L’incontro magico traLa morte a Venezia di Thomas Mann e la versione drammaturgica e registica di Liv Ferracchiati, liberamente ispirata al testo dello scrittore tedesco pubblicato nel 1912, crea le condizioni e l’opportunità di esplorare un’opera letteraria attraverso le lenti del teatro contemporaneo.
Motore pulsante del romanzo di Mann è la tensione, l’attrito tra razionalità e passione, tra l’intellettualismo impassibile e il desiderio sensuale. Il testo è una riflessione sulla bellezza, l’ossessione e la morte, sullo sfondo di una città asfissiante e decadente come Venezia. Potremmo definire Gustav Von Aschenbach, il protagonista, come un uomo di cultura, controllato da un forte senso di disciplina morale, che si lascia sovrastare dalla bellezza e dalla giovinezza di Tadzio. La sua passione non è soltanto un’infatuazione, ma una lotta interiore che lo costringe a confrontarsi con la sua natura primitiva. Nel percorso tracciato da Mann verso l’autodistruzione, la ricerca della bellezza si rivela come la ricerca di una morte estetica, una ricerca che non nutre la vita, ma la svuota di significato. L’incontro tra il desiderio di perfezione e la capacità di distruggere ciò che è autentico riduce l’esistenza a un riflesso sterile di sé stessa.
Il viaggio a Venezia di Aschenbach diventa una discesa simbolica nell’abisso al punto che la città sull’acqua diventa essa stessa la rappresentazione di un mondo sospeso, come il corpo di Gustav, il quale non riesce più a distinguere tra vita e morte, tra desiderio e rovina. La sua fine non è una débâcle, ma la fusione, l’accorpamento con l’oggetto del suo desiderio. La sua è una morte estetica che diventa parte di un ciclo più ampio, quello dell’arte, dove l’autodistruzione non è mai del tutto separata dalla creazione.
Da questo paesaggio culturale e con queste premesse, il regista e drammaturgo Liv Ferracchiati progetta e concepisce una lettura contemporanea dell’opera, collocandola nel presente e scrostando le atmosfere ottocentesche del romanzo di Mann. Aperto all’innovazione e alla ricerca di nuove forme espressive, Ferracchiati recupera la forza dei temi originali dell’opera servendosi di un linguaggio teatrale che sfida la tradizione. Pur mantenendo il nucleo drammatico del romanzo, cerca di rendere più concreto e palpabile il conflitto di Aschenbach, utilizzando elementi di teatralità fisica e di metateatro che sembra mettano l’accento sull’auto-percezione del protagonista. Il filtro della scena teatrale rende così predominanti sia l’elemento psicologico di Gustav Von Aschenbach che la percezione della bellezza di Tadzio.
Emerge chiaramente una precisa scelta registica di voler scardinare gli stereotipi legati al genere e all’età anagrafica. Tadzio, interpretato da Alice Raffaelli, non è quello che dovrebbe essere e potrebbe anche non essere quel che è. Anche Gustav potrebbe avere l’età che ha il personaggio, nel libro di Mann, così come qualsiasi altra età non scritta. La scena diviene agita non da un uomo maturo attratto dalla bellezza di un uomo giovane, ma è l’universalità delle persone a muoversi sul palcoscenico restituendo così all’opera una sospensione tra realismo esistenziale e dimensione simbolica.
La stessa Venezia, lo spazio e il tempo sono messi in discussione da un approccio teatrale che rende la narrazione più fluida, fisica e visibile, meno legata a un luogo preciso, ma più astratta. La regia di Ferracchiati si fa veicolo di un’esperienza viscerale che parla direttamente ai sensi e alle emozioni degli spettatori. Le pulsioni di Gustav, la bellezza di Tadzio non sono solo un ideale distante, ma l’immagine tangibile dei corpi dei performer esibiti, ripresi e video proiettati. Il teatro di Ferracchiati riesce ad aggiungere alla prosa di Mann la tensione tra il sublime e il distruttivo, svelandola attraverso una videocamera, rendendo visibile l’invisibile.
