Il nuovo spettacolo del collettivo bolognese arriva anche a Milano, presso i locali del Teatro La Cucina. Il contesto è quello del progetto Olinda, nato nel 1996 nell’ambito della chiusura e riconversione dell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini. Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi, membri del collettivo e ideatori dello spettacolo, portano in scena l’esperimento di un altro futuro possibile. In un presente attraversato da crisi radicali, We did it! affida, contro ogni previsione,l’ultima speranza all’arma gentile dell’immaginazione.
Il titolo recita “Ce l’abbiamo fatta!”; ma chi è che ce l’ha fatta e soprattutto cos’è che siamo riusciti a fare? In un futuro non troppo lontano, precisamente nel 2054, un uomo (Andrea Mochi Sismondi) siede al centro di uno spazio delimitato da sedie disposte a cerchio. Scruta dritto negli occhi, uno per uno, i membri del pubblico, racconta nei minimi dettagli piccole storie di cui all’inizio lo spettatore fatica a comprendere il senso generale.
Recuperare l’immaginazione
Questi aneddoti hanno per lo più a che fare con il mondo naturale e, più che il grado di accuratezza del racconto, a sorprendere è la prospettiva spesso non umana — ora vegetale, ora animale o, ancora, inorganica — a partire da cui vengono narrati gli episodi.
A poco a poco si viene a scoprire che il performer in scena appartiene ad una cerchia di individui accomunati dalla curiosa pratica di fare dell’immaginazione uno strumento di resistenza politica e sociale.
Nel momento storico che abitiamo il bombardamento di simboli, figure, icone corrode quotidianamente la nostra capacità di immaginare, che, al pari di qualsiasi altra facoltà, ha natura “muscolare” e, senza allenamento, si atrofizza.
Coscienti di questo rischio, il performer e i suoi seguaci si sfidano in esposizioni sempre più dettagliate di qualsiasi fatto o ambito del reale, noto o meno che sia. L’utilizzo dello strumento immaginativo non ha però un fine semplicemente ludico: il suo recupero ne permette l’applicazione in termini di soluzioni delle crisi (ecologiche, umanitarie, sociali…) che attraversano il presente.
Il diritto all’immaginazione: ri-pensare il futuro
Dietro le sembianze di un esperimento teatrale, Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi intercettano uno dei filoni più innovativi e audaci della sociologia contemporanea. Da un decennio a questa parte, studiosi come Riel Miller e Arjun Appadurai concentrano le proprie ricerche su quelli che vengono definiti “studi di futuro”.
Punto di partenza di questi studi è la difficoltà, trasversalmente diffusa nel pensiero contemporaneo (con un picco tra i più giovani), di guardare al futuro con ottimismo. Le conseguenze di questo assunto sono semplici quanto tragiche: se il futuro non rappresenta uno stimolo e non è visto con fiducia e speranza, come e soprattutto perché intervenire nel presente per migliorarlo?
Per contrastare questa tendenza è necessaria una alfabetizzazione al futuro, vale a dire la costruzione di un rapporto propositivo, di fiducia nel futuro. Nel testo Il futuro come fatto culturale, Arjun Appadurai introduce la triade dei diritti del cittadino moderno: diritto ad immaginare, diritto ad aspirare, diritto alla speranza. Come accade in We did it!, l’introduzione di questi diritti all’apparenza scontati rappresenta la condizione necessaria per immaginare scenari e soluzioni alternative.Per costruire un futuro migliore occorre prima essere capaci di immaginarselo.
Recuperando questa facoltà il performer in scena racconta un 2054 in cui l’asprezza delle tensioni militari ha ceduto il passo ad una risoluzione pacifica dei conflitti, in cui l’indifferenza della parte ricca del mondo e dei governi ha abdicato davanti ai rischi concreti della crisi climatica, in cui le disparità e le ingiustizie economiche, politiche e sociali non sono più tollerate. In questo modo cerca di costruire degli anticorpi alla tempesta di immagini di cui siamo al tempo stesso vittime e artefici, perché non sapere immaginare significa non saper pensare scenari diversi da quelli già noti. A seguito di un furgone elettrico e alla ricerca di un pubblico quanto più eterogeneo, il collettivo Ateliersi porta in giro per l’Italia dei teatri non istituzionali una riflessione profonda sull’essere cittadini oggi.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.
In uno scritto intitolato Teatro Novecento: ovvietà a firma dello studioso Ferdinando Taviani, si legge: «Il XX secolo è il secolo in cui l’essenza stessa del teatro s’è sentita minacciata. È pertanto un’età d’oro». Il sentore di minaccia, rilevato e analizzato da Taviani nel teatro del Novecento, è estendibile oltre i confini temporali di un’epoca. L’estinzione – o il suo indebolimento – è connaturata all’esperienza del teatro in quanto tale, palesandosi nell’avvicendamento di ogni nuova fase che lo attraversi, sia essa di ordine poetico, storico o politico. Il suo essere espressione artistica dell’umano determina l’assoggettamento del teatro alle trasformazioni sociali e culturali.
Se la pratica laboratoriale novecentesca ha frantumato i codici preesistenti, intervenendo innanzitutto sulla dimensione relazionale e autoriale dei processi artistici, ci troviamo oggi al cospetto di un ribaltamento – le motivazioni sono innumerevoli, per obbligo di sintesi ci si concentrerà su uno degli aspetti rilevabili – che vede nella distrazione del pubblico il proprio seme. La fruizione, esplosa a fronte della pressoché infinita produzione di contenuti, artistici e non, capace di raggiungerci in ogni dove e in ogni quando, non sempre rappresenta il beneficio di un input.
Più spesso, obbliga alla selezione, alla scelta frenetica – e distratta – di ciò che ci interessa: meglio, che ci attrae. E l’attrazione è un atteggiamento istintuale, conclama ciò che avvicina e repelle senza obbligo di approfondimento. Il teatro, sintesi delle arti, molteplicità di intenti, richiede un’esplorazione che ha i tratti dell’inabissamento: infrangere la superficie, sfidare il buio. Dunque, il teatro è in crisi? Parafrasando Taviani: il XXI secolo è il secolo in cui l’essenza stessa del teatro s’è sentita minacciata. È pertanto un’età d’oro.
