Have a safe travel: nuovi itinerari fra le intercapedini della storia

Have a safe travel: nuovi itinerari fra le intercapedini della storia

Visto che i miei genitali sono di dominio pubblico 
ho reso private altre parti di me.
Nel mio silenzio io possiedo
bocca, laringe, cervello, in un solo
gesto. 
(The Venus Hottentot – Elizabeth Alexander)

Elizabeth Alexander nel 1990 scrive The Venus Hottentot, in cui dà voce in forma poetica a Saraah Bartman, la Venere Ottentotta esposta e studiata dai naturalisti nel 1800.
Dissezionato e conservato ogni parte del corpo di Baartman, diventa il punto di partenza per corroborare la tesi dell’alterità del corpo nero, costruendo quello che Edward Said, definisce una famiglia di idee, in modo da rendere un fenomeno estraneo prevedibile e controllabile, creando un archivio istituzionale di idee. 
Quale storia opporre a queste narrazioni precostituite? 

Ne hanno parlato Annalisa Sacchi, Adil Mauro e Bridget Ohabuche in un incontro dal titolo Saidiya Hartman: Parentele oceaniche e fabulazione critica. Al centro del discorso i passaggi salienti di Perdi tua madre di Saidya Hartman (trad. it. di V. Gennari, Tamu 2021), in cui l’autrice ricostruisce quelle che Annalisa Sacchi definisce, citando Carlo Levi,  microstorie

Hartman ricompone vicende dimenticate attraverso l’utilizzo della fiction, che si sostituisce ad uno studio archivistico istituzionale e violento, in cui le vicende del middle passage hanno uno spazio parziale e lacunoso e l’assenza di notizie diventa filologica, rendendo la  ricostruzione fittizia necessaria. «Ognuno mi raccontava una storia diversa su come gli schiavi avevano iniziato a dimenticare il loro passato, per spiegarlo si sussurravano parole come zombie, stregone, succubo e vampiro» racconta Saidyia Hartman. La narrazione diasporica si nutre così delle intercapedini, ricostruisce le giunture e gli spazi morti di una storia cancellata. 

Eli Mathieu Bustos con Have a safe travel, scrive il suo capitolo di questa storia attraverso la sua versione espressionista di teatro documentario. Al centro dello spettacolo il racconto di un viaggio in treno in cui il performer viene fermato e perquisito dalla polizia. L’intreccio si dipana con la precisione della testimonianza e la convulsione della vittima, un discorso indiretto libero che espone in ordine e senza sconti ogni frammento di questa storia. Come il contenuto della borsa di Eli, l’accaduto è esposto su un tavolino del treno: le mutande, i documenti, un libro: una scomposizione forzata che porta a una nuova forma violata e traumatica. «Non vorrei che tu capissi, vorrei che tu sentissi» dice l’interprete nelle note di intenzione a questo lavoro, utilizzando la formula j’envie de, che ha in sé il campo semantico dell’invidia, della volontà, che in questo caso diventano  incontrollabili, impulsive e centrifughe. 

Have a safe travel
Ph Victoriano Moreno

I movimenti in scena sono convulsi, illuminati e nascosti da un disegno luci cadenzato, attraverso cui ogni azione restituisce gesti evanescenti, talmente veloci da diventare sfumature di colore. Il racconto semplice e lineare, presenta una situazione ormai archetipica, un canovaccio di improvvisazione che esplode nelle mani del protagonista: la persona non bianca fermata e inquisita con violenza da un gruppo di poliziotti, senza un motivo apparente. Questa ispezione casuale si chiude con l’epigramma che dà il titolo allo spettacolo: have a safe travel, pronunciato in un’inglese approssimativo e sgrammaticato. 

A veicolare la storia è il corpo di chi racconta. Un corpo nero, coperto solo da un pantaloncino sportivo che si scuote su un palco spoglio, ricostruendo il ritmo della storia con un andamento sinusoidale: l’eccitazione del viaggio, la presa di coscienza della perquisizione coatta, il terrore post traumatico dell’esperienza. Tutto procede con l’andamento delle rotaie del treno, lento e poi più veloce, di nuovo lento ancora, fino all’arresto totale. In questa performance di Eli Mathieu Bustos nulla è fisso o carpibile, se non le quattro parole che campeggiano sui sovratitoli sopra la sua testa. come un epitaffio su una lapide. 

Link utili per approfondire: 

https://www.poetryfoundation.org/poems/52111/the-venus-hottentot
https://theconversation.com/orientalism-edward-saids-groundbreaking-book-explained-197429
https://www.labalenabianca.com/2022/02/11/perdi-la-madre-saidiya-hartman-recensione/

Teatro d’aMare, a Tropea, è la casa del contemporaneo

Teatro d’aMare, a Tropea, è la casa del contemporaneo

Ai luoghi del Festival Teatro d’aMare si accede percorrendo a piedi dalla stazione ferroviaria una lunga strada in discesa, “a calata”, che si immette nel corso centrale lungo e stretto. Tra i negozi con le celebri cipolle rosse esposte e l’artigianato locale, tra i bar e i ristoranti, si mescolano e si confondono i suoni, i rumori, gli accenti di diverse provenienze geografiche con l’odore pregnante di fritture e grigliate di pesce. E poi, finalmente, si intravede via Glorizio, ripida e nascosta, alla cui sommità, superati altri ristoranti che diffondono una delicata musica di sottofondo jazz, si trova il palazzo del Museo Diocesano. L’atmosfera è rarefatta, bastano pochi passi in salita e ci si allontana dalla folla festante. Si entra in un’altra dimensione e chi si dirige là, non ci finisce per caso.

Tropea è fatta così: le discese e i tratti in salita, le luci soffuse dei vicoli e quelle sfolgoranti delle illuminazioni delle feste patronali, il silenzio e la vivacità, l’opulenza e la decadenza. Il luogo dove ogni forma è un’armonia di contrasti che ricordano e raccontano le storie di vite vissute tra speranze e sogni. Tra partenze e ritorni. Anche per me si tratta di un ritorno e la città è bella così come la ricordavo.
Sette sono gli anni trascorsi dall’ultima volta che sono stato lì nonché le edizioni del Festival Teatro d’aMare. Arrivo trafelato ma felice, un po’ in ritardo per l’opening Redreading #13 – Un giorno bianco (Esercizi sull’abitare), di e con Bartolini/Baronio

Saluto rapidamente Francesco Carchidi che condivide l’amore per il teatro, la direzione artistica di Teatro d’aMare e il fecondo universo dei sentimenti con Maria Grazia Teramo. La prima serata è un rituale collettivo come il teatro. E il teatro è casa, è giardino di desiderio. È un “giardino in movimento”, per dirla con le parole di Gilles Clément (paesaggista, ingegnere agronomo, botanico ed entomologo), da La Vallée al giardino planetario. È comunità, fratellanza, è il bello che chiama il bello, è la prima pietra che viene posata là dove si è deciso di costruire, è l’educazione all’ascolto, allo sguardo attento, affinché si possa rinvenire ciò che nel mondo è invisibile e fondamentale. 