Ogni parola, ogni movimento, ogni taglio di luce, ogni inquadratura, ogni respiro è un passo di danza verso la morte. In questo senso, La morte a Venezia di Liv Ferracchiati è tanto un tributo all’opera di Mann, quanto una sua reinvenzione teatrale che rompe la distanza tra l’intimo e il pubblico. Quello che emerge con forza è la dislocazione, il passaggio da un ragionamento solitario e intellettuale ad una catarsi fisica. Quasi come se il desiderio, la bellezza che seduce, diventassero un atto di forza contro il pubblico. La bellezza si fa carne, la morte viene resa visibile e il desiderio diventa un’esperienza fisica. Ferracchiati mette lo spettatore nella condizione di fare i conti con l’ossessione e la morte, come esperienze che si consumano, nel qui e ora.
La scelta di realizzare la performance come un lungo monologo a due voci registrate implica alcune stimolanti riflessioni sul rapporto tra il pubblico e la performance, creando una distanza tra la parola e la presenza fisica dell’attore. Da un lato, la voce fuori campo può risultare potente come un’eco che si diffonde nello spazio, come se i pensieri del personaggio venissero svelati direttamente al pubblico. Dall’altro, questa scelta può limitare l’immediatezza emotiva che un attore riesce a comunicare dal vivo, privando lo spettatore di un’esperienza più diretta e materiale. Il rischio è che il monologo registrato finisca per diventare un elemento estraneo alla scena, distaccato dal corpo e dall’energia del performer.
È evidente che la scelta di un monologo fuori campo, nell’impianto registico di Liv Ferracchiati è servito a sottolineare l’alienazione del personaggio, l’impossibilità di comunicare direttamente con gli altri, trascinando lo spettatore in una riflessione più profonda sulla solitudine del protagonista. Questa scelta stilistica, alla fine, risulta funzionale ed efficace in quanto ben integrata con la visione registica complessiva dello spettacolo. È come un’ombra che si allunga sulla scena: distante eppure onnipresente. Non “ruba la scena”, ma al contrario contribuisce a costruire una narrazione più stratificata. La voce, non più vincolata al corpo dell’attore, si fa Verbo, entità a sé, sospesa, a volte inquietante, come un fantasma che non trova pace. Questa scelta può trasformare il monologo in una riflessione interiore, una confessione che non vuole essere condivisa con tutti, indistintamente, ma solo rivelata nell’intimità di chi sa ascoltare.
La distanza fisica crea una frattura tra l’emozione e la sua manifestazione, come se il protagonista, pur parlando, fosse incapace di toccare gli altri con la propria presenza. La scelta registica di Ferracchiati, ben ponderata, la sua idea audace sfida il pubblico a confrontarsi con l’assenza, a sentirne il peso, a rivelare una verità che non si lascia possedere facilmente. È la voce, pura e distaccata, a fare il suo gioco di seduzione e disorientamento, al punto che alla fine sembra rendere tridimensionale, la coscienza di Aschenbach, la prosa di Mann, la drammaturgia di Ferracchiati. Diventa altro.
Nessuno di noi è mai uguale a sé stesso nel tempo: cambiamo nel corpo, nella mente e nel cuore, mutiamo opinioni, a volte quasi senza accorgercene. Cambia la percezione durante e dopo i sessanta minuti di La morte a Venezia. Se ne può uscire trasformati, diversi da prima. Diventare altro è una catarsi, una metamorfosi. È abbracciare la contraddizione. È avere il coraggio di scoprire chi siamo e chi non siamo. Proprio come riscrivere una storia, la nostra storia.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Un presupposto molto semplice: Maura Teofili ha scelto di mettere a disposizione lo spazio di Carrozzerie N.O.T., da lei gestito con Francesco Montagna, per alcuni spettacoli ancora in nuce, studi con potenziale che non hanno trovato posto in altre rassegne e bandi di finanziamento. L’ultima giornata di Sciccherie vede protagonisti artisti giovani e intenzionati a mostrare al teatro loro punto di vista sul mondo.
Il primo studio in scaletta è Titolo figo*. Francesca Cordioli e Sara Todisco accolgono il pubblico stese su un fianco, sul pavimento, in una posa di apparente rilassatezza, e dai cellulari che tengono in mano e che fissano, ipnotizzate, provengono suoni familiari: sono le canzoni degli ultimi trend di TikTok. Il semplice fatto di dedicare l’attenzione, di fermarsi a pensare in un contesto performativo a un’azione a ciascuno di noi dedica ogni giorno ore, forse la fetta maggiore del proprio tempo, restituisce da subito una visione deleteria e inquietante delle nostre vite.
