L’abbaglio del tempo (edizione a cura de La Nave di Teseo, con i testi di Marco Belpoliti e Igort) di Ermanna Montanari – attrice, autrice, scenografa e fondatrice insieme a Marco Martinelli del Teatro delle Albe – è un libro che sfugge alle classiche categorie letterarie. Nella prefazione viene presentato come un romanzo, ma la prosa di questi scritti è un magma, una lava incontenibile, non indirizzabile. Il nucleo centrale è dedicato alle memorie d’infanzia di Ermanna Montanari collezionate a Campiano, suo paese d’origine. Seguendo un andamento temporale ciclico, il volume si apre con il racconto di una recente visita di Ermanna insieme a un produttore cinematografico a Campiano; prosegue con la sezione Miraggi che racchiude le miniature campianesi e termina con dei “dialoghi a voce sola”, in cui l’autrice riporta conversazioni del presente con i propri genitori.
Un primo tema che emerge dalla lettura de L’abbaglio del tempo è quello della compresenza: parole che si ripetono, vanno e poi ritornano. Sono parole-mondo, si trascinano dietro intere galassie di pensiero: concetti, rimandi, sensazioni che si staccano dal foglio e si attaccano al corpo. Parole che nella loro messa in relazione assumono una postura dicotomica, come se l’una fosse correlata a un’altra che è il suo opposto: c’è la luce. Quella dell’abbaglio, quella riflettente della neve bianca; la luce della stufa che fa da nutrice al mondo animale e umano insieme; e poi c’è il buio. Quello del pozzo, della notte agitata, dei fremiti e delle inquietudini dell’infanzia, quello della camera da ricevere – la stanza incellofanata, sempre intonsa per gli ospiti che verranno. Uno spazio che è reale e fittizio insieme, come il teatro. Il primo teatro in cui Ermanna Montanari abbia mai messo piede. E vi è la dicotomia del dentro e del fuori. Con il dentro che è lo spazio della casa – immobile, con l’aria viziata, custode dell’infelicità dei rapporti familiari – e il fuori – la terra coltivata, i filari, il cimitero, il letamaio –, luoghi di vita, di scoperta, di libertà dove si consolida l’amore per gli affetti più cari.
Ermanna Montanari ci dona una poesia delle cose di pasoliniana memoria, insieme a lei vediamo e tocchiamo tutto. Afferriamo e ricollochiamo. Eppure, è proprio nell’attaccarsi addosso di queste parole-mondo che l’idea della dicotomia, dell’opposto, si rivela inadeguata: la potenza della narrazione sta nella compresenza, nella capacità di essere contemporaneamente. Di tenere assieme ricordi, confessioni, segreti che non si profanano nel disvelamento.
L’abbaglio del tempo custodisce le macerie di un mondo agricolo, primitivo, negli istinti e nel linguaggio. Un mondo scomparso. Il nonno paterno è il primo a cui Ermanna dedica un racconto: in Bianco neve, come in Renzo Montanari, è un uomo tutto d’un pezzo, un lavoratore instancabile, che vive in comunione con la natura. Il nonno padre, il nonno amico, il nonno confidente, il nonno da abbracciare sul gradino della porta d’entrata. Il nonno patriarca, da cui Ermanna cerca insistentemente attenzione e approvazione, il nonno che la difese quando a vent’anni decise di sposarsi con Marco Martinelli e fare teatro. Il nonno che a scriverne le tira fuori una poesia dolcissima e feroce a un tempo. E questo mondo scomparso è primitivo come le figure che lo infestano, la violenza e la morte tra tutte, che non si palesa come concetto ma come elemento tattile: i gattini ammazzati, le tensioni omicide, i fiori appassiti, Ermanna che porta il nome di uno zio morto in circostanze violente e rinnegato – perché un’incidente stradale non è una morte degna per una famiglia in cui la morte, come molte altre cose, acquistano dignità solo attraverso il lavoro.
L’Ermanna dell’infanzia è una bambina dall’udito largo: sente, sente tutto e questo la affatica. Campiano la affatica, con il suo dialetto, la sua lingua impregnata di terra, che sempre puntella il discorso e che riserva alcuni tra gli squarci poetici più alti. Una provenienza che scaturisce vergogna – l’italiano imparato a scuola –, un’appartenenza da ripudiare ma che affiora, inaspettatamente, ogni volta che Ermanna si fa teatro. Campiano è una di quelle crisi della presenza, tipiche del mondo primitivo – rese note dagli studi dell’antropologo Ernesto De Martino –, che si manifestano quando agli individui pare di perdere coscienza per via di un dolore insostenibile. Perdere la coscienza del proprio sé per scoprire coscienze nuove. Con L’abbaglio del tempo Ermanna Montanari raccoglie e conserva, posiziona tutto questo dentro a delle minuscole fotografie, componendo e offrendo a noi altri un vecchio album di famiglia dai bordi sfilacciati.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
Nel saggio Misura smemorata, Ginevra Bompiani dice di Robert Walser che, scegliendo di assumere l’identità del servo nei suoi scritti, decide di incarnare l’identità per eccellenza«Poiché ogni identità è, in fondo, una presa di servizio». Personaggi servitori iniziano a comparire nella produzione di Walser già da Simon Tanner fino al protagonista de L’assistente; tuttavia, è in Jakob von Guntenche assistiamo al processo di formazione del servitore ideale, il Bildungsroman di uno zero, un processo di liberazione totalizzante che secondo Walser non può che passare per l’annullamento. Dal fascino per questo personaggio nasce l’adattamento di Jakob von Gunten di Fabio Condemi, presentato nel 2017 in forma di studio con il titolo Il sonno del calligrafo alla sezione College della Biennale Teatro di Venezia, che successivamente è diventato uno spettacolo debuttato nel 2018 con il titolo Jakob Von Gunten alla stessa Biennale Teatro di Venezia. C’è qualcosa in questa presa di servizio che ha molto a che fare con l’arte scenica: l’attore che messo di fronte all’obbligo di una presa di servizio annullante può liberare una spinta identitaria pura, fuori dall’egemonia della caratterizzazione. Ne abbiamo discusso con il regista Fabio Condemi e Francesco Fiorentino, docente di Letteratura Tedesca presso l’Università Roma Tre, autori di Walser a due, un dialogo pubblicato da Edizioni Volatili all’interno della collana intitolata Isola e Isole, curata da Giorgiomaria Cornelio e Giuditta Chiaraluce, quest’ultima autrice dei disegni contenuti nel libro che diventano una vera e propria partitura visiva.
Vorrei iniziare parlando del saggio di Roberto Calasso, Il sonno del calligrafo, in cui uno dei grandi temi affrontati è la spiritualità. Si menziona la Sura della caverna, contenuta nel Corano, che narra dei sette dormienti di Efeso, collegati idealmente da Calasso a Jakob von Gunten in quanto tutti descritti come dormienti incorrotti. In questo contesto, il sonno diventa una sospensione del tempo. In Walser a due, si parla di una teologia negativa che traspare in Jakob von Gunten. Vorrei capire cosa si intende per teologia negativa e quale ruolo ha la religione sia in Walser che nella costruzione di questo spettacolo
Fabio Condemi: All’inizio lo spettacolo di Jakob von Gunten era uno studio di venti minuti che si chiamavaIl sonno del calligrafo, proprio come il saggio di Roberto Calasso sul romanzo di Walser in cui questo discorso del sonno, più religioso di ogni religione per cui soltanto chi dorme è vicino a Dio, e la fascinazione per la Sura della cavernae i sette dormienti, era molto più visibile. C’era una parte intitolata proprioI sette dormienti, avevamo messo questo titolo prima che Jakob parlasse con i professori addormentati, trasfigurati nei pesci dell’acquario.