Tamara Bartolini incanta e appassiona con le parole, come una pittrice usa i colori delle storie che vivono due volte attraverso la sua voce, i filmati, le fotografie e le registrazioni. Michele Baronio aumenta le suggestioni con una devota selezione musicale. «Ovunque andrai è lì che sarai» recita un proverbio amish. Con Michele e Tamara, dal vivo e non, ci sono anche Luigi Giffone, Domenica e Francesca Mamone, Ludovica Franzè con la sua testimonianza sulla “restanza”. 

Ci sono i giovani musicisti e le persone che i due artisti hanno incontrato lungo il cammino e le strade di Tropea, c’è il vino rosso e il mare azzurro, ci sono impronte, tracce manifeste e nascoste, ci sono vite segnate dalla nascita, dalla morte e dalla rinascita, ci sono le lacrime di Maria Grazia Teramo che, commossa, sale sul palco per ringraziare. «Ma dove le avete trovate le nostre vecchie foto?» chiede visibilmente emozionata. È il mestiere, sono i segreti dei teatranti. Redreading #13 è un viaggio che parte da Napoli e arriva a Riace. Un viaggio che è fatto di tante finestre che si aprono. È l’attenzione e la cura in ogni saluto, in ogni abbraccio, in ogni promessa fatta a voce da Tamara Bartolini: «Noi partiamo domani, ma prima faremo colazione insieme».

L’allegria che si respira per le strade, di sabato sera, a Tropea, non è molto diversa da quella del venerdì. L’appuntamento con Francesco Carchidi è al giardino del Museo Diocesano, per fare due chiacchiere e scambiarci un po’ di informazioni. Per esempio l’iniziativa del giorno dopo, con i ragazzi del laboratorio “Mi ricogghiu (ritirarsi, ritornare a casa)”, una restituzione dopo tre giorni di ricerca, confronti e condivisioni sulla “restanza”. Il tema è quello sul quale Ludovica Franzè ha incentrato la sua testimonianza, la sera precedente, durante il Redreading di Bartolini/Baronio, traendo ispirazione dall’opera omonima dell’antropologo Vito Teti. “Restanza” è quella condizione umana a metà tra il sentirsi ancorati e disorientati in un luogo da salvaguardare e rinnovare.

Mentre aspetto, ne approfitto per fare due chiacchiere con Marilena Polito, la quale si occupa della direzione organizzativa di Teatro d’aMare. La mia curiosità è catturata dal viavai di tante signore che non sono lì per il Festival; si dirigono con fretta da qualche altra parte, oltre la curva in discesa. Là dietro si trova il secondo accesso di una chiesa e quelle signore impettite vanno ad ascoltare la messa e a recitare la novena in onore della Madonna di Romania. La Madonna venuta dal mare, in una nave, durante una tempesta. Al vescovo dell’epoca chiese in sogno di rimanere lì, diventando la Patrona della città. Marilena mi racconta che molte ragazze del luogo si chiamano Romina, Romana o Romania, per devozione. Un tempo Tropea veniva invasa dai fedeli che, in occasione dell’anniversario dell’incoronazione del 9 settembre, erano ospiti a pagamento nelle abitazioni private di famiglie che offrivano una o più camere. L’ospitalità del luogo è rimasta, anche se ha assunto modalità diverse nel corso dei decenni.

Il tempo scorre, i pensieri vagano, decido di ritornare a sedermi su quella che è diventata la mia postazione ufficiale, un nero case del servizio audio-luci. All’improvviso arrivano, provenienti da Melfi, la tappa di viaggio intermedia per “spezzare il sistema nervoso”, Paola Vannoni e Roberto Scappin, i Quotidiana.com e, quasi in contemporanea, Francesco e Maria Grazia. Ci salutiamo affettuosamente e ci abbracciamo. Ci sentiamo tutti a casa. Il dialogo è lieve, ironico e gradevole; scorre tra tutti noi quella che Scappin definisce una “serena buona educazione empatica”. 

È già ora del primo spettacolo, Mio Padre non è ancora nato, il secondo capitolo di una trilogia sui legami familiari, scritta a quattro mani, di e con Caroline Baglioni, con la regia di Michelangelo Bellani. Una composizione per voce sola che è anche un dialogo sordo tra una figlia e un padre assente in scena. Un uomo di sessant’anni che ha avuto un’amnesia temporanea e che ha deciso di andare a vivere in un camper. Sette sono stati gli anni di un’assenza da decodificare e comprendere: «Quando lo guardo non è che provo disagio, è una specie di rabbia, sottile, appoggiata su un cuscino». Nonostante tutto lei prova dell’affetto per lui, ma forse perché è qualcosa che qualcuno le ha detto, qualcosa che deve essere fatta. Forse dovrebbe essere un sentimento viscerale. Quella figlia non sa cosa prova per suo padre, forse non lo conosce, anche se sa chi è lui. 

Nel rapporto con il proprio padre è facile perdersi nelle distonie, nelle asimmetrie, nelle proporzioni imprecise di un quadro metaforico, tra un “piccolo muro di roccia” e un “piccolo rametto di felce” che spunta fuori a catturare l’attenzione, come a voler squarciare quella tela. «Ma perché se la montagna è più grande io non posso fare a meno di guardare la felce? Perché non importa la grandezza, importa la vicinanza».

Al termine del primo spettacolo, approfittando di una pausa, io e i Quotidiana.com ci dirigiamo verso un chiosco il cui nome, “La piccola fame”, cattura la nostra attenzione. Prima però incontriamo Mariano Dammacco e Serena Balivo, protagonisti del secondo spettacolo della serata di sabato. A bruciapelo, Mariano mi chiede: «Anche la tua vita è funestata dal teatro?». La risposta immediata di Roberto Scappin è inequivocabile: «Funestatissima».
«Accanto ai festival storici – mi racconta Dammacco –  c’è un fiorire di nuove esperienze, festival alle loro prime edizioni, spesso frutto della volontà di teatranti o compagnie. In alcuni casi si tratta di festival con poche risorse economiche. Ciononostante, il teatro accade. E sempre si riparte per tornare a casa con un senso di “pienezza”».   