Quando, dopo minuti che paiono infiniti, le due performer sembrano accorgersi di spettatrici e spettatori che le osservano e, sedendosi, danno inizio all’unisono al loro monologo a due sulla procrastinazione, l’estraniamento della sala cresce. La situazione presentata è da subito chiara: due ragazze decidono di tenersi una giornata libera per portare a termine un compito, che si lascia intendere essere la scrittura dello spettacolo stesso, e per questo si riuniscono nel salotto di una delle due, ma non riescono a concentrarsi. Sono distratte dal cellulare, dalla pioggia che batte sulle finestre e dal ritmo di Singing in the rain che entra loro in testa, dal pensiero del loro programma preferito che sta per iniziare, dalla fame. Il loro flusso di coscienza, pronunciato in perfetta sincronia e accompagnato da gesti stereotipati, si ripete per diverse volte, alienante, simile a una cantilena. Le parole utilizzate sono identiche e il ritmo sempre più incalzante, ma l’attenzione dello spettatore è attirata dalle minime variazioni nell’ordine delle frasi e dalle piccole aggiunte che, ripetizione dopo ripetizione, svelano la vera ragione dell’apparente pigrizia delle due giovani artiste.
Ne risulta un ritratto accurato della generazione dei trentenni di oggi, o perlomeno di una fetta di essa, chesoffoca nelle distrazioni la propria ansia esistenziale, che, non riuscendo a immaginare il futuro senza sentire il cuore accelerare, si abbandona al sollievo temporaneo che offrono i social e altre forme di intrattenimento nel tempo presente. La prospettiva di deludere le aspettative, non trovando il lavoro che società e famiglia si aspetterebbero dopo molti anni di studio, e al tempo stesso la consapevolezza di desiderare per se stessi qualcosa di diverso, un obiettivo che non si ha idea di come raggiungere, la paura di non farcela: è questo, non l’indolenza o la mancanza di iniziativa, a non permettere ai personaggi di Cordioli e Todisco di portare a avanti il loro progetto o di alzarsi da quel pavimento. Lo studio termina come era iniziato, le due ragazze tornano a stendersi e a canticchiare le musichette provenienti dai loro cellulari, ma adesso quella visione lascia addosso allo spettatore e alla spettatrice una diversa, più profonda inquietudine.
Anche Fanssi apre con l’interprete, Paolo Lupidi, sdraiato sul pavimento in una posizione di riposo apparente che, come nel primo studio, simula un falso rimedio al senso d’angoscia. Se però nel caso precedente il lavoro delle due giovani artiste, paralizzato dai pensieri ossessivi, non era mai cominciato, in questo caso a sembrare impossibile al ragazzo è l’idea di fermarsi davvero anche quando, come nella finzione scenica, è malato. Lupidi racconta che nel momento in cui il suo corpo cede, in quel periodo dell’anno in cui per la troppa fatica le sue difese immunitarie si abbassano e la febbre – tanto desiderata in quanto unica scusa con la quale riesce a concedere a se stesso una pausa – arriva, la sua mente continua a ronzare come un nido di vespe. Questo fastidioso rumore che avverte nel delirio gli ricorda degli impegni che sta trascurando, delle responsabilità lavorative che il suo fisico si rifiuta di assumersi.
Fans, che prende il nome dai comuni farmaci antiinfiammatori che il protagonista usa per curare l’iperpiressia, la febbre che supera i 40 gradi, racconta del tentativo di questo giovane di tacitare il ronzio immaginario degli insetti provando a non fermarsi, a riprodurre lì, in quella camera da letto allestita sul palco, i gesti, la frenesia dei diversi lavori che svolge. Si alza quindi dal suo pouf rosso e comincia a suonare, sempre più in fretta, i campanelli che lo circondano, gli stessi con i quali i suoi responsabili richiamano la sua attenzione durante i turni al ristorante. Lupidi racconta di serate passate per strada a cercare di consegnare in tempo, prima che si raffreddino, le pietanze ordinate dai clienti intransigenti e insopportabili e di un capo tirchio, disonesto, deciso a sfruttarlo allo sfinimento. Ma il testo non perde l’occasione di sottolineare la necessità di prendere coscienza di ciò che ognuno di noi permette in maniera indebita al proprio datore di lavoro, dei meccanismi di autosfruttamento e della possibilità, mai presa in considerazione, di porre dei limiti, di ucciderequelle vespe che ci ronzano in testa.