Lo dico perché questo tema mi aveva molto affascinato, è un fatto però che poi nella versione definitiva ho scelto di lasciare il tema più sospeso, proprio perché mi sono reso conto che, rispetto al saggio di Calasso, volevo andare in una direzione – secondo me – ancora più valseriana, di ambiguità: da una parte c’è il sonno mistico, quasi nella vicinanza della religione, dall’altra volevo rendere lasciare più ambigue le figure dei professori dormienti, lasciare più aperta questa questione e allontanarmi dal saggio di Calasso, facendo uno scarto anche più ironico.
Quando ho lavorato su Jakob von Gunten mi sono reso conto che da una parte il saggio di Calasso mi aveva molto nutrito e dall’altra l’interpretazione così forte, e non dico univoca, nella direzione mistica-religiosa non aveva più molto a che fare col mio Walser. Volevo lasciare più aperta la questione e invece mi interessava molto di più, diciamo, lo scritto di Walter Benjamin su Walser.
Il nucleo iniziale di Jakob von Gunten però, la prima cosa che noi abbiamo provato è stato proprio questo mondo sommerso nell’acqua, nel sonno, nell’acquario, scelta che veniva proprio da Calasso e dal riferimento che fa ai Sette dormienti, qualcosa che ha sicuramente spinto la drammaturgia nella fase iniziale.
Francesco Fiorentino: La cosa che subito colpisce del Jakob von Gunten di Fabio Condemi è che fin dall’inizio inserisca questa ripetitività che potremmo definire senza senso, senza significato. Verso la fine del romanzo Jakob dice «Via adesso non voglio proprio più pensare a nulla. Neanche a Dio? No! Dio sarà al mio fianco, che bisogno ho di pensare a lui?». Parlando di teologia negativa era questo che si intendeva: Dio è presente là dove avviene una sottrazione; dove si toglie, dove non si può dire che cos’è; in cui si può togliere tutto il resto per vedere quello che c’è.
Sempre verso la fine del romanzo Walser scrive «Mi devono gettare nudo sulla strada, e allora forse mi figurerò di essere il signore Iddio che tutto abbraccia»: mi ha fatto venire in mente un libretto recente di Giorgio Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita. Io non penso che Walser conoscesse la leggenda dei sette dormienti, anche Calasso lo evidenzia. Questa però richiama strutture mitiche che tornano anche nella riflessione di Agamben sul monachesimo in cui parla del legame tra forma e vita nel monachesimo che mi pare molto abbia a che fare con Jakob von Gunten e con Walser in generale. Questo rapporto lui non lo concepisce come opposizione, ma sottolinea come in realtà derivi dalla capacità di pensare la vita come qualcosa che è dato, non come possesso, ma come in uso. Una cosa che riguarda molto questo cancellarsi, non avere niente, essere uno zero e poter usare il proprio corpo, la propria vita, per fare ciò che lui chiama servire.
Credo sia questo senso di spersonalizzazione che ci rende affascinante Walser, perché non ce lo fa apparire angoscioso. È la sua cifra ed è anche in parte la cifra dello spettacolo di Fabio: tutte queste azioni molto ripetitive che dovrebbero essere angosciose, gli attori presi in dei movimenti da cui non possono liberarsi, ma tutto è al tempo stesso molto divertente, giocoso, restituisce quasi un senso di grazia. La grazia è questo: essere presenti a se stessi, dimenticandosi di sé. La scelta di far mangiare un limone a un attore è angosciosa e violenta, ma diverte insieme noi che guardiamo e, penso, anche l’attore. Non possedersi, non avere il controllo su se stessi invece diventa quasi liberatorio, senza però diventare una cosa leggera, mantenendo questo aspetto un po’ sacro. Il sacro allora è l’orrore e il piacere che si incontrano. Un perdersi che angoscioso e liberatorio.
Fabio Condemi: Nel realizzare quelle scene abbiamo seguito questa doppia sensazione: sentirsi al tempo stesso liberati da qualcosa, considerando anche l’immagine angosciosa che dava l’annullarsi. Dopo una lunga sequenza di ripetizioni di azioni che ci siamo detti dover essere precisissime, ma non avere scopo, una delle prime battute è di Jakob: «Io sono contento che in questo posto mi fanno indossare un uniforme perché nella vita non ho mai saputo che cosa indossare.» Riflettendoci, questa battuta, che tra l’altro suscita ilarità nel pubblico pronunciata in un periodo storico come quello di Walser, in cui sarebbero poi arrivate delle uniformi in tutta Europa, ha una doppia valenza.
Francesco Fiorentino: Peraltro Il tema dell’uniforme torna all’inizio della trilogia di BrochI Sonnambulidove il protagonista si mette l’uniforme perché questo lo compatta. La questione dell’uniforme è molto interessante perché permette di sottrarsi alla tendenza: i gusti di vestiario sembrano una delle scelte più individualistiche e personali che esistano. Sono però determinati dalla moda, che è quanto di più capitalistico ci sia; l’uniforme non è l’uniforme del soldato, ma del servitore, di chi rinuncia a dominare e perciò diventa sovrano. Questo desiderio di annullarsi è il grande sogno di Walser: sottrarsi all’ansia di riconoscimento. Nelle conversazioni con Carl Selig parla continuamente di successo mancato; è un suo problema ricorrente. Il caso Walser è indicativo perché è uno dei primi tentativi di sottrarsi al narcisismo che la nostra società costruisce per farci essere conformi ad essa. Walser fa questa grande rivoluzione per cui fa dire a Jakob von Gunten «Non voglio essere riconosciuto, voglio servire».
Gianni Celati, che era un grande lettore di Walser, in un saggio dal titolo Leggere e scrivere, parla di Walser come uno di quegli autori che sfuggono all’interiorità, aderendo piuttosto all’estetica del contingente, una categoria che molto ha a che fare con il teatro. Questa categoria ha a che fare con Walser e con Jakob von Gunten?
Fabio Condemi: Nei miei lavori il rapporto con il contingente si manifesta in modo indiretto, quasi obliquo, e raramente è affrontato frontalmente. Tuttavia, durante le prove di Jakob von Gunten (ma anche nella restituzione pubblica, in particolare alla Biennale di Venezia dove si carica inevitabilmente di forte aspettativa) certe azioni risuonavano fortemente rispetto al contemporaneo, e poi agli spettatori. In Walser, il contingente è sempre presente in modo indiretto: dal punto di vista scenico, la scelta concettuale di creare uno spettacolo sul non essere liberi, con l’introduzione di ostacoli alla libertà dell’attore anziché di improvvisazioni, ha avuto un forte impatto. Quello che ne veniva fuori era molto forte: un continuo stridere con il contemporaneo e con le frasi fatte sul liberarsi o sull’essere se stessi che si dicono generalmente in teatro. Quello che noi abbiamo cercato di fare è di mettere in moto una drammaturgia e un marchingegno scenico che creasse degli impedimenti, come quello del limone: mangiarlo è un’azione reale che non può essere recitata; un’azione che costringe l’attore a confrontarsi con un movimento autentico che lo modifica.
Francesco Fiorentino: Il tema del contingente, sia in Walser che nel teatro di Fabio Condemi, ha diversi livelli. Prima di tutto c’è il livello creativo, dove nonostante si parta con un’idea precisa già strutturata dello spettacolo, ci sono momenti imprevedibili o casuali che influenzano la creazione stessa, come ad esempio la scena in cui gli attori apparecchiano il tavolo con dei caschi che li costringono a muoversi insieme. Questa scena, come mi ha raccontato Fabio, nasce da un sogno fatto durante le prove. L’elemento contingente così entra nel processo creativo, ma viene poi sistematizzato.