A Tropea, Mariano e Serena sono presenti per la terza volta per completare, secondo il desiderio e la strategia di Maria Grazia Teramo e Francesco Carchidi, la Trilogia della fine del mondo. Dopo L’inferno e la fanciulla ed Esilio, questa volta portano in scena La buona educazione. «È il segno di un’affezione reciproca» confessa Dammacco, ricordando l’incontro con Francesco Carchidi e sua sorella Antonella a Primavera dei teatri, nel 2019, nell’ambito del progetto Finestre, ai laboratori di drammaturgia e sul lavoro degli attori. L’incontro successivo fu quello con Maria Grazia Teramo che Mariano definisce come una «figura esperta di prezioso presidio culturale del territorio attraverso le pratiche di teatro».

«Eccola la comunità teatrale, ecco le relazioni tra persone, lo scegliersi reciprocamente – ribadisce Dammacco. Non vedevo Francesco da prima della pandemia, il ragazzo ha lasciato spazio a un giovane uomo che parla con pacatezza e humor agli spettatori del festival tra un evento e l’altro, segue di persona ogni aspetto organizzativo e logistico e si prende cura dei suoi numerosi ospiti. Maria Grazia risolve grane e mi marca a uomo per essere sicura che io sia soddisfatto dell’allestimento tecnico». Di questa comunità teatrale fanno anche parte Enzo Matarozzo, il titolare del service che fornisce le strumentazioni audio e luci al festival, Daniele Zagari, colui che si è preso cura dell’allestimento scenico, Nunzia Schiariti che fa da padrona di casa nel palazzo del Museo Diocesano, dove una sala della biblioteca è stata allestita a spazio teatrale.  

Lo spettacolo La buona educazione scorre fluido, in bilico tra l’assurdo della realtà e l’incanto, la poesia, gli straniamenti di cui è capace, nella sua prova di attrice, Serena Balivo. La “pienezza”, di cui mi parla Mariano Dammacco arriva puntuale, come testimoniano le sue parole del giorno dopo: «È domenica mattina e Serena ed io partiamo in macchina per un viaggio di mille e dieci chilometri, Tropea-Modena, ma l’umore è dei migliori. Guido, ascoltiamo musica e mi tornano alla mente tutti i momenti, tutti gli incontri, le persone, tutti i volti, tutti gli altri teatranti con le loro storie, li riassaporo in mente e sento di essere parte di una comunità, quella del Teatro. E così il viaggio, lungo, faticoso e pieno di traffico, si fa lieve».

Il terzo ed ultimo giorno del Festival inizia presto, alle 16 al Sedile dei Nobili, sede della Pro Loco e di uffici di rappresentanza del Comune. È domenica e fa caldo. Lì conosco Ludovica Franzé, Sebastiano Sicurezza e i ragazzi del laboratorio. Ognuno di loro ha un uovo, simbolo del Festival, un segreto/desiderio da custodire e proteggere, un’urgenza. Conosco anche Mariateresa Surianello che è al Festival per presentare il libro Uno strappo nella rete. Faremo una camminata tutti insieme, sostando in luoghi del cuore e della mente. Attraverseremo il paesaggio urbano osservando e ascoltando, nella modalità del laboratorio, mediante soste, dibattiti, ricerche e rielaborazioni.

Dammi un attimo è il primo spettacolo della serata conclusiva del Festival, firmato da Aiello/Greco e prodotto da Teatro Rossosimona. Parla dei modelli e delle relazioni sociali di una generazione che ha assorbito il sistema e le trasformazioni culturali del precariato. Il sodalizio tra Francesco Aiello e Mariasilvia Greco, originari entrambi di Cosenza, nasce all’interno del Festival Scritture, nel 2019, curato da Lucia Calamaro e conclusosi al teatro India di Roma. 

«Da lì è partita l’idea di scrivere un testo a quattro mani – racconta Francesco Aiello. Dammi un attimo è una creatura che ci è costata molta fatica, ma che ci ha regalato molti momenti di gioia e soddisfazione. Io mi sento parte di Teatro d’aMare fin dai suoi esordi e ogni anno, d’estate, passo da Tropea con lavori presenti nella programmazione ma anche solo in veste di spettatore. E più volte ho approfittato dell’ospitalità di Francesco e Maria Grazia che mi hanno offerto un letto per permettermi di rimanere a Tropea e vedere spettacoli che difficilmente avrei potuto recuperare a queste latitudini. 

Credo che un contenitore come questo sia diventato un luogo prezioso per il teatro di ricerca, per compagnie e artisti che si interrogano su temi e forme. Esperienze del genere devono essere difese e protette e – vorrei evitare i soliti piagnistei sulla Calabria, terra disgraziata, ma sono consapevole che il rischio è alto –  nella nostra regione le programmazioni che riescono ad avere proposte e luoghi di confronto sono sempre di meno».

La scelta di concludere la rassegna con lo spettacolo dei Quotidiana.com, Io muoio e tu mangi risulta emblematico. Si finisce in bellezza parlando di morte. Morire e mangiare sono o non solo le due facce d’una stessa medaglia? Si usa l’espressione “morire di fame”, ma “Mangjâ e murî”, ovvero mangiare e morire, è un detto friulano che si usa per dire che una pietanza è davvero buona. Talmente buona che, dopo averla mangiata, si può lasciare questo mondo in pace. «Io muoio e tu mangi» nel caso dei Quotidiana.com è la frase che il genitore rivolge al figlio che smette di mangiare per accorrere al suo capezzale. La singolarità di Paola Vannoni e Roberto Scappin è che loro sono così anche nella vita: mordaci, pungenti, intelligenti, ironici in pensieri, parole e opere. Vederli fare in scena un uso sapiente di giochi di parole e tempi comici fatti di pause, accelerazioni, gesti, ripetizioni e vederli ordinare un panino è un’esperienza unica, un piacere simultaneo e multiplo. 

All’apparenza la loro scrittura, l’eloquio può sembrare surreale; di fatto però viene nutrita dal reale. I racconti ospedalieri, i pannoloni, gli schizzi di catarro. Nuclei di realtà che attivano reazioni diverse. Perché rido, perché ridiamo – per esempio – quando non c’è nulla da ridere? Vannoni e Scappin non hanno come obiettivo né quello di far ridere, né quello di far piangere. Catturano l’attenzione del pubblico, senza mollare mai la presa. Si mettono in sordina. Si ovattano. Nei loro testi c’è violenza ed energia in parti uguali. I loro gesti sono volutamente compressi. 

E, alla fine, riescono a mettere lo spettatore di fronte all’incapacità di dare un senso alla vita, nella ripetizione dei suoi fatti. Harold Rosenberg, in alcune pagine molto belle de La Tradizione del nuovo, ha evidenziato che gli attori creano quando si identificano con delle figure del passato. E, in questo senso, la storia è un teatro: «…La loro azione fu la ripetizione automatica di un vecchio ruolo… È la crisi rivoluzionaria, l’impulso a creare qualcosa che non è mai esistito che spinge la storia ad ammantarsi nel mito». 