Romanticadi Martina De Santis segna invece uno stacco netto rispetto ai due studi precedenti, non solo a livello tematico ma anche dal punto di vista generazionale. Si tratta della riflessione sull’amore e sulle dinamiche di coppia di una donna single alle soglie dei quaranta cresciuta con i classici della commedia romantica, da Pretty Woman e Dirty Dancing a Harry ti presento Sally. L’attrice e autrice, sfoggiando tra scarpe calzini e abito semitrasparente ognuno dei toni del rosa, prende posto di fronte a una tendina di striscioline di plastica luccicante e svela che ha sempre pensato alla sua vita come quella di un’eroina romantica.
Il vero amore tanto atteso non sembra essere ancora arrivato, ma De Santis, che utilizza il linguaggio della stand up comedy per suscitare nel pubblico la risata dandogli in pasto una biografia un po’ reale e un po’ fittizia, non vuole arrendersi e nemmeno cambiare filosofia di vita. Cammina per le strade di Roma, ma immagina di essere nella brughiera inglese dei romanzi delle sorelle Bronte. Indossa un impermeabile beige che nell’immaginario comune richiama quello dei maniaci sessuali e che però spalanca a tradimento solo per mostrare il suo disperato bisogno d’affetto. Crede nel destino e nei biscotti della fortuna, ma li prende sempre in coppia per poter scegliere la frase che meglio si addice alla situazione che sta vivendo. Siede per ore al bar aspettando che dalla porta entri il principe azzurro, cerca tra gli scaffali del supermercato l’uomo perfetto, di cui si innamora a prima vista salvo poi scoprire che si tratta di un uomo fidanzato o di un padre di famiglia.
Romantica azzarda anche l’accenno di un’analisi dei rapporti uomo-donna e delle dinamiche di genere, citando anche bell hooks. Tuttavia questo studio, più degli altri, si presenta come il nucleo ancora informe di uno spettacolo che, si lascia intuire, sarà molto più lungo e raccoglie in ordine ancora abbastanza casuale le intuizioni dell’autrice sul tema che le è tanto caro. Così, con questo sforzo di immaginazione intorno a un’opera non finita e alle sue potenzialità, si chiude con coerenza Sciccherie.
Nata a Roma nel 1998, si laurea in Lettere all’Università di Tor Vergata e Filologia Moderna alla Sapienza, occupandosi di letterature comparate e viaggiando per studio e lavoro in Europa. Frequenta il master in Critica Giornalistica dell’Accademia Nazionale Silvio d’Amico. Appassionata di poesia e di parole, scrive per diverse testate e blog di argomento teatrale e culturale, accordando un interesse speciale alla drammaturgia contemporanea e agli studi di genere.
Un Arlecchino irriverente verso la società borghese, come lo ha voluto Goldoni, ma proiettato sul piano del metateatro e immerso nella contemporaneità italiana, quello ricreato e diretto da Marco Baliani e interpretato da Andrea Pennacchi, in scena al teatro Alighieri di Ravenna. A un anno dal debutto, lo spettacolo, che quest’anno ha raggiunto le 70 serate in giro per l’Italia, continua a divertire il pubblico attraverso la parodia dei classici, Shakespeare in primis, nell’esilarante monologo di Arlecchino che si chiede “Servire o non servire?” e rimanda al riemergere di forme di schiavitù e asservimento sociale. Ma Arlecchino? è anche una sfida all’indimenticabile spettacolo di Giorgio Strehler, come ha raccontato Baliani all’incontro con il pubblico al ridotto dell’Alighieri l’8 febbraio scorso, sollecitato dalle domande e riflessioni dello studioso Gerardo Guccini. Se tanti infatti sono i registi che hanno reso popolare questa maschera della Commedia dell’arte, è stato quello innovativo di Strehler, il più longevo, con i suoi 50 anni di repliche al Piccolo di Milano.
