Si è da poco conclusa l’edizione 2023 di Fuori Programma Festival, nato nel 2016 e giunto alla sua ottava edizione, con la direzione artistica di Valentina Marini. Un appuntamento estivo che unisce i luoghi della Capitale e gli artisti della danza contemporanea con le multiformi sensibilità del pubblico che respira, vede, vive la composita programmazione di spettacoli, laboratori, residenze, incontri e progetti speciali.
All’unisono. Come recita il sottotitolo, con le voci di artiste e artisti come Jacopo Godani, Daniele Ninarello, Cristina Donà, Marta Ciappina, Salvo Lombardo, Andrea Costanzo Martini, Ophir Kunesh, Lior Tavori, Francesco Marilungo, Thomas Alfred Bradley, Michele Di Stefano, Masako Matsushita, Qabalum, Elias Aguirre, Silvia Gribaudi, Caroline Larn, Krassen Kratsev, David Zagari.
Il nostro racconto è consapevolmente tratteggiato, si riferisce ad alcuni spettacoli scelti con un pizzico di imprevedibilità ma che hanno saputo lasciare il segno. E che hanno fornito la temperatura di linguaggi artistici, diversi tra loro, di battiti e tempi che si manifestano all’unisono, sebbene le esperienze e gli eventi della vita tendono a dividerci, a tenerci separati.
Le giovani voci della danza contemporanea israeliana sono la testimonianza di una creatività riconosciuta e apprezzata in tutto il mondo. Una contestualità e una contemporaneità che si propone con un ricco patrimonio di contrasti, fascino, bellezza e transitorietà.
Il 23 giugno, ultimo appuntamento di Fuori Programma presso l’Arena del Teatro India di Roma, sono stati presentati in collaborazione con l’Ambasciata di Israele in Italia, le creazioni di due giovani coreografi israeliani.
Arba, in prima assoluta, è la restituzione al pubblico di una residenza che si è svolta al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma, a cura di Ophir Kunesch. Un progetto nato nell’ambito di 1|2|3 del Suzanne Dellal Center, un programma annuale di sviluppo per coreografi israeliani emergenti che supporta la creazione di nuove opere. Tutto è danzabile, qualsiasi musica, condizione umana o poesia. Persino il silenzio.
E in effetti Arba è un duetto che si svolge in totale assenza di una drammaturgia sonora ed esplora la condizione della verticalità e delle camminate in contiguità. Un danzatore e una danzatrice si muovono e si spostano come se fossero le parti di un tutto, un unicum. Ancor più interessante sembrano essere le cadute. Prima di alzarsi in piedi permettono di proiettarsi verso direzioni nuove. Non si tratta, in questo caso, di inventare nuove dinamiche del contatto con il suolo, quanto piuttosto di riscoprirle e di impossessarsene nuovamente. Senza una caduta non può esserci in definitiva una spinta verso l’alto, un salto.
Nella stessa sessione serale, in sequenza, Fuori Programma ha ospitato la Lior Tavori Dance Company di Tel Aviv con Mars, uno studio sull’identità maschile, aggiornato al tempo presente, interpretato da Ori Moshe Ofri, Amit Marcino, Reches Yitshak e Tamar Lev.
Mars come una delle divinità più importanti dell’antica Roma nel Pantheon, il dio della guerra a cui è dedicato Marte, il pianeta rosso, Marzo, il terzo mese dell’anno e il Martedì, il secondo giorno della settimana.
Quattro corpi maschili in scena realizzano un manifesto programmatico di libertà e di emancipazione dai ruoli di genere. La danza, con i suoi linguaggi, riesce a smontare gli stereotipi, gli schemi predefiniti, mettendoli in discussione. Fin dall’inizio, Mars di Lior Tavori si palesa come un interscambio dinamico di movimenti, di aggregazioni e di combinazioni corporee ad incastro che si susseguono fino alla fine tra corse, parti da solista, composizioni dove la gestualità viene modulata armonicamente dal ritmo.
Sfidando i limiti fisici, Tavori esplora e crea qualcosa di singolare che supera il linguaggio della danza. Un affresco che sarà irripetibile o comunque non replicabile all’infinito che contiene un messaggio artistico e coreografico. Il movimento, la fisicità, così come l’identità sono “Harder. Better. Faster. Stronger”, per usare il titolo di una canzone dei Daft Punk. Ossa, muscoli e articolazioni possono essere spinti al massimo, un corpo allenato può superare più di un limite, ma non potrà mai replicarli a lungo termine. Nella danza i corpi bruciano e si consumano in un arco di tempo definito ed è da questo sacrificio che si genera la bellezza. Diversamente dalle altre arti, il rito coreutico prevede che l’opera non sopravviva all’artista come un quadro o una scultura, se non nel ricordo e con le emozioni di chi l’ha vissuta.
Il rituale di cui si occupa Francesco Marilungo con la sua restituzione-presentazione di Stuporosa, al termine della residenza presso il Teatro Biblioteca Quarticciolo, trae ispirazione ed ha come riferimento il saggio “Morte e pianto rituale” di Ernesto De Martino. Con diversi nomi quali lamentatrici, prefiche, reputatrici, il pianto di quelle donne mercenarie accompagnava i cortei funebri. Loro avevano il compito di compiangere e di esaltare le virtù dei defunti.
Secondo De Martino, due possono essere le reazioni al dolore nei confronti della morte: l’esasperazione violenta oppure uno stato di catatonia e di “ebetudine stuporosa”. Il lavoro e la ricerca coreografica di Francesco Marilungo mette al centro il recupero di alcune pratiche, canti, danze popolari del passato, portando in scena lo schema e la mimesi del dolore, i due estremi opposti: la staticità da un lato e il dinamismo parossistico dall’altro. Tradizioni di cui si è quasi persa ogni traccia, lentamente, dal secondo dopoguerra in poi, sopravvissute fino agli anni ’70, per poi sparire.
Nelle lacrime e nel pianto di quelle donne, l’antropologo ed etnomusicologo Ernesto De Martino riconosce un legame simbolico tra chi resta e chi muore, simile a un cordino. Rappresenta un segno di interpunzione necessario affinché i congiunti possano elaborare il lutto, la perdita. Le cinque performer-prefiche, eredi legittime della cultura mediterranea, che Francesco Marilungo ha selezionato per Stuporosa sono: Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis, Francesca Ugolini, Vera di Lecce. Insieme con loro Marilungo ha creato una drammaturgia e una coreografia dove la morte, da fatto biologico diventa espressione culturale e arrivano a fondersi insieme le pulsioni, le superstizioni e le emozioni.
Non è un caso che il lutto sia diventato sempre di più un fatto solitario, isolato, nascosto come qualcosa di scandaloso. Parole come condoglianze e compassione sembra siano diventate difficili da pronunciare e usare nonostante contengano la particella latina “cum”, l’abbraccio simbolico rappresentato dalla congiunzione “con”. L’obiettivo posto al centro di questo progetto vuole essere quello di riflettere e recuperare la condivisione perché ogni persona, come sostiene Francesco Marilungo, dovrebbe avere il diritto di essere commemorata mediante il pianto.