Di tramutare l’impasse in possibilità si sta occupando, tra gli altri, un’intera generazione di autrici e autori teatrali che ha beninteso come la drammaturgia non sia la sola arte di scrivere drammi e opere per il teatro. Il dramatos ergon – vale a dire il lavoro, la costruzione dell’azione – etimo della parola drammaturgia, ne risolve l’immediata assimilazione al contesto puramente letterario. Riferirsi alla drammaturgia significa guardare alle caratteristiche narratologiche di un sistema di relazioni, elementi formali, connessioni, codici che plasmano la partitura dell’evento performativo. E significa anche avere tra le mani un metro da sarto, con cui misurare le storture e gli slanci delle porzioni di mondo e dei frammenti di tempo che si abitano. Sta nella capacità di tenere assieme l’impalcatura spettacolare – con le sue plurime, possibili espressioni – e di leggere il presente, l’interesse ineludibile verso la drammaturgia. Ma chi sono le drammaturghe e i drammaturghi oggi?
L’errore è dietro l’angolo: figurarsi l’autore come colui che chino sulla scrivania verga ciò che ha intorno, osservandolo dalla propria torre d’avorio, è obsoleto. Primo, perché tale immagine presupporrebbe un elitarismo della ricerca intellettuale inconciliabile con gli intrecci relazionali di cui si è detto e da cui il drammaturgo, nell’esercizio della professione, non può esimersi; secondo, perché l’avorio è un materiale pregiato. E qui, oltre alla proposta artistica, di pregevole v’è poco. Basti pensare alle ingerenze produttive e consumistiche del sistema spettacolo che relegano la drammaturgia contemporanea a una minima percentuale da inserire in cartellone, spesso in sala piccola, quando non alla sostanziale impossibilità di incontrare le tavole di un palcoscenico. Senza contare la totale assenza di inquadramento professionale della figura dei drammaturghi all’interno del CCNL, con la conseguente arbitrarietà dei rapporti di lavoro.
E poi il ritardo. L’endemico ritardo dell’emersione dell’autrice o dell’autore teatrale che, fino ai quarant’anni, può giocarsi la partita ed essere l’artista su cui scommettere, per diventare, allo scoccare dei quarantuno, quella, quello che non ce l’ha fatta. O almeno non in tempo. Allora, per interrogarsi seriamente sullo stato di salute della drammaturgia contemporanea occorre innanzitutto dedicarsi a un’analisi approfondita delle condizioni di lavoro di chi scrive professionalmente per la scena. Perché il malessere di una condizione può risultare osmotico e dunque, influire sul valore della stessa operazione drammaturgica.
Con Omissis – Osservatorio drammaturgico, progetto dell’impresa culturale Theatron 2.0, proponiamo un tentativo collettivo che muove in questa direzione. Omissis trova i suoi presupposti in una ricerca diffusa, allargata, compartecipata da autrici e autori, nella volontà di contrastare l’atomizzazione della categoria, di sottolinearne le urgenze e amplificarne la voce, interrogando e intervenendo sugli aspetti più problematici della questione, secondo una prospettiva artistica e giuslavoristica. «Chi siamo? Come stiamo? Cosa vorremmo?» si chiedono le drammaturghe e i drammaturghi che ci coadiuvano nel processo. «Per quanto ancora dovrete sgomitare per farvi spazio, barattare l’esistenza col compenso, abbandonare la professione se non diventa tale? Per quanto ancora potremo giustificarci dicendoci distratti?», domandiamo noi.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
L’1 e 2 ottobre C.Re.S.Co., Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea (238 promotori di cui 159 enti e 79 soggetti singoli, 100 del Nord, 59 del Centro e 79 del Sud, 19 regioni su 20 rappresentate) si è riunito a Prato per un’assemblea annuale, intitolata I nostri giorni felici, che si è rivelata un tentativo di sincronizzazione sentimentale tra il settore teatrale e il mondo del lavoro extra-scenico, un tempo interno dedicato all’auto-narrazione di bisogni e aspirazioni e un’occasione per riavvicinarsi in presenza dopo aver collaborato tanto a distanza: finalmente siamo a un metro, vieni qui, «come stai?». Nei due giorni chi c’era ha ascoltato scrittrici, attiviste, ricercatori universitari e sindacalisti, compartecipato al delineamento teorico del festival ideale cui da un anno Risonanze Network si sta dedicando e partecipato a tavoli che mutavano assetto e argomento col ritmo con cui cambiano le ore di studio in un giorno di scuola. Basterebbe la volatilità degli assetti fisici e organizzativi (il fondo scuro del Metastasio, col drappo di lato e le sedie disposte frontalmente; il semicerchio compiuto attorno a un cartellone appeso ad un telo; le riunioni collocate tra primo e secondo piano del Magnolfi) per dire la voglia di fare, l’energia concentrata. Che di questo si tratta, m’è parso: più che il mezzo per raggiungere lo scopo dichiarato ufficialmente (produrre «un documento programmatico collettivo che contribuisca a rimettere al centro i processi creativi e artistici», da presentare al Direttore Generale del MiC Antonio Parente) l’assemblea ha funzionato come un aggiornamento propulsivo delle proprie necessità primarie per cui, in questi due giorni, diciamoci cosa sta alla base di quel che facciamo nel resto dell’anno in quanto membri d’un soggetto diventato interlocutore stabile, e controparte politica, del Ministero.
E d’altro canto: per capire il ruolo assunto da C.Re.S.Co. non serviva di certo stare a Prato ad ottobre; lo racconta bene invece il sito: la sezione “Notizie”, in cui leggi le considerazioni sulla distribuzione del Fondo Nazionale dello Spettacolo dal Vivo (Abbiamo un problema politico), la lettera aperta contro la censura subita in RAI da Scurati, i rimandi ai webinar gratuiti sul Terzo Settore e il Contratto Collettivo Nazionale; le proposte per il D.M. 2024, gli spunti sulle Residenze, l’approfondimento del welfare nella sezione “Risorse” e la mappatura dell’ex-FUS, le proposte dei Tavoli animati dai promotori, lo Stato dell’Arte (in 6 anni 16 luoghi, 17 incontri e 64 teatranti messi in dialogo sui processi ideativi). Insomma, la sostanza appartiene all’andamento regolare dei giorni mentre le quarantott’ore di Prato sono state importanti soprattutto per le due forme che hanno assunto dubbi e propositi, questioni e principi.
