Il teatro nella Firenze medicea. Cent’anni di spettacolo fiorentino

Il teatro nella Firenze medicea. Cent’anni di spettacolo fiorentino

A cura di Arianna Dell’Orso

Il teatro nella Firenze medicea, edito da Cue Press, è un volume scritto dalla Professoressa Sara Mamone, docente di Storia del teatro e dello spettacolo all’università di Firenze. Il periodo preso in esame è quello compreso tra il 1536 e il 1636, lungo il quale furono poste non solo le basi architettoniche del Teatro all’italiana, ma anche quelle che riguardavano le luci, la costumistica e la recitazione.

Cosimo de Medici è uno dei protagonisti del volume della Mamone. Egli ebbe come scopo quello di associare la propria famiglia all’idea di un patrimonio artistico e culturale, senza porre differenze tra la sua dimora e gli altri palazzi signorili della città. Possiamo dire che, sostanzialmente, continuò il lavoro intrapreso da Lorenzo de Medici e, grazie al suo operato, Firenze mantenne il suo primato artistico vivendo il suo lungo Secolo d’oro.

La professoressa Mamone, specialista dell’argomento, permette al lettore di approfondire un periodo artistico davvero interessante e da un’originale prospettiva teatrale. 

Il nostro Paese ha dato natali ad artisti del calibro di Brunelleschi, Vasari, Buontalenti, che hanno realizzato spettacolari ambienti architettonici, come i teatri fiorentini presenti nel Cortile del Palazzo Mediceo, nel giardino di Palazzo Pitti e nel palazzo degli Uffizi. In questi luoghi sono state messe in scena diverse rappresentazioni teatrali, ospitando prodigi della scenotecnica e della scenografia, ovvero macchine sceniche e raffinatezze tecniche.

Nel volume è evidente che con il passare degli anni le strutture fiorentine si avvicinano sempre di più al cosiddetto “Teatro all’Italiana”. Secondo la professoressa Mamone, l’avvenimento che segna la sua nascita fu il matrimonio tra Ferdinando II e Vittoria della Rovere, nel 1637. Le nozze furono celebrate nel cortile di palazzo Pitti, dove, per l’occasione, fu messo in scena lo spettacolo Le nozze degli Dei. Il palcoscenico venne abbassato al livello del cortile, l’illuminazione assicurata da alcune lumiere pendenti dai ballatoi e il cielo del cortile coperto da tende. Gli spettatori presero posto sui sedili, sulle gradinate di platea e sul palco reale, spazio riservato ai due sposi. In particolare, il volume offre un’apprezzabile descrizione dell’ultima scena dell’allestimento, dove l’elaborata manifattura dei prodigi tecnici e dei costumi contribuì a rendere lo spettacolo una delle opere chiave della figuratività barocca.

Il teatro granducale divenne, dunque, un esempio architettonico per le successive strutture teatrali. Inoltre, anche il sistema di gestione fu rivoluzionato dall’uso del biglietto d’ingresso, superando, di conseguenza, la distinzione tra gli “eletti”, ovvero coloro che appartenevano a un ceto sociale più elevato, e gli esclusi.

Non bisogna neanche dimenticare i grandi autori che hanno reso memorabile la Firenze medicea, ovvero Ariosto, Ruzzante, Machiavelli, Lasca, Gella, Bargagli, d’Ambra, e Bibbieni, per citarne alcuni. I loro testi venivano messi in scena soprattutto durante nozze, feste, conviti, occasioni mondane che permettevano al Principe di mettere in risalto il proprio potere. Inoltre, è proprio in questi ambienti che si è sviluppata la grande tradizione del balletto e del melodramma, genere quest’ultimo che ha riscosso notevole successo in tutta Europa. Nel lavoro della Mamone è stato possibile scoprire novità assolute, ma anche ritrovare gli elementi cardine del Barocco, movimento caratterizzato dal culto di una stupefacente spettacolarità.
Il teatro nella Firenze medicea è un ottimo volume che permette al lettore di fare un salto nel passato e riscoprire un panorama artistico degno delle premure seicentesche descritte dalla professoressa Mamone.

Ridurre la distanza: Breve storia del teatro sociale in Italia

Ridurre la distanza: Breve storia del teatro sociale in Italia

Articolo a cura di Francesca Lupo

«Le pratiche di teatro sociale sembrano anche svolgere una funzione di mediazione politica, in particolare nelle relazioni tra le istituzioni e gli individui e i piccoli gruppi, con specifico riferimento a soggetti marginali e fragili. Una funzione che nutre il capitale sociale e riduce la distanza e la possibile conflittualità generando occasioni di contatto e di allineamento tra le diverse parti». 

Difficile essere più eloquenti di Giulia Innocenti Malini, professoressa di teatro sociale presso l’Università di Pavia e l’Università Cattolica del Sacro Cuore, autrice del volume Breve storia del teatro sociale in Italia, edito da CuePress nel 2021. Come difficile è il compito che si prefissa, ovvero tirare le fila di una forma teatrale il cui percorso si delinea tortuoso fin dalla sua stessa nomenclatura. Il teatro non è sociale per definizione? E cosa si intende quando lo si pone in contrapposizione ad una spettacolarità da cartellone? Innocenti Malini, nella premessa al libro, accenna alla sua ampia esperienza sul campo (che condivide nel corso di alta formazione per operatori di teatro sociale e di comunità sempre alla Cattolica) che comunque, dice, non le è bastata per configurare un metodo che possa soddisfare tutte le sfaccettature di questa particolare spettacolarità. Dà avvio ad una ricerca che si pone l’obiettivo di essere «prima di tutto, performativa».

«Insomma, interpretare il teatro sociale ci mette di fronte a tutte le complessità metodologiche dello studio del fatto teatrale contemporaneo a cui si aggiunge la specifica complessità di studiare una pratica performativa teatrale che intende perseguire risultati artistici ed estetici, e anche realizzare intenzionalmente obiettivi di ordine sociale, rimandando con questo termine ‘sociale’ a obiettivi volta a volta educativi, di cura, di inclusione, di formazione, di terapia, di sviluppo, di protesta, di riqualificazione ambientale e molti altri».

