Orgia, ritorno al futuro

Orgia, ritorno al futuro

Articolo a cura di Francesca Lupo

«Potrà sembrare strano, al lettore del Giorno, il fatto che io mi accanisca in modo così puntiglioso e ingenuo, a occuparmi, sera per sera, del pubblico che viene a vedere la mia opera. Ma, per me, la grande novità del teatro è tutta qui. Un rapporto “personale” con lo spettatore. Altrimenti, dedicarmi al teatro (scriverlo e allestirlo) non avrebbe significato.» Così si legge nell’articolo pasoliniano La rabbia prima poi la fiducia datato 8 dicembre 1968.

Al Deposito d’Arte Presente di Torino, prodotto dal Teatro Stabile della città, il 27 novembre 1968 debutta Orgia, la prima e unica regia teatrale di Pier Paolo Pasolini. Il testo, la prima delle sei tragedie che scriverà durante il celebre periodo di convalescenza, viene alla luce nel 1965, e verrà ripreso spesso negli anni a venire.

Marito e moglie, senza nome, senza storia, esprimono sul palcoscenico il segreto che gelosamente custodiscono tra le mura della loro casa piccolo borghese: una sessualità sadomasochista, un linguaggio del corpo esasperato, provocatorio, estremo, che urla rispetto al silenzio in cui sono immersi sin dalla nascita. Un silenzio non sonoro ma concettuale, raccontato dai personaggi con continui ritornelli, «eppure nessuno parlava». La morte sarà il destino di entrambi i personaggi. Quella della donna, che trascina con sé anche i figli.

Quella dell’uomo- annunciata sin dall’inizio- che porta lo spettatore per mano in questo flashback fino al tragico epilogo: si impiccherà dopo aver indossato gli abiti della defunta moglie. Il marito castiga la moglie con corpi di sconosciuti evocati nel titolo e sulla scena, che la violentano e che lei accoglie, desidera. La perversione è socialmente permessa alla borghesia cui appartengono, ma solo a condizione che sia ben coperta dal rumore delle televisioni accese dei vicini. Croce e delizia, si configura come espressione di una diversità destinata a venire comunque soppressa. Il protagonista si trova a riflettere sulla sua totale aderenza a un Potere che gli ha permesso di vivere sottomesso all’agiatezza. Il suo corpo appeso al soffitto e mortificato da abiti e trucchi femminili sarà un finale e atteso atto di ribellione, accusa, liberazione.

La contraddizione è cifra stilistica e chiave di lettura di Pasolini. La sua estrema sensibilità assume il carattere dello stigma, diventando probabilmente la causa che tuttora impedisce di reggere un prolungato e diretto contatto nei confronti della sua opera e della sua personalità. E pregne di contraddizioni sono la scrittura e la pratica scenica del suo teatro di parola, per tutti e per nessuno.

Nel 1968 sulla rivista letteraria Nuovi Argomenti viene pubblicato il Manifesto per un nuovo teatro firmato dallo scrittore. In netta contraddizione con i fermenti storici, sociali e soprattutto teatrali dell’epoca, Pasolini dona il suo contributo alla teorizzazione di una nuova via per rendere il teatro ancora materia viva del presente. La parola libera in versi dovrà essere messa in scena da registi critici, interpretata da attori critici e indagata da spettatori critici, esattamente nello stesso spazio in cui la parola si è fatta carne. Perennemente contro tutto e tutti, il teatro di parola è indirizzato alla folla teatrale, non alla massa televisiva, che di certo è meno nutrita della seconda, ma istantanea, archetipica, impossibile da riprodurre in serie. Una folla intesa a

unire l’operaio e l’intellettuale all’ascolto della stessa parola: una parola letteraria, un italiano vero, né dialettale né accademico. Nel teatro di Pasolini le parole provengono dal palcoscenico e, dopo gli applausi, dalla platea stessa, creando una dialettica. Urla di senso contro il vocio ordinato e indistinto poco fuori l’edificio.