Prima forma. Le domande
In Competenze indisciplinate. E commoventi (contenuto in Lavoro culturale e occupazione, a cura di Antonio Taormina, Franco Angeli, 2021) scrive Renato Quaglia che «la Comunità Europea riconosce i lavoratori culturali come salariati atipici» e che «il 40% sono in qualche modo imprenditori di se stessi». Salariati «ma autonomi» aggiunge: «Costituiscono infatti compagnie, orchestre, associazioni, cooperative, hanno partita iva o regime forfettario, sono lavoratori occasionali. Cercano finanziamenti per la propria produzione, tengono contabilità e stilano bilanci della propria attività imprenditoriale» e «sono l’origine del proprio impiego». La loro è dunque la condizione de «i piccoli imprenditori artigiani e della piccola impresa manifatturiera italiana» – il teatro che somiglia alla bottega, la cultura non in quanto bene di consumo ma come prodotto unico, certosino e irreplicabile – e spesso tuttavia, a differenza degli imprenditori artigiani e della piccola impresa manifatturiera, coloro che si dedicano all’arte e al teatro «non calcolano nei loro bilanci il tempo totalizzante che dedicano al lavoro, le ore spese per ideare, provare, realizzare, sperimentare e (cercare di) distribuire o vendere la loro produzione creativa». Le settimane passate a fare memoria, le due ore strappate alla notte per scrivere i comunicati stampa da inviare domattina, il tempo in sala o in biblioteca a studiare, le telefonate a vuoto fatte al Circuito o allo Stabile, i giorni che servono per approfondire e poi scrivere quest’articolo.
Si tratta, per intenderci, di quel «lavoro impegnativo per loro e prezioso per la crescita individuale e collettiva del Paese e per il benessere personale di una larga parte della popolazione, ossia quella che apprezza le arti dello spettacolo e ne forma il pubblico» di cui parla l’Indagine conoscitiva della VII e XI Commissione Parlamentare, riunitesi nel 2021, verso cui – per dirla ancora con le istituzioni – c’è «scarsa attenzione», «poca conoscenza» e «un riconoscimento quasi nullo». A fronte di «tutele rare sul piano normativo» e di «fragilità costanti» – gli impieghi sono «intermittenti», i contratti «precari», i lavori sottopagati, a nero e irregolari «diffusi» – queste donne e questi uomini infatti sono dediti a un impegno continuo, che spesso diventa burnout: multiple job holding lo chiamano elegantemente le Commissioni (è «la gestione, da parte della stessa persona, di più occupazioni contemporanee»), «lavoro non definitivo né totalizzante» scrive Renato Quaglia invece, che avverte: «Dovremo gestire più incarichi, ognuno di questi non sufficiente a impegnare la giornata/lavoro né ad assicurare il reddito atteso. Cureremo due o tre carriere non lineari, saremo impegnati in più lavori e frequenteremo diversi ambienti professionali, di persona o in remoto (con la moltiplicazione, per ognuno di questi, dei loro coté: colleghi, conflitti interni, fornitori, posizioni contributive, straniamenti e sovraesposizioni allo schermo)». E «amplieremo la platea di committenti, lo scenario di criticità, il range di obiettivi da raggiungere, la complessità di relazioni da governare».
La riunione su Zoom, la stesura del progetto, la chiusura del bando, le ore di insegnamento, il pomeriggio in sala prove, un passaggio in Comune per sapere quando ci daranno quel che ci devono e il dopo cena di nuovo su Zoom o su Meet per fare riunione a distanza, sentire il tecnico o l’ufficio stampa, discutere del premio che organizzo o nel quale sono in giuria. Un’immagine-simbolo, la restituzione in concreto? I pc accesi in platea al Metastasio, mentre sul palco avviene la prima parte de I nostri giorni felici: con le orecchie ti ascolto, con le dita e con gli occhi intanto rileggo le bozze, contatto l’assessore, correggo il comunicato, rispondo alla mail o provo a fare (inutilmente) recupero crediti. È (anche) per questo dunque – lì dove non c’è fine turno e nessuna serranda mi separa dal lavoro che svolgo io continuo a coincidere con la mia attività: anche mentre cammino per strada, anche di sera, anche di domenica, al mare o durante le feste – che a Prato innanzitutto sono volate domande in cui la professione è confusa alla vita: «Come cambia l’ambiente di lavoro quand’è sotto-stress?», «quanto la vostra crescita si sta traducendo davvero in un aumento della retribuzione economica?», «voi come stabilite le priorità, decidendo nel contempo ciò che va lasciato perdere?»; «da chi dipendono veramente le condizioni in cui opero?», «cosa vuol dire lavorare in una grande città o in un territorio periferico?», «riuscite a coniugare il bisogno di formazione con la fretta che ci impongono bandi e scadenze?» e «stai provando a realizzare un passaggio di consegne?», «come lavorare bene in gruppo?», «cosa mi servirebbe per stare meglio?», «come ti senti? Come stai? Adesso in che momento ti trovi?» e «quanto le (non) politiche condannano lavoratrici e lavoratori?» e «possiamo chiamarle “politiche”?», «che valore in denaro diamo al nostro tempo?» «come facciamo ad andare avanti in una regione in cui a ottobre ancora non sappiamo se verremo finanziati e con quanto?» e «a te il Ministero ha risposto? Sai qualcosa del D.M.? Cosa credi accadrà?».