E così, quando finisce e si conclude la settima edizione del Festival Teatro d’aMare a Tropea, sulla Costa degli Dei, qualcosa che è realmente esistito c’è. È un albero che fa da cornice nello spazio scenico del giardino del Museo Diocesano. Una parte è secca, la parte rimanente ha le foglie verdi. «Mezzo vivo e mezzo morto –  mi fa notare Roberto Scappin – come il teatro».

Conversazione con Claudio Collovà: il suono de La terra desolata

Conversazione con Claudio Collovà: il suono de La terra desolata

Articolo a cura di Francesca Lupo

Entrare in un giardino o in un parco cittadino dà l’impressione di compiere un lunghissimo viaggio in pochi secondi da una parte all’altra del pianeta cambiando radicalmente odori, colori, percezioni. Il traffico e l’asfalto scompaiono e sembra impossibile immaginare che oltre gli alberi la vita metropolitana continui a svolgersi tranquillamente. Il palcoscenico montato all’interno dell’Orto Botanico di Palermo è avvolto dalla vegetazione e dal buio di una fresca sera di settembre e a contrastare il vocio prima che lo spettacolo inizi ci sono solo le cicale. Il 2 settembre la programmazione della seconda edizione del Metamorphosis Festival, diretta da Sabino Civilleri, ospita The Waste Land and Other Poems – Ciò che vide Tiresia, uno spettacolo firmato dalla regia di Claudio Collovà. In scena lo stesso regista interpreta i versi del poeta americano accompagnato dalla musica de La Banda di Palermo, dalla pianista Ornella Cerniglia e dal compositore Giuseppe Rizzo, che si esibisce in live electronics.

La Banda (in questa replica composta da Giacco Pojero, fisarmonica e voce, e Nino Vetri, sassofono e voce, insieme a Marco Monterosso alla chitarra elettrica, Simone Sfameli alla batteria e Luca La Russa al basso) fa il suo lento ingresso in scena insieme a Collovà e alla pianista. È lei ad aprire lo spettacolo sulle note dei Notturni di Chopin, che trasportano lo spettatore, stregato dalla soave malinconia delle note, in un’atmosfera concertistica. Collovà inizia a recitare a memoria i versi dell’intero poema (e di altre due poesie, in apertura Ritratto di signora e nell’epilogo The Hollow Men) in duetto con il live electronics di Rizzo. Cerniglia e La Banda di Palermo sono sempre in scena, con lo sguardo rivolto al regista, in attesa del segnale in cui dovranno inserirsi. E anche il pubblico aspetta trepidante finché suonano il loro primo brano, April. I musicisti vengono interpellati in determinati momenti del flusso travolgente dei versi, come se interpretassero i desolati personaggi del poema. È difficile rimanere seduti mentre le loro sonorità coinvolgono il pubblico, il quale sussurra i testi a memoria, tiene il ritmo mentre una dopo l’altra le sette melodie intonate fanno capolino durante la performance. C’è chi chiude gli occhi per immaginare meglio gli odori, l’acqua, le rocce, il pub, gli uomini vuoti che la voce e gli strumenti in scena raccontano. Eliot scriveva di come il mondo si palesava ai suoi occhi dopo il primo conflitto mondiale e le sue primaverili parole apocalittiche sono purtroppo molto vivide anche in questa sera di settembre. Ecco che i toni cupi dei versi sembrano neutralizzarsi alla fine dello spettacolo/concerto: tra l’ultimo brano de La Banda e quello di Cerniglia al pianoforte, Collovà riprende fiato dalla lunga interpretazione e si alza dalla sedia. Si avvicina a Pojero alla sua sinistra, si guardano e sorridono, fa lo stesso con Cerniglia. Un’ultima l’intesa tra esseri umani tutt’altro che vuoti, bensì commossi da un lungo lavoro.

The Waste Land and Other Poems aveva precedentemente debuttato il 9 agosto al Segesta Teatro Festival, ma non è la prima volta che il celebre poema di Thomas Stearns Eliot, edito nel 1922, è oggetto delle attenzioni degli artisti. Collovà racconta di un lungo rapporto con il poema, che si traduce in spettacolo teatrale per la prima volta nel 2001 al Teatro Bellini di Palermo: una decina di attori traducono in azioni le suggestioni provocate dai versi che raccontano la terra desolata intorno a loro e dentro se stessi. Anche in questa prima edizione tra gli interpreti si scorgono Pojero e Vetri, che allora avevano già incuriosito lo sguardo registico di Collovà. Sono numerosi i grandi autori della letteratura mondiale che attraversano la sua produzione, da Kafka a Büchner, da Shakespeare a Eliot appunto e le loro parole, la loro presenza nel teatro di Collovà non smettono mai di riecheggiare. La replica del 2 settembre 2023, racconta, «non è una evoluzione dello spettacolo ma una forma diversa del mio lavoro su Eliot e su La terra desolata. Le connessioni sono tante ma la forma è completamente diversa; non sono evoluzioni l’una dell’altra ma sono forme diverse perché diverso è comunque il contatto con questo poema». È proprio del regista tenere uno spiraglio sempre aperto nei confronti dei materiali di riferimento, che siano autori interi o singole opere, alimentando una riflessione che non può mai esaurirsi: «Mi piace molto tornare sulle cose che ho sviluppato in passato, che sono costate tanta fatica. Non sono spettacoli che vengono consumati per me: magari vengono consumati per il mercato ma per me rimangono sempre fonti importanti di ritorni, di lavoro, di revisione. Mi piace lavorare così più che passare da uno spettacolo ad un altro».

La musica è un linguaggio che ha sempre accompagnato lo studio sul poema di Eliot. Nella prima “forma” del 2001 Pojero e Vetri erano gli unici musicisti («ad un certo punto si accendeva una luminaria dove c’era scritto “The Waste Band”»). Successivamente è stato coinvolto il resto del gruppo tanto che i primi dischi da loro pubblicati raccolgono molti brani scritti appositamente per le piéces. È difficile dopo tanti anni di collaborazione discernere la genesi, il pensiero originario di un’idea, di una canzone, tanto che gli stessi versi di Eliot sembrano legati a doppio filo con le note de La Banda di Palermo. Tra Collovà, Pojero e Vetri intercorre «una grandissima complicità umana. Abbiamo fatto tanti viaggi insieme, abbiamo lavorato su una quindicina di titoli teatrali. Poi ci siamo anche un po’ persi di vista nel senso che io ho intrapreso una strada diversa, loro hanno viaggiato. Siamo felici di esserci ritrovati». Il trasformismo dei due musicisti è innato come la loro creatività, in grado di donare ai personaggi una profonda sincerità. La teatralità si scorge anche durante i loro concerti, nelle immagini che creano con le loro sonorità, nelle numerose lingue in cui compongono i testi, nell’alternarsi di voci acute e gutturali, buffe e spaventose. «Io penso che le nostre espressioni artistiche siano sempre in movimento, non siamo molto fossilizzati in una espressione che si ripete».