Guccini, docente di storia del teatro e dello spettacolo al Dams di Bologna, evidenzia, a proposito delle due lettere che precedono il testo, quanto siano funzionali alla comprensione che esso procede su un duplice binario. La prima è scritta da Andrea Pennacchi al pubblico e la seconda da Marco Baliani alla compagnia di attori. Mentre Pennacchi pone l’accento sulla condizione di schiavitù che sembra ridiventata attuale oggi e su come il conflitto tra classi sia anche alla base della commedia goldoniana, la lettera di Baliani si concentra invece sulla dimensione laboratoriale che ha accompagnato il lavoro della compagnia sul testo.
L’Arlecchino sovrappeso con le sue goffe prestazioni e la sua ingordigia, l’improbabile travestimento di Beatrice nei panni del fratello creduto morto, l’irascibile facchino e cameriere di colore che parla in dialetto veneto, l’ironia di Smeraldina sull’infedeltà degli uomini. Un affresco irresistibilmente comico, farsesco, assurdo eppure rappresentativo di iniquità sociali e miopie culturali. Arlecchino è stato scritto nel 1745 a Pisa, periodo in cui Goldoni lavora ancora come avvocato anche se si occupa da tempo di teatro. Acconsente a scrivere l’opera su richiesta dell’attore Antonio Sacchi (o Sacco), di dar vita a un canovaccio che esalti la sua personalità truffaldina e mordace.
“Quasi 280 anni dopo, nel 2024 – racconta Baliani – Andrea Pennacchi, attore tra i più amati da me, mi ha cercato per riportarlo in scena. Ho quindi voluto prima di tutto formare una compagnia di attori veneti, e la prima parte del lavoro si è svolto appunto su di loro. La scelta si è basata non solo sul talento ma anche sulla loro emotività, sulla capacità di relazionarsi tra loro e creare l’atmosfera briosa e leggera che avrebbero dovuto saper trasmettere al pubblico. Soprattutto ho scelto attori che sentissero l’urgenza e l’inevitabilità del loro essere attori, piuttosto che indirizzarmi su interpreti bravi ma freddi, proprio per il carattere ‘operaio’ che traspare da questo lavoro e di cui Pennacchi è maestro”.
Se l’Arlecchino di Goldoni, infatti, è già abbastanza scaltro da tenere il piede su due staffe servendo due diversi padroni di cui riesce a farsi gioco, quello di Baliani spinge affinché il mondo borghese così solido nelle sue opere venga disgregato dalla drammaturgia. Dove la figura del proprietario viene assorbito completamente dall’attore/operaio. L’operazione metateatrale della compagnia scalcagnata che viene ingaggiata dall’impresario Pantalone tramite agenzia interinale, per portare in scena la celebre commedia goldoniana, amplifica questo aspetto, “creando un gioco di scatole che è molto serrato all’inizio. Poi, man mano che si va avanti, si perde per diventare del tutto irriconoscibile, per volontà del regista, e questo significa che funziona”, come spiega l’attore Valerio Mazzacurato che in scena è Pantalone.
Stravolgere l’opera classica era fin dall’inizio nelle intenzioni, ha spiegato Pennacchi: “Andarci dentro, giocandoci, rompendola. È una cosa che ho imparato proprio qui a Ravenna: che i classici li puoi spezzare, rovesciare, stravolgere, perché se sono davvero classici rimangono in piedi lo stesso”. Se però è inevitabile, dice ancora Pennacchi, lottare contro la tradizione che soffoca i personaggi che vorrebbe far volare, questo stravolgimento non deve essere fine a se stesso. La commedia a teatro è una porta, oltre la quale c’è un pensiero”.
Ecco allora che i dialoghi traboccano di battute graffianti su immigrazione, razzismo, sfruttamento economico e disparità di genere, la parola dazi usata al posto della goldoniana dogane perché lo spettatore percepisca quanto il teatro sia sempre agganciato alla realtà contemporanea. “Non è più possibile – spiega ancora Baliani – fare teatro come nell’’800 o nella prima parte del ‘900, perché i tempi sono diversi e perché oggi se non hai la giusta recettività su quel che accade intorno, non puoi fare teatro”.
Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.
La neutralità della base ritmata, un minimale sottofondo in quattro quarti che si ripeterà uguale a se stesso per più di un’ora, e due giovani danzatrici che indossano casalinghi abiti azzurri di qualche decennio fa: la singolarità di Il sesso degli angeli, nuova coreografia di Roberto Castello ospitata in prima assoluta da Orbita Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza al Teatro Palladium, si scopre nella banalità apparente, voluta, di queste poche scelte che disattendono, già nei primi minuti di spettacolo, le aspettative grandiose dello spettatore.