C’è poi il contingente che non vediamo, come nella scelta di far mangiare dei limoni agli attori, che viene incorporato nello spettacolo. Io penso che in questo Fabio compia una scelta che corrisponde molto a Walser: come una flânerie molto apparentemente scanzonata, la possiamo leggere al tempo stesso come un tentativo di esorcizzare il contingente. Tutto viene preso in questa rete di parole della passeggiata, del continuo dire senza che ci sia un evento che possa causare qualcosa di irreparabile. Walser lo prende dal sistema di ripetitività e ripetizione; Fabio costruisce uno spettacolo allo stesso modo. È interessante perché creando degli ostacoli per gli attori, questi si sentono più liberi, reagendo e ribellandosi all’imposizione del copione. In questo senso risulta più superficiale la libertà performativa che sembra aperta al contingente ma che in realtà poi lo cancella, si pensa di essere liberi, ma si finisce per ripetere sempre le stesse azioni: se siamo veramente liberi, ci annoiamo perché non accade nulla di nuovo. Al contrario, Fabio attraverso questa imposizione sceglie un ostacolo molto struttrato alla libertà dell’attore, che sente la propria libertà molto più palpabile, perché la percepisce come costretta e impedita. Più grande è l’ostacolo, più cresce il desiderio di superarlo. Una poetica dunque che, secondo me, non si affida direttamente al contingente, ma che lo tiene presente quando si struttura in questo modo ripetitivo e rituale.
Il romanzo I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy si apre citando Walser, descritto attraverso il paesaggio dell’Appenzell vicino a Herisau, il manicomio dove l’autore ha trascorso gli ultimi anni della sua vita. Jaeggy descrive Walser attraverso il paesaggio innevato, definendolo «Un’arcadia della malattia, dove sembra regnare pace e un idillio di morte». Negli spettacoli di Fabio Condemi, sia in Jakob von Gunten ma anche Nottuari, lo spazio è sempre attivante, ideale, ma aperto anche allo straniamento, inquietante e distorto. Vorrei sapere se nel lavoro sullo spazio scenico c’è una ricerca di questa ambivalenza.
Fabio Condemi: Si, sicuramente c’è. In Jakob von Gunten, avevo ragionato in questo modo con Fabio Cherstich [autore della drammaturgia dell’immagine, scene e costumi ndr.]: cosa fare in questo spazio dell’Istituto Benjamenta, riprodurre l’architettura di un istituto reale? Non era questa la nostra intenzione. L’Istituto Benjamenta è una rete di tensioni che si crea tra la presenza di Jacob il suo raccontare questo spazio: il lettore conosce questo spazio soltanto attraverso il racconto di Jakob nel romanzo.
L’altro punto da cui sono partito è il sottotitolo di Jakob von Gunten ovvero Un Diario; un diario in cui non è segnato il tempo, dove non ci sono giorni, mesi, in cui si ha la sensazione che potrebbero essere passati anni fra una pagina e la successiva. Jakob inizia dicendo:«Da quando mi trovo qui all’Istituto Benjamenta sono riuscito a diventare un enigma per me stesso». Non sappiamo da quanto tempo Jakob si trovi lì. Questo porta già in una dimensione di incertezza, a cui si aggiunge la descrizione degli altri allievi, che Walser dice «si preparano alla vita»: i loro esercizi sono come un’anticamera per la vita, come se si preparassero a uscire, senza che venga specificato verso cosa si preparino ad andare. La domanda allora sarà: che cos’è l’Istituto Benjamenta? L’adolescenza? Una fase della vita? Un momento in cui sono insieme la beatitudine il castigo? La grazia e il servire?
A evocare questo spazio c’è anche il direttore dell’istituto, il signor Benjamenta, che nella mia riduzione non appare, ma soltanto nominato, evocato da un quadro appesa al contrario, che è il ritratto dello stesso Walser. Invece la figlia del direttore, Lisa Benjamenta, ad un certo punto diventa la guida per Jakob, di questo ne parla anche Calasso, verso gli appartamenti interni, descritti a tratti come una discesa allucinata agli inferi o come la grande scoperta della vita. Qualche pagina dopo, quegli stessi appartamenti interni sono descritti come delle stanze in cui c’è solo una vasca con dei pesci che gli studenti devono pulire.
Il tentativo mio e di Fabio Cherstich è stato quindi quello di tenere, anche nello spazio, un discorso di tensioni e sottomissione a un potere che non si vede mai, insieme a un continuo passaggio tra sonno-sogno-veglia. Non serviva avere una vera chiusura o delle pareti, c’era bisogno però avere delle tensioni tra i personaggi. Il ritratto appeso al contrario che non viene mai spiegato durante lo spettacolo, rimane come elemento di scenografia e può essere letto diversamente ogni volta, in base anche ai diversi punti dello spettacolo. L’acquario in scena diventa, ad un certo punto, un paesaggio ulteriore in cui Jakob si perde.
Il suono anche diventa una drammaturgia: lo spazio viene abitato da suoni e passi, echi e metronomi e microfoni, restituendo la mia fascinazione verso il romanzo. La costruzione dello spazio coincide con il tentativo di capire quali sono le tensioni dentro il romanzo e restituirle, Sicuramente questa cosa ha influenzato anche dei miei lavori successivi: per Nottuariviene costruita una sorta di macchina che segue la scrittura di Ligotti, una scrittura in cui si perdono le coordinate tra presente e passato e le storie si mescolano.
Francesco Fiorentino: Gli spazi del Jakob von Gunten di Walser hanno qualcosa di intimo rimanendo però estranei, a me viene da dire come gli spazi dei sogni che sono spazi nostri, interiori, che mantengono però al tempo stesso una dimensione di estraneità e alterità, che io noto come una cifra anche del teatro di Fabio: i suoi sono spazi che hanno un ordine e una pulizia particolare. Il lavoro di Fabio Cherstich sul teatro di Condemi è essenziale, tutto è molto pulito, seppur ambiguo, lo spazio sembra intimo, però allo stesso tempo angosciante e strano, straniante. Nel finale di Jakob von Gunten questo spazio si sporca, diventa disordinato: c’è la neve, c’è un’accumulazione che rappresenta l’uscita verso un fuori che è il deserto, l’apertura totale, il deserto è il luogo che supera tutti i luoghi, il più disorientante che esiste: più del labirinto, perché ha indicazioni.
Un altro elemento significativo di Fabio è che la sua è scenografia fatta di tanti spazi che si aprono. Mi fa pensare a certe cose di Kafka, in cui non si sa mai cosa c’è dietro ogni porta, in Nottuari è così, proprio come negli spazi degli incubi. E poi c’è l’elemento dell’ascolto. In Walser Fabio lavora su una drammaturgia sonora molto strutturata, dal metronomo e tutta una serie di suoni che strutturano lo spettacolo. A proposito del suono è interessante notare che in Walser la fantasia è associata, evocata dal suono, dove si parla dello spazio che trascende, dell’oltre, del fuori. Questo è legato al suono, all’ascolto. Qualcuno ha detto che Walser gioca contro l’egemonia del visuale della cultura moderna, perché il visuale dà una cornice. Il tentativo è dunque quello di superare la cornice. Come diceva Derrida, l’orecchio è l’organo più vulnerabile; è sempre aperto, non si può chiudere come gli occhi, ma si può solo tappare. Ma non è la stessa cosa.
Walser è un autore che, nonostante non sia primariamente legato al teatro, molto vi ha a che fare sia per quanto riguarda gli adattamenti: basti pensare al lavoro della Casa d’argilla sempre su Jakob von Gunten o all’Etang di Giselle Vienne, o ancora Brentano di Romeo Castellucci, ma anche perché spesso nei suoi racconti descrive il teatro che, dice, nasce dalla “mancanza di ciò che avrebbe dovuto essere”, Jaques Bondy dice di lui che nel raccontare sembrava sempre stesse costruendo una recita. In cosa consiste dunque la specificità che avvicina Walser al teatro?