I quesiti s’accumulano in maniera formale e informale – in gruppo durante l’assemblea, pulsanti di volta in volta attorno ai tavoli, in maniera pulviscolare mentre si fuma una sigaretta, si pranza o si beve un caffè – restando inevitabilmente senza soluzione. Hanno infatti e soprattutto una funzione condivisoria, servono cioè da strumento relazionale e da mezzo con cui avviene il rispecchiamento nell’altro – anche tu come me, dunque – e tuttavia nel loro moltiplicarsi e diffondersi segnalano questioni croniche (o incancrenite, se preferite) che non sono più rinviabili: l’insufficienza del tempo ideativo, l’inadeguatezza degli spazi di prova o spettacolo, l’induzione a una quantità fine a se stessa; l’incertezza finanziaria e la distonia tra i ritmi della burocrazia e le necessità del teatro messo in pratica; la retorica sul ricambio e l’immobilismo sclerotizzante del sistema; l’inadeguatezza delle norme generiche rispetto alla complessità e varietà del panorama esistente; il divario interno e in crescita tra tutelati e figure prive invece di stabilità e di sicurezze economiche, l’autosfruttamento (e lo sfruttamento necessario e reciproco, senza il quale «molti di noi non andrebbero in scena o non programmerebbero nulla»), la rinuncia consapevole e quotidiana a una parte delle proprie aspettative, delle proprie richieste e dei propri diritti. Così stiamo dunque, tanto vale dirselo apertamente.
Seconda forma. Il decalogo
I trecentosessantacinque versi con cui Omero elenca nell’Iliade le navi della flotta greca impegnata a Troia, l’ekfrasis dei testi classici che ci descrivono lo scudo di Achille, i pranzi di Trimalchione, gli antichi bestiari, i reliquiari dei santi, gli almanacchi compilati per enumerazione; gli eccessi messi in ordine da Rabelais in Gargantua e Pantagruel; i nulla cosmici (le discipline inesistenti, i saperi inutili) di Bouvard e Pécuchet di Flaubert, i cognomi che Gadda invia a teatro la domenica pomeriggio in un racconto milanese, i modi in cui Melville articola la bianchezza in Moby Dick, L’inventario delle cose perdute di Judith Schalansky o, per andare coi saggi, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura catalogati da Francesco Orlando, i dettagli pittorici colti e indicati da Daniel Arasse, i canoni letterari e poetici di Harold Bloom, le opere-mondo messe una dopo l’altra da Franco Moretti, la vertigine della lista di Umberto Eco. Inventariamo da sempre: per propensione tassonomica, sfizio classificatorio, necessità di pulizia, organizzazione del disordine, mappatura dell’esistente, messa in bilancio di acquisti e sottrazioni. Per dire ciò che abbiamo, per stabilire quel che ci manca.
L’elenco, puntualmente slabbrato, domina anche i giorni di Prato: i dieci punti che rendono un festival ideale (progetto Next Generation di Risonanze, a cura di Sara Carmagnola e Alessandro Balestrieri); i diciassette temi collocati e discussi al Magnolfi incastrando persone, stanze e orari; il documento da far scaturire dalla sequenza dei desideri pronunciati uno dopo l’altro ad alta voce, restituendo il lavoro dei tavoli. Sembrerebbero una cessione alla miseria argomentativa chiesta dall’amministrazione burocratica (evitiamo i discorsi complicati, riducete all’osso, fate in fretta e descrivete tutto in duemila battute): è invece il modo in cui dire ciò che per noi è irrinunciabile, ora e in prospettiva. Smetterla ad esempio con l’uso reiterato (e dunque con l’abuso) di volontari e volontarie, l’attenzione a risorse ed ambiente, l’equilibrio tra sostenibilità finanziaria ed offerta (si fa quel che ci si può permettere veramente) e festival e rassegne intessute d’incontri e attività formative (perché non si riducano a vetrine di spettacoli usa-e-getta), la relazione coi territori (a partire da quelli a basso investimento e ridotta promozione turistica) e con il pubblico (scelte che favoriscano l’accesso, politiche sulla domanda, rinuncia a una referenzialità che si limita soprattutto a critici e colleghi); un coinvolgimento di chi è più giovane non dettato solo dal punteggio ministeriale da ottenere o dai criteri del bando («ascoltateci» ripetono); una comunicazione chiara e inclusiva, il «giusto compenso per gli artisti e le artiste tanto quanto per lo staff» – non si va in scena a perdere, il lavoro gratuito non è lavoro – in quanto «concretizzazione di un rispetto umano e professionale» inderogabile.
Insomma, «una politica è felice se», «siamo felici quando»: il patto tra imprese e lavoratori e l’etica contrattuale; le prospettive di medio termine e la pluriennalità delle politiche; la riappropriazione degli spazi pubblici e l’equilibrio tra produzione e circuitazione; la semplificazione amministrativa, la celerità della liquidazione e la chiarezza nei processi di nomina; il riconoscimento della formazione in termini di possibilità continuativa e in quanto attività professionale, la riduzione delle disparità tra grandi e piccoli centri e tra macro-aree del paese, l’idea che finalmente la passione («il privilegio di fare ciò che amo») non comporti dover rinunciare al rispetto, ai guadagni e ai diritti. E d’altronde sono le Commissioni ad aver messo nero su bianco nel 2021 che «il nostro Paese si è distinto negativamente nel contesto europeo per la costante riduzione degli investimenti pubblici in questo settore e per la scarsa attenzione alle specificità delle dinamiche del lavoro nello spettacolo», che il quadro normativo presente risulta «obsoleto, a tratti contraddittorio e incapace di soddisfare gli interessi dei lavoratori» e che «allo stato attuale manca in Italia una strategia culturale».
E ancora: «l’assente legittimazione sociale e istituzionale del lavoro intellettuale», «lo scarso turnover», «il gender gap», «la mancanza di spazio per la progressione delle carriere», «le disparità tra regioni», «la fatica con cui avviene il cambio generazionale dei quadri dirigenti nelle istituzioni di rilievo», il divario tragico «tra il numero dei giovani che si affacciano al mercato del lavoro e il numero di quelli che ne sono assorbiti» (il tema di una formazione che sia davvero professionalizzante, la scarsa cura per la filiera “formazione-produzione-promozione”, «che è l’unico strumento che garantisce ad artiste e tecnici una prospettiva di lavoro futuro»), «la rarefazione delle occasioni autenticamente qualificanti» e l’incentivo «oltre misura a una produttività» che, in assenza di distribuzione, «influisce negativamente sui rapporti» contrattuali non garantendo continuità di reddito. Ecco, tutto questo sta nei documenti istituzionali più recenti (il Parlamento sa, il Parlamento scrive) e sta nei libri – prendetene uno a caso curato Lucio Argano o Antonio Taormina – e nei contributi delle associazioni di categoria, nelle pagine che accompagnano l’infinita stesura dei decreti attuativi del Codice dello Spettacolo, nelle relazioni annuali di FNSV e FUS (dal 1985: «l’ordinamento denuncia un affanno irreversibile», si procede «per leggi di corto respiro», «non si è risolto alcun problema») tanto quanto sta nei documenti di C.Re.S.Co., negli interventi di C.Re.S.Co. durante incontri e conferenze e nelle parole che C.Re.S.Co. qui si ridice per l’ennesima volta. Già, «ma a che serve?» mi chiede infine qualcuno. Esattamente a quel servono gli elenchi, mi viene da dirgli. Serve a fare chiarezza, a ristabilire le priorità, a ribadire l’essenziale.