Conclude il nostro reportage lo spettacolo ON/OPUS III che ha chiuso il Festival Fuori Programma, con tre performer protagonisti: Caroline Lam, Krassen Krastev, e Morgane Dickler-Doukelsky, in prima nazionale al Parco Tor Tre Teste. Un momento di poesia e di introspezione, nella semplice complessità di un rito collettivo, che rinnova l’estetica e la pratica della pole dance.
Gli artisti camminano in cerchio seguendo un’orbita immaginaria, come il viaggio che compie la Terra attorno al Sole e, contemporaneamente, sporadicamente, si staccano per realizzare un movimento aereo, rotatorio. Ogni corpo sfida le leggi della fisica ruotando, come la Terra, intorno al proprio asse. La precisione di quel meccanismo verrà spezzata verso la fine, alternando ordine e caos.ON/OPUS III sembra parlare di e con noi, di quanto siamo intrappolati in una routine cosmica millenaria, come pianeti. Immensamente grandi se considerati singolarmente e clamorosamente piccoli se collocati in uno spazio infinito che la mente umana non potrebbe rappresentare. Con questi pensieri nella mente, emergono le parole di una celebre frase di Simone de Beauvoir che sembra realizzare una sintesi tra le immagini degli spettacoli visti con la mission di Fuori Programma. “Invidiai un cuore capace di battere all’unisono con l’universo”.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
La rabbia ha il suono metallico di una voce sfinita e strascicante che riecheggia tra il microfono sull’asta e l’archetto indossato da Nicola Borghesi. Gli manca il fiato come manca agli spettatori in sala, così non importa se qualche parola non si riesce ad afferrare. Anzi: siamo arrivati quasi alla fine dello spettacolo, probabilmente non c’è miglior epilogo di queste sillabe divenute suono indistinto. Durante la rassegna estiva InChiostro organizzata dall’Arena del Sole di Bologna, il 4 luglio va in scena Gli Altri. Indagine sui nuovissimi mostri, uno spettacolo dei Kepler-452 con la drammaturgia di Riccardo Tabilio. Il debutto, con Borghesi in scena, avviene nel maggio 2021, ma è un’altra la data in cui tutto ha inizio. Il 29 giugno 2019 Carola Rackete, capitano della Sea-Watch 3, sbarca nel porto di Lampedusa con 42 naufraghi, dove viene arrestata. Sul palcoscenico un proiettore ci mostra il video ormai celebre, mentre Borghesi avvicinandosi al microfono sull’asta ripete gli insulti che si sentono in sottofondo per portarli all’attenzione dello spettatore. Parole oscene contro Rackete e i naufraghi.
Parole che né Borghesi né il pubblico in sala si sognerebbero forse di pensare. Eppure, è proprio degli altri che questo spettacolo parla, perché questi famigerati “altri”, al contrario di persone come Borghesi e il pubblico, sanno fare gruppo, sanno diventare un “noi”. Per provare a comprenderli davvero, suggerisce Borghesi, è necessario che tutti credano in un noi, per capire cosa si prova ad urlare oscenità simili, molto vicine a un pensiero retrogrado, di questi tempi preponderante. Così tutto l’uditorio inizia a battere le mani, a intonare in coro «venduta», di sottofondo agli sproloqui che Borghesi riporta dal video. Ma tra le tante voci del video dell’arresto, ce n’è una più toccante delle altre.
Quella del giovane Mario Lombardini, l’attore-mondo protagonista di questo spettacolo, che seppure un corpo in scena non ce l’abbia, è tangibile più di chiunque altro. Borghesi ce lo presenta completo dei suoi dati anagrafici, analizza il suo profilo Facebook, si riesce addirittura a donargli sommariamente un volto, una voce. Perché Gli Altri è una avvincente caccia all’uomo, al rapporto che Borghesi prova a intessere con Lombardini, una delle tante voci che quella notte del 2019 insultarono Rackete al porto di Lampedusa, una delle più forti, perché persino la stampa si volta ad ascoltarlo, vedendovi un prelibato scoop. Anche Borghesi sembra cascarci, vorrebbe cucirgli addosso un nuovo spettacolo della compagnia. Racconta di come riesce a pattuire una telefonata in pochissimo tempo ma alla quale il ragazzo non risponderà se non dopo molto tempo. Viene mostrato un video che documenta quella telefonata, mentre viene registrata.
Lombardini spiega il suo gesto, che avrà vissuto con una incredibile adrenalina nel momento in cui l’attività più entusiasmante di un giovane nato a Lampedusa consiste ne «il giro in macchina», ovvero mettersi alla guida con la musica ad alto volume, percorrendo tutto il perimetro dell’isola. «Che cazzo di divertimento è?» risponde Borghesi ridendo. Poco dopo realizza che alla fine la differenza tra la strada che percorre Lombardini in una piccolissima isola nel Mediterraneo non è tanto diversa da una ad alta velocità in Emilia-Romagna: sono entrambe degli acquari, ma di diverse dimensioni.
«È difficile dire io», è uno dei ritornelli di Borghesi. Io esisto perché esistono gli altri, che mi riconoscono, che mi interpellano, e io con gli altri sono altre persone, tante altre persone. Il proprio io è composto da tutti gli altri io che si indossano con gli amici, i familiari, in fila alle poste. Quindi, come è possibile parlare degli altri senza parlare di noi stessi? Il pubblico dell’Arena del Sole è molto vicino ai Kepler, li supporta, basti notare il nutrito numero di gente che scompone l’assetto informale del chiostro (quattro sedie attorno a un tavolo) per ristabilire una platea; sta per scendere il buio in sala quando si sono già create le prime tre file, tutte compatte e allineate, una muraglia invalicabile. Sono pronti a recepire la richiesta di interazione ancora prima che venga pronunciata, colgono dei veri e propri inside joke che riguardano vecchi spettacoli e quindi vecchie battaglie che strizzano l’occhio al pubblico, ma con particolare trasporto a quello specificatamente bolognese.
Tutt’intorno si nota ciò che i Kepler-452 dal 2015 seminano e continuano a raccogliere, ovvero l’idea del teatro come cornice, perché il vero teatro è già per strada, là fuori. Il teatro è la GKN, è FICO, è Mario Lombardini che dà della troia a Carola Rackete perché è un naufrago tanto quanto quelli salvati dalla Sea-Watch. Mario Lombardini affoga nella melma dell’apparente benessere dell’Occidente. Borghesi fa fatica a dire io perché alla fine nell’io composto dagli altri io c’è anche Lombardini. «Un disastro aereo» come molti altri, o come tutti noi.
Le storie e la Storia. I Kepler condividono con molti colleghi internazionali la cifra del reality trend, di certo divenuta anche una moda del nostro tempo, interpretabile come una spasmodica ricerca di qualcosa sempre più vera della realtà che ci circonda, che evidentemente non ci soddisfa più. D’altra parte, sarebbe assurdo non notare quanto per il linguaggio teatrale una tensione simile sia incredibilmente necessaria sia da un punto di vista prettamente artistico, che sociale. Un servizio pubblico simile a quello che fornisce una puntata di Report o la prima pagina di un giornale. Così, dal particolare dei due personaggi della storia ci muoviamo verso il generale, verso la Storia.