Fabio Condemi: In un racconto che si chiama Un incendio a teatro, ad un certo punto della narrazione un teatro brucia c’è una sorta di strano disastro, è un racconto che ho letto spesso durante le prove, perchè come alcune pagine di Jakob von Gunten prende una deriva inaspettata. C’è un momento del romanzo in cui Jakob immagina di essere un soldato sotto Napoleone e la narrazione subisce un cambiamento radicale di stile, ci troviamo improvvisamente nelle distese innevate. Anche in questo racconto sul teatro, c’è un punto in cui si apre questa scena di incendio, provocando un cambiamento improvviso.
Io personalmente credo che il rapporto di Walser con il teatro si situi in quello che diceva Francesco Fiorentino: paradossalmente ti porta ad andare contro una dittatura del visuale, perché le immagini che dice Walser non si visualizzano, entrano nella testa. In Jakob von Gunten la figurazione così enigmatica di un luogo in cui le persone imparano a servire, è potentemente teatrale, genera immaginazione, fa girare la testa, le orecchie, ti cambia. Oltre a tutto questo c’è da considerare anche che Walser sfugge sempre, e questo porta a cercare il vuoto tra questa immagine che colpisce così potentemente e il fatto di volerla concretizzare, parla, ma non è mai descritta in modo definito e definibile. Un’altro nucleo, per tornare al saggio di Calasso, che a me aveva colpito moltissimo e che è tornato spesso nel modo lavorare sul testo, è quando lui parla di ironia ininterrotta di Walser, in cui anche prendersi sul serio il creare delle immagini dello spettacolo viene messo in discussione. Tutte le immagini che c’erano nello spettacolo dovevano in qualche modo svanire l’una nell’altra senza prendersi troppo sul serio e senza cercare di dare un’importanza specifica a una in modo da guidare troppo lo spettatore. La forza di Walser è che, alla fine di una sezione come la descrizione degli appartamenti interni, in cui sembra descrivere una discesa negli inferi, lui dice «Oggi poi ho pulito le posate» È come se non fosse successo niente.
Francesco Fiorentino: Per quanto riguarda il rapporto di Walser con il teatro di Walser ci sarebbe da ragionare sulla figura dell’attore, lui parla sempre di se stesso, anche in prosa ha scritto tantissimo, parlando quasi solo di se stesso, senza però dire niente di intimo. È come se parlasse di se stesso senza avere un’interiorità, rappresentandosi come senza interiorità.
È veramente un attore in questo senso, nel senso che sembra veramente, nel mezzo di una parte, che non creda a quello che dica e che stia recitando quello che dica, però non si sa bene poi a che cosa creda veramente. Questo è un altro modo per definire quell’ironia ininterrotta: non si sa mai quando è serio, non si sa mai quando è lui. In questo risiede il suo essere teatrale: è un attore che non smette mai di essere attore per tutta la vita. Anche quando dorme, è qualcosa di angoscioso, perché è un attore che non torna mai ad essere lui. Questa è la cosa più teatrale: fa finta, è cerimonioso, è troppo esagerato, è sempre Fritz Kocher. Questo penso che sia una natura essenzialmente teatrale, perché a teatro non si sa mai se si deve credere o meno.
Nata a Pescara nel 1995, diplomata al Liceo Classico G.D’Annunzio di Pescara nel 2014, consegue la doppia laurea in Filologia Moderna e Études Italiennes all’interno del progetto di codiploma fra l’Università la Sapienza di Roma e La Sorbonne Université di Parigi con una tesi dal titolo La Nuit des Rois di Thomas Ostermeier alla Comédie-Française: per una definizione di transnazionalità a teatro. , svolgendo inoltre ricerca archivistica presso la biblioteca della Comédie-Française. Scrive per diverse testate online di critica e approfondimento teatrale, occupandosi soprattutto di studiare gli intrecci fra i linguaggi e le estetiche dei vari teatri nazionali europei.
Nel definire gli spazi della cultura Homi K. Bhabha parla di spazi inter-medi che costruiscono il terreno per l’elaborazione di strategie del sé, che danno il via a nuovi segni di identità. Che ruolo ha la drammaturgia nella creazione di questi nuovi segni di identità? Quali sono i ruoli che contribuiscono all’operazione? Ne abbiamo parlato con Margherita Laera, autrice di La drammaturgia contemporanea in Europa – Una mappatura degli ecosistemi e delle pratiche (Franco Angeli, 2023) traduttrice teatrale e docente all’università del Kent.
Da cosa nasce questa necessità di parlare di drammaturgia contemporanea in Europa?
Dunque, la necessità nasce da un progetto sviluppato da Fabulamundi – Playwriting Europe: creare una mappatura dei vari contesti nazionali e regionali, approfondendo come gestiscono la drammaturgia contemporanea come la raccontano, come la fanno, quali risorse, quali sistemi ci sono alla base di queste pratiche e culturalmente, quali sono le attitudini. Tempo fa, come scrivo nel libro, mi sono presentata a Claudia Di Giacomo (responsabile del progetto Fabulamundi – Playwriting Europe ndr.) che mi ha parlato della ricerca che è alla base di questo libro, il mio tentativo è stato quello di implementare questo progetto e di renderlo un po’ mio, interpretarlo dal mio punto di vista, secondo quelle che sono le mie ricerche e i miei interessi di ricerca, di certo già molto allineati con la proposta di Fabulamundi.
Il punto di partenza è stato riscrivere le domande attraverso cui far scaturire il lavoro, successivamente abbiamo organizzato insieme come diffonderle, come ottenere i dati necessari. Il processo ha portato alla compilazione di un questionario, che è stato poi diffuso nei paesi europei coinvolti. Il passaggio successivo è stato rendere il questionario rappresentativo, tenendo presente la grande quantità di risposte provenienti dalle diverse realtà prese in esame.
Quindi, dopo un’attenta analisi dei dati per determinare la loro esattezza, ho sviluppato un metodo per garantire l’obiettività dei risultati del questionario. In molti casi, ho scoperto che i dati erano parziali, quindi ho coinvolto una rete di esperti sia dal mio network che da altri paesi. Attraverso interviste mirate, abbiamo ottenuto commenti e revisioni sui dati preliminari, simili a una peer review su un articolo scientifico. Questo processo ha arricchito e affinato ulteriormente il report, grazie alle conversazioni approfondite con gli esperti. Alla fine abbiamo ottenuto una comprensione più completa dei contesti coinvolti e abbiamo riscritto i report di conseguenza, raggiungendo così il risultato desiderato.
La distinzione tra ‘dramaturgy’ e ‘playwright’ che viene menzionata nell’introduzione al libro, può essere applicata anche ad altri contesti teatrali al di fuori dell’Inghilterra? E in che modo questa differenza influenza il ruolo e il lavoro del drammaturgo?
Sì, c’è una differenza sostanziale tra queste due pratiche, anche se vengono talvolta indicate con lo stesso nome. La scrittura drammatica, o playwriting, e la drammaturgia sono due ambiti distinti. La varietà delle lingue e dei loro termini è utile, in quanto consente di attingere a diverse sfumature concettuali da contesti differenti.
In molti paesi, come Germania e Repubblica Ceca, esiste una percezione ben definita di queste due figure e dei rispettivi ruoli. In Italia, ad esempio, non sono così codificate. Dipende da come si vuole organizzare il processo creativo e suddividere i compiti. Se quindi si fa spazio per queste due figure distinte, una si occupa di scrivere da zero, a grandi linee, l’altra si occupa di pensare il mondo, il viaggio dello spettatore rispetto al testo.
Il ruolo del dramaturg è culturalmente specifico e varia notevolmente da contesto a contesto. Ho recentemente partecipato al lancio di un libro che trattava il ruolo del dramaturg negli anni ’80 in Germania. Si trattava di una figura presente durante le prove teatrali, che stava lì e guardava e diceva a tutti quando sbagliavano, simile a un critico integrato nel processo creativo.