Il teatro sociale rivendica una letteratura che possa narrare di sé negli stessi manuali di storia del teatro che passano sotto le mani e lo sguardo di menti in formazione, perché effettivamente è dal teatro che potremmo definire “estetico, prettamente artistico” che prende i natali; anzi, probabilmente da uno scarto che lo stesso teatro d’arte ad un certo punto non riesce più a colmare nei confronti di un pubblico che rivendica la sua identità di cittadino. Dalla fine degli anni Cinquanta, da Grotowski a Barba, passando dal Living Theatre, si è cercato di colmare quello scarto, in tutti i modi possibili, ricreando una scena che da principio abbandonasse l’edificio stesso atto alla rappresentazione, per crearne altri di palcoscenici, per le strade, nelle piazze (non inventando niente di nuovo, ma al contrario recuperando tradizioni molto antiche), ed un pubblico che fosse invitato a circondare la scena, se non pure a condividerla con gli attori.

«Questo processo di fuoriuscita dal teatro subisce una forte, decisiva accelerazione sotto la spinta degli eventi sociopolitici del Sessantotto, spostandosi decisamente dal piano del rivoluzionamento tecnico-linguistico dello spettacolo a quello della messa in discussione globale della forma teatro in se stessa» come riporta Marco De Marinis ne Il nuovo teatro (Bompiani, 2000), citato dalla stessa Innocenti Malini. In questo percorso carsico, il teatro sociale indossa diverse forme, dall’animazione teatrale allo psicodramma, dal teatro dell’oppresso fino a recuperare la dimensione della festa. 

Ma, andando incontro al fisiologico raffreddamento degli animi dopo i moti sessantottini, l’attività di molti operatori non si arrenderà, anzi popolerà altri luoghi ancora più urgenti, come carceri, ospedali, scuole, piccole comunità di quartiere, divenendo sempre più capillare. Utile alleato sarà l’università che, attraverso i suoi insegnanti, che spesso si ritrovano loro stessi ad essere attivi nel campo, produrrà una letteratura e dirigerà gli sguardi verso una performatività differente. L’analisi di Innocenti Malini prova a condurre il lettore sino ai giorni nostri, illustrando esempi degni di nota, come il TiPiCi, a cui lei stessa è associata:

«una giovane rete che raccoglie più di sessanta realtà associative artistiche, sociali e di ricerca milanesi che condividono la necessità di riflettere sul rapporto tra arti e pratiche performative e sviluppo partecipato dei contesti sociali per poi progettare congiuntamente processi per-formativi che possano aiutare gli abitanti a fronteggiare la complessità dei problemi di vita in modo integrato, sistemico(multisettoriale e interdisciplinare) e comunitario».

Il teatro sociale è quella forma ibrida in cui, nonostante la sua, alle volte, mancata istituzionalizzazione, chiunque si imbatte nella propria vita. È diventata involontariamente una narrazione scontata, si ha un’idea che esista, come nei contesti di reclusione, nelle scuole. Eppure “gode” dello stigma di cui la cultura tutta è vittima, argomenti lontani dalla formazione di un individuo perché non ritenuti all’altezza delle stesse attenzioni dedicate al corpus dantesco od alla Ginestra leopardiana. Nella futile diatriba per conferirgli un titolo più “sociale” o più “estetico”, il teatro sociale fa, agisce e grazie alla ricognizione di Innocenti Malini ripercorriamo anche la stessa storia del nostro paese. 

Dalla più celebre, come può essere l’esperienza di animazione teatrale che Giuliano Scabia condusse nell’ospedale psichiatrico di Trieste, nel 1973 diretto da Franco Basaglia, abbattendo i confini manicomiali, ponendo in relazione gli internati con i proprio concittadini; a H2Otello, rivisitazione del testo shakespeariano che il Teatro Metropopolare di Livia Gionfrida rappresenta con i detenuti della Casa Circondariale la Dogaia a Prato nel 2014, ponendo l’accento sul femminicidio di cui si macchia il protagonista, la questione su cui interrogarsi. Numerosi sono i nobili esempi nel settentrione, diversamente nel meridione, ma nel quale spiccano percorsi particolari. Uno di questi, meno celebre di altri, è guidato da Claudio Collovà nell’Istituto Penale per Minorenni Malaspina di Palermo, «nato come percorso di ordine artistico anche provocatoriamente contro un utilizzo terapeutico del teatro che la compagnia non condivideva, per affermare un teatro d’arte possibile anche in questi contesti di forte disagio».

Relazioni, comunità, comunicazione: queste le tre parole chiave che esperienze simili riescono ad introdurre in contesti in cui tutt’ora difficilmente è possibile trovargli un margine di discussione, od addirittura ragion d’essere, a causa di un’altra parola, la differenza, che l’essere umano ha spesso sottolineato, convertito in mattoni per costruire imponenti muri, tra malato e familiare, tra bambino ed adulto, tra sfollato e cittadino, tra spettatore ed autore, o semplicemente tra “te” e “me”. 

Innocenti Malini conclude così il suo libro, attraverso le parole di Sisto Dalla Palma in La scena dei mutamenti (Vita E Pensiero, 2001):

«Non si tratta di scardinare i confini tra le varie aree del teatro secondo un assioma che nessuno è in grado di formulare: tutta l’esperienza più recente del teatro dimostra che gli esiti più significativi si sono avuti quando si sono realizzati non solo genericamente scambi e integrazioni tra linguaggi ma incontri tra persone, ognuna portatrice di specifiche esperienze, ma tutte insieme capaci di rappresentare, in una porzione di spazio pur limitato, il grande teatro del mondo. La scena teatrale si pone oggi al centro di una complessità sociale, a volte drammatica, non per evocarla o subirla in modo confuso, ma per assumerla e trasformarla nella prospettiva di autentici atti di libertà e di impegno civile».

I teatri di Artaud: Antonin le fou, lanterna e naufragio

I teatri di Artaud: Antonin le fou, lanterna e naufragio

Articolo a cura di Francesca Lupo

«L’Artaud degli inizi ignorò il corpo, ovvero cercò di annientarlo nella tecnica. Concludendo l’itinerario al teatro della Crudeltà, si rese conto che il corpo non si oppone alla mente, ma ne è la prima condizione di realtà, e l’intima sostanza».

«Tra teatro e metafisica c’è una connessione fondata sulla realtà. Questa realtà è il corpo vivo e presente dell’attore, liberato dalla rappresentazione e diventato capace di azione efficace».

«Artaud affonda l’offensiva contro il teatro del testo, a favore di un teatro della “poesia nello spazio”, fatto di gesti, intonazioni, suoni, grida: tutte le forme espressive che si dispiegano sulla scena, ma non asservite al significato. È anche l’offensiva contro il teatro “pervertito” dell’Occidente, a favore del teatro magico dell’Oriente».

