larghe, è riuscito a trasformarsi in ogni modo possibile, in ogni momento possibile nel mondo, e quindi può integrare anche le nuove tecnologie senza alcun problema.

Un altro vantaggio è poi quello della lingua, che insomma gioca a suo favore, nel senso che essendo un teatro di immagine più che di parola, ha la possibilità di essere compreso e replicato in ogni modo.

Sì, è universale, io ci tengo molto a creare una differenziazione tra quello che è l’universalità di un gesto artistico e invece fare qualcosa che diventa nazional-popolare, banale, omogenizzato. No, noi siamo universali, non siamo banali, perché c’è questo rischio a volte, per arrivare a più persone si rischia di banalizzare il proprio discorso artistico, invece no, bisogna essere umili, studiare tanto, e arrivare all’universale, spesso proprio sintetizzando, disseccando le modalità, le tecniche, i linguaggi, e allora diventa universale.

Oltre che un teatro universale, voglio sottolineare un’altra piccola cosa. Quest’anno eravamo presenti con La Sinfonia dei Giocattoli al Festival internazionale dei Burattini e delle Figure -Arrivano dal Mare! a Ravenna, che è un festival storico e importantissimo del teatro di figura che quest’anno ha compiuto 50 anni, organizzato da Teatro del Drago, dedicato appunto alla figura femminile all’interno del teatro di figura, sia per quanto riguarda i temi e le vicende, ma soprattutto per quanto riguarda chi fa teatro, dalle drammaturghe alle animatrici, alle costruttrici di pupazzi. Quindi il nostro spettacolo, dedicato appunto ad un’artista donna, Sonia Delaunay, rientra all’interno di tutto questo discorso. Credo che sia importante anche sottolineare questo, perché il teatro di figura sta diventando sempre di più un teatro al femminile, perché, d’altra parte, ci dobbiamo ricordare anche che è nato in Italia grazie a Maria Signorelli, che è stata la prima iniziatrice in Italia del teatro di figura, quindi noi ci richiamiamo a questa lunga tradizione di “pupazzare”.

D’altra parte, il teatro di figura è sempre stato per alcuni un teatro di serie B, e tutte le cose di serie B sono sempre quelle che fanno le donne, fino a che poi non diventano famose e importanti, come per esempio era la fantascienza, oppure la scrittura cinematografica. Sono quelle cose particolari dove le donne hanno più cura e più amore, perché nel costruire un pupazzo, cucire un costume, realizzare una piccola marionetta, la cura del femminile è molto presente.

A volte si rischia di sovrapporre la figura della donna alla figura dell’artista, o della madre alla figura della donna. Invece è bene che tutti questi ambiti convivano. E la cosa meravigliosa è che Sonia Delaunay, come artista, ci insegna che anche la maternità può diventare un ambito dell’arte, dell’espressione artistica, come qualsiasi altro ambito della vita, e questo credo che sia forse l’unica artista che l’ha dimostrato in un modo così forte fino adesso.

Con il Teatro dei Colori in questi anni avete intrapreso un’altra sfida di grande spessore, vale a dire la concorrenza a Capitale della Cultura con la città di Pescina in Abruzzo. Il cuore del progetto, riassunto dallo slogan “La cultura non spopola” insiste sull’importanza di portare la cultura non solo nei grandi centri, ma soprattutto nelle zone e a quelle fasce di popolazione che spesso hanno meno opportunità.

Abbiamo partecipato a questa corsa incredibile della Capitale della Cultura perché il Teatro dei Colori si trova proprio a casa sua, a proprio agio, nel borgo di Pescina, da tantissimi anni all’interno del Teatro San Francesco, dove c’è il Centro Studi Internazionale Ignazio Silone. Organizziamo spettacoli di prosa dedicati a Ignazio Silone, in collaborazione con il Centro Studi ormai da molti anni, per esempio c’è lo spettacolo Il Segreto, tratto da Il Segreto di Luca (di Ignazio Silone), che è un monologo che recita mio papà, che ormai va avanti da quasi 15 anni. Noi veramente ci spendiamo in ogni modo per i borghi del territorio abruzzese, e abbiamo dei rapporti preferenziali appunto con Pescina, con Celano, con Tagliacozzo, dove ci sono delle comunità meravigliose legate appunto a istituti scolastici che cercano di resistere in ogni modo possibile al problema dello spopolamento della montagna. A tal proposito, abbiamo da poco ricevuto l’approvazione per il progetto Colori d’estate, che, per l’appunto, durante la stagione estiva riempirà le piazze dei centri storici di Avezzano, Celano, Trasacco e della stessa Pescina.