Questo tipo di figura non è molto diffusa nel Regno Unito, ma alcune compagnie teatrali utilizzano ciò che chiamano “embedded critic” o “friendly critic”, il ruolo viene chiamato così, ma viene anche chiamato drammaturgo e può essere inteso in tanti modi, ci sono tante opportunità. In Italia manca spesso una figura di drammaturgo che possa assistere la direzione artistica nelle scelte di programmazione e sviluppo dei progetti. La mancanza di tempo per leggere, commissionare e sviluppare le idee è spesso evidente e limita la crescita e la diversità del panorama teatrale italiano.
Perché il ruolo del dramaturg fatica ad essere delineato e a trovare spazio in Italia ma anche in altri paesi?
Penso sia una questione culturale, perché tutte le cose esterne faticano ad essere integrate in un contesto nuovo, ogni cultura funziona all’interno dei suoi codici e delle sue tradizioni e le tradizioni italiane non prevedono questo ruolo fino adesso. Ovviamente i tempi si evolvono, non ha però senso trapiantare o paracadutare una cosa che non è radicata in un contesto, pian piano se alcune realtà riescono a e vogliono fare avanguardia in questo senso, creando il cambiamento, magari potranno creare in questo senso una tendenza che verrà seguita, ma il sistema teatrale italiano non è tradizionalmente predisposto alla presenza di questo ruolo al momento.
l’Italia per una certa parte è molto esterofila, la figura del dramaturg non funziona però se non c’è un sistema a cui si può attaccare, ci può essere un dramma in un teatro in cui la direzione artistica decide che c’è, questo però non rappresenta una scelta sistematica.Questa è la mia versione di fatti, non è una cosa italiana al momento, in Italia ci sono diversi tipi di tradizioni. Oltre ad una resistenza culturale, c’è da considerare anche l’aspetto economico non essendo il dramaturg un ruolo assolutamente estremamente necessario, nel senso che il tipo di lavoro che fa viene spesso svolto da altri tipi di figure, diventa un lusso in qualche modo. La Germania ha moltissimi investimenti per la cultura e ha una tradizione, ovviamente in queste condizioni non si pone il problema, mentre in Italia bisogna crearla una tradizione, se si vuole coltivare la drammaturgia contemporanea.
In Inghilterra, questa tradizione è già presente poiché c’è un’attaccamento al testo molto più forte. Anche se, in termini di finanziamenti culturali, ci sono meno investimenti rispetto a Germania e Francia, dve ad esempio esiste un’organizzazione commerciale molto forte e un vasto pubblico, che promuovono scambi culturali. La selezione di testi e il supporto agli autori hanno un ruolo chiave nell’attività culturale di paesi, motivo per il quale il Regno Unito sostiene fruitori della cultura come quei posti come literary managers che non sono scrittori, ma spesso traduttori o editori. Questo sistema, quindi, pari i lavori retributivi e promozionali in modo relativamente equo.
Il sistema britannico sostiene la drammaturgia perchè c’è tutta una tradizione di commissionare testi e a quel punto molti autori si ritrovano sotto commissione e possono continuare a fare il lavoro che vogliono. C’è una grandissima attenzione di pubblico una grandissima attenzione di tutti i teatri alla nuova drammaturgia, questo da sempre. Anche lì si tratta di una tradizione. In Italia invece c’è una tradizione che non privilegia tanto il testo necessariamente, ma la presenza di un attore-autore che dirige le sue cose, un artista completo, c’è questa tradizione, che va bene, che però semplicemente non crea un’ecologia attorno alla drammaturgia.
Nel corso della tua ricerca sei riuscita ad evidenziare delle tematiche comuni, dei fili rossi che uniscono le drammaturgie europee?
Le tematiche a livello europeo sono tante, non ti saprei dire così su due piedi quali sono i trend anche perché variano tantissimo come variano le culture e i discorsi in ogni paese per esempio in Inghilterra si parla molto del cambiamento climatico, in Italia ho faticato a trovarne, però a livello europeo sicuramente ce ne sono tanti sul tema. Molti testi approfondiscono la questione dei migranti, della migrazione in generale, tema che viene abbastanza trattato anche in Italia e anche altrove. Ciò che cambia è la voce di chi ne parla, spesso l’accesso alla posizione di drammaturgo e di scrittore teatrale è limitata ai privilegiati quindi le tipologie di discorso sulla questione dei migranti variano molto rispetto da paese a paese. In Inghilterra ad esempio cambiano tantissimo le prospettive perché si parla di scrittori di background migratorio ma anche di global majority come, dico nel libro. In generale credo sia molto presente il tema degli incontri culturali e interculturali e la vita ai tempi del capitalismo. Altra questione è quella del ruolo della donna, questo è un tema che viene fuori molto.
Le grandi differenze però dell’Europa rispetto all’America e devo dire che parlo dell’Europa continentale sono stilistiche, non tematiche: come vengono affrontati certi temi questa è la vera differenza c’è una più ampia libertà e più varietà a livello europeo dal punto di vista stilistico di quella che troviamo nel mondo inglese o in America. La mia percezione è che gli scrittori teatrali negli Stati Uniti e anche nel Regno Unito sono più legati alla storia vera e propria, a uno sviluppo drammatico, mentre dal punto di vista dell’Europa continentale c’è molto più grande apertura verso il post drammatico e quindi un uso del teatro molto più simbolico molto meno psicologico e, consequenzialmente, una più grande distanza tra il teatro, il cinema e la televisione. Mentre negli Stati Uniti e in Inghilterra c’è un allineamento molto più ampio tra quello che si vede in tv e nel cinema e quello che si vede a teatro tant’è vero che gli scrittori cambiano media e continuano a fare un po’ di uno e un po’ dell’altro, ed è per questo che riescono anche a sopravvivere, questa è un’ecologia che funziona.
Come il tuo lavoro di traduttrice ha influenzato la ricerca?
La cosa più importante su cui mi fa riflettere la traduzione è la traduzione culturale, per me la parte più interessante è proprio quella. non mi limito a pensare che parola usare in un determinato contesto, ma penso come tradurre una frase in una maniera che renda, che abbia un effetto non equivalente a quello che aveva nell’originale. Come posso comunicare il senso dell’originale a un pubblico nuovo? E come posso reinventare, riposizionare la proposta dell’originale per un pubblico nuovo? E che senso ha? Sono tutte domande registiche, mi metto nei panni della traduttrice come se facessi una drammaturgia per un regista.
E ovvio che poi dopo sono molto rare le occasioni in cui io poi ho la vera opportunità di parlare con un regista che metterà in scena i testi che traduco,mi chiedo però quale sia il valore di ogni battuta in un nuovo contesto. Il centro per me quindi è parlare di contesti culturali, di trasformazione e dialogo culturale.
Nel libro, menzioni il ruolo del gatekeeper nel contesto teatrale. Durante un recente incontro del progetto Omissis, incentrato sulla drammaturgia, è stato discusso il potenziale di sviluppo del pubblico e di coinvolgimento degli spettatori, soprattutto considerando che la drammaturgia è spesso la parte meno conosciuta dello spettacolo teatrale. Quali sono i modelli esemplari o azioni specifiche che hanno dimostrato di essere particolarmente efficaci nel ruolo del gatekeeper nell’approccio al pubblico?”
Se intendiamo il gatekeeper come direttore artistico, in questo caso, anche lì si tratta tutto di una questione culturale, nel senso che in Italia si tende a privilegiare e a dare visibilità al regista, agli attori, ma agli scrittori no. Questa però è una tendenza europea, a livello europeo, per la maggior parte delle persone con cui ho dialogato, in Europa continentale, escludendo l’Inghilterra, la figura che ha più potere è il regista. Da una parte quindi si potrebbe parlare du regista come gatekeeper. Ci sono varie azioni che si possono compiere in questo senso. Bisogna prendere la questione da varie posizioni perché non c’è un singolo tipo di gatekeeper che può cambiare la situazione. Molte azioni, come i premi di drammaturgia, aiutano. Ovviamente non sono cose nuove, però creano più opportunità, più, a quel punto c’è più discorso rispetto alla drammaturgia. Altri gatekeeper da tenere conto sono i giornali e i critici.