Erica Bravini e Ilenia Romano, simili ma non identiche nel fisico, nell’acconciatura dei folti e neri capelli ricci, nell’atteggiamento delle spalle, eseguono con piccole differenze due versioni parallele e appena sfasate nel tempo di una stessa performance. La loro danza è fatta di movimenti minimi, ripetizioni di moduli cinetici che parodiano azioni comuni, gesti di tutti i giorni. Come bambine che giocano a imitare le posture degli adulti senza comprenderne il significato, Bravini e Romano eseguono la partitura con gli occhi sorridenti e una noncuranza che però è tutta esteriore.
La concentrazione richiesta alle due danzatrici è in realtà assoluta e nulla di ciò che lo spettatore vede è lasciato al caso. Senza mai guardarsi sia Bravini che Romano hanno coscienza per tutta la durata della performance di quale millimetro del palco stia occupando la compagna e di quale movimento stia eseguendo, a quale minuto e dopo quanti rintocchi della base sonora dovranno cambiare gesto, fermarsi, ripartire. Quel piccolo scarto tra le due donne in scena rivela in realtà una capacità di coordinazione che sembra trascendere l’umano: sono due pixel di un fotogramma, due punti distanti programmati per assumere colori diversi in un preciso istante, in modo da formare ciascuna delle immagini specifiche pensate dal coreografo in rapida successione.
È raro che le performer si guardino e questo espediente impedisce alle emozioni che caratterizzano ognuna delle loro azioni di contaminarsi, tanto che il pubblico arriva a fissare, divertito seppur confuso, per un tempo che sembra infinito Ilenia Romano che mangia con calma un pezzo di pane al centro della scena mentre Erica Bravini continua la sua frenetica danza in un angolo del palco.
A destabilizzare ancora di più chi osserva, però, c’è la sostanziale mancanza di senso e di connessione dei vari quadri, tanto che appare impossibile organizzarli nella propria mente seguendo un filo logico. D’altronde che l’argomento della performance sia il “sesso degli angeli”, ovvero il discorso inutile, la perdita di tempo, era già dichiarato dal titolo. Lo spettacolo oscilla così fra la parodia di se stesso e della vile rinuncia al significato di una certa tradizione di danza e teatro, soprattutto nei periodi storici di crisi sociale, e la meditazione, religiosa e filosofica, volta non al ragionamento con i suoi legacci quanto piuttosto a svuotare, ripulire la mente.
In questo modo nel loro gioco infantile le danzatrici, mentre scimmiottano un rituale sfrenato di danza, imitano con ironia le posizioni innaturali e statiche di un geroglifico egizio o simulano il volo di un uccello-angelo, si ritrovano senza volerlo trasportate tramite una ripetizione ipnotica all’interno dei gesti che compiono, delle sensazioni che suscitato e del loro significato.
Nello sconnesso percorso della rappresentazione nulla avvisa la spettatrice e lo spettatore che la conclusione sia vicina, se non le musiche tradizionali che si affiancano al ritmo in quattro quarti verso la fine. Il sesso degli angeli termina all’improvviso e il pubblico si risveglia dalla trance in un lungo applauso.
Crediti
Coreografia, regia, musica Roberto Castello
Con Erica Bravini, Ilenia Romano
Produzione ALDES
Con il sostegno di MIC – Ministero della Cultura, Regione Toscana / Sistema Regionale dello Spettacolo
Nata a Roma nel 1998, si laurea in Lettere all’Università di Tor Vergata e Filologia Moderna alla Sapienza, occupandosi di letterature comparate e viaggiando per studio e lavoro in Europa. Frequenta il master in Critica Giornalistica dell’Accademia Nazionale Silvio d’Amico. Appassionata di poesia e di parole, scrive per diverse testate e blog di argomento teatrale e culturale, accordando un interesse speciale alla drammaturgia contemporanea e agli studi di genere.