Com’è possibile parlare di teatri per un autore le cui messe in scena furono esigue e fonti di aspre discussioni tra i suoi contemporanei? L’ambiguità di Artaud spiazza incredibilmente, ora intento a scrivere un manifesto che teorizzi la sua pratica, ora stufo delle parole della teoria che impediscono la concretizzazione della pratica. 

Franco Ruffini ce lo racconta ne I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, edito da Cue Press nel 2022, e precedentemente da Il Mulino nel 1996. Ruffini, professore universitario di discipline dello spettacolo e critico teatrale, si pone come obiettivo quello di immortalare la sfaccettata personalità artistica che fu Artaud. Attraversa i punti salienti della sua esistenza in Francia, il passaggio dalla recitazione alla regia, mantenendo costante il suo esercizio di scrittura, tra epistole e manifesti teorici sulle sue idee di teatro, sempre in divenire. Esattamente, indaga sulla travagliata stesura dei manifesti del teatro della Crudeltà e sulla teorizzazione del rapporto tra corpo e mente nell’attore. 

Ruffini struttura il volume per argomenti, seguendo la linea del tempo del francese. Charles Dullin, Konstantin Stanislavskij, Alexandre de Salzmann: il lettore coglie Artaud riflesso nei suoi contemporanei, che furono collaboratori, nemesi intellettuali. Partendo dal particolare del primo capitolo, incentrato sullo sviscerare un cortometraggio mai girato, Les dix-huit secondes, datato 1924-1925, in cui cogliamo Artaud confrontarsi con la rappresentazione del tempo al cinema, che fu (che tutt’ora è) banco di prova per chiedersi che urgenza avesse ancora il teatro di vivere, di costituire un linguaggio della rappresentazione; rappresentazione, per Artaud, solo ed esclusivamente della realtà. Fino ad arrivare ad un vero e proprio capitolo dialogico in cui Ruffini, insieme a Ferdinando Taviani, storico del teatro, sviscera l’immagine che chiude la prefazione de Il teatro e il suo doppio. Il volume si conclude con un Dossier del teatro della Crudeltà, dove vengono riportati progetti di lettere di Artaud, recensioni sui suoi scritti e su Les Cenci. Ruffini narra di Artaud, o forse degli Artaud, con una sincerità che fin dall’introduzione evidenzia come strumento della sua ricerca, rigettando qualsiasi mitologia cucitagli attorno: «La sua visione teatrale fu concreta; la sua utopia fu un possibile lontano. Tutto il contrario delle allucinazioni da maledetto che gli vengono attribuite: che sono un impossibile subito».

Antonin Artaud, in perenne ricerca di finanziamenti con lo scopo di rinnovare il teatro e sottrarlo al suo funereo destino, è un uomo che, come il Van Gogh di cui parla Mario De Micheli ne Le avanguardie artistiche del Novecento (Feltrinelli, 1959), è in costante ricerca di un gruppo, di una squadra, che ora sono i surrealisti, ora il Théâtre Alfred Jarry, ora il Nouvelle Revue Française che diventeranno solo luoghi di incomprensioni, briglie da cui fuggire. Con questo volume il lettore si immerge quasi in un romanzo, nel periodo storico ed artistico in cui ogni personaggio possiede il suo paragrafo introduttivo e la sua viva voce viene riportata. Nonostante l’intento sottolineato nell’introduzione, la lettura si conclude con altrettante domande che rendono il negativo dello scatto di Ruffini, per chi scrive, sfuocato, istantanea prigione di un movimento colto nel suo agire, perciò poco preciso. Eppure, citando lo stesso Ruffini nella conclusione dell’introduzione: «Arte del naufragio, Eugenio Barba definisce il teatro che ha valore, perché è capace di far naufragare le certezze senza mai rinunciare a cercarne».

La fortuna di un gesto. I mille volti di Salomè di Cesare Molinari

La fortuna di un gesto. I mille volti di Salomè di Cesare Molinari

I mille volti di Salomè di Cesare Molinari – professore emerito dell’Università di Firenze, nonché tra i fondatori della disciplina di Storia del Teatro e dello Spettacolo e autore dell’ormai canonica Storia del teatro (Mondadori, 1972) –, intende essere, secondo le parole introduttive dello studioso, «in primo luogo un testo di compilazione, cioè di memoria», che tenta di ricostruire la “fortuna” del personaggio di Salomè, inseguendo la sua “danza” attraverso le sue innumerevoli apparizioni nelle arti figurative, nella letteratura, nel teatro e nel cinema nell’arco di due millenni. 

Nella vastissima e articolata opera di ricognizione edita da Cue Press nel 2015 – arricchita da un apparato iconografico comprensivo di cento illustrazioni –, Molinari evidenzia come la storia della principessa giudea, raccontata primariamente dai Vangeli di Matteo e Marco, possa ridursi a un unico e iconico «gesto»: la richiesta al tetrarca Erode Antipa di ottenere la testa del predicatore Giovanni Battista come premio per la sua danza. La pretesa crudele e spiazzante della ragazza viene però – originariamente – suggerita dalla madre Erodiade, che del re è moglie “incestuosa” e che si è attirata l’odio del profeta proprio per aver violato la legge mosaica.

Secondo un’analisi di tipo attanziale, la fanciulla non riveste dunque il ruolo di protagonista nell’episodio biblico, in quanto la sua azione si delinea come meramente funzionale al progetto di un’iniziativa altrui: è tuttavia proprio la «marginalità» di questa dinamica ad aver reso possibile – a parere di Molinari – l’ “estrapolazione” della vicenda dal suo contesto, e dunque la costruzione di un modello autonomo, «forte e ambiguo», che nei secoli ha potuto essere reinterpretato nelle sfumature più contrastanti con il variare, di epoca in epoca, della sensibilità storica e sociale.

L’ambiguità del personaggio appare evidente sin dalla difficoltà che si riscontra nel tentare di identificarlo precisamente nelle prime fonti di cui disponiamo: a partire dai racconti evangelici – fino al racconto di Giuseppe Flavio –, Salomè rimane infatti “senza nome”, venendo addirittura confusa e sovrapposta alla figura della madre Erodiade, essendo entrambe associate ai «motivi di seduzione e della lussuria», caricati del loro significato di «eterno contrasto e di lotta per il potere». Sarà Flaubert nel suo Herodias (1877) a tentare di sciogliere e giustificare la sovrapposizione tra la figura della madre e quella della figlia, affermando che la donna apparsa ad Erode «era Erodiade quale era stata nella sua gioventù, non un’altra donna che le somigliava, ma una riapparizione della stessa». 