Per cambiare le cose non basta solo cambiare i discorsi dei teatranti dall’interno, bisogna cambiare la percezione del pubblico. Quindi c’è necessità di pensare non solo alle webzine e agli approfondimenti critici di settore, ma alla grande istituzione, alla stampa, ai giornali. Cosa vede una persona qualsiasi aprendo il giornale? Cosa scrive il critico? Cosa mette in evidenza il regista, la scrittura? Per esempio in Inghilterra la visione del ruolo del drammaturgo per chi non fa parte del mondo teatrale è molto più sviluppata, perché se ne parla in genere, non perché se ne parla all’interno dei discorsi dei teatranti. Credo sia importante cercare di evidenziare per il pubblico chi è il drammaturgo. C’è necessità di più premi, più articoli, più discussioni, più insegnamento nelle scuole, su vari livelli bisogna moltiplicare i discorsi, con tutti, con il pubblico, con i bambini, con i critici, con la televisione, con i giornali, con le comunità più marginalizzate, con tutti quelli che possono avere benefici dalla scrittura teatrale.
È essenziale approfondire questa discussione, ma ci sono molte domande importanti da esplorare e non sempre abbiamo risposte definitive. Ad esempio, dobbiamo considerare quale tipo di collaborazione vogliamo instaurare con i registi: desideriamo un modello in cui lo scrittore ha un ruolo predominante, o preferiamo un approccio più equilibrato in cui entrambi sono considerati alla pari?
Non esiste una risposta universale a questa domanda, e non possiamo semplicemente adottare modelli stranieri senza valutarne attentamente le implicazioni. Prendiamo ad esempio il modello del Royal Court, in cui lo scrittore ha un ruolo centrale durante le prove e ha il potere di influenzare ogni singola parola fino all’ultimo momento. Questo approccio potrebbe non essere adatto a tutti i contesti e a tutte le opere.
È importante riflettere su quale direzione vogliamo prendere per lo sviluppo della drammaturgia, sia a livello sistemico che culturale. Al momento, credo che manchi un adeguato dibattito su questi temi e sulla loro rilevanza per il nostro futuro artistico.
Conducendo questo studio, mi sono imbattuta in diversi modi di intendere la pratica teatrale, e semplificati dalle diverse modalità in cui le varie culture linguistiche denominano l’arte di scrivere testi teatrali e concepiscono il ruolo del drammaturgo prima, durante e dopo le prove. L’inglese tra “playwriting” si traduce in “dramaturgie” in tedesco; “dramaturgie” in olandese, cieco e francese; “drammaturgia” in italiano; “dramaturgia” in spagnolo catalano, portoghese, polacco, rumeno, finlandese; e, naturalmente “δραματουργία” in greco. Per confondere ancora di più la situazione, la lingua inglese, presenta anche un altro termine, derivato dalla stessa radice greca, ovvero “dramaturgy”, riferito a un concetto che differisce ampiamente da ciò che la maggior parte dei madrelingua inglesi ora intende con “playwriting“, ma che tuttavia vi si avvicina abbastanza da generare confusione. Nel gergo teatrale inglese odierno i due termini non sono sinonimi, sebbene questa differenza non sia nota a un comune anglofono, a meno che non abbia legami con il teatro. Nel mondo anglofono “playwriting” indica l’arte di scrivere testi teatrali originali, sia che si basano su una vicenda nuova sia che siano adattati a partire da una fonte preesistente, mentre “dramaturgy” è l’arte di organizzare e comporre storie destinata una performance, partendo da testi già esistenti ma anche senza basarsi in alcun modo su un testo. Come sostiene Theresa Lang “dramaturgy” consiste nel “curare un’esperienza destinata un pubblico” (Lang 2017:7) mentre un “dramatist” fa lo stesso lavoro di un “playwright“, un “dramaturg” (parola presa in prestito dalla lingua e della cultura teatrale tedesche” lavora con i testi per il palcoscenico o con la struttura della narrazione nel corso dello spettacolo, spesso dando consigli un regista, ma non è necessariamente l’autore “originale” del testo messo in scena. Tuttavia ,nella maggior parte delle lingue europee, entrambe le pratiche playwriting e dramaturgy sono coperte dal termine derivato dalla radice composta greca -drama che significa “dramma” e ourgìa “fare/creare/plasmare”.
Nata a Pescara nel 1995, diplomata al Liceo Classico G.D’Annunzio di Pescara nel 2014, consegue la doppia laurea in Filologia Moderna e Études Italiennes all’interno del progetto di codiploma fra l’Università la Sapienza di Roma e La Sorbonne Université di Parigi con una tesi dal titolo La Nuit des Rois di Thomas Ostermeier alla Comédie-Française: per una definizione di transnazionalità a teatro. , svolgendo inoltre ricerca archivistica presso la biblioteca della Comédie-Française. Scrive per diverse testate online di critica e approfondimento teatrale, occupandosi soprattutto di studiare gli intrecci fra i linguaggi e le estetiche dei vari teatri nazionali europei.
“Per tutti gli adolescenti il passaggio all’età adulta è come attraversare un fiume in piena con molte correnti e molto pericoloso. Ma per i nostri ragazzi è attraversare un fiume in piena con gente che spara da tutte e due le rive”. Le parole di Carla Melazzini, insegnante vissuta nel secolo scorso, che si leggono nelle ultime pagine del libro di Francesca Saturnino, La non-scuola di Marco Martinelli – Tracce e voci intorno ad Aristofane a Pompei (Luca Sossella Editore), rendono l’idea della sfida educativa nelle periferie. Per la scuola, ma anche per il teatro.
Sfida che il regista e drammaturgo emiliano-romagnolo ha accettato ancora una volta, ritornando a Napoli a 20 anni da Arrevuoto, con il progetto quadriennale Sogno di volare in cui gli adolescenti di Pompei hanno portato in scena le opere del commediografo Aristofane Uccelli, Acarnesi e Pluto e a cui è dedicato il testo di Saturnino, edito da Luca Sossella nel maggio scorso.
Critica teatrale, giornalista e insegnante, proprio per questo suo essere figura capace di stare sia sulla soglia e di osservare, sia di essere immersa nell’esperienza totalizzante del teatro, Saturnino ci restituisce un testo che mette in luce sia la profonda connessione tra teatro e scuola e le sue potenzialità, sia il salto in avanti che questa esperienza ha costituito per la pratica teatrale stessa del Teatro delle Albe, come si evince dalle interviste a Marco Martinelli e ad Ermanna Montanari contenute nel libro.
Sogno di volare, infatti, rappresenta per Martinelli e Montanari un ritorno e al tempo stesso un proseguimento rispetto ad Arrevuoto del 2004, di cui parlano entrambi come punto di svolta. Martinelli, raccontando come a partire da Scampia non sarebbe stato più possibile limitare l’esperienza della non scuola alle Scuole Secondarie di secondo grado, ma occorreva aprirla anche alle Medie e alle Elementari. “Adolescenti furiosi come quelli d Scampia non li avevo ancora incontrati” (p. 139). Anche i bambini piccoli sono esposti ad una violenza continua di fronte alla scuola e per strada. È il periodo della guerra tra bande Di Lauro e Spagnoli.
Altra importante novità introdotta nella non scuola dopo Scampia è quella di far lavorare insieme gruppi di adolescenti disomogenei tra loro. Martinelli viene invitato da Goffredo Fofi a portare per la prima volta la non scuola anche nelle periferie ma l’allora assessore alla Pubblica Istruzione Rachele Furfaro gli dice che a Napoli o si parte subito con qualcosa di esplosivo o il tutto rischia di arenarsi e gli propone l’idea di far partecipare giovani molto diversi tra loro. Si decide allora che gli studenti di Scampia vadano in scena insieme a quelli del liceo classico di piazza del Gesù. Funziona, nascono amori, amicizie, collaborazioni.