Con foga quasi disperata Borghesi commenta le date proiettate alle sue spalle, date salienti, spesso precise, punti di svolta della contemporaneità, davanti alle quali l’essere umano vacilla, perché ha definitivamente perso il controllo di tutte le azioni che ha compiuto. Si parte dalla morte di dio annunciata da Nietzsche alla fine dell’Ottocento, passando per Hiroshima e Nagasaki nel 1945, per concludere proprio nel 2020, in cui l’uomo è diventato potenzialmente una minaccia nei confronti del suo simile al supermercato, per strada, nei palazzi, nei bar; semplicemente perché esiste. E adesso che si fa?
Niente di diverso rispetto al solito. Sul palcoscenico Borghesi sino ad ora ha retto uno specchio sul quale si è riflesso insieme al pubblico. Adesso obbliga tutti ad attraversarlo. Si è riso molto di Lombardini, della didascalica immagine di copertina del suo profilo Facebook (una pizza, dato che è un pizzaiolo), di post motivazionali e di commenti poco edificanti sui migranti che rubano il lavoro. Il fiato ora si mozza, mentre sulle note di A New Error dei Moderat Borghesi ripercorre alcune tappe dell’età contemporanea, ricordandoci che siamo tutti spacciati. Fa una pausa tecnica, giusto per bere dell’acqua, per riprendere fiato.
Al posto delle date viene proiettata a tutto schermo la parola «intervallo». Borghesi afferma che sì, ci sarà un piccolo intervallo e non solo per permettergli di riposare dopo quel momento particolarmente evocativo. Ricorda che la soglia dell’attenzione ad oggi si è vertiginosamente abbassata ed è proprio per questa ragione che gli spettacoli di teatro contemporaneo ormai non superano la durata di un’ora e un quarto. Inutile dire che le motivazioni sono i continui stimoli a portata di cellulare, che sta proprio nelle tasche degli spettatori, anche in platea. Da artista detesta notare dal palco i volti degli spettatori fievolmente illuminati dai cellulari. Eppure, confessa che da spettatore, invece, trascorsi quasi cinquanta minuti inizia a chiedersi se qualcuno lo abbia cercato, in qualsiasi modo, attraverso qualsiasi piattaforma, per il motivo più futile o più urgente: ecco allora che in questi casi furtivamente sporge una parte dello schermo fuori dalla tasca, sperando che nessuno se ne accorga.
Così questa volta ha deciso di inserire proprio durante lo spettacolo un momento ricreativo per lo scrolling, piaga del mondo contemporaneo, bestia infernale assetata del tempo limitato dell’essere umano, capace di far trascorrere un’ora e mezza in un battito di ciglia. Si siede sul limitare del palco, le gambe penzoloni, estrae dalla tasca il suo cellulare. Il pubblico lo guarda attonito ma lui li esorta, non sta mica scherzando! È permesso fumare, non comunicare. È un momento di raccoglimento, lo scrolling non si fa mica in compagnia. Anche, certo, ma non si commenta.
Viene allora proiettato un cronometro impostato su cinque minuti. Borghesi rimane comunque attento a riprendere chi non sta rispettando le regole o chi addirittura si rifiuta di sbloccare il cellulare. Il pubblico ride: forse imbarazzato, forse si immagina di aver appena ascoltato la più grande verità che nessuno ha mai avuto il coraggio di ammettere in pubblica piazza. Non si è arrivati neanche ad un minuto di completo silenzio. L’intervallo finisce e si riparte forse dal momento più struggente dello spettacolo. Borghesi ci rincuora: comunque è quasi finito.
Un escamotage drammaturgico d’impatto, che pone la questione su quanto sia ancora necessario guardarci intorno, come se non ne avessimo già contezza. Anzi, si potrebbe riflettere sul fatto che ormai da tempo non si faccia altro che guardarsi, che dirsi che il mondo è già finito da un pezzo, che tutto è morto, e che anche questo è forse a sua volta diventato un ritornello. Allora queste provocazioni, questi attraversamenti di specchi, potrebbero essere nuove occasioni di consapevolezza, perché nonostante il mondo stia finendo, siamo ancora qua. Io, noi e gli altri siamo ancora qua. Perché a lungo andare (se non si è già arrivati a questo punto) quelli che stanno bene, quelli che hanno la fortuna di avere degli intervalli, addirittura più d’uno durante la stessa giornata, non distingueranno più la campanella della ricreazione da quella dell’inizio delle lezioni. Che necessità si avrà di un intervallo sulla breve storia di Mario Lombardini, che percorre da Lampedusa a Milano lo stesso numero di chilometri di quelli impiegati da quelli che il 29 giugno 2019 ha chiamato «negri» per raggiungere da casa loro la sua piccola isola? Che cosa importerà a noi di sapere della vita de Gli Altri?
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Una pioggia estiva costringe di nuovo al chiuso invernale un altro appuntamento della rassegna InChiostro. Si corre ai ripari e dal chiostro dell’Arena del Sole di Bologna si passa al foyer. Velocemente si trasferiscono i pochi oggetti di scena (due sedie e un tavolo), e dopo un check dell’audio attori e regista si riuniscono al centro della sala per un ultimo confronto. Il pubblico prende di nuovo posto, chi in piedi, chi per terra, seduti su alcune poltrone o sedie ridisposte per l’occasione oppure sul piccolo banchetto di legno vicino all’ingresso del teatro.
Il 27 giugno va in scena Paesaggio d’interni, uno spettacolo di Balletto Civile. Due coppie raccontano una storia, probabilmente la stessa. L’attenzione passa dall’una all’altra, protagoniste di due momenti diversi della breve performance. Mentre la prima coppia, composta da Francesco Gabrielli e Giulia Spattini, con in sottofondo la scena del primo incontro tra Annie e Alvy nel film Io e Annie (Woody Allen, 1977), si incontra, si scopre tra una espressione esagerata e plastica, coinvolta nell’antica pratica della seduzione, la seconda la si nota sullo sfondo, muovendosi a un tempo completamente diverso. Alessandro Pallecchi Arena ed Emanuela Serra sembrano intimi come la prima coppia, o forse ancor di più, impegnati in un contatto fisico molto ravvicinato e coinvolgente, ma poco rassicurante. La prima coppia indossa tute da tennisti, le racchette sono un prolungamento delle loro braccia, strumenti di carezze. La leggerezza della loro coreografia lascia spazio a quella intensa e passionale della seconda coppia; la messa a fuoco diminuisce sui tennisti, che rallentano i movimenti. La seconda coppia esplode sul sottofondo di un breve estratto da Il cielo sopra Berlino (Wim Wenders, 1987) e la travolgente canzone di Björk e Arca, The Gate.
Si amano carnalmente, si respingono e si trascinano, si aiutano a rialzarsi, si spingono. Si ancorano ai loro corpi per formarne uno solo, altissimi una sopra l’altro, e alle volte l’una spinge giù l’altro per prevaricarlo. Come una vera coppia, i ruoli si alternano: uno cadendo rimbalzerà come un oggetto, mentre l’altra continuerà a camminare sicura all’interno dello spazio. Ma anche lei si scaraventerà al suolo, a pochi centimetri dal volto degli spettatori che hanno trovato posto per terra. Entrambe le coppie interagiscono con le due sedie e il tavolo posti al centro dell’improvvisato palcoscenico. Se per la prima prendono la forma un piccolo campo da tennis, luogo di scambi di battute e sguardi fugaci pieni di curiosità mal celata, per la seconda non sono altro che i luoghi della vita di coppia: un letto come una stanza dove confidarsi. I quattro amanti poi si ricongiungono al centro, mescolandosi, cambiando registro di movimenti e di emozioni, forse riaccordandosi con l’intenzione della prima coppia. Sulle note di La coppia più bella del mondo, cantata da Celentano e Mori, lentamente escono di scena.