Ma chi ascolta?
Negli anni Novanta, sostiene Antonio Panozzo ne Le competenze nelle pubbliche amministrazioni per il governo delle politiche culturali (in Le politiche per lo spettacolo dal vivo tra Stato e Regioni, a cura di Marina Caporale, Daniele Donati, Mimma Gallina, Fabrizio Panozzo; Franco Angeli, 2023) è stato messo in discussione «l’originario e solidissimo legame tra assunzione di ruoli di governo dei beni e delle attività culturali e tipologia di conoscenze necessarie». Si pensava che chi si sarebbe dovuto occupare di cultura dovesse sapere. E invece. Esito, scrive Panozzo, dell’affermazione anche in Italia del New Public Management, modello di riforma della pubblica amministrazione nato in Inghilterra e diffusosi in Europa occidentale: impiego di criteri da azienda privata in ambito pubblico, comunicazione business-style, utilizzo della cultura del risultato nell’azione istituzionale: «La preoccupazione per i costi dell’intervento pubblico, combinata con la difficoltà a coglierne con precisione i risultati ha spinto con particolare incisività nei servizi “immateriali” quale sociale, cultura e salute» all’uso del performance management, «incentrato sull’identificazione di risultati che sapessero rappresentare in maniera convincente i contributi della pubblica amministrazione allo sviluppo economico».
Motivazione di fondo: «il rapporto qualità-prezzo» con cui valutiamo domanda e offerta commerciale, conseguenze: trasformazione in senso manageriale dell’azione istituzionale, adeguamento dei settori interessati alle logiche di mercato, obbligo di una misurazione tangibile (il denaro investito dalla Regione o dal Ministero cosa diventa?) e dunque necessità di sistemi di valutazione prettamente quantitativi: dimostrami, con i soldi che ti do, quanto produci. Gli effetti sono ovunque: il taglio dei presidii medici di prossimità a favore dei consorzi ospedalieri, la trasformazione del percorso universitario in una raccolta-punti, la chiusura delle tratte di trasporto locale meno frequentate e perciò sacrificabili. Vale anche per la cultura (la gran parte della produzione editoriale, che non arriva neanche a scaffale; le mostre di continuo allestite in Italia: quasi una all’ora di media) e vale per il teatro: è secondo le logiche (attempate) del New Public Management che è stata redatta la riforma dei criteri di erogazione e distribuzione del FUS del 2014, è seguendo le sue linee-guida che Comuni e Regioni regolano le proprie politiche attraverso l’utilizzo massiccio dei bandi (il soggetto pubblico che detta tema e regole, la competizione tra soggetti indotti alla partecipazione, gli obblighi numerici da ottemperare, il monitoraggio e la valutazione dei sevizi erogati: quante repliche tra monumenti da valorizzare, quanti spettacoli gratuiti durante le feste di Pasqua o Natale, quante periferie degradate attraversate dalla presenza sporadica di spettacoli, opere e artisti, quanti spettatori partecipanti alla messinscena corale e civile.
È il capitalismo, bellezza, o la cultura nell’età dei consumi per dirla con Bauman che in Per tutti i gusti (Laterza, 2011) spiega il fenomeno: «La mediazione nel portare l’arte al pubblico non è niente di nuovo, nel bene e nel male: era di solito nelle mani del patrocinio statale, con più o meno soddisfazione per gli artisti. Ciò che è nuovo sono i criteri usati in tale mediazione dalla nuova razza di manager» che hanno occupato ruoli e funzioni delle autorità pubbliche. E poiché sono i criteri del mercato dei consumi, continua Bauman, «riguardano questioni come l’immediatezza del consumo, della gratificazione e del profitto» in termini di consenso diretto e indiretto. Per dirla in concreto: riduzione dei tempi creativi (in fretta e con poco denaro, accontentati), messa in vendita a condizioni vantaggiose (i pacchetti a basso costo, le recite a ingresso gratuito o ridotto) e sostituzione istantanea dell’offerta con altra offerta che sarà sostituita a sua volta.
Pensate alle stagioni dei Nazionali, piene di spettacoli morti già in sede; pensate alla proliferazione e all’ingigantimento dei festival, che sono sempre di più e propongono sempre più cose, per la felicità di assessori e politici: visto quanta roba quest’anno? La dinamica, inarrestabile, spiega anche il motivo per cui a occuparsi di cultura (e teatro) sono ministri e assessori senza alcuna consapevolezza specifica o direttamente i presidenti di Regione, che così gestiscono in prima persona (pur capendone poco o nulla) nomine, incidenza sui CdA e flussi di denaro. «Il senso del Ministero della Cultura e degli Assessorati alla cultura regionali e comunali sta nella necessità di offrire agli operatori il sostegno della qualificazione eccellente dei funzionari, della dirigenza preparata e alla quale si riconosce la legittimazione di valutare e della competenza del personale nelle funzioni strategiche» ricorda Antonio Lampis ne Il lavoro culturale pubblico. Peculiarità del settore e delle figure di leadership (in Lavoro culturale e occupazione, 2021).