La danza, intesa come ostentazione del corpo e dunque come espressione peccaminosa, si configura nei suoi caratteri spiccatamente teatrali sin dalla narrazione di San Giovanni Grisostomo (III-IV secolo d. C.), in quanto eseguita in quello che è definito un teatro satanico, di fronte a «spettatori corrotti» e in un’atmosfera immersa nell’ «ubriachezza e nella vacuità del godimento». La spettacolarità insita nella scena è tuttavia intimamente connessa anche a un altro elemento: ovvero all’esibizione della morte violenta e alla rappresentazione del macabro, tanto gradita alla civiltà romana quanto lo sarà al mondo ottocentesco.

Quello di Salomè, nelle sue infinite stratificazioni e declinazioni, può – secondo l’autore – definirsi un mito principalmente moderno, che trova la sua sistemazione definitiva nella tragedia sperimentale di Oscar Wilde: una tragedia scritta in francese, formalmente perfetta, e soprattutto un «successo di scandalo», andato in scena per la prima volta a Parigi nel 1896, dopo il divieto di Lord Chamberlain – esteso al Regno Unito – di rappresentare soggetti biblici a teatro, e dopo l’incarcerazione dello scrittore per sodomia. 

La Salomè di Wilde si ispira alla dimensione classica della tragicità, e nel suo personaggio è possibile rintracciare «la passione di Fedra come l’intransigenza di Antigone, la furia vendicativa di Medea, la bellezza fatale di Elena come la decisione spietata di Clitemnestra e il rovesciamento dell’appartenenza di Elettra», ma al tempo stesso la protagonista si propone come estremamente moderna nella propria “imprendibilità” e ambivalenza, e soprattutto nel riferire «le sue parole e le sue azioni esclusivamente a se stessa», intenta soltanto ad «esprimere e realizzare il suo desiderio e la sua passione», senza il riferimento ad ideali che la trascendano.

In quella che si potrebbe definire una “tragedia dello sguardo”, in un triangolo di desideri che «si rincorrono senza potersi incontrare», la fanciulla passa allora dall’essere desiderata (rappresentando l’oggetto al quale sono rivolte le pulsioni del “patrigno” Erode) all’essere desiderante: Salomè assume infatti su di sé l’iniziativa erotica, corteggiando apertamente il profeta che però può amare soltanto «il Figlio dell’Uomo». 

Nell’interpretazione di Molinari, l’agire di Salomè nel testo wildiano tende allora a sfumare la linea di confine tra alcune categorie di pensiero tradizionalmente dicotomiche, in primis quella che – in particolare nell’Inghilterra vittoriana – separa la dimensione della «femminilità» da quella della «virilità». La ragazza è infatti pienamente consapevole del proprio potere seduttivo, che viene esplicitato nella danza, tesa a condizionare la volontà del tetrarca Erode, nel perseguimento strumentale dei propri fini. Ma è proprio nell’esibirsi artisticamente che Salomè diventa «da puramente fisica anche spirituale. Così come la realizzazione del suo desiderio coincide con la morte dell’amato e la sua stessa morte, che è anche un annullamento».

La Salomè wildiana prosegue poi la propria vita nell’opera di Strauss, andata in scena per la prima volta a Dresda nel 1906, ed è significativo notare come la traduzione tedesca di Hedwig Lachmann (realizzata a partire da quella inglese attribuita a Lord Alfred Douglas) insista fortemente sul motivo della “musica” oltre che su quello dello sguardo. «Se mi avessi guardata, mi avresti amata», dice Salomè, nel testo di Wilde, rivolgendosi alla testa mozzata di Giovanni Battista: ma, come ricorda Molinari, è della voce del predicatore – che giunge alle orecchie della giovane come “musica piena di mistero” – che la giovane si innamora dal primo istante.

La voce – così come la stessa testa – simboleggiano un oggetto d’amore non del tutto “carnale”, ma connesso sottilmente alla dimensione intellettuale e della spiritualità: è a partire da queste considerazioni che l’autore pone in costellazione molteplici frammenti drammaturgici per restituire l’intricata complessità del personaggio, interpretata di volta in volta come “casta” o come “fatale”. 

Se nell’opera di Giovanni Testori la protagonista rivendica infatti il proprio diritto all’amore sensuale, «paradossalmente rinnegato da una fede il cui Dio si è fatto carne e sangue», in un poemetto di Mallarmé – recuperato poi da un balletto di Martha Graham nel 1944 –  la giovane appare invece «chiusa in una sofferta contemplazione di sé, nel rifiuto di qualsiasi forma di contatto fisico», nella “fierezza” e nell’ “orrore” della propria verginità. 

Tra le numerosissime rappresentazioni citate dallo studioso, vale forse la pena di ricordare almeno il sontuoso allestimento di Peter Brook dell’opera di Strauss – con la scenografia di Salvador Dalì – (1949), in cui la danza di Salomè si sviluppa in una sostanziale immobilità, o lo spettacolo diretto da Carmelo Bene (1964), in cui la principessa giudea appare grottescamente deformata in una scena fatta di drappi e stracci. O ancora, la Salomè proposta da Al Pacino nel 2006 – ultima di tre versioni teatrali – in cui la protagonista varia di continuo la propria tonalità espressiva nella recitazione, come per riassumere «tutte le emozioni, gli impulsi e le passioni che possono vivere nell’anima di una donna», o il “balletto parlato” della Compagnia Ratavùla portato in scena nel 2003, in cui la giovane è interpretata da un intero gruppo di cinque danzatrici, il cui ballo non si differenzia dal resto dell’azione, e si codifica come «pura espressione di un sentimento agito e continuamente mutevole pur nella sua sostanziale omogeneità».

Cesare Molinari intercetta allora il moltiplicarsi e il mutare dei volti di Salomè, proprio come in quest’ultima danza: è infatti a partire dall’apparentemente irremovibile condanna veterotestamentaria del femminile – «con la donna il male è entrato nel mondo», secondo le parole del Giovanni Battista wildiano – che nei secoli possono emergere anche le infinite potenzialità eversive di questo personaggio, capace di «rovesciare l’ordine naturale delle cose per ottenere, attraverso la seduzione (e quindi la bellezza e la lussuria) il potere e soprattutto il dominio sugli uomini».