Terza novità determinata da Scampia, è stata quella di non limitarsi ad un solo spettacolo, ma prevedere almeno tre repliche. L’idea di un singolo spettacolo inteso come rito di iniziazione, unico e irripetibile, in quel contesto non avrebbe funzionato. Napoli è platealità. Quindi lo spettacolo è andato in scena davanti al popolo delle Vele, al Mercadante, poi è addirittura partito in tournée ed è arrivato al teatro Argentina di Roma. Una metamorfosi, insomma, a cui il Teatro delle Albe si è sentito chiamato e che nell’esperienza di Pompei sta trovando la sua continuità, grazie alla collaborazione con le istituzioni e con Ravenna Festival di cui il progetto è parte.
Altra suggestione molto forte da parte del regista è la constatazione che se, come diceva Eduardo, Shakespeare è il primo della classe di noi drammaturghi, noi italiani possiamo dire che Napoli è la capitale del teatro italiano. Ha provato, con i testi di Aristofane, a leggerli immaginando la voce di Totò e Peppino e rendevano benissimo.
Ermanna Montanari, invece, nell’intervista di Saturnino, racconta di quanto abbia trovato “la lingua di Napoli, materia incandescente, tellurica, una sfera sonora che crea il mondo” (pag. 152). E ancora: “A Napoli (…) c’è qualcosa di stonato, abissale, la presenza di un Dioniso senza organi, qualcosa che si mette di traverso (…)”. Un luogo di vitalità estrema, sempre prorompente, anche in mezzo agli estremi della violenza e della povertà, la casa di Dioniso, insomma, che dice sì all’irrazionalità della vita. Tanto che Ermanna parla di una cosmogonia vocale magica che ha a che fare con l’urlo (pag. 155). Proprio sull’urlo (della liberazione, della caduta, del parto) ha lavorato con le ragazze, soprattutto del liceo Genovesi, inizialmente più restie rispetto alle altre, abituate ad utilizzare soprattutto la loro voce sociale.
Il progetto Sogno di volare di Pompei, che ha iniziato a prendere vita nel novembre del 2021 è quindi la risultante di una lunga semina e la durata quadriennale sembra corroborare la convinzione che ci sia necessità di tempi lunghi perché dopo lo spettacolo finale si possa avere una restituzione altrettanto potente sulle persone che vi hanno preso parte. Conta, tra le scuole coinvolte, oltre al Liceo Ernesto Pascal e l’Istituto Eugenio Pantaleo di Torre del Greco, il Liceo G. de Chirico di Torre Annunziata e l’Istituto Superiore R. Elia di Castellammare di Stabia.
Ma come nasce Sogno di volare? Parte con l’intuizione del direttore del Parco Archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, di coinvolgere gli adolescenti all’interno del sito Unesco. Avverte il contrasto tra la sua bellezza artistica e paesaggistica e la sua inaccessibilità per i giovani del territorio, che vivono in contesti di degrado urbano e senza prospettive. Da qui il contatto con le varie istituzioni scolastiche e territoriali, poi la richiesta a Franco Masotti, direttore artistico di Ravenna Festival, di poter organizzare “una grande opera lirica e musicale in cui coinvolgere la popolazione soprattutto i giovani adolescenti. Gli abbiamo proposto un altro tipo di operazione” (p. 184.185). L’incontro con Marco Martinelli e il Teatro delle Albe, l’invio del film The Sky over Kibera, poi la strada, aggiunge Masotti, è stata tutta in discesa.
Ecco allora gli adolescenti, che nel Parco Archeologico per 9 mesi si esercitano e riportano in vita il livore delle commedie di Aristofane, il suo antibellicismo e il suo sarcasmo, attraverso la non scuola.
Non scuola, che come leggiamo nel Noboalfabeto, scritto da Ermanna Montanari e Marco Martinelli nel 2001 e riportato nel testo di Saturnino, è incardinata su 4 pilastri: il primo è appunto quello degli adolescenti con il loro essere meravigliosamente asini, quindi spontanei, imperfetti, arrabbiati, senza filtri. Il secondo è quello delle guide, ex adolescenti che hanno seguito il Teatro delle Albe e ai quali Martinelli/Montanari hanno affidato il passaggio del testimone per portare i laboratori nelle varie città italiane. A Pompei sono gli ex arrevuotiniGianni Vastarella, Valeria Pollice e Vincenzo Salzano. Terzo pilastro è la tradizione degli autori classici, da “massacrare amorevolmente”: al di sotto del del testo, che dopo secoli, se lo si rappresenta con cieca fedeltà, rischia di rimanere lettera morta, c’è l’emozione che lo ha generato e che rimane universalmente attuale: la rabbia per l’ingiustizia. Così invece, gli adolescenti e il testo, “sfregati come due legnetti” finiscono col riaccendere questa emozione. Ultimo pilastro è la figura dell’insegnante, come “lucido testimone dello scontro in atto”. Istituzione scolastica e teatro, infatti, sarebbero antitetici: l’uno detta regole e limiti, l’altro richiama all’improvvisazione come pratica necessaria. Eppure da anni questa coppia altamente improbabile nel Teatro delle Albe funziona molto bene, perché l’insegnante collabora, assiste, ma non si sostituisce mai alle guide.
Sogno di volare è una produzione di Parco Archeologico di Pompei, in collaborazione con Ravenna Festival, Teatro Mercadante, Teatro Stabile di Napoli, Pompei Theatrum Mundi e Giffoni Film Festival. Le musiche sono di Ambrogio Sparagna, conoscitore delle tradizioni della tammurriata, le luci di Vincent Longuemare, responsabile unico del progetto Maria Rispoli.
Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.
I primi decenni del Novecento hanno visto nascere il desiderio, da parte dei cosiddetti padri fondatori del teatro e della danza, di attuare una vera e propria “riteatralizzazione” attraverso rivoluzioni stilistiche e sperimentazioni nel campo dell’arte scenica.
Nel libro intitolato La danza e l’agitprop: I teatri non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento, pubblicato da Cue Press nel 2015, Eugenia Casini Ropa si sofferma sulla rivoluzione culturale avvenuta in quegli anni in Germania. Studiosa del teatro e della danza del Novecento, ha pubblicato numerosi saggi e volumi di stampo socio-politico sul teatro tedesco e sulla storia della danza moderna e contemporanea. Inoltre, è curatrice della collana editoriale I libri dell’Icosaedro e delle riviste Teatro e Storia e Danza e Ricerca.
Casini Ropa sceglie come soggetti privilegiati di indagine due fenomeni – “i teatri non-teatrali” – che in quegli anni rivelarono in modo più radicale le proprie esigenze di rifondazione. La “nuova danza” tedesca, nata dalla rivalutazione pedagogica del corpo umano basata sul rapporto di interdipendenza e simultaneità tra anima, corpo, disciplina e natura; e l’agitprop, teatro rivoluzionario operaio di agitazione e propaganda nato dall’ideologia socialista.
Dopo un contesto artistico iniziale, lo studio continua concentrandosi su come le realtà e gli artisti che si dedicarono alla scoperta e allo studio della pedagogia, del rito, dello sport, della religione, dell’associazionismo e della politica contribuirono a scardinare gli antichi schemi del linguaggio artistico per creare un nuovo teatro del movimento espressivo.