Ci ritroviamo invece con ministri incompetenti in materia, sottosegretari che non conoscono ciò di cui parlano, assessori che non sanno distinguere una residenza da una rassegna o che hanno deleghe eterogenee (la cultura, insomma, non è che un fiore del bouquet), quando non registriamo addirittura l’assenza di interlocutori a livello locale. Per intenderci: cinque Regioni non hanno l’assessore alla Cultura e quattordici gli assegnano deleghe plurime (cinque di media oltre la Cultura: dal turismo ai flussi migratori, dalla sicurezza alla scuola, dall’antimafia alla pesca). E le Città Metropolitane? Il 35% (cinque su quattordici) non ha nessuno o nessuna che faccia da punto di riferimento per chi opera nel settore o che si assuma la responsabilità delle politiche messe in atto. Ecco, è mattina. L’assemblea di C.Re.S.Co. è alle spalle, preparo lo zaino per ripartire da Prato. Afferro il quaderno, controllo gli appunti, metto a fuoco le parole-chiave, le proposte e le urgenze. Poi mi fermo e mi chiedo: ma chi le ascolta davvero?
Della felicità o della rabbia, infine
I nostri giorni felici si apre al Metastasio: le poltrone coi tavolini sulla destra, gli stucchi pittati d’oro e di bianco, il sipario arricciato lateralmente, il fondo nero e le sedie da cui parlano relatori e relatrici. Si può essere felici – possiamo parlare di felicità – mentre sappiamo delle bombe in Ucraina, dei massacri in Palestina, delle donne afgane e iraniane? O per starcene a un passo: con la Sicilia e l’Emilia Romagna appena sommerse dal fango, e le persone che si ritrovano di nuovo a spalare. «Verrebbe da chiedere scusa» mormora Francesca D’Ippolito, presidente di C,Re.S.Co, eppure «la felicità può essere un mezzo di critica radicale a un sistema che sembra irriformabile» sostiene Sandra Burchi (ricercatrice e attivista che si occupa di lavoro, precarietà e mobilità), che questa parola, felicità, «così difficile da pronunciare in tempi di naufragi», in passato la usava come password al pc, rendendola così un passaggio ineliminabile per poi darsi da fare.
Cita il femminismo come festa di Carla Lonzi e la gioia intesa come «attimi di radianza» da Sylvia Plath, come «istanti creaturali» da Christa Wolf, come i momenti in cui «il sangue circola alla svelta» parafrasando Rossana Rossanda; ricorda che «una contro-politica fondata soltanto sul rancore ha il respiro corto» ed è quindi inutile se «si vuol far coincidere cambiamento e desideri», ma al tempo stesso evita di infiocchettare l’idea: la felicità non sta nel punto d’arrivo, nell’esito della storia, nella bandiera scippata al nemico ma nell’esperienza dell’opposizione, nel tentativo di proposta e conflitto. E d’altronde ascoltandola mi tornano in mente, in maniera confusa e di seguito, la lettera di un teatrante del Seicento che al tempo stesso maledice il teatro e lo dichiara tuttavia inabbandonabile quanto un destino, Eduardo che non lasciò mai il palco nonostante le offese e le sconfitte subite, una collega che – al netto delle difficoltà – dice ai ragazzi e alle ragazze che ha di fronte che «il teatro è tra le ragioni che mi fanno alzare la mattina» o quel che affermano le analisi di sindacati e Commissioni parlamentari: guardate che questi vivono in condizioni di precarietà, hanno bassi stipendi e incertezze costanti eppure continuano a dichiararsi felici della scelta che compirono un tempo. Che forse un testo di Shakespeare, penso, e l’odore del legno, il retro di un palco, un viaggio in tournée, una pagina di Pavese, l’inchino agli applausi, il gesto di un’attrice o le battute scritte domani da una drammaturga sconosciuta continuano a fregarci tanto quanto ci frega la vista del mare. Dovremmo andare, restiamo.
Ma restiamo a patto che si lotti, testimonia Dario Salvetti, sindacalista della GKN Driveline di Campi Bisenzio, che contava 422 dipendenti che dal 9 luglio 2021 occupano la fabbrica senza mollare d’un metro. Ne avrete saputo anche in teatro se avete visto Il capitale di Kepler. La mail che annuncia il licenziamento, il presidio, il cancello aperto e varcato e l’abitazione di uno stabilimento spettrale, tra striscioni con scritto «Insorgiamo», neon chiari, i pentoloni di sugo al cinghiale, i macchinari nuovi di zecca. E i passaggi di proprietà, le multinazionali che arrivano, spacchettano e vogliono vendere, i compratori non credibili, i piani di rilancio fasulli, le meline di ministri e governi: in attesa che operaie e operai si stanchino, cedano, girino i tacchi e vadano altrove. «Capiamoci: quello che abbiamo fatto sono scelte compiute in un contesto di non-scelte. Non potevamo altrimenti» racconta, gridando frasi che noi che diciamo di fare cultura (nelle condizioni che sappiamo) dovremmo tenere a memoria. Ad esempio: «Si tratta di contrapporre i rapporti di forza materiali ai rapporti di forza formali» e «si deve tornare a parlare apertamente di dignità e di denaro», «la mancanza di tutele porta a lavorare male, punto e basta» e «la bellezza del lavoro sta nei diritti, che il tuo lavoro contiene e che va pagato per ogni minuto in cui viene eseguito».
Lo ascolto e penso alle prove forfettarie, alle repliche a perdere, agli infortuni non dichiarati, alla quantità d’impegno che non è professione ma resta soltanto un impegno, in sala quanto in una biblioteca, un museo, all’università o in redazione. Mi tornano in mente i centocinquanta euro lordi che mi hanno offerto per moderare due giorni di convegno, la richiesta di una postfazione («ci teniamo sia tu») in cambio d’una paga ridicola e conto al volo gli articoli scritti gratuitamente quest’anno, sono una trentina: quanti ancora e per quanto? Mi sale la rabbia, forse perché sta parlando Franco Palazzi, assegnista di ricerca in Filosofia all’università di Firenze, che la rabbia la definisce «il no di chi non si presta». Stigmatizzata come irrazionale e impolitica, considerata immatura, «la rabbia contrasta invece il galateo dell’oppressione» (le buone forme con le quali gli agiati abbelliscono l’avvenuta vittoria della lotta di classe, sia chiaro: stanno anche tra noi) spiega Palazzi e «spinge inoltre la rabbia a prendersi cura davvero gli uni degli altri». Niente spontaneismo, nessun urlo fine a se stesso precisa, che di atti infantili ne abbiamo piene manifestazioni ed incontri: «una rigorosa strategia del dissenso» invece, concreta e millimetrica «quant’è la balistica». Che infine – contro la ferocia di cui facciamo esperienza quasi ogni giorno, anche in questo settore – mi sembra non ci resti altra strada che dimostrarci più brave, più resistenti, coerenti e inflessibili. E arrabbiate e arrabbiati, certo. Riusciamo ad esserlo ancora?