Pure, la fortuna di Salomè trae origine da una storia che ha le dimensioni di un episodio, se non di un gesto. E questo la avvicina – come detto all’inizio – ai grandi personaggi femminili del mito classico: Fedra, Medea o Antigone, le quali tutte si incontrano con molto minore frequenza nelle arti figurative, fors’anche perché i testi fondanti non ne descrivono l’aspetto o ne sottolineano la bellezza: ricordo solo che Antigone viene chiamata «piccola» (σμικρά) nell’Edipo a Colono e quindi in un testo che non ne racconta il gesto fondativo. Per quanto immediatamente, e ovviamente, condannato sotto il profilo morale, quel gesto (o quell’azione) ha fatto sì che la figura di Salomè potesse diventare un simbolo forte e ambiguo, che comprende anche la constatazione che, certo, esistono donne cattive o capaci di azioni crudeli: Lady Macbeth può certamente essere avvicinata a Riccardo III, ma il catalogo delle bad girls andrebbe forse confrontato non tanto con quello dei bad boys quanto a quello delle vittime di don Giovanni che solo in Spagna, come è noto, sono già milletrè. E questo simbolo, naturalmente, le diverse epoche, le diverse culture e i diversi autori lo hanno interpretato alla luce della propria sensibilità, più o meno consciamente avvicinando Salomè a Jezabel oppure a Medea, la prima e la più grande paladina della liberazione delle donne, il cui proclama va avvicinato a quello in cui Shylock rivendica l’umanità e la dignità degli Ebrei. Un proclama che, da solo, è capace di riscattare il personaggio negativo.

Quale teatro per il domani? Gli interventi del convegno internazionale curato da Agata Tomšič/ErosAntEros

Quale teatro per il domani? Gli interventi del convegno internazionale curato da Agata Tomšič/ErosAntEros

24 febbraio 2020, data di chiusura delle attività di spettacolo dal vivo in seguito all’emergenza sanitaria conseguente alla diffusione dell’epidemia da Covid 19.  La compagnia teatrale ravennate ErosAntEros, nell’ambito del Polis Teatro Festival a cui ha dato vita nel 2018, con spettacoli, incontri e progetti partecipativi e a cui è costretta a rinunciare, per le restrizioni imposte, decide ugualmente di realizzare l’evento.

Non una rassegna di spettacoli online, ma un convegno internazionale, con la stessa modalità, svoltosi dal 14 al 24 maggio 2020, i cui interventi sono stati raccolti nel volume qui presentato, Quale teatro per il domani? edito da Editoria & Spettacolo e curato da Agata Tomšič, co-fondatrice, insieme a Davide Sacco, di ErosAntEros. Un confronto che ruota intorno alle cinque coordinate fondamentali del teatro: lo spazio, le parole, le visioni, i linguaggi, i corpi.

Attori, drammaturghi, registi, critici teatrali, musicisti, docenti universitari, si interrogano quindi sul futuro del teatro, sia in relazione alla condizione pandemica, sia per riportare all’attenzione questioni irrisolte sul settore dello spettacolo dal vivo inteso come segmento economico a lungo trascurato dai governi e che il Covid 19 ha fatto emergere con drammaticità. Sia, infine per interrogarsi sul ruolo del teatro oggi, in una società sempre più complessa.

Con 57 interventi di autori provenienti da 11 Paesi diversi, il saggio, scritto in un contesto emergenziale, riflette sicuramente il clima di preoccupazione e paura di non poter riaprire i luoghi della cultura per un lungo periodo, evocando in alcuni punti scenari molto pessimisti come quello, ad esempio, di rinunciare alla centralità del corpo e quindi a tutta la dimensione dell’incontro e dell’interazione con lo spettatore, che sarebbe stato confinato al ruolo passivo tipico del teatro di tradizione e contro il quale avevano lottato le avanguardie teatrali del ‘900.

Anche se, viene ribadito più volte dai relatori, il teatro è sopravvissuto a lunghi periodi di chiusura, dalla peste ai tempi del Boccaccio all’ostilità religiosa nel Medio Evo, ed è destinato a sopravvivere anche alla pandemia da Covid. (Ri-)leggendolo ora, a 2 anni di distanza dallo scoppio della pandemia scaturiscono altre riflessioni sul teatro del periodo post pandemico.

Ci si chiede se e quanto queste siano state anticipatrici ciò che si è verificato dopo. Se la riapertura abbia significato un ritorno alla normalità e nient’altro o se al contrario durante la crisi pandemica la comunità teatrale sia stata capace di raccogliere la sfida della radicalità e del cambiamento e si stia adoperando per realizzare le suggestioni emerse durante i lavori.

La riflessione a partire dallo spazio del teatro, indagato nelle varie declinazioni (fisico, interiore, scenico, aperto, virtuale) ha portato alla constatazione di quanto il teatro debba essere fisico e non virtuale. Gli spettacoli online e in generale tutto l’apparato dello streaming e del digitale hanno dimostrato una loro utilità e funzionalità in mancanza di alternative, ma non possono sostituirsi allo spettacolo dal vivo. Non poter prescindere dalla compresenza fisica di attore e spettatore e di conseguenza da un luogo fisico in cui si possa fare esperienza di questa compresenza. Per questa sua componente rituale molto forte, in parte anche inconscia per lo spettatore, per il suo poter vivere solo nel presente e solo attraverso la relazione con chi guarda e assiste alla rappresentazione, il teatro ha mostrato con la pandemia tutta la sua vulnerabilità.

Il ripensamento dello spazio ha portato però anche ad affascinanti prospettive per quel che riguarda il ritorno nei luoghi aperti della polis, dove è nato, ma con una consapevolezza in più, come suggerisce la docente di estetica del Teatro Daniela Sacco. Quella della rieducazione al giusto rapporto con lo spazio e ad una riabilitazione ecologica degli spazi all’aperto, proprio perché “il virus ci obbliga ad una risposta ecologica”.

Sul capitolo dedicato alle parole del teatro di domani, l’intervento del regista e drammaturgo Marco Martinelli e il suo invito a superare il teatro di parola (sia pure rispettandolo nella sua accezione pasoliniana) per ritornare al teatro della carne. Altra parola pasoliniana di cui si serve per sottolineare quanto il teatro degli ultimi anni sia stato sovraccarico di parole, confinato nella visione del drammaturgo che forse ha perso il contatto vitale con l’attore. “Qualunque accadimento ci ispiri, qualsiasi terremoto smuova la fantasia, con il respiro degli attori dobbiamo alla fin fine fare i conti se desideriamo che il verbo si faccia carne”.

Il passaggio dall’autore/parola all’attore/carne, “la prossimità della scrittura drammaturgica all’azione del palco”, insomma, sarebbe un passaggio essenziale perché ciò a cui assiste lo spettatore possa coinvolgere, scuotere, sconvolgere.