I personaggi in scena si compromettono, interagiscono, creano delle relazioni, dei passaggi. Due coppie composte da una donna ed un uomo, oltre alla diversità dettata dalla propria personalità, devono fare i conti con la differenza probabilmente più affascinante e forse incolmabile: quella di avere un corpo che occupa lo spazio in maniera completamente diversa. Quasi non ci si crede di appartenere alla stessa specie, ma addirittura un’ibridazione è possibile, attraverso una relazione, poco importa di che tipologia e con quale intensità. Nel caso di queste due coppie è l’attrazione a essere indagata, tra le infinite possibilità di incontro. E sebbene i personaggi non abbiano un nome, ognuno ha il suo margine di autonomia, permettendo allo spettatore di distinguere nettamente i tratti che ciascuna figura apporta alla coppia. Non c’è riferimento cinematografico o musicale che tenga: le storie che i quattro raccontano sono una e sono mille. Sono infinite le porte da aprire, tra lo sguardo sveglio e desideroso della tennista e l’urlo disperato e senza voce dell’uomo della seconda coppia.
L’ibridazione è il concetto chiave alla base della ricerca di Carne, condotta da Michela Lucenti, in cui inserisce il suo Paesaggio d’interni. Anche questa volta Carmelo Zapparrata conduce il dialogo con l’artista, interpellandola maggiormente come creatrice della curatela. Vengono invitati anche gli interpreti a partecipare alla discussione. Il progetto artistico Balletto Civile viene fondato nel 2003 e nei suoi vent’anni di attività ha raccolto tante personalità che ad oggi compongono una vera e propria comunità. C’è chi è rimasto, chi è andato via, chi è sempre di passaggio, ma tra le acque di questo fiume c’è una roccia, un punto di riferimento, una poetica che coincide con la visione dell’arte come impegno nei confronti appunto dell’idea di comunità, interna al gruppo, esterna al gruppo (gli spettatori), e della più universale cittadinanza. Una comunità è un insieme di singolarità diverse che solo attraverso la convivenza e l’ibridazione possono esprimersi nel migliore dei modi. Ibridazione delle personalità, ibridazione dei linguaggi.
Carne ha come obiettivo un’indagine sul dialogo tra la drammaturgia, espressione del teatro di prosa, e la coreografia. Michela Lucenti è interessata a un impiego specifico di questo strumento, la drammaturgia fisica, che nel mondo delle arti performative è ormai ben noto e rodato, ma forse ancora troppo audace per determinati lidi. È in cerca di personalità che vogliano raccontare storie, narrareun fatto, non un concetto astratto. «Carne significa fatto con il corpo […], l’elemento che non si dovrebbe mai prescindere dall’idea performativa. […] Cerco tutti i maestri, come i grandi ospiti stranieri, che partono da un concept drammaturgico, cioè guardano lo spettacolo di danza come uno spettacolo di regia, cioè dove non è secondario che cosa accade, cosa deve accadere in chi guarda ma anche qual è l’obiettivo del racconto». Il processo creativo parte sicuramente da un’idea precisa, ma anche questa è una ricerca di Lucenti, alla quale il performer risponde con i propri strumenti, creando così un’autodrammaturgia che andrà a comporsi tra le autodrammaturgie degli altri interpreti in una precisa e ben orchestrata partitura:«Non è facile trovare persone che siano disposte a lavorare in gruppo e a farlo con continuità, non come una vacanza “arricchente” per poi tornare nella danza e nel teatro. Fare un gruppo significa sacrificare buonissima parte di una riuscita personale, ma credere e guardare nel gruppo».
Paesaggio d’interni è il frutto di molti rimaneggiamenti e montaggi e secondo Maurizio Camilli, attore e cofondatore della compagnia, la sua genesi è databile intorno al 2020, durante l’Oriente Occidente Dance Festival. Precedentemente le coppie previste erano tre: la prima e la seconda possedevano già le intensioni della replica del 2023, rispettivamente, a detta di Lucenti, la prima «di una commedia», la seconda «un po’ più tragica». La terza invece si muoveva su un registro più lirico, che prevedeva come interpreti Alessandro Pallecchi Arena e la stessa Lucenti. Difatti la partitura fisica della seconda coppia era nata in origine da una creazione di Emanuela Serra e Maurizio Camilli all’interno di Madre, un lavoro della compagnia datato 2019. Anche la creazione della coreografia della prima coppia “comica” è frutto del lavoro dei due interpreti Gabrielli e Spattini, a cui Lucenti aveva chiesto «che fossero due corpi assurdi, storti, o comunque sproporzionati, che ci fosse qualcosa che tornasse non in maniera pulita, ma che fosse qualcosa che appunto le persone guardandola non capissero bene neanche se fosse il mimo, […] una specie di continuo».
Ad un certo punto la terza coppia è stata tagliata per una maggiore agilità e dinamicità della performance; difatti il vero teatro di Paesaggio d’interni è proprio la strada: «[…] arriviamo nei posti, apriamo la macchina, tiriamo fuori questo e andiamo. È proprio una specie di happening, però con una partitura in realtà precisissima. [..] È un liguaggio assolutamente coreografico nelle sue linee, solo che sono linee appunto molto gestuali. Quando abbiamo più spazio, quando lo facciamo nelle strade, allora alcune cose che noi sappiamo diventano delle vere e proprie scivolate però non ha la volontà di essere un andamento di grande danza, è proprio costruito per farlo ad un incrocio. Si chiama Paesaggio d’interni perchè è appunto l’idea di farlo in posti assurdi, di vedere un’intimità di lavoro quasi gestuale, di partitura». Emanuela Serra racconta che la difficoltà più grande è stata estrapolare la coreografia dal contesto di Madre per renderla prima autonoma e poi ben coesa con quella della prima coppia, creando effettivamente un altro progetto. Ma l’autodrammaturgia di cui parla la cofondatrice di Balletto Civile, in accordo con Lucenti e gli altri tre interpreti, comporta anche la possibilità di riconfigurarla, di ritradurla in un’altra performance e soprattutto di adattarla in altri spazi, che sia un incrocio, un chiostro, il foyer di un teatro perchè è scoppiato a piovere.
«Un attore può danzare e in che modo? E il danzatore a parte scimmiottare può recitare? C’è un teatro dove non si capisce più dove finisce una cosa e dove comincia un’altra. È una sfida. [..] siamo nell’ambito dello sperimentare qualcosa che in realtà in tutta Europa è già super sdoganato». Quella di Lucenti è una dichiarazione di intenti a cui rimane fedele all’interno della sua compagnia e all’esterno, come ricercatrice e come ospite dell’Emilia Romagna Teatro Fondazione, che ha accolto il Focus di drammaturgia fisica affiancandolo alla stagione di prosa «dando una centralità al corpo come una possibilità necessaria allo studio sia del teatro che della danza.