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Infamous Offspringè un universo altro tessuto da Wim Vandekeybus che incanta il Teatro Bellini di Napoli sin dai primi silenziosi istanti, rotti da una figura minuta che si dimena con movimenti animaleschi e acrobatici. Efesto presenta sé stesso dirigendosi verso la tela che attende il compimento dei suoi disegni. Mentre agisce indisturbato dando vita alla propria opera, gli altri personaggi appaiono sulla scena. Come ghepardi, i performer si muovono velocemente, formando spirali corporee con rotoli, slanci, salti e giri. I corpi sono accovacciati a terra, poi si spostano tramite ruote, verticali, incessanti corse dalle traiettorie concentriche. La frenesia dei corpi si placa d’improvviso: la tela brucia. La platea è pervasa dall’odore della carta incenerita, mentre sulla scena si delinea un quadro dinamico che unisce passato e presente mediante il sapiente lavoro compiuto dalla compagnia Ultima Vez.
I diversi pannelli presenti in palcoscenico divengono manifestazione del teatro nel teatro. Quello più grande, posto in basso, proietta Tiresia intenta a governare gli dèi, l’altra proiezione, come in un film 3D, rende visibili Zeus ed Era, che discutono sulla sorte dei figli. Emerge, dunque, un laborioso andamento caratterizzato dall’alternanza di media artistici. Il senso è già tutto qui: una spettacolarità in evoluzione costante dà prova di un’opera d’arte totale. Un dialogo interculturale e transmediale: un cast di artisti di diversa origine e provenienza mette in scena un messaggio secolare in una chiave nuova e interdisciplinare. Il regista e coreografo sceglie di prelevare dalla classicità quindici personaggi mitologici, cuciti ad hoc su ciascun interprete per conferire loro una forma nuova e originale. Ares, Afrodite, Apollo, Artemide, Callisto, Ebe, Psiche, Amore, Ermes, Dionisio, Atena, oltre ai già citati Tiresia, Efesto, Era e Zeus, ognuno raccontato attraverso il disegno, la danza, la recitazione.
Si susseguono momenti violenti, erotici, passionali, energici: l’ira degli dèi di cui scrivono in primis i nostri autori classici, è rappresentata da un vorticoso ensemble di performer. Si assiste alla lotta tra gli dèi, alla volontà di supremazia, al dolore, al desiderio di vendetta e all’amore più disperato. Sono molti i momenti che colpiscono ma, più di tutto, ciò che ipnotizza è il corpus del progetto. Con un ottimo groove, ognuno alterna il floorwork ai momenti di contact e ai soli, rompendo la quarta parete e richiamando l’attenzione degli spettatori. Al grido di “all change” e “a revolution”, i personaggi rendono manifesta la furia dell’Olimpo con enveloppés, grand battements e movimenti sempre più decisi. I performer manifestano un’energia singolare e ogni figura danza al ritmo del non abbiamo più speranza, quando il cerchio visibile sulla proiezione si restringe sempre di più per aprirsi sulla scena tramite il gruppo che si espande esplodendo in movimenti nervosi, scattosi, scomposti. Le scelte musicali sono colonne portanti dell’intera performance, quando le mani battono al suolo il corpo diviene strumento emotivo e conoscitivo. La si potrebbe definire una sfida, quella di mettere in scena la mitologia greca in uno spettacolo multidisciplinare di 110 minuti: e se così fosse, vale la pena notare l’esito positivo rappresentato da Infamous Offspring. Il lavoro di Ultima Vez dà prova di una minuziosa conoscenza della tradizione classica e della capacità di non fermarsi a una semplice rappresentazione ma di mettere in scena uno sforzo ermeneutico congiunto per sviluppare una pièce intermediale.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Quando il buio in sala allo Spazio Diamante inghiotte le facce del pubblico, l’umanità lì fuori sembra perdere consistenza per addensarsi di nuovo sul palcoscenico, dove appare tra le ombre il corpo seminudo di Michele Schiano di Cola. Nella pièce diretta da Teresa Ludovico, l’attore interpreta Barabba, sobillatore zelota del I secolo che verrà amnistiato per volere della folla al posto di Gesù Cristo. Antonio Tarantino ci racconta cosa succede prima dell’episodio evangelico quando Barabba è ancora solo un condannato in attesa dell’esecuzione della pena capitale, intrappolato fra le sbarre di un’impalcatura che materializza la sua prigione.
Barabba impersona, l’umanità tutta, incastrata come da tradizione platonico-cristiana, nella propria stessa carne. Indimenticabile è il clangore delle membra dell’attore che colpiscono quel carcere metallico della materialità, traslando nel corpo dello spettatore quella costrizione, il freddo sulla pelle sudata.
Le parole del drammaturgo Antonio Tarantino risultano spesso sovrabbondanti in questa messa in scena tutta fisica della sua opera, dominata dall’intensità penetrante della recitazione di Michele Schiano di Cola, dalla sua gestualità appassionata e da una regia che mette in risalto la sua corporeità. La profondità delle riflessioni dell’autore sul potere e sulla natura umana sfugge spesso, mentre le battute sono rovesciate dall’alto come una valanga sul pubblico, travolto dall’inarrestabile fiume di parole di un Barabba sovraeccitato e, forse, folle.
Nonostante questo del protagonista unico che dà il nome all’opera è possibile delineare con precisione la personalità, segnata dalla doppiezza. Barabba, arrestato come rivoltoso per aver fomentato una ribellione contro i romani in cui un soldato è rimasto ucciso, diventa attraverso la lente di Antonio tarantino un esaltato, un rivoluzionario e un terrorista, un fanatico e al tempo stesso un cinico criminale, violento e opportunista. Questo antieroe raccoglie la simpatia del pubblico dipingendo se stesso come un libero pensatore o un perseguitato politico, ma solo per disperderla un minuto dopo con un commento sgradevole o un insulto gratuito che svela il suo qualunquismo.