C’è qualcosa di rivoluzionario nella decisione della compagnia Fabula Saltica di portare in scena, di mostrare senza censure la perdita nel mondo contemporaneo. Mentre la violenza e il sangue sono sdoganati in ogni mezzo di comunicazione, l’essere umano taglia fuori dalla propria vita e rifiuta di vedere la desolazione, il vuoto e il senso di finitudine che il lutto porta con sè, cancellando così ogni possibilità di elaborazione e superamento. Lo Stabat Mater di Pergolesi trova però asilo una domenica pomeriggio di gennaio allo Spazio Rossellini. Gli otto corpi dei performer compaiono sotto i riflettori coperti da vesti e teli neri e si preparano a condividere il dolore di Maria per la morte di Cristo sulle note del musicista settecentesco.
Inizia così un percorso che porta gli interpreti e il pubblico, riuniti in un attimo in un’unica comunità, ad affrontare ognuno degli stati d’animo che contraddistinguono l’elaborazione del lutto. Le emozioni sembrano propagarsi insieme ai movimenti senza soluzione di continuità cinetica da un danzatore all’altro. Ognuno con il proprio tempo segue a sua volta il ritmo, le variazioni, l’ondata della musica di Pergolesi, resa ancor più adatta alla danza da alcuni inserti contemporanei composti apposta per la rappresentazione.
Non si tratta della sola disperazione, che pure fa irruzione sulla scena nel momento stesso in cui il primo performer solleva il velo che gli copre il volto grigiastro e gli occhi spiritati. Ci sono anche l’angoscia irrazionale, sottolineata dai movimenti scattanti dei danzatori, che il peggio debba ancora venire, l’illogica ricerca di una soluzione, la rabbia insostenibile che emerge nella danza a coppie o gli spasmi di terrore che provoca il rumore di una pesante asse di legno lasciata cadere sul palco.
Questo unico oggetto di scena — se si eccettuano i veli neri come parte del vestiario dei performer — riassume ognuno dei macabri dettagli materiali che caratterizzano il fine vita degli esseri umani e la sua sola presenza inanimata nella cornice del movimento concitato della danza diventa agli occhi degli spettatori e delle spettatrici croce, poi bara e infine cadavere del defunto. L’asse sorretto dai danzatori sostiene a sua volta la performance e collega gli otto corpi sulla scena, costringendoli alla vicinanza e alla collaborazione e portandoli a formare con gli arti un’ unica grande creatura dolente. La cura estetica e compositiva dedicata a questi quadri calibrati al millimetro è notevole e lascia lo spettatore incantato e stupito anche nell’atmosfera tetra del teatro.
Quando il pubblico pensa che lo spettacolo, dopo aver raggiunto l’apice del trasporto emotivo nell’oscurità del lutto, sia ormai terminato, ecco che ha inizio invece il secondo atto, aperto dai sospiri che sollevano appena i veli neri che i danzatori portano in volto. Sarà l’unico suono che uscirà dalle loro bocche durante lo spettacolo e segna una sopraggiunta rassegnazione, primo passo verso la vita che ricomincia. Ora sette performer tengono inclinata l’asse mentre l’ottava si arrampica su di essa, recuperando dall’alto una prospettiva più ampia sull’esistenza e lo scorrere del tempo.
Non è possibile, nemmeno in questo frangente, attribuire un ruolo a ciascuno dei danzatori: tutti loro, uomini e donne, giovani e maturi, impersonificano uno alla volta oppure a gruppi quella Maria, quella madre che nella sua tragedia sembra non avere più sesso nè età. Il pubblico può partecipare così al suo dolore quasi archetipico in un modo nuovo, non più travolto dalla commozione per la vergine santa ma dalla compassione per la fragile psiche di un altro essere umano che si ritrova di fronte al baratro della morte. Il raccoglimento collettivo generato dall’esperienza di visione è liberatorio, catartico.
Crediti
Musica di Giovanni Battista Pergolesi e brani originali di Paola Magnanini
Compagnia di danza Fabula Saltica Cassandra Bianco, Valentina D’Alessi, Davide Dibello, Federica Iacuzzi, Claudio Pisa, Luca Marchi, Antonio Taurino, Chiara Tosti
Coreografia Claudio Ronda
Assistente alla coreografia Federica Iacuzzi
Costumi Antonio Taurino realizzati da Federica Coppo
Responsabile tecnico Gianluca Quaglio
Produzione dell’Associazione Balletto “città di Rovigo” – Compagnia Fabula Saltica, con il contributo di MiC e Assessorato alla Cultura del Comune di Rovigo
Nata a Roma nel 1998, si laurea in Lettere all’Università di Tor Vergata e Filologia Moderna alla Sapienza, occupandosi di letterature comparate e viaggiando per studio e lavoro in Europa. Frequenta il master in Critica Giornalistica dell’Accademia Nazionale Silvio d’Amico. Appassionata di poesia e di parole, scrive per diverse testate e blog di argomento teatrale e culturale, accordando un interesse speciale alla drammaturgia contemporanea e agli studi di genere.