Quindi Carne è un’altra parte nella stagione di ERT, che invece di partire dal testo per poi fare un lavoro sul corpo, parte dal corpo per arrivare al testo, oppure parte dal corpo per finire nel corpo, parte dal corpo per stare fermo, per dialogare con la musica. È una possibilità importante in un luogo pubblico di prosa che ci sia un lavoro sul corpo». L’augurio è di una continua ibridazione di repertorio e d’avanguardia, di vecchi e nuovi artisti, di senso e di vedute, come quella che nutre Balletto Civile: innumerevoli porte che creano nuovi passaggi.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
“Di Testori ho un ricordo legato alla metà degli anni’80, quando partecipò ad un incontro a Milano. Non si fermò a lungo, ma rimasi impressionato dalla sua presenza, dalla sua aura che si percepiva con forza. Come artista mi ha sempre colpito molto la sua capacità di accettare le sfide che il nostro mestiere comporta. Quella col proprio corpo e con la propria psiche, ma soprattutto con la questione della verità”.
Sono le parole di Luigi Dadina, attore e regista, co-fondatore, insieme a MarcoMartinelli,Ermanna Montanari e Marcella Nonni, della compagnia del Teatro delle Albe nel 1983. A Testori, nel centenario della nascita e a 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, Ravenna Festival, col quale il Teatro delle Albe ha consolidato una proficua partnership, ha dedicato I Promessi Sposi alla prova, diretto e adattato da André Ruth Shammah, in scena il primo luglio scorso al Teatro Alighieri, con Giovanni Crippa e Federica Fracassi. La stessa Shammah che portò in scena lo spettacolo nel 1985 al Salone Pier Lombardo di Milano, con protagonista Franco Parenti e che ripropone oggi nella ricorrenza, come ha dichiarato lei stessa, sia per invitare il pubblico a riscoprire il romanzo di Manzoni, sia per ribadire, attraverso la riscrittura testoriana, quello che è l’essenza del teatro, un cammino verso l’affrancamento dalla fedeltà pedissequa al testo scritto e alla rievocazione storica per andare verso un teatro di parola viva, in cui i personaggi escono dai loro ruoli ed entrano nel nostro tempo.
Ma parlare di Testori, significa anche parlare della questione sulla verità, come si scriveva sopra, che ha attraversato la sua ampia produzione artistica come scrittore, saggista, drammaturgo, pittore e giornalista. Che lo ha portato a vivere fino in fondo le contraddizioni del suo essere figlio della borghesia di formazione cattolica e ad avere la vocazione a raccontare con crudezza il mondo delle periferie e dei perdenti. Dal ciclo I misteri di Milano degli anni Cinquanta e Sessanta, uno sguardo penetrante ma profondamente umano sulla classe operaia della metropoli con Il ponte della Ghisolfa, La Gilda del Mac Mahon, La Maria Brasca, L’Arialda, prima opera italiana vietata ai minori e sottoposta a censura per i presenti contenuti osceni, e Il Fabbricone, fino a In Exitu del 1988, che racconta, con rimando biblico all’esodo del popolo ebreo dalla schiavitù d’Egitto, le ultime ore di vita di un tossicodipendente omosessuale alla Stazione di Milano.
La sua linea drammaturgica, improntata fin dall’inizio alla sperimentazione linguistica e alla contaminazione tra dialetto lombardo, lingua latina, francese, spagnola e alla creazione di neologismi, che troviamo nella Trilogia degli Scarrozzanti,degli anni Settanta, è anch’essa una ricerca della verità attraverso la parola, che aderisca all’uomo completamente e visceralmente, come già in Pasolini, del quale prenderà il posto come giornalista al Corriere della Sera, dopo la sua morte.
Anche il suo giornalismo, del resto, è stato mordace e impavido, attirando antipatie e scontri, ma ancora attuale, tanto da ispirare con tre suoi articoli dedicati alla violenza sulle donne, scritti tra il 1979 e il 1980, la lettura scenica del Teatro delle Albe intitolata A te come te, nel 2013, su ideazione di Gabriele Allevi del Teatro degli Incamminati e del drammaturgo Luca Doninelli. Riproposta quest’anno, nella ricorrenza del centenario, certo, ma anche per rimarcare il monito di Testori, a rimanere sempre in allerta, a non spegnersi, “a non rassegnarsi al moloch dell’orribile indifferenza”.
Ne IPromessi Sposi alla prova, opera degli anni Ottanta, Testori ci parla invece del teatro in sé e della sua dinamicità e vitalità intrinseca perché legata all’uomo e al bios.Ecco allora tre ore di spettacolo con un solo breve intervallo in cui il romanzo viene raccontato attraverso un continuo processo di composizione e scomposizione di fatti e azioni, portando a riscoprire il testo manzoniano da una prospettiva inedita, ma sempre avvincente per le sue connessioni alla realtà del presente.
Lo spazio scenico, sviluppato su più piani, accentua la sensazione di continuo movimento ed evoluzione dell’opera che si sta mettendo in scena attraverso le prove degli attori. I temi manzoniani, dalla prevaricazione dei forti sui più vulnerabili alla fede religiosa, sono sfrondati da ogni paternalismo, attraversati dai pensieri e dalle emozioni degli attori, che entrano ed escono continuamente dai loro personaggi così come entrano ed escono di scena. Gertrude addirittura erompe fuori dal pavimento, come fuoriuscita temporaneamente dal suo inferno di amarezza e recriminazione nel quale è stata relegata ingiustamente dai suoi familiari. Humor e tragedia si rincorrono in continuazione donando allo spettacolo la verve necessaria a tenere alta l’attenzione, per un tempo così lungo, a riflettere e a sdrammatizzare.
I Promessi Sposi alla prova sono una produzione di Teatro Franco Parenti/Fondazione Teatro della Toscana/Fondazione Campania dei Festival con il sostegno dell’Associazione Giovanni Testori.
Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.
«I feel the cost of it pushing my body / Like I push my hands into pockets / And softly I walk and I see it, this is all we deserve / The wrongs of our past have resurfaced / Despite all we did to vanquish the traces» (Sento il costo di questo spingere il mio corpo / Come se infilassi le mani nelle tasche / E dolcemente cammino e lo vedo, questo è tutto ciò che ci meritiamo / I torti del nostro passato sono riemersi / Nonostante tutto quello che abbiamo fatto per far scomparire le tracce). Così canta Kae Tempest in Europe Is Lost, un brano del 2016 che Carlo Massari sceglie come seconda traccia su cui comporre la sua coreografia. Una coreografia, quella di Metamorphosis, costruita tanto sulla musica quanto sulle parole. Atti di metamorfosi contemporanea(questo il sottotitolo dell’opera che il performer confessa al pubblico e al critico Carmelo Zapparrata) va in scena il 21 giugno all’Arena del Sole durante la rassegna InChiostro, un palcoscenico estivo allestito nel chiostro, appunto, del teatro.
Lo spettacolo è inserito all’interno del progetto Carne / focus di drammaturgia fisica, una ricerca sulle connessioni tra il linguaggio della danza e del teatro, a cura di Michela Lucenti. Prodotto nel 2022 dalla C&C Company, di cui Massari è il direttore, lo spettacolo è un trittico (ognuno con il suo titolo, Larva –Blatta –Sapiens), che per questa replica andrà in scena privato del suo terzo atto. Accompagnato dalle parole pronunciate da Emmanuel Macron durante un recente discorso pubblico su argomenti come la pandemia da Covid-19 e il conflitto in Ucraina, Massari entra in scena assumendo una posa da Capo di Stato. Sorride a una fotocamera immaginaria mentre stringe la mano a qualche spettatore che fa alzare appositamente, mentre ancora la voce del presidente francese riecheggia.