La collaborazione con Giuseppe Rizzo va avanti da quasi sei anni, in maniera continuativa in tutte le sue ultime produzioni. «Lavora su dei paesaggi sonori che non sono paesaggi descrittivi, ma che hanno a che fare con le sensazioni o le necessità di tempi musicali che esprimono sempre comunque un sentimento: qualcosa di cui tu senti la necessità che avvenga al di là della parola, sotto la parola, accanto alla parola, in modo che favorisca anche il lavoro sulla parola». Quello di Rizzo e Collovà durante lo spettacolo è un vero e proprio duetto, un montaggio istantaneo di live electronics e di voce, sonoro e di senso. «Nello spettacolo Giuseppe suona con me perché lui è sempre con me [..]. Quando io parlo entra in gioco Giuseppe e spesso mi costruisce il passaggio sonoro sul quale pronunciare quelle parole». La composizione di Rizzo è frutto di un continuo confronto con Collovà sulle immagini e le suggestioni che ad entrambi evocano i versi del poema, delineando sì dei precisi momenti in cui accordarsi ma senza imbrigliare l’interpretazione dal vivo in una esecuzione sempre uguale ad ogni replica. I suoni di Rizzo «influiscono su di me e sul modo in cui io decido di recitare, siamo insieme».

Anche Ornella Cerniglia ha già collaborato ad altri precedenti studi su The Waste Land. Segue al pianoforte gli arrangiamenti di alcuni brani de La Banda di Palermo, ma ha anche molti momenti solisti. Chopin è dichiaratamente citato da Eliot nel suo poema, per questo vengono inserite le esecuzioni di alcuni Notturni in momenti salienti dell’interpretazione di Collovà. Il pianoforte «ha una funzione quasi asettica, pulitrice, come se tutto il chiasso delle parole, delle immagini, tutto il frastuono della musica ad un certo punto si chetasse in questo suono. Nel caso di Chopin sono brani che hanno sempre a che fare con la malinconia, con il mondo perduto, con qualcosa che non c’è più, con la nostalgia, con la rabbia rispetto alla nostalgia».

The Waste Land di Eliot è indubbiamente un’opera complessa, composita, ricca di riferimenti spesso difficili da cogliere. Un susseguirsi di immagini mitiche, letterarie, numerose stratificazioni di senso da interpretare. La voce di Collovà è una delle vie possibili da percorrere verso il poema. «A volte lasciare allo spettatore la possibilità di immaginare senza vedere ha una forza che se non è superiore è almeno pari a quando fai vedere le immagini. [..] Non c’è niente da capire ne La terra desolata, o meglio, c’è tanto da capire se la si studia, [..] se si guarda a tutti i riferimenti eccetera, ma è importante trasmettere delle immagini che non abbiano la comprensione come primo obiettivo: sentire la musicalità, balzare da un luogo all’altro. [..] La musica che ha tre forme diverse in questo spettacolo [..] per me è un’arte che ha sempre suscitato immagini». Suscitare immagini piuttosto che mostrarle sembra un’impresa ardua nel nostro presente, che di figure invece sembra ingordo. Siamo ancora capaci di crearle da soli? È ancora possibile immaginare una terra desolata quando si presenta quotidianamente davanti a noi?

La danza urbana di Futura

La danza urbana di Futura

Gruppo nanou, Tu Hoang e CollettivO CineticO hanno inaugurato la venticinquesima edizione del Festival Ammutinamenti, intitolato Futura.
Un titolo scelto, Futura, per unire il cammino fatto dagli anni ’90 a oggi. Un progetto che ha coinvolto oramai tre generazioni, con l’affrancamento della danza contemporanea dagli spazi tradizionali, portata nelle strade e nelle piazze, oltre che in luoghi inediti quali musei e siti archeologici, per fruirne in modo nuovo e modificare la percezione e la possibilità di vivere uno spazio pubblico.

La rassegna apre con la performance Arsura di gruppo nanou all’interno del Mar museo d’arte della città, in cui Rhuena Bracci, la danzatrice, si muove in fondo a uno dei corridoi della galleria del museo illuminato di rosso, e musicato con note ossessive e ridondanti, a sottolinearne lo stato di allerta insieme ai movimenti ripetitivi e gli spostamenti da una stanza ad un’altra. La lontananza dal pubblico presente accentua una vicinanza impossibile, una solitudine inesorabile.

A seguire, sempre al Mar, Congegno emotivo, curato dal gruppo Y e formato da un gruppo transgenerazionale, guidato in precedenza, attraverso pratiche corporee relazionali, a mettere in discussione il rapporto tra chi guarda e chi è guardato, a esplorare il rapporto di vicinanza sia con il contatto fisico che con quello visivo. Ciò che avviene durante il laboratorio agisce a livello sottile e inconscio, per gli adolescenti e danzatori (ma anche per il pubblico che lo desidera) avvolti in un rito iniziatico silenzioso che esplode in una finale danza liberatoria. 

Sul dualismo-corporeo vicinanza/allontanamento gioca anche lo spettacolo del vietnamnita Tu Hoang, primo premio al New Dance for Asia in Seoul, intitolato Trial su musiche di Loscil, in piazza San Francesco, insieme al danzatore Tuan Tran, in cui l’iniziale sincronia e armonia della danza iniziale si incrina, in un primo momento attraverso movimenti impercettibili, poi sempre più evidenti, fino alla differenziazione e alla scissione delle due identità. Spettacolo finale della prima giornata alle Artificerie Almagià con CollettivO CineticO, in prima regionale con Urutau Extintion Party, performance rituale partecipata, già in corso all’ingresso degli spettatori, in cui i danzatori si sfidano in una prova di resistenza a chi riesce a giacere immobile più a lungo.

Dedicato all’uccello sudamericano Urutau, che i Collettivo considera affine alla filosofia espressa nel suo Manifesto Cannibale, ne riprende l’immobilità, la mimetizzazione, la posa improbabile, per affermare la possibilità di evoluzione e di metamorfosi anche nella più completa stasi, la necessità di focalizzarsi sul singolo istante anziché sulla progressione temporale.

Promosso dall’associazione Cantieri Danza con il sostegno di Comune di Ravenna, Regione Emilia Romagna, Ministero per la Cultura e Fondazione Sabe per l’Arte.Il Festival Ammutinamenti prosegue fino al 16 settembre.