Florian Hirsch, capo drammaturgo del Théatre National du Luxemburg pensa invece alla parola  revolver per il teatro di domani rifacendosi al titolo dell’album meno accomodante e meno carino dei Beatles, accentuandone la portata destabilizzante, soprattutto in tempo di crisi.

Marco Sgrosso, attore, regista e pedagogo, ma insieme a lui molti altri che per motivi di spazio non cito, hanno denunciato il teatro presenzialista e opinionista in cui ci si è adagiati negli ultimi anni, in cui le parole sono state sempre troppe e ne propone tre: cuore, coraggio e contagio, inteso come gioia contaminante.

Ma questo non avviene, se il teatro perde la connessione, altra parola emersa dal convegno, con la propria comunità di riferimento, per cui oltre a non essere compresi come artisti si corre anche il rischio di essere invisibili a livello sociale. È quanto sostenuto dallo storico del linguaggio Renzo Francabandera che, dati alla mano, ha rilevato quanto spesso le persone non considerino quello dell’artista un vero lavoro e non ritengano grave la crisi che li aveva colpiti.

“Da un lato la comunità che non sente l’esigenza del tuo linguaggio, dall’altro l’assenza di tutele che tu stesso, in quanto artista, hai accettato pur di praticare la tua arte, un mix esplosivo”. Mancanza di tutele sindacali, contratti atipici, discontinuità lavorativa, che riguarda non solo le compagnie e gli artisti ma anche le maestranze impegnati negli spettacoli dal vivo sono gli aspetti drammatici emersi con il Covid ma di cui prima si sapeva poco per chi non è del settore.

Un’altra parola, tra quelle suggerite al convegno, questa volta dal docente universitario Gerardo Guccini, è quella presa dalla Grecia antica dell’isegoria, che significa prendere la parola durante l’assemblea e di cui è un esempio il coro della Supplici di Eschilo. Opera a cui si aggancia Guccini per rimarcare che “la libertà di prendere la parola è una componente endogena del fare teatrale”. La definizione di endogena richiama la dimensione organica e corporea del teatro di cui scrive Martinelli sopra, a cui bisogna fare ritorno per riscoprire un teatro vivo, come arte dellassembramento e di conseguenza, arte politica. Solo a quel punto la parola, conclude Martinelli citando Gli uccelli di Aristofane “mette le ali. Spinta dalla parola, la mente si solleva nell’aria e l’uomo si alza da terra”.

Dopo le parole, le visioni. Dall’immagine onirica della nave piena di teatranti che spicca il volo, perché “Il teatro è uscito dai teatri, non ci stava più, non si trovava più a suo agio” dell’attrice Elena Bucci, alla grotta raccontata dal disegnatore Jean Emile Longuemare, simile a quella di Platone in cui l’uomo parla con le ombre, nella solitudine, perdendo il senso del tempo. In realtà è la visione del teatro al tempo della pandemia, un tempo sospeso, forse necessario per poter fare tabula rasa e “ri-andare incontro alla società”, che è cambiata e il teatro non se n’è accorto. O la visione di Ermanna Montanari, attrice e drammaturga,  che scaturisce dal coltivare la bellezza anche in tempo di guerra. Se nel confinamento imposto dal coronavirus non c’è possibilità di pensarsi come attori/autori né nella dimensione del corpo né in quella della relazione col pubblico, si può continuare a dipingere i fiori, accogliere il silenzio e la bellezza che stava regalando in quel periodo la natura, certi di questa visione finale di meraviglia.

Le riflessioni sui linguaggi, riallacciandosi in parte a quelle sulle parole, hanno messo in discussione ancora una volta il teatro di parola (inteso, questa volta, dal produttore d’arte intermediale Borut Jerman, nel senso di teatro di chiacchiera) ma anche il teatro disturbante quale poteva essere ad esempio il Living Theatre, essendo entrambi riferiti a quella società borghese che attraverso il teatro celebra se stessa. No quindi al teatro come vetrina e rito sociale, ma teatro come rito religioso e culturale qual’era in origine. Solo così l’elemento dionisiaco rientrerebbe nella sua originaria residenza. Così come gli attori Fiorenza Menni e Andrea M.Sismondi chiedono di fermare l’autoreferenzialità del teatro e rafforzare invece la sua capacità di leggere nella realtà il cambiamento e comunicarlo al pubblico. Ricordarsi che il linguaggio teatrale si manifesta in una pratica e che è sempre in divenire, mai definito, anche se questa vitalità è stata smorzata sempre di più dal voler pensare il teatro, fino al rischio di fissarlo, fermarlo (Silvia Pasello, teatrante).

Il linguaggio del teatro di domani, infine, sarà aperto alla multimedialità, come spiega il compositore Luigi Ceccarelli. Proprio le tecnologie digitali, messe alla porta dalla maggior parte dei relatori perché inadeguate a sostituire lo spettacolo live, rientrano come elemento strategico per ampliare le potenzialità della performance dal vivo e, in un certo senso, di portare a compimento le intuizioni di Gropius, Piscator e Artaud sulla necessità di un teatro capace di ricondurre linguaggi artistici diversi ad un linguaggio onnicomprensivo. Aggiungendo poi che “oggi siamo veramente in grado di realizzare il teatro della complessità”.

Contaminazione delle arti, competenze diversificate, lavori di gruppo, collaborazioni con artisti di formazioni diverse e di differenti culture, utilizzo delle tecnologie digitali per creare spettacoli multisensoriali, questo il linguaggio suggerito dal compositore che poi descrive le potenzialità del suono, in grado di riempire lo spazio scenico, diventare esso stesso scenografia, come in Ouverture Alcina.

Infine la parte finale dedicata al corpo, duale, formato da attore e spettatore, che il Covid ha trasformato in qualcosa di minaccioso. Un pericolo per il teatro che è, dice l’antropologo Piergiorgio Giacché, corpo. Spazio, tempo e corpo sono gli elementi del teatro e, aspetto su cui riflettere, lo stesso testo teatrale, è corpo. Conclude il saggio la postfazione di Marco De Marinis.