Ha così inizio Larva, in cui il performer, vestito di una camicia bianca e un paio di pantaloni neri, sulle note prima del celebre Walzer n°2 di Shostakovich e poi della sopracitata Europe Is Lost, inizia una sua trasformazione. Da una coreografia lineare e vigorosa con ampi movimenti per l’intero palcoscenico, si passa a un corpo che quasi sembra non essere più in sé, inanimato. Le braccia si intrecciano, il corpo si piega in due come un foglio di carta, ciondola da una parte all’altra finché non si scaraventa al suolo e inizia a recitare alcune Beatitudini rivisitate, dal Vangelo secondo Matteo. Strisciando esce di scena e dopo un piccolo intervallo ha inizio Blatta. Una coreografia disperata, questa, tra cadute rovinose e capriole.
Massari questa volta indossa una felpa, la stampa di una bistecca cruda ricopre interamente la superficie del tessuto. Un paio di mutande bianche, i calzini e le scarpe richiamano a loro volta il bianco del grasso e il rosso della carne. Un’altra traccia audio, questa volta di un video informativo sul consumo di carne nel mondo e sui processi per portarla in tavola, intervallati dai versi di gallinacei, bovini, maiali, stereotipati e agghiaccianti. Movimenti disperati in cerca di una forma si reiterano in scena su due ultimi pezzi strumentali (uno di questi composto da sonorità come di campagna, di pascolo, con tanto di campanacci e muggiti che Massari non manca di mimare) finché l’umanità solo apparentemente perduta dell’uomo in scena fa capolino, trasformando lentamente un muggito nella parola mamma.
Lo stesso Massari definisce il progetto un «trittico inversamente evolutivo» durante il dialogo con Zapparrata, che durante la rassegna estiva è il mediatore nell’incontro tra il pubblico e gli artisti alla fine delle loro performance. «Si parte da una estrema costruzione fisica e vocale (le Beatitudini) e si arriva ad una incapacità fisica e vocale» che il pubblico del 21 giugno non avrà possibilità di vedere in scena. Sapiens è il titolo del terzo e ultimo atto in cui l’uomo protagonista, appena riappropriatosi della parola mamma, cerca di creare un pensiero ed esporlo, ma fallisce. D’altronde, che pensiero, che parola può ancora sopravvivere mentre intorno a noi si profila il disastro? Tempest scrive un commiato per l’Europa, Macron ricorda la data dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, Massari si appella all’apocalisse. Eppure, l’epilogo della replica del 21 giugno non è la morte. È la prima parola dell’essere umano, uguale in tutte le parti del globo: mamma. Comunque sia, con Blatta la replica del 21 giugno si conclude nel segno della nascita.
Nel 2011 va in scena Corpo e cultura, interpretato da Massari e Chiara Taviani, ex codirettrice della C&C Company. Durante un’intervista un giornalista per abbreviare li chiama quelli di C&C, da lì il battesimo. Ed effettivamente corpo e cultura sono due parole chiave fondamentali per leggere l’opera del 2011, Metamorphosis del 2022 e la stessa poetica della compagnia. Corpo e cultura parlava di «come la cultura possa trasformarsi attraverso i corpi da cui viene rappresentata e come, viceversa, i corpi possano prendere forma attraverso la cultura da cui vengono attraversati». A distanza di molti anni Massari stesso fa riferimento a questo lavoro per raccontare Metamorphosis. Si tratta di un’indagine su come la contemporaneità agisca sul corpo umano, come la attraversi, la pervada, deformi. Gli atti sono tre proprio perché tre sono i passaggi, perché metamorfosi è movimento, parola che racchiude un processo.
Massari cita Kafka: basta una notte perché Gregor Samsa diventi uno scarafaggio, ma le spoglie d’insetto sono la fase finale di un processo che probabilmente l’ha sempre visto uno scarafaggio, ovvero un povero impiegato senza spina dorsale, umiliato e succube del sistema. «Un’evoluzione naturale del suo corpo rispetto a quello che la sua mente già poneva in essere». Come può allora il corpo umano non barcollare, non perdere l’equilibrio e cadere ripetutamente davanti allo sfacelo ampiamente predetto e in parte già avvenuto? Come una mosca in una stanza con le finestre chiuse, non riesce a distinguere la libertà dal vetro. Metamorphosis colpisce come colpì chi assistette alla prima proiezione de L’uscita dalle officine Lumière: un guardarsi allo specchio. È così che ci sentiamo, che ci muoviamo? Sono questi i suoni che emettiamo mentre l’apocalisse, giorno dopo giorno, ci pervade?
La vitalità del linguaggio della C&C Company si esprime sin dal nome. Corpo e cultura, danza e parola: sono questi i principali strumenti di Massari, sia in Metamorphosis che nella sua intera produzione. Che sia in scena da solo o con altri performer (come Chiara Taviani), che crei per sé o per gli altri (Right per Opus Ballet, 2021), Massari non cede a un solo linguaggio, e in questo caso il corpo e la parola sono i due strumenti principali in scena, che coesistono armonicamente, senza gerarchie. Massari viene dal teatro musicale e dalla prosa, ma il suo percorso artistico l’ha portato a un’ampia sperimentazione dei vari linguaggi della scena, tra queste la collaborazione in compagnia con la già citata Chiara Taviani, proveniente dalla danza classica, e l’incontro con Michela Lucenti. Coniugando coreografia e drammaturgia, Massari indossa il presente. Il suo corpo danza sulle direttive del presidente francese, sulle pesanti pietre di Tempest, sulle percentuali di consumo di carne nel mondo, sui campanacci di mucche al pascolo. Transdisciplinarietà dei linguaggi, corpi attraversati da responsabilità, dal divenire degli eventi. Una cifra stilistica che ha la potenza dell’immediatezza, che realizza in pieno l’obiettivo prefissato di «parlare di società alla società».
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Esiste un luogo accogliente per il teatro, secondo Horacio Czertok, ed è il carcere. Il fondatore del Teatro Nucleo di Ferrara ha lavorato dentro le istituzioni totali: i manicomi prima della riforma Basaglia e le galere. Ne parla (insieme ad altri) in Libertà vo’ cercando, volume edito da Edizioni Seb27 che raccoglie l’esperienza del Teatro Nucleo nel Carcere di Ferrara, e in qualche modo in Contra Gigantes – Narrazione per attore solo e complici spettatori (ed. Seb27), in un racconto tra Chisciotte combattente contro le ingiustizie e un Miguel De Cervantes recluso. Quello che segue in forma di monologo è gran parte del suo intervento all’incontro avvenuto a Torino il 23 maggio scorso in occasione di Salone OFF.