Il volume si apre esaminando un concetto alla base del cambiamento di pensiero di quegli anni: la “körperseele” (fusione perfetta tra anima e corpo). Questa visione innovativa portò diversi studiosi a rivoluzionare il lavoro con il corpo degli attori e dei danzatori, trasformandolo in una ricerca di una nuova armonia non solo fisica, ma anche morale e spirituale. Tra i protagonisti citati, ci sono pionieri di questa nuova era per la “körperkultur” (cultura fisica), tra cui François Delsarte, Madeleine G. e Mary Wigman, tra le più innovative danzatrici della loro generazione, e il confronto tra la ginnastica euritmica di Émile Jaques-Dalcroze e il metodo di Rudolf von Laban, considerato il padre della danza libera, narrato in seguito all’esperienza della scuola-colonia di Monte Verità.
La seconda parte si concentra sul teatro proletario in Germania, esaminando i suoi sviluppi tra gli anni Venti e Trenta e il conseguente rafforzamento di un sentimento collettivo di consapevolezza e lotta di classe. L’agit-prop, nato dalla collaborazione tra attori-operai e scrittori rivoluzionari, metteva in scena rappresentazioni con un forte contenuto ideologico e propagandistico, finalizzate a risvegliare una nuova e consapevole coscienza di classe tra il proletariato.
Erwin Piscator, Béla Balázas, Friedrich Wolf e altri intellettuali engagés si fecero portavoce di un allontanamento drastico dalla forma, dai temi e dal naturalismo del teatro borghese, per dare vita a una nuova tipologia di “teatro-comunicazione.”
Alla conclusione dei vari contesti storici indagati, segue un ultimo capitolo dedicato alle testimonianze iconografiche. Eugenia Casini Ropa conclude il volume con una ricca raccolta di immagini: danzatrici con tuniche in pose che richiamano i fregi e le statue dell’antica Grecia, allievi della scuola labaniana, esempi di esercizi di ritmica nell’Istituto di Hellerau di Dalcroze (fotografie che mostrano il lavoro di ristrutturazione effettuato in collaborazione con Adolphe Appia), e foto dei gruppi agitprop, ritratti espliciti dello spirito di lotta che li animava. Un’enciclopedia di fotografie che facilita la comprensione degli studi rivoluzionari di quegli anni e delle peculiarità che caratterizzano le diverse tipologie di ricerca artistica.
«Che cosa resta di tutto questo e che cosa può ancora oggi, a un secolo di distanza, risuonare in qualche modo dentro il lettore? Qualcosa di attuale compare, almeno ai miei occhi, guardando più a fondo.
Qualcosa allora sognato, sperato, perseguito nel pensiero e nella pratica, sperimentato in prima persona come modo di vita sia individuale sia sociale, portato con decisione alle estreme conseguenze. E questa qualità del vissuto è già in sé un primo, forse semicosciente motivo di attrazione ai nostri giorni: la lezione esplicitata della ormai tanto difficile capacità di credere fino in fondo in un’idea – che non sia il denaro e il successo – e di tradurla in azione costante nella vita e per la vita.
Compare qualcosa, dicevo, che si sintetizzava allora in due concetti in problematica dialettica: emancipazione dell’individuo e costruzione del collettivo o del coro, a seconda delle parti in causa, e che oggi, in mutate condizioni, potremmo tradurre in: ridefinizione della persona e costituzione della comunità. […]
La danza, il teatro, l’arte in generale, si propongono ancora oggi come allora, ma con forza e voce purtroppo assai affievolita – almeno nel nostro Paese – da un clima culturale sfavorevole, come possibili, creativi strumenti di formazione personale e di relazione e aggregazione sociale. Occorre scoprire e diffondere – e in questo nuovo inizio di secolo molto già si lavora sperimentando – i modi più efficaci per fare ancora dell’arte un laboratorio sperimentale utile alla crescita delle persone e della cultura sociale.
E poiché non si può prescindere dalla storia per orientarsi al futuro, le immagini un po’ sbiadite e fuori moda di questo volume acquistano probabilmente nuova brillantezza e le storie di uomini e donne che hanno creduto e lottato fino in fondo, qualunque si sia poi rivelato l’esito delle loro lotte, possono ancora mettere in moto il pensiero e risvegliare in chi legge l’eco di una necessità di partecipazione mai del tutto sopita.»
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Il teatro nella Firenze medicea, edito da Cue Press,è un volume scritto dalla Professoressa Sara Mamone, docente di Storia del teatro e dello spettacolo all’università di Firenze. Il periodo preso in esame è quello compreso tra il 1536 e il 1636, lungo il quale furono poste non solo le basi architettoniche del Teatro all’italiana, ma anche quelle che riguardavano le luci, la costumistica e la recitazione.
Cosimo de Medici è uno dei protagonisti del volume della Mamone. Egli ebbe come scopo quello di associare la propria famiglia all’idea di un patrimonio artistico e culturale, senza porre differenze tra la sua dimora e gli altri palazzi signorili della città. Possiamo dire che, sostanzialmente, continuò il lavoro intrapreso da Lorenzo de Medici e, grazie al suo operato, Firenze mantenne il suo primato artistico vivendo il suo lungo Secolo d’oro.
La professoressa Mamone, specialista dell’argomento, permette al lettore di approfondire un periodo artistico davvero interessante e da un’originale prospettiva teatrale.
Il nostro Paese ha dato natali ad artisti del calibro di Brunelleschi, Vasari, Buontalenti, che hanno realizzato spettacolari ambienti architettonici, come i teatri fiorentini presenti nel Cortile del Palazzo Mediceo, nel giardino di Palazzo Pitti e nel palazzo degli Uffizi. In questi luoghi sono state messe in scena diverse rappresentazioni teatrali, ospitando prodigi della scenotecnica e della scenografia, ovvero macchine sceniche e raffinatezze tecniche.
Nel volume è evidente che con il passare degli anni le strutture fiorentine si avvicinano sempre di più al cosiddetto “Teatro all’Italiana”. Secondo la professoressa Mamone, l’avvenimento che segna la sua nascita fu il matrimonio tra Ferdinando II e Vittoria della Rovere, nel 1637. Le nozze furono celebrate nel cortile di palazzo Pitti, dove, per l’occasione, fu messo in scena lo spettacolo Le nozze degli Dei. Il palcoscenico venne abbassato al livello del cortile, l’illuminazione assicurata da alcune lumiere pendenti dai ballatoi e il cielo del cortile coperto da tende. Gli spettatori presero posto sui sedili, sulle gradinate di platea e sul palco reale, spazio riservato ai due sposi. In particolare, il volume offre un’apprezzabile descrizione dell’ultima scena dell’allestimento, dove l’elaborata manifattura dei prodigi tecnici e dei costumi contribuì a rendere lo spettacolo una delle opere chiave della figuratività barocca.
Il teatro granducale divenne, dunque, un esempio architettonico per le successive strutture teatrali. Inoltre, anche il sistema di gestione fu rivoluzionato dall’uso del biglietto d’ingresso, superando, di conseguenza, la distinzione tra gli “eletti”, ovvero coloro che appartenevano a un ceto sociale più elevato, e gli esclusi.
Non bisogna neanche dimenticare i grandi autori che hanno reso memorabile la Firenze medicea, ovvero Ariosto, Ruzzante, Machiavelli, Lasca, Gella, Bargagli, d’Ambra, e Bibbieni, per citarne alcuni. I loro testi venivano messi in scena soprattutto durante nozze, feste, conviti, occasioni mondane che permettevano al Principe di mettere in risalto il proprio potere. Inoltre, è proprio in questi ambienti che si è sviluppata la grande tradizione del balletto e del melodramma, genere quest’ultimo che ha riscosso notevole successo in tutta Europa. Nel lavoro della Mamone è stato possibile scoprire novità assolute, ma anche ritrovare gli elementi cardine del Barocco, movimento caratterizzato dal culto di una stupefacente spettacolarità. Il teatro nella Firenze medicea è un ottimo volume che permette al lettore di fare un salto nel passato e riscoprire un panorama artistico degno delle premure seicentesche descritte dalla professoressa Mamone.
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