SOTTOCASSA. La funzione culturale dei festival – Un seminario a cura di Edoardo Donatini e Gerardo Guccini

SOTTOCASSA. La funzione culturale dei festival – Un seminario a cura di Edoardo Donatini e Gerardo Guccini

Articolo a cura di Giulio Carbone

La funzione culturale dei festival – Un seminario è un’analisi delle attuali condizioni di sviluppo culturale – delle metamorfosi, di progresso o deriva – del fenomeno festival, volta a valutarne il ruolo a partire dall’ormai già inadeguata definizione corrente.
Il primo atto presenta una lezione panoramica della storia dei festival, dalle origini ottocentesche ai rilanci più moderni, nella quale Roberta Ferraresi evidenzia lo speciale rapporto tra la conformazione del moderno modello di festival e la temperie rivoluzionaria sessantottina:

L’elemento di interesse in questa “coincidenza storica” si rintraccia nel fatto che l’elaborazione di tale modello di festival viene messa a punto in un momento in cui il concetto e le pratiche della festa dimostrano una diffusione sostanziale […] perché il teatro tradizionale starebbe a rappresentare la società che si intende rovesciare; al contrario, si esprimerebbero qui una serie di pratiche performative altre, fra cui appunto quelle di carattere festivo.

Ed ecco che i festival rappresentano dunque l’unità dei valori spirituali e materiali, come sociale pratica di festa (fèstival dall’lat. mediev. festivalis, «festivo») nonché parte civile, manifestazione delle istanze giovanili, e dei precari tutti, contro la classe dirigente.

A riprova del principio material-sociale dei festival, un documento dove, nel periodo dell’esilio – nota bene –, Richard Wagner esprime il desiderio di rappresentazione del suo Sigfrido al punto tale d’inscenarlo, tant’è la voglia, su “un rozzo teatro di legno” a una sottospecie di festival in pubblica piazza. Segue la genesi del Festival di Bayreuth(dedicato esclusivamente all’opera di Wagner), con una breve nota ideologica sul compositore tedesco connotativa del carattere del festival. Difatti Bayreuth si conforma totalmente alla matrice del capriccioso maestro, rappresentando (onorevole alfiere contro la volgare produzione industriale) il gusto delle belle arti ma non già la poetica dell’ideale, (contro la superficialità di pensiero) i romantici sentimenti ma non già l’amore o la misericordia, facendo dei festival in genere (come dello spettacolo e delle arti tutte) un passaggio tra i principi sociali per l’individuo partecipe e la determinazione civile per la collettività.

Con Wagner si incontra il rivoluzionario Marx, il rivoltoso Bakunin, nonché il giovane Hitler; e infatti è un passaggio, quello tra il sociale e il civile, che l’arco del Novecento non riesce ancora a conseguire. Ma proseguendo con la storia è importante notare (e Roberta Ferraresi aiuta), come alcune tra le forze conservatrici non siano invero anti-progressive, ma che anzi s’interessino di questioni pur tuttavia ancora irrisolte; e in questo senso i festival sono, ammesso di rispettarne – come presto si comprende – ambo le parti, un esempio di moltitudine, assumendosi il doppio compito di innovazione e aggregazione.

Definiti un esempio d’innovazione – artistici perché performativi – ma con appunto una vaghezza particolarmente sociale che: […] ha influito in modo evidente e duraturo sulle trasformazioni […] del secondo Novecento; ma il “Festival Internazionale della Mortadella” di Castelnuovo può arrogarsi il titolo d’esempio e definirsi un modello da seguire? A differenza degli anni sessanta e settanta, quando i moti di rivolta, seppur fallendo, hanno comunque significato sempre qualcosa, oggi l’underground giovanile non riesce a costituire una controcultura adeguata a sostituirli o farne le veci, rimanendo soltanto relegato a sottoprodotto del sistema. Se però certe realtà vivono per lo più in qualità del principio sociale dei festival, forse l’approfondimento delle sue caratteristiche anche civili gli renderebbe insieme maggior pienezza d’essere. E allora (ove le forze individuali si dimostrino insufficienti) è la disposizione al dialogo – e all’ascolto, che lo premette – che ha il potere di costituire la suddetta controcultura e avvalorare l’aggregazione sociale d’ulteriore senso; una sensibilità che si acquisisce a condizione però del distacco dalle soddisfazioni più immediate (per le quali brigando l’ebbrezza festiva ha finito invece per sovraintendere luoghi deputati all’istruzione).

Così Dino Sommadossi: […] questo è il ruolo, credo, che dovremmo rivendicare [date le circostanze] con maggior determinazione facendo un po’ di chiarezza sul concetto stesso di festival, soprattutto nei rapporti con il Ministero e con le valutazioni di merito che il Mibac esprime […].
Quale sia il margine d’equilibrio tra libertà sociali e impegno civile sta alla maturità degli organi votarlo opportunamente, siano questi festival, teatri o qualunque altra forma di spettacolo dal vivo e non, d’arte, di cultura e via via discorrendo. Certamente le peculiarità originali d’ognuno rappresentano uffici fondamentali (da comprendere) che tuttavia, a ben guardare, pur mirano essenzialmente, più che a inequivocabili partiti, a una sinergica azione tra svariate cariche reggenti: un giudizio che va quindi amministrato in rapporto alle società di riferimento – in termini comunali o provinciali, internazionali o non, economici, ideologici, di appoggio e coinvolgimento, di spettacolo e intrattenimento, ricerca e formazione, estetica e sperimentazione… Responsabili, in definitiva, d’ogni possibilità di sorta.

Una parte qui emblematica sarebbe quella del “direttore”, il quale può forse dimostrare praticamente l’entità di quel tessuto connettivo tanto responsabile. Infatti, un direttore mette in relazione, come una cerniera, l’intera filiera e – cogliendone l’interesse comune, il potenziale – si cura della ragione di tutti: negozia quindi i finanziamenti coi produttori, la distribuzione, s’interessa dello sviluppo artistico, ne comprende, solleva o risolve le questioni, prende lui le decisioni, comprende i territori, i risvolti politici, si preoccupa di spese e guadagni, ha diritti, si assume i rischi, coordina tutti i processi di organizzazione e talvolta di realizzazione, punta a incrementare, assume i lavoratori, professionisti del settore e non, maestranze, trasporti, pensa alle opportunità per i più giovani, se ne avvale, spinge la qualità di laboratori o tirocini, guarda (o non guarda) al pubblico fruitore.