Partiamo dal presupposto che consideriamo il carcere come la terra di nessuno. E noi abbiamo pensato che probabilmente quella terra di nessuno, che nessuno vuole, poteva essere la nostra terra ideale. Se nessuno la vuole, prendiamocela questa terra. Era talmente ideale che dentro il carcere il luogo del laboratorio teatrale è una terra che i detenuti sentono propria. Sì, perché in quella terra di nessuno si crea questo spazio strano dove vigono altre leggi e altre regole. Dove al contrario di quanto avviene fuori, per esempio, si deve usare una voce forte, bisogna urlare. Ma se tu urli in un carcere, urli nei confronti di un altro detenuto, ti prendi un rapporto e sei punito. In carcere non ci si può toccare, non ci sono contatti, e così via: insomma l’elenco è lungo. Così, delle volte, anche in carcere i detenuti, e anche i poliziotti, possono non fare i poliziotti, possono non mostrare un personaggio, possono diventare qualcosa di diverso rispetto al personaggio che indossano nelle attività quotidiane. Il teatro è sovvertitore di regole, è paradossale e quindi dove può stare meglio di un luogo paradossale come il carcere?
Restiamo al paradosso. Anzi, al paradosso nel paradosso. Una cosa importante che mi segnalava un carissimo amico, 95 enne, ex docente di filosofia di Firenze, che continua a fare il professore come volontario nel carcere di Scandicci, è che nella Costituzione non è scritta la parola carcere. E la cosa mi ha provocato uno strano brivido, avendo letto anche io quell’articolo 27 non ho mai notato che non ci fosse scritta la parola carcere. Vuol dire che la nostra Costituzione non prevede il carcere. L’articolo 27 parla della pena, della condanna, di come deve essere la pena, di come non deve essere la pena, ma non dice dove questa pena deve essere vissuta. Allora io nella mia innocenza ho chiesto a perché ci sia stato questo rifiuto e lui mi ha ricordato che i padri costituenti venivano tutti dalle galere fasciste e non sarebbe stato immaginabile per loro inserire nella loro Costituzione quella parola. Quindi siamo al paradosso nel paradosso.
E perché non esiste? Perché in effetti il carcere funziona malissimo. Tutto l’investimento che facciamo lì dentro come società produce una recidiva di oltre il 75%. Questo è un conto impressionante in termini economici e in termini di sofferenza. Anzi, di sofferenza nella sofferenza: anche le famiglie dei detenuti, infatti, sono costrette a scontare una pena per delitti che non hanno commesso. I figli di detenuti, per esempio, escono malissimo. Avere un genitore in carcere è una pena terribile per un bambino che a scuola deve affrontare la domanda sul lavoro del padre. Ecco lo stigma che si diffonde. E non possiamo che considerare queste come pene accessorie.
Da noi, poi, non c’è il cosiddetto vis a vis, ovvero la possibilità di detenuti e detenute di incontrare affettivamente e sessualmente i loro congiunti. Un’altra pena accessoria: non fare più sesso per la durata della condanna. Questo è spaventoso, è una vera tortura, è ancora dell’altro dolore nel dolore. Tu condanni in modo del tutto cieco delle persone a subire dei trattamenti, diciamo così, che sono vere e proprie torture.
E di un problema così vasto, è giusto se ne prendano carico i teatranti. Perché non è una questione di attualità, è come una sofferenza umana che c’è sempre stata. Allora ecco che arriva il teatro che non è attuale a un tempo come il cinema o la televisione, ma è attuale da sempre. I nostri autori hanno cominciato a scrivere testi 2500 anni fa: Sofocle, Euripide e tutti gli altri che sono sempre lì. Sono lì anche quando si parla di rifugiati che arrivano dal mare e si torna alle Supplici di Eschilo. Noi pensiamo al diritto d’asilo e lì è già scritto, chi lo legge, anche tra i detenuti, riconosce che le metafore sono già tutte lì. Si fa un viaggio nella cultura europea, ma al tempo stesso si arriva a temi di una terribile attualità.
Ecco, quindi che diventa anche un’attività educativa per i detenuti, ma anche per i poliziotti. E per il pubblico. Perché il teatro, come insegnano i grandi è una relazione tra attori e spettatori, o meglio, per me, tra attori e personaggi. Nel senso che penso a personaggi che vanno a incontrare le persone e insieme fanno il loro teatro socialmente condiviso.
Il tempo in carcere è sempre brutto. Non cambia. Fuori invece cambia. Come il tempo di oggi, che per certi versi è peggio per le ragioni di pubblico dominio, ma per certi versi è meglio perché è la verità. E la verità è sempre la cosa migliore con cui avere a che fare, perché abbiamo governi che sono stati liberamente scelti dalla popolazione. E’ la popolazione che pensa così come si riflette nel governo. Quindi questa è la verità.
E il teatro è una delle cose più democratiche che esistano perché prevede degli incontri. E gli incontri possono avvenire solo in democrazia. Io vengo dall’Argentina ed eravamo abituati alle dittature militari, come al vento o alle tempeste, ma l’ultima dittatura è stata terrificante. Siamo stati abituati a vivere e a far teatro in un ambiente veramente pericoloso perché la situazione politica non rendeva possibile esprimersi democraticamente non solo col volto ma anche col proprio pensiero. E quindi era normale per noi affidarci, ai grandi drammaturghi del passato e Sofocle non si può dire che non fosse un rivoluzionario.
Per altro per i teatranti i tempi sono bruttissimi da parecchio tempo. Il teatro non è previsto nella società tecnologica. Il teatro è un ingombro costosissimo perché implica portare le persone vive tutto il tempo con un carico di materiale in giro per il mondo. È una cosa veramente costosissima: implica che le persone debbano uscire di casa da casa, intraprendere un percorso, pagare un biglietto per sottoporsi a questo incontro che non tutte le volte merita lo sforzo. Per quanto certamente noi proviamo a far sì che lo giustifichi. Ma non è facile per lo spettatore che è uscito con un desiderio in mente, poi cambiare canale. Non volevi vedere quello spettacolo? Ecco, adesso stai lì e te lo tieni e alla fine applaudi pure, perché, anche se non ti è piaciuto lo spettacolo, gli attori hanno lavorato e quindi va riconosciuto loro lo sforzo. Quindi perché i teatranti vanno in carcere? Perché lì c’è un ambiente dove si può far fruttare al massimo questa paradossale contraddizione.
Abbiamo dentro delle persone che si trovano tutte in uno stato di deprivazione sensoria terrificante. I detenuti vivono una vita che voi potete solo immaginarvi che cosa significa. Non sto parlando della restrizione fisica negli spazi, ma sono le altre costrizioni. Non si parla dei tre pasti al giorno o di dormire al caldo, e tutto il resto che pesa tanto: la distanza, gli affetti che si rompono, eccetera, eccetera. Quindi si trovano in una condizione spirituale come se fossero dei monaci per i quali purtroppo non arriva mai la Vergine. Non vedono mai quello che si suppone che un monaco deve poter vedere. Non vedono niente, vedono solo più disperazione.
Ed è qui che arriviamo noi teatranti e proponiamo loro delle strategie di sopravvivenza, chiamiamole così, spirituali. Strategie nelle quali è prevista questa deprivazione sensoriale. Perché quando lavoriamo nei laboratori teatrali, anche gli attori passano attraverso queste forche caudine: si sottopongono a sforzi emotivi, spirituali e fisici. Devono farlo per prepararsi e per affrontare i personaggi, per mettere in moto fonti di energia necessarie per tener vivo questo magnetismo, questo interesse da parte dello spettatore.