La cultura fa politica, il caso del Teatro Thesorieri di Cannara

La cultura fa politica, il caso del Teatro Thesorieri di Cannara

Con un’affluenza attestata intorno al 64% e un nuovo record negativo nella serie storica di partecipazione al voto, il 25 settembre 2022 si sono tenute le elezioni politiche per il rinnovo di entrambi i rami del Parlamento italiano, Camera dei deputati e Senato della Repubblica.
Con il 44% delle preferenze, ottiene la maggioranza la coalizione di Centro-destra guidata da Giorgia Meloni.
Come sempre accade al verificarsi di grandi svolte politiche, il riassestamento del Paese ha riguardato ogni ambito: alle volte con esiti immediatamente visibili; altre, a fronte di trapelate notizie, con prospettive di manovre attuabili.

Volendo restare in materia di cultura, facciamo alcuni esempi: a 8 mesi dalle elezioni, il Consiglio di Amministrazione Rai dà il via libera al nuovo pacchetto di nomine; poco prima il Fondo Unico per lo Spettacolo dal Vivo (FUS) diventa Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo (FNSV); viene istituito il Ministero delle Imprese e del Made in Italy che presenta un ddl per una riforma sostanziale del settore creativo, prevedendo un “Piano Nazionale strategico per la Promozione e lo Sviluppo delle Imprese Culturali e Creative”. 
Novità, queste, che comporteranno cambiamenti ancora ignoti perfino per le associazioni di rappresentanza interessate.
Quale che sia la bandiera, la cultura fa politica. La cultura la fa la politica.

Ancor più guardando alla regionalizzazione che incombe, interessarsi di politica nazionale è fondamentale almeno quanto occuparsi delle piccole, grandi contraddizioni della politica locale. Nell’Italia dei paesi, la politica culturale di certi territori può essere d’aiuto nell’analisi delle trasformazioni in atto – ma anche per mettersi a riparo da suddette trasformazioni

Il caso del Teatro Ettore Thesorieri di Cannara

Conta poco più di 4.000 abitanti il borgo perugino di Cannara, cittadina nota per la coltivazione di una cipolla tanto pregiata da meritarsi una seguitissima festa dedicata.
Da alcuni anni, però, Cannara viene visitata anche da chi alle mire enogastronomiche preferisce quelle culturali. Dal 2016 le associazioni culturali Freetime e Strabismi hanno riunito una folta comunità di artisti e spettatori intorno a un teatro, un auditorium e un museo, organizzando eventi e programmando un’intera stagione teatrale. Eppure, è da un anno e nove mesi che non si leva il sipario del Teatro Ettore Thesorieri di Cannara.

Ma andiamo con ordine: nel 2016 viene stipulato un accordo di gestione in concessione tra l’associazione Freetime e il Comune di Cannara riguardante il Teatro Thesorieri. A seguito di una nuova gara d’appalto, nel 2020 Freetime firma un contratto – rinnovabile dopo 3 anni e con valenza fino al 31 agosto 2023 – per la gestione del Thesorieri e dell’Auditorium San Sebastiano.
Fin dal suo insediamento, Freetime effettua autonomamente lavori di adeguamento di entrambi gli spazi.
Nel 2022, a fronte dell’ottimo servizio prestato, l’Amministrazione Comunale, presieduta dal Sindaco Fabrizio Gareggia,  intende offrire a Freetime la possibilità di creare un “pacchetto culturale” per il paese: nel nuovo accordo di concessione viene integrata anche la gestione dei servizi per il Museo archeologico Città di Cannara.

Un primo impasse si presenta nel 2018 quando, a stagione avviata, l’amministrazione contesta alcune scelte della direzione artistica del teatro. Impasse che si risolve con un periodo di proroga e con l’appoggio dell’allora, nonché attuale, Assessora alla cultura Silvana Pantaleoni. 
La collaborazione tra Freetime e Strabismi – da allora in poi sarà continuativa e stanziale – consente di ospitare al Thesorieri grandi nomi del panorama artistico nazionale, con risultati tali da convincere il Comune a confermare la gestione di Freetime fino al 2020. 
Cannara ha un teatro di 226 posti attivo, una stagione che poco ha da invidiare a ben più noti circuiti, un festival che apporta al territorio un’offerta culturale di rilievo e un importante indotto economico.
Tutto idilliaco. Fino a qui.

Nel gennaio del 2020 il Sindaco Gareggia convoca l’associazione Freetime illustrando un bando della Regione Umbria dedicato alla riqualificazione post Covid degli spazi. Il progetto candidato dal Comune di Cannara, che interessa il Teatro Thesorieri, vince il bando. I lavori che iniziano l’8 agosto 2022 con consegna prevista dopo 90 giorni, ovvero l’8 novembre 2022.
La riqualificazione risulterà ufficialmente terminata a giugno 2023 quando il teatro, in ristrutturazione per l’adeguamento imposto dalla diffusione pandemica, sarà riaperto con un’agibilità straordinaria, pur senza l’impianto di areazione previsto. Amaro paradosso.

Ma torniamo agli esordi del 2021.
È il 3 gennaio quando il Ministero della Cultura emette un Avviso pubblico per “migliorare l’efficienza energetica di cinema, teatri e musei per un totale di 200.000.000,00 euro” di fondi PNRR. Il Comune di Cannara partecipa e vince anche il bando nazionale. Il Teatro Thesorieri sarà dunque al centro di un ulteriore e più consistente progetto di ristrutturazione.
Il 12 dicembre 2021, alla presenza dell’Assessora Pantaleoni, delle due associazioni e della cittadinanza, viene annunciata in conferenza stampa la chiusura del teatro e il conseguente avvio della ristrutturazione. 628 giorni dopo i lavori non risultano ancora iniziati.

Pur essendo legalmente indipendenti l’una dall’altra, e pur detenendo ruoli gestionali diversi negli spazi sopra elencati, Freetime e Strabismi sono le due associazioni che, lavorando a cottimo, hanno consentito, in quella piccola realtà dell’entroterra umbro che è Cannara, la nascita di un progetto culturale stabile e duraturo.
Le sorti d’utilizzo del Teatro Thesorieri, dunque, riguardano non solo Freetime che ne detiene la gestione ma anche Strabismi che collabora alla direzione artistica e che, già dalla prima edizione, vi programma gli spettacoli del festival.