Ma il suo non è che un esempio perché, in verità, ogni parte s’intreccia coll’altra e non è poi più così facile distinguerle: così per artista s’intende chi esercita una o più tra le discipline artistiche e cioè possiede la tecnica che compete alla propria professione, a prescindere da un’ipotetica ispirazione ideale, e in questo caso è responsabilità del direttore indicare all’artista un discorso, un senso per l’opera commissionatagli; diversamente invece accade quando l’artista è pure un poeta e cioè è lui stesso il responsabile d’una poetica, un discorso, e allora il direttore non ha solamente che da favorirlo: uno scambio di ruoli tra parti che dunque non sono affatto dei generi distinti ma piuttosto trans-disciplinari.
Anche i festival, nello specifico, non soltanto hanno partecipato a quell’esubero di valori material-sociali ma, d’altra parte “negli ultimi decenni sempre più […] si sono [di rimando] accollati una serie di compiti – che non gli erano propri e quindi hanno agito in una sorta di supplenza rispetto alle mancanze [civili] del sistema”.

Votare, però, arbitrariamente tra i valori, insensibili (in questo groviglio) ai riferimenti necessari, è un decorso insidioso, che non conduce a molto e, in verità, nulla di ciò che se ne ricava può compensare il perso, quello di cui poter invece andare orgogliosi e fieri. I festival hanno influito sul modello delle stagioni teatrali, sostituito al repertorio spettacoli d’eccezione, sperimentali e liberi, in un’atmosfera magari capace di attrarre un pubblico più giovane e veicolare contenuti – anche importanti – in maniera più facile, certo, ma forse pure più superficiale di quanto invece possano fare certi classici:

Per uscire dal ghetto abbiamo speso la carta dell’accessibilità culturale, individuando nella presunta difficoltà delle proposte la causa della non partecipazione […] individua dunque una mancanza tutta dalla parte degli orizzonti cognitivi del pubblico […] se l’accessibilità culturale ha significato abbattere le barriere, abbassare la complessità e favorire l’ingresso mi pare che abbiamo ottenuto poco.

Le parole di Lorenzo Donati danno un’idea di come i festival si siano (talvolta) mal posti verso il teatro e la cultura in generale, sviando artisti, pubblico, critici. Viceversa, negli ultimi anni si stanno affermando festival di approfondimento culturale, di letteratura, filosofia, matematica, benché, “[…] con tutta la buona volontà che è stata messa in campo e tutte le competenze anche molto generosamente spese […]”, nessuna supplenza delle parti può da sola ovviare all’assenza di un apparato istituzionale integro. Scelte sbagliate se ne fanno – ogni ruolo è una responsabilità che, in un verso o nell’altro, si soffre – e pur gli errori servono, tuttavia (nel migliore dei casi), per sensibilizzarsi all’ordito – e organizzare un sistema più complesso.

Un capitolo fondamentale per il presente è senz’altro l’ottavo I festival nel sistema teatro: interazione con gli altri soggetti e reti, in cui si mette addirittura in dubbio, e a ragione veduta, l’esistenza stessa di un sistema istituzionale dello spettacolo.

[…] la normativa, per come è articolata e concepita, provoca irrigidimenti, limita le interazioni tra i diversi soggetti dello spettacolo […] generano marginalità, frustrazioni, antagonismo. Nel nostro paese sono gli apparati amministrativi a forgiare il sistema […]

In realtà quindi, come si legge, un sistema c’è ma, se non lo si può dire classista e capitalista –  anche in considerazione della forza che per somma i maggiorenti ottengono –, resta comunque un sistema davvero poco repubblicano. La comune necessità di un sistema, ovvero di un sistema distinto, sta ad ogni modo generando affinità culturali e interdipendenze tra soggetti, in una rete che finalmente possa (più che sostenere “artisti” singoli e produrre spettacoli o eventi canonici) anzitutto “[…] far pressione sulle istituzioni per ottenere risposte che servano a tutti”. Urge, per un simile apparato, instaurare relazioni pur aldilà delle preesistenti categorie amministrative, e pure tra soggetti per cultura molto differenti (per posizione geografica, organizzazione, attività, entità, storia); significherebbe diffusione nonché moltiplicazione degli strumenti di ciascuno.

Tuttavia, fare rete è un mezzo di servizio, e intessere relazioni non significa solamente tendere le mani; per un sistema distinto ci vuole una qualità d’impegno capace di questioni e spirituali e materiali: produttori e distributori differenti, che si assumano rischi, e professionisti edotti.
Purché una tale epica di sistema non si distacchi però dalla realtà (dai veri orizzonti politici, ad esempio, italiani, europei o magari sovrannazionali), in retoriche elucubrazioni autoreferenziali che non hanno alcuna attinenza col presente – e tantomeno col futuro. È importante (a perfezione del discorso) riferirsi allo stato della società (o società territoriali, considerando “la società” come una macrocategoria, una scatola cinese, comprensiva delle altre), accorti alle condizioni sociali per capire in che verso operare: se provinciali, per il sociale e il benestare, oppure se già comunali, per il civile e il benessere.

Dice a proposito Graziano Graziani:

Io non sono assolutamente per i progetti sempiterni, o per le persone [e i valori che rappresentano] che stanno quarant’anni in un luogo […] magari semplicemente basta cambiare città [o nazione/i] e portare il proprio progetto da un’altra parte. Il tema del ricambio […] è un altro di quelli che ci dimentichiamo, ma è sempre presente”. Esempi che esortano ce ne sono: Platform A35, […] idea di ricercare nel territorio nazionale, e non solo, giovani coreografi, la cui ricerca mostra nuovi processi creativi, ma anche la società in mutamento che in essi necessariamente si rispecchia […], Crossing the Sea, […] è un progetto d’internazionalizzazione dello spettacolo dal vivo con lo scopo di creare e consolidare collaborazioni di lungo termine tra Italia e paesi asiatici e del Medio Oriente […], finanche […] l’esperienza di FineEstate Festival, oggi denominato In Italia-International Network, che rappresenta una rete di nove soggetti italiani che operano ormai da sette anni. L’esperienza si è sviluppata, prima di tutto, sulla base di una condivisione progettuale; i direttori si riuniscono, partecipano assieme a festival e focus internazionali, seguono e condividono le produzioni di artisti con determinate caratteristiche. Il Network ha stabilito delle relazioni solide con tutti gli istituti di cultura europei, in particolare con quello francese, con il quale è stato costruito un rapporto di confronto e di scambio in tutti questi anni. Tutto ciò ha ottenuto anche un risultato virtuoso dal punto di vista economico.

E tutto questo succede quando l’atteggiamento mentale, progressivamente, cambia: la sintesi tra i valori non è facoltativa, è necessaria, e che non si ritenga mai un’offesa ma un valore aggiunto.
Tema e argomenti stimolati da un seminario che maieuticamente interroga, attraverso tutti i suoi atti, come pratica propedeutica.