Sull’ambivalenza di questo personaggio, il cui fato è infatti in bilico tra quello glorioso del martire e quello del mafioso latitante, si gioca l’intero monologo, a partire dalla stessa lingua utilizzata dall’autore. Tarantino permette al suo personaggio di essere tutto e niente, di parlare in rima come un poeta, di arringare come un retore e come un bestemmiatore, di parlare con tutti gli accenti delle regioni italiane e dei personaggi televisivi e politici, di diventare in scena Berlusconi e poi Mussolini. Barabba passa da un registro linguistico all’altro con la stessa velocità con cui smette di lamentarsi della propria condizione miserabile e della crudeltà dello stato e inizia a rivendicare i propri crimini, mostrando scarso interesse nei confronti della propria morte imminente.
Tuttavia, la reale, profonda duplicità della sua figura si manifesta solo nel momento in cui inizia a riflettere ad alta voce sul suo nome completo: Gesù Barabba. Se è vero che nomen omen e che nel nome si può leggere il destino di una persona, il delinquente non può dimenticare che quel bar-abba in ebraico vuol direfiglio del padre e che un altro Gesù figlio del Padre si trova in quei giorni rinchiuso nello stesso carcere.
Sebbene Barabba si prenda gioco fino alla fine di quel povero spiritualista disposto a morire per un ideale, quello di cui ha sentito le grida mentre veniva frustato nella stanza a fianco, questa straordinaria omonimia non può fare a meno di turbarlo. Teme, infatti, prima di essere scambiato proprio con quel predicatore, che avrà post mortem la fama che spetterebbe a lui, e, successivamente, che Gesù venga liberato al posto suo. Per un momento anche lo spettatore contempla queste possibilità: finali che pervertirebbeo la vicenda che forse più di tutte ha condizionato la cultura occidentale.
Questo, però, non succede, perché la verità, il cammino dell’uomo sulla terra, è, su ammissione dello stesso zelota, unica, assoluta, incontrovertibile, anche quando sembra nascosta dall’equivoco. Se Cristo, Dio fatto uomo, è il peccatore che deve morire sulla Croce come capro espiatorio per cancellare le colpe dell’umanità, Barabba – come tutti i corrotti esseri umani – è lui stesso agnello innocente, figlio di Dio che merita di essere perdonato e amato.
Crediti:
di Antonio Tarantino regia Teresa Ludovico spazio scenico e luci Vincent Longuemare con Michele Schiano di Cola cura della produzione Sabrina Cocco assistente alla regia Domenico Indiveri
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La performance è appena iniziata e una spettatrice esclama sottovoce: «È proprio il linguaggio del corpo». Nell’affermazione si coglie l’efficacia della MM Contemporary Dance Company. Ecco che, a poco a poco, un turbine di linguaggi si interfaccia con il pubblico progressivamente sempre più coinvolto da un’energia e sensazioni autentiche.
Intonando i CCCP, i danzatori iniziano a muoversi con passi alternati e ripetuti in sequenze con intensità sempre maggiore. Successivamente, un lungo laccio diviene il protagonista della scena: disorientando, intrappola e ingarbuglia sentieri ancora da tracciare. I corpi dei performer sono a terra, a pancia in giù, seguono un’onda ritmica e sollevano dal suolo solo busto e gambe, tenendo le braccia ferme lungo il corpo. Un movimento impattante che tiene lo spettatore attento mentre osserva dieci corpi quasi schierati, come fossero uniti in una preghiera collettiva invitando l’audience, indirettamente e silenziosamente, a prendervi parte.
Il laccio acquisisce un ruolo attivo sulla scena, è tenuto fortemente dalla bocca, quasi come a rappresentare un’enorme lingua biforcuta. Emergono importanti momenti in cui le figure occupano lo spazio in diagonale, in perfetta sincronia sia tra di loro che con la musica. Spesso i corpi sono sospesi a mezz’aria, mostrando eccellente fluidità attraverso slanci sia coreici che tonali. L’atmosfera muta eppure ogni pièce è sapientemente legata all’altra, per gli occhi di chi assiste allo spettacolo vi è un continuum di stupore. I movimenti della MMCDC sono eterei, dinamici e vengono restituiti identici nelle sequenze ripetute. La scena cambia spesso, insieme alle entrée e ai costumi dei performer, sempre differenti e costantemente carichi della vitalità che sono chiamati a rappresentare. I pas de deux, attraverso un maestoso virtuosismo tecnico, mettono in risalto l’espressione dell’anima.
«I’ve tried in my way to be free», la musica parla e il corpo narra istanze di un io collettivo. Un omaggio agli anni ottanta, alle aspirazioni di una pagina di storia identitaria di una società in continua evoluzione. La chiave musicale della performance – con i già citati CCCP, insieme Frank Zappa e al noto brano Red right hand di Nick Cave – induce l’osservazione di un chiaro ritratto di un decennio la cui storia Mauro Bigonzetti non dimentica di attraversare. Emerge anche la eco dei lavori letterari di Pier Vittorio Tondelli, come sicuramente Altri libertini, un inno alla vitalità di quegli anni. Non manca la rappresentazione di un cambiamento che ammutolisce, facendo acquisire forza tramite la condivisione.
Ciò che colpisce è una gestualità semplice quanto profonda che riesce a manifestarsi chiaramente per trattare tematiche delicate: due performer uomini danzano in coppia ma vengono separati. La scena dà poi spazio ad un quadro collettivo emblematico. La chioma di due danzatrici diviene passaggio e sentiero per scavare e scoprire identità: ogni performer fuoriesce da questa parete apparente creata dalla vicinanza tra due danzatrici che, con i propri capelli, generano un sottile sipario per il teatro dell’io. Luogo in cui ogni performer presenta il proprio personaggio con coraggio, riuscendo a coinvolgere ed emozionare. Ballade presenta un excursus di emozioni forti: amore, passione, dolore, abbandono e solitudine, insieme alla gioia della condivisione e della possibilità di rinascita.
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