È l’estate del 2022, il Thesorieri è ancora un cantiere a cielo aperto ma il Comune promette che a settembre il teatro sarà pronto: è lì che Strabismi Festival ospiterà i suoi artisti e le sue artiste. 
Il settembre del 2022 arriva e con esso l’VIII edizione di Strabismi Festival, interamente svolta presso l’Auditorium San Sebastiano  (con una platea di 50 posti contro i 226 del Thesorieri) – ancora una volta adibito a pubblico spettacolo previo autonomo investimento delle due associazioni culturali. Il teatro resta chiuso, la riapertura viene garantita a più riprese con continui slittamenti per tutto il 2023. Apertura a data da destinarsi. 

Tentativi di sopravvivenza 

Per continuare a garantire la sopravvivenza dei loro progetti culturali – oltre che la sussistenza dei lavoratori e delle lavoratrici –, e in risposta alla nebulosa che avvolge l’effettiva riapertura del Teatro Thesorieri, Freetime e Strabismi partecipano al bando regionale Sviluppumbria proponendo una stagione diffusa nei comuni limitrofi, in partenariato con le realtà culturali del territorio.
Oltre agli spettacoli, la stagione prevede tre festival: il Festival di Primavera, Overview – esperimenti organizzativi di un progetto artistico, il Festival Urvinum Hortense. Non potendo contare sull’utilizzo del teatro, i primi due festival vengono spostati rispettivamente a Bevagna e Foligno; il Festival Urvinum Hortense, invece, non sarà mai realizzato per le difficoltà economiche che gravano su Freetime, obbligata alla gestione di un teatro fantasma.

Agli esordi del 2023, assicurando la riapertura del Teatro Thesorieri in maggio, il Comune indice una riunione per riportare il Festival di Primavera da Bevagna a Cannara e per chiedere assistenza a Freetime e Strabismi nell’ospitalità di uno spettacolo della compagnia amatoriale del paese, in programma a giugno. No, i lavori – si badi bene: quelli di riqualificazione post Covid degli spazi, non quelli (mai iniziati) per migliorare l’efficienza energetica – sono lontani dall’esser terminati. L’amministrazione comunale, però, delibera per l’occasione un’agibilità temporanea ma non ne garantisce una ulteriore che consenta lo svolgimento della prossima edizione di Strabismi Festival.

Accordi e disaccordi 

Intanto, la crisi energetica causa un incontrollabile rincaro dei costi di gestione. Il contratto di gestione firmato nel 2016 e poi rinnovato nel 2020 – ad oggi rimasto invariato – prevede un contributo comunale per le spese di 5.000 euro, somma che a stento copre l’ammontare delle utenze. Freetime chiede una revisione del precedente accordo economico e delle tariffe di affitto presso terzi del Teatro Thesorieri.
L’amministrazione comunale acconsente idealmente e valuta la possibilità di un aumento del contributo.
Le associazioni tentano una nuova richiesta ufficiale di incontro e una nuova proposta da discutere, ma le elezioni politiche si avvicinano e le comunicazioni si diradano.

La situazione, già paradossale di per sé, si presta a un piano di lettura più profondo: come frequentemente rilevabile, la desertificazione culturale delle periferie ha interessato Cannara, con pochi sprazzi di vitalità, fino all’azione operata da Strabismi e Freetime. L’assenza di spazi e il corrispettivo annientamento di buona parte dell’offerta culturale arrecano dunque un doppio danno: da un lato, si crea un disservizio per la comunità locale a cui viene negata la possibilità di una fruizione alternativa al dilagante mainstream; dall’altro, viene minata la credibilità delle due stesse associazioni. 
La direzione artistica, responsabile in pectore della programmazione presso il teatro Thesorieri e presso il Festival Strabismi, sente allora il dovere di comunicare alla comunità artistica che il loro canale distributivo non è più aperto. Una grossa perdita per il settore tutto, se consideriamo che le due realtà riservano la quasi totalità della propria programmazione e del proprio investimento produttivo al teatro under 35. L’annuncio viene dato tramite una lettera aperta, diffusa a mezzo social:

[…] Riteniamo che sia il momento di un chiarimento necessario rispetto alla vaghezza con cui siamo stati costretti a rispondere alle varie richieste di programmazione, che deriva da una situazione completamente al di là del nostro controllo e della nostra volontà: il Teatro Thesorieri Cannara è al momento chiuso per lavori (che dovranno servire a renderlo più efficiente) e non sappiamo quando rientreremo in possesso dello spazio.

Non possiamo fare altro che dichiararvi la semplice verità della situazione, abbiamo temporeggiato un po’ nel farlo cercando di sapere quali sarebbero state le tempistiche per la riapertura, ma purtroppo non sappiamo nulla di certo. 
Ecco il pomo della discordia: la riapertura annunciata viene contraddetta dalla lettera firmata da Strabismi e Freetime.
È vero, a onor di cronaca, che il 17 e il 18 giugno 2023 il Thesorieri viene riaperto con l’agibilità straordinaria; dal 19 giugno, però, torna a essere chiuso al pubblico.
Tra comunicazioni ufficiali e private, si ricorda che il contratto di gestione è in scadenza il 31 agosto 2023. Sottotesto: il teatro non sarà più gestito da Freetime, il Comune tornerà a disporne fino a successiva attribuzione.

Epilogo

Freetime e Strabismi raccontano la situazione attraverso i propri canali social. La risposta della comunità è fragorosa e il 9 giugno il Sindaco Gareggia convoca  le associazioni per un incontro. 
Sembra sopraggiungere una tregua distensiva con l’espressa volontà di proseguire la collaborazione con Freetime, rinnovando l’accordo di gestione ma senza garantire una data di riapertura del teatro. L’amministrazione si riserva di far pervenire all’associazione una proposta per la revisione delle condizioni economiche. 

Tutto tace fino all’11 agosto scorso, quando l’Ufficio Cultura del Comune di Cannara invia una PEC dichiarando che non ci sono i criteri per la rinegoziazione dei termini economici del contratto di affidamento della struttura a Freetime. All’associazione viene chiesto di manifestare l’interesse a continuare a occuparsi della gestione del Teatro Thesorieri, a fronte di un accordo economico rimasto invariato dal 2016.
Da allora il mondo è cambiato un po’ e con esso anche il mercato.

La soppressione degli spazi è la punta dell’iceberg del danno progettuale ed economico che Strabismi e Freetime stanno subendo. Il Festival Strabismi, che dal 27 al 30 settembre 2023 inaugurerà la sua IX edizione, si terrà in versione ridotta grazie all’ospitalità del Piccolo Teatro degli Instabili di Assisi. La programmazione passa da 8 a 4 giornate, con la presenza di 4 compagnie under 35 selezionate da bando, invece di 6. Non saranno organizzati i laboratori formativi, non si terranno i talk con gli artisti aperti al pubblico.