Ecco questi detenuti e queste detenute si trovano già in quello stato. Basta poco. Basta veramente poco e sono pronti. È gente che quando capisce qual è il gioco, capisce il fatto che finalmente potrà uscire da quella condizione, immediatamente si prende tutta la responsabilità.
È interessante vedere un montenegrino che insegna la dizione italiana a un albanese. Perché noi lavoriamo anche in contesti che richiedono impegno con Tasso o con Dante: lavori con testi importanti nella nostra lingua perché questa è la sfida. È la sfida che merita lo sforzo, perché altrimenti neanche i detenuti sono contenti se non li sfidi là dove sembra impossibile. Come fa uno che appena ha un vocabolario di appena duecento parole a imparare il Tasso? Non lo so come fa. Studia, studia, studia. Ma alla fine ce la fa. E quando ce la fa è davvero sorprendente. Ti impressiona moltissimo perché il percorso che quella lingua ha fatto dentro la persona è potente. La poesia è potente.
E così ci sono quasi duecento istituti penitenziari in Italia e nella metà di questi istituti più o meno si fa teatro. Ed è stata fatta una ricerca dalla quale si evince che la ricaduta generica dei detenuti, ovvero che i detenuti usciti a fine pena poi tornano in carcere, supera il 75% circa, ma tra coloro i quali hanno fatto un percorso teatrale professionale serio la ricaduta scende sotto il 18%. Non si tratta, come dicono molti, che chi fa teatro è già predisposto a comportarsi bene, anzi. Spesso a teatro vengono buttati i più piantagrane con la sfida: “vediamo un poco come ve la cavate con questo qua”. E noi ce la caviamo come coi bulli della classe, che hanno una certa energia particolare. Tu trovi il modo di infilarla in una direzione efficace. Questo è educativo per i detenuti ed è educativo per i poliziotti. È educativo per la società. Soprattutto.
Noi facciamo teatro soprattutto per la società. Perché nella società prima o poi i detenuti escono. E dove vanno? Non hanno una casa, non hanno un lavoro. La famiglia dopo alcuni anni di deserto affettivo è sparita. E allora dove va quest’uomo o questa donna? Di solito va nel luogo dove si sente più accolto: in carcere, perché una volta che è passata la paura, il carcere è un posto accogliente. In carcere sei al sicuro. C’è anche un sacco di gente che si preoccupa che nessuno ti accoppi. Sembra un paradosso, però è così. Altrimenti dobbiamo far diventare la società un luogo accogliente, dove a fine pena un detenuto sa dove andare o può andare da qualche parte. E lo accogliamo come persona ricca di interessi che può insegnare anche delle cose agli altri.
E noi queste condizioni le creiamo portando il teatro fuori dal carcere, creando occasioni di incontri tra i reclusi e i cittadini. Portiamo dentro le scuole per insegnare che cos’è il carcere. E così portiamo fuori la compagnia di galeotti quando lo spettacolo è un prodotto teatralmente e artisticamente valido, perché è giusto che sia messo a disposizione del grande pubblico nei posti migliori della città. E anche questo, come un teatro nel teatro, mettiamo a disposizione il nostro lavoro per la bomboniera del Comunale di Ferrara, per esempio, di un bellissimo teatro del Settecento, meraviglioso. Noi abbiamo circa 35 – 38 iscritti su un carcere che ospita 350 vuol dire che è circa il 10% della popolazione presente.
Lì ci sono tutti, ci sono tutte le etnie italiche o gran parte: ci sono siciliani, napoletani, qualche ferrarese, ci sono albanesi, ci sono marocchini, ci sono tunisini, c’è persino un russo e una volta c’era un cittadino suddito di sua maestà britannica. Di solito è gente che fuori dal carcere vive separata e dentro il carcere deve vivere insieme. Nel laboratorio teatrale addirittura deve anche lavorare, si deve confrontare, si deve sostenere. Devono fare insieme musica e canto: c’è un grande fuoco che si accende e questo cerchio è prodotto e nutrito da tutte queste persone che dentro fanno cose che fuori non si sognerebbero neanche.
Allora ecco che queste persone hanno qualcosa da insegnare, nel senso che abbiamo noi cose da imparare da loro, per esempio questo è un interessantissimo aspetto che gli spettatori non tralasciano di notare e sottolineare. Perché quando si incontra un attore montenegrino che comincia il laboratorio con trecento parole in italiano e in scena ripete il combattimento di Clorinda che sono 23 minuti di testo difficile, di Tasso, è perché questo combattimento viene riportato da un ex soldato per cui qualche idea di che cosa poteva essere veramente una guerra ce l’aveva. E quando questo un testo viene studiato da un cubano che, chissà come diavolo è, ma è un cantante pop innamorato delle cover, lui impara il testo con la musica di Monteverdi, e tu credi seriamente di essere alla presenza di un miracolo. Ma come diavolo fa a succedere tutto questo? E’ il frutto di un lavoro di scavo che queste persone fanno su se stesse che arriva dalla poesia. La potenza del poeta è quella per cui con la sola parola deve fare tutto. Allora se ci si chiede perché si va in carcere, la risposta è: “dove altro trovi miracoli di questo tipo? Da nessun’altra parte”.
Il teatro non è letteratura. Il teatro è un’arte antica che viene prima della letteratura. Noi viviamo in un sistema che confonde il teatro con letteratura teatrale in prosa. È una pericolosa confusione. Il teatro è la relazione tra persone. Noi pratichiamo un teatro che è fondato su quello, sullo scavo su di sé che l’attore fa e costringe lo spettatore a fare lo stesso. Pratichiamo un teatro che accompagna questa trasformazione e la relazione che ne consegue.
L’unica altra cosa che giustifica questo lavoro nei confronti dello spettatore esterno è la qualità. Altrimenti stai spalando merda. E una merda è una merda. E’ un prodotto di una certa quantità, ma non la puoi contrabbandare per bellezza. Se fai teatro dev’essere di alta qualità. E come fai a creare qualità, lavorando con delle persone che hanno pochi strumenti? Non lo so. Nessuno ti costringe a entrare in un carcere, però se lo fai devi perseguire la qualità. Perché se non lo fai, se non ottieni qualità, ottieni solo l’applauso peloso. Il tuo lavoro dev’essere talmente potente che lo spettatore finalmente sia chiamato alla catarsi aristotelica, a quell’impatto emotivo che fa funzionare la ragione e genera una prima agnizione. Questo cambiamento è la magia.
Noi teatranti abbiamo questa possibilità, abbiamo questo ruolo, abbiamo questo mandato. Prendiamo subito questo mandato. Dobbiamo farlo per non lasciare che il teatro e l’arte siano l’intrattenimento dei ricchi, di quelle persone che non hanno un cazzo da fare, di quelle serate borghesi. Il teatro è un mezzo straordinario che può aiutarci a cambiare e, con mille difficoltà, con il tempo aiuta a creare altri nodi della rete. Possiamo farlo? Io sono di quella generazione che pensa che se possiamo farlo, dobbiamo farlo e dobbiamo farlo noi perché se no non lo fa nessun altro.
Scrivo un po’ per dare notizie e un po’ per raccontare storie. Insegno al master in giornalismo dell’Università di Torino, ho imparato alla scuola civica Paolo Grassi.
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