Un fiore estinto nella metà dell’Ottocento prende di nuovo vita nella scelta performativa del duo Panzetti/Ticconi che apre, presso lo Spazio Körper, la programmazione del Centro di Produzione della Danza di Napoli.
Già il nome Cry Violet rivela un’importante valenza simbolica, campanello d’allarme che desta preoccupazione: la crisi ambientale odierna viene indagata attraverso quella che in poesia sarebbe una metafora. La composizione sonora di Teho Teardo si rivela efficace per accompagnare un’intima partitura coreografica. Cry Violet è una recente creazione di Ginevra Panzetti e Enrico Ticconi, legata al dolore e al senso di colpa: la performance è stata presentata per la prima volta nel 2023 a Milano, all’interno del progetto Esplorazioni, in collaborazione con Triennale Milano.
Per questa occasione i performer hanno approfondito il codice del lamento funebre e lavoro coreografico riesce così a utilizzare una gestualità parlante sin dall’incipit. I danzatori sono di spalle al pubblico e iniziano a muoversi con lentezza, coprendo il proprio volto con una mano. Il senso della rappresentazione emerge da subito: l’intento è quello di celare. Il disastro ambientale, di cui è in gran parte responsabile l’azione umana, viene messo in scena in maniera magistrale: il dolore è rappresentato attraverso richiami essenziali che portano lo spettatore ad osservare l’evolversi dell’azione con attenzione. Le due figure in scena procedono semi-distanti ma sempre in simbiosi: il pianto non è individuale ma collettivo. Si osservano movimenti che rievocano in maniera sottesa la figura di Lady Macbeth che incita alla crudeltà.
È la sofferenza della natura che i performer incarnano e che esplorano in tutte le sue differenti fasi, tramite una danza che cura i dettagli con un movimento ben sezionato ma allo stesso tempo fluido per generare elementi cinetici che non sono mai in stasi, permettendo ai danzatori di occupare lo spazio tramite chassés e circonduzioni.
L’espressione del volto è sempre incrinata dalla sofferenza, grazie anche al trucco sulle sopracciglia ma soprattutto al moto dell’animo che, tramite il corpo, s’immedesima nella manifestazione silente di una natura straziata. Il lamento funebre, di tradizione antica, rimanda anche al peccato originale. Il duo Panzetti/Ticconi segue un criterio strutturale preciso, sceglie un’articolazione mirata del corpo. Le braccia tendono verso il pubblico con i palmi delle mani rivolti verso l’esterno: si tratta di richiamare l’attenzione verso una richiesta di pietas, un tentativo di riparazione.
Quest’ultima è però una mancata soluzione, rappresentata tramite l’oggetto metamorfico del piccolo panno verde che, fuoriuscendo dai costumi indossati dai performer, ha la funzione di assorbire il pianto e divenire poi strumento di pulizia. In questo modo i danzatori rappresentano il greenwashing di facciata che caratterizza il nostro tempo. Lo stesso oggetto è tuttavia utilizzato anche per simulare lo stralcio di una parte di sé, lo sradicamento ineluttabile e irrimandabile. Il panno verde prima nascosto, ora compare e assume quasi il ruolo principale sulla scena. Emerge una circolarità di sequenze e di sezioni che rimanda all’ingannevole strategia comunicativa e che si inserisce nel dibattito pubblico.
La musica e la danza denunciano una crisi che, più che elusa, andrebbe ora affrontata.
Crediti
Coreografia, performace, costumi Ginevra Panzetti e Enrico Ticconi
Composizione sonora di Teho Teardo
Video Sergio Salomone
Illustrazione grafica Ginevra Panzetti
Produzione Esplorazioni un progetto di Triennale Milano in collaborazione con Volvo Car Italia, con il supporto di Lavanderia a Vapore / Piemonte dal Vivo (it) | RAMPE (de)
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
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