Che ne sarà di Freetime e di Strabismi? E che ne sarà di quasi un decennio di bonifica culturale di un territorio che rischia di tornare a essere la meta di un turismo enogastronomico “usa e getta”?
Ecco perché raccontare il caso del Teatro Thesorieri di Cannara non è un esercizio di lamentatio. Si tratta di dare voce alla delusione di chi investe la propria professionalità nella crescita culturale di un luogo e di una comunità, cercando strenuamente di diradare la nebbia dell’incertezza che tutto inghiotte e tutto fa sparire. 
E se la politica locale è il riflesso della politica nazionale, ancor più dovremmo preoccuparci tutte e tutti di trattare la Cultura come un diritto inalienabile, pretendendo che sia lo Stato stesso a proteggerla dal mero stupro propagandistico. 

Una vecchia profezia: Resurrexit Cassandra

Una vecchia profezia: Resurrexit Cassandra

Articolo a cura di Francesca Lupo

Si aspetta il tramonto, gli ultimi arrivati prendono posto. Lentamente la montagna che si scorge dall’antico teatro di Segesta, scenografia naturale, scompare nel buio. Un cane randagio solca il palcoscenico ancor prima di Sonia Bergamasco, unica interprete della pièce: si fa un giretto sul telo bianco che è stato disteso per terra, superando i serpenti in legno come ostacoli, provocando il riso tra gli astanti. La rassegna del Segesta Teatro Festival, diretta da Claudio Collovà, ospita il 25 e il 26 agosto Ressurexit Cassandra del regista belga Jan Fabre. Bergamasco dona voce alle parole che Ruggero Cappuccio, drammaturgo e regista campano, redige in versi. Con il sottofondo sonoro del compositore belga Stef Kamil Carlens, la sacerdotessa troiana viene riportata in vita nell’antico teatro greco, edificato nel III secolo a.C. nella provincia di Trapani.

Sonia Bergamasco avanza sul desertico telo bianco, dimora di numerosi cobra di legno, suo animale sacro. Un ampio vestito nero e un grande velo la ricoprono interamente mentre presta il suo labiale alla voce registrata di Cappuccio che recita il prologo. Perfettamente al centro del palcoscenico il biondo dei suoi capelli e la carnagione chiara della sua pelle si stagliano nel buio della notte e dei tempi. Cassandra torna in vita questa notte, per un breve lasso di tempo che viene scandito da cambi d’abito in scena e celebri canzoni dei Beatles. La traccia audio in sottofondo porta con sé musica e parole, le urla della distruzione di Troia, vecchie registrazioni di uomini celebri nella Storia, i minuti del mondo che scorrono. 

Il tempo di Cassandra è lo stesso del pianeta Terra. Con ancora indosso il lungo vestito nero, le parole pronunciate da Bergamasco ci raccontano un enorme corpo in putrefazione, che si estende su tutto il globo. Per tornare a comunicare con noi essere umani si svuota i polmoni dalla terra che sino ad ora l’ha ricoperta, sputandola via; la saliva che scivola nella sua bocca riecheggia sull’archetto. Ritrova le sue membra sparse nel sottosuolo e finalmente Cassandra, che a tratti sembra Gea, rivela di essere risorta per un motivo ben preciso.

Sono più d’uno i racconti sulle doti profetiche della sacerdotessa troiana. Quello più celebre la vede vittima delle attenzioni del dio Apollo, che le dona il potere del vaticinio chiedendole in cambio di giacere con lui. Cassandra si rifiuta ma viene punita: il dio le sputa sulla lingua, maledicendo le sue parole che così non verranno mai credute. La sacerdotessa vede radere al suolo la sua casa dalla furia greca, che profana il suo corpo e la sua famiglia sino a condurla ad Argo, dove Agamennone la rende sua concubina. La sacerdotessa predice la tragedia anche nel palazzo dove ora è prigioniera, ma nulla potrà contro la gelosia di Clitennestra che la uccide. I versi di Cappuccio rendono Cassandra un’anima in pena, né morta né viva il suo spirito vaga sulla Terra, non ha pace neanche la sua carne profanata. 

Torna sui palcoscenici del mondo intero per chiedere la grazia, di essere liberata, di morire finalmente. Cassandra chiede esclusivamente di essere ascoltata dal genere umano perché i suoi occhi maledetti hanno scorto un futuro terribile. Non la fine di Troia, non quella della stirpe degli Atridi: ma la nostra fine. Dei tempi, degli elementi, delle cose, delle idee, di tutti noi. La fine è vicina, il genere umano ucciso dal suo cambiamento climatico, dalla sua crisi ideologica, dalla sua indifferenza. Riusciremo a salvare Cassandra?

La ricchezza degli abiti e la grazia dei movimenti non celano il tratto inquietante del personaggio; come se da un momento all’altro dovesse scorgersi la sua natura in putrefazione, il segno del tempo sulle sue spoglie carnali. Accarezzando i numerosi cobra intorno a lei ne trattiene la natura e durante il vaticinio ripropone il guizzo delle spire con il suo corpo. Invasata mostra i denti come una serpe che sta per attaccare non risparmiando un solo particolare della tragedia destinata. La voce è potente, accorata e tuonante ma non può che spezzarsi in alcuni momenti dell’assolo, per l’emozione di interpretare un’ennesima figura femminile portatrice di tutti i mali della stirpe umana.

Resurrexit Cassandra ha il suo esordio nel 2019 e come prima interprete Stella Höttler, storica attrice di Fabre, che recita le parole sempre di Cappuccio in tedesco. Adesso è Bergamasco a portare il testimone e questa volta senza il solito telo che alle sue spalle proietta in video la sua figura, sostituito dal paesaggio naturale del teatro greco. Il pubblico accoglie commosso la fine del monologo, un forte applauso sentito la inonda. Il testo non manca d’essere contemporaneo. Ancora una volta si rievoca il passato per comunicare il presente, il mito è senza tempo e quindi sempre attuale. Non c’è luogo migliore delle rovine di Segesta per essere ancora una volta travolti dalle profezie di Cassandra. E non bisogna di certo raggiungere la città più vicina per trovare le tracce di un futuro apocalittico. 

Sull’autostrada per raggiungere il sito archeologico divampano già ben due incendi. Dai finestrini del pullman che scorta gli spettatori al teatro si nota un paesaggio desolato pieno di vegetazione bruciacchiata sino alle radici ormai nere. L’aria è pregna di un forte odore di fumo, ma già da settimane sembra condannare tutta l’isola. La desolazione che promette Cassandra è già qui, proprio in questo teatro. E il perfetto in cui è declinato il verbo resurgere del titolo è inquietante, dà l’idea di una occasione già sprecata, di un vecchio telegiornale. Perché tutt’intorno ancora brucia e continua a bruciare.