Così nascono progetti culturali veramente coraggiosi, e a Pescina è fondamentale la presenza del Centro Studi Internazionale, perché eleva l’ambito culturale grazie alla presenza di molti studiosi che arrivano e rimangono lì, sul territorio. In questo modo un piccolo borgo è riuscito ad arrivare tra le dieci finaliste, e già per noi quella è stata una vittoria, un traguardo significativo, storico, perché tu competi con città eccezionali: non ci credevamo nemmeno noi, insomma. Siamo felicissimi che adesso sia stata proposta l’Aquila, che è sicuramente una città più grande, che ha tantissime offerte culturali in più rispetto a Pescina da manifestare, da erogare, però ecco, anche Pescina, essendo rimasta tra le dieci, adesso è seguita in modo particolare anche dal Ministero, e avrà la possibilità, con dei fondi appositi come le altre finaliste, di creare comunque delle progettualità importanti, in cui noi siamo protagonisti, e che partiranno dall’autunno in poi.

Nel venire a contatto con la vostra realtà emerge una coerenza di fondo nelle attività che proponete, nel modo in cui lo fate, perché la questione della cultura che non spopola porta con sé l’esigenza di dire non solo a parole che è importante occuparsi di periferia, ma di farlo concretamente, con un gesto politico molto forte, specie nel momento in cui poi si decide di concorrere per un progetto così ambizioso.

Nel fare questo noi rivendichiamo l’importanza del ruolo istituzionale che rappresentiamo. Noi siamo una compagnia riconosciuta dal Ministero, da sempre, dalla fondazione nell’87, e quindi con grande impegno; essere riconosciuti significa per noi avere dei fondi erogati dalle tasse degli italiani che le pagano, motivo per cui sentiamo il dovere di elevare il linguaggio artistico e di erogare un servizio culturale di alto livello. E io rivendico proprio questo, che l’istituzione è stare nei territori, nei territori che sono più difficili, come può essere l’Abruzzo, come può essere la Sicilia, perché l’istituzione non può essere solamente il teatro nazionale, e forse invece proprio noi che siamo sul territorio, piano piano, stiamo dando un’altra veste anche all’immagine istituzionale della cultura.

In linea generale mi sembra di notare che le compagnie, quelle che hanno avuto un percorso simile al nostro, siano riuscite a formare all’interno dei loro ranghi figure professionali e artistiche che lavorano all’interno dell’arte, in tanti settori diversi, dall’arti visive, alla musica elettronica, passando da un imprinting all’interno di una compagnia teatrale. E questo io credo che sia importante, perché è anche una formazione artistica, organizzativa, manageriale, che ti aiuta poi a creare una continuità di generazioni di persone che si preoccupano di questi ambiti. Penso che questo sia anche una cosa che vada riconosciuta un po’ a tutti noi. Noi, per esempio, come Teatro dei Colori lo abbiamo fatto molto, non solo per quelli che sono stati i nostri allievi, che poi adesso sono nel cinema, televisione, eccetera, ma proprio perché c’è una continuità anche di capacità tecniche che si trasmettono, e credo che questo sia importante, è il saper fare.

Per concludere, a maggior ragione per realtà come la nostra, credo che sia fondamentale avere un’identità artistica originale a avere le idee chiare perché, non essendo noi blasonati e non venendo da un settore culturale particolarmente rinomato come quello della prosa, non possiamo permetterci di fare salti nel vuoto o voli pindarici; proprio questo ci ha insegnato però a lavorare con i piedi per terra e quindi a saper resistere un po’ a tutto. Noi non ci spaventiamo della crisi del settore culturale perché noi come settore ci siamo sempre stati in crisi, in un certo senso abitiamo questa crisi. Siamo da sempre un settore sottofinanziato, poco visibile e quindi adesso che la crisi sta diventando purtroppo sistemica, e ovviamente me ne dispiace, il settore del teatro di figura un po’ se la ride perché noi siamo sempre stati in crisi; eppure, siamo sempre sopravvissuti grazie alla forza delle idee e dei progetti che portiamo avanti.