27 novembre 1968 – 11 maggio 2023: al Teatro delle Moline di Bologna si rievoca il passato. Nell’ambito del progetto Come devi immaginarmi, Gabriele Portoghese e Federica Rosellini danno corpo e voce all’uomo e alla donna di Orgia. Il palco e la platea si annullano per unirsi attorno a un grande tavolo di legno, dove gli attori sembra aprano le porte al classico momento della lettura a tavolino del testo da mettere in scena. Gli spettatori sono invitati a sedersi al tavolo o nella seconda fila di sedie che delinea il perimetro della sala, esclusivamente nei posti in cui sono state distribuite delle copie del testo. Portoghese e Rosellini sono già seduti, parlano sottovoce, ridono, osservano il comporsi della platea sorseggiando una birra. Portoghese ha con sé una vecchia edizione delle tragedie pasoliniane, Rosellini una fotocopia del testo. L’intimità dello spazio scenico e la disposizione degli spettatori non permettono di partecipare con distacco all’azione. Spesso i personaggi/attori riflettono sul ruolo di vittima e carnefice e giustamente notano quanto questi si confondano facilmente. Il volto bifronte di Giano.

Lo spettatore è sempre testimone e complice, questa volta però sradicato dal suo accogliente nido/pulpito. Gli uomini che violentano la donna protagonista sono gli stessi spettatori. Questo inquietante assetto assembleare compone l’orgia che avviene in scena, evocata dalle bocche degli interpreti. Portoghese e Rosellini si siedono, si alzano, camminano intorno al tavolo, sul tavolo, con i testi tra le mani, i loro corpi che sfiorano quelli degli spettatori, gli occhi che cercano tra gli astanti i loro compagni di scena, che siano i giovani descritti e desiderati dalla donna, che sia la ragazza del quinto episodio della tragedia, adescata dall’uomo e condotta in casa. Ascoltando le didascalie più che vedendole tradotte in scena, si arriva all’ultima pagina: i corpi stremati per aver letto e per aver ascoltato. Portoghese chiude rumorosamente il volume.

Valter Malosti, direttore di Emilia-Romagna Teatro Fondazione, e Stefano Casi, giornalista e saggista (celebri sono i suoi interventi in pubblicazioni dedicate al teatro di Pasolini), presenti in sala durante la pièce, fanno propri gli intenti del Manifesto e cercano di instaurare un dialogo con il pubblico. In quanto esperto, Casi fa un excursus storico e critico sul rapporto tra il teatro e lo scrittore. Sfoglia le fotocopie che ciascuno spettatore ha ricevuto in omaggio.

Vi sono riportate alcune pagine del volume Teatro curato da Walter Siti, della collana Meridiani edita da Mondadori, in particolare I cartelli della «prima», un elenco degli slogan e delle frasi a effetto che accoglievano lo spettatore del 27 novembre del ’68, in cui veniva condensato il piglio del Manifesto, e l’articolo del Giorno, già citato sopra, La rabbia prima poi la fiducia, un piccolo resoconto dello stesso Pasolini sull’esperienza registica, in cui non mancano certo dei dardi al tanto vituperato teatro di tradizione, in questo caso diretto all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, nonché materiale raccolto nell’Appendice a Orgia. Casi si appella alla necessità di rappresentare questo

testo e all’urgenza di parlare di Pasolini, complimentandosi con gli attori per aver interpretato la drammaturgia e il Manifesto. Sia lui che Malosti, tra un commento e un racconto sulla genesi del lavoro di Portoghese e Rosellini, invitano il pubblico a partecipare a questo pasoliniano momento di confronto.

D’altronde, era esattamente questo uno degli obiettivi prefissati dall’intellettuale friulano: «Dopo che noi abbiamo parlato con voi, applaudire o fischiare è inutile: parlate voi con noi» recita uno dei cartelli della «prima». Ed effettivamente il pubblico prende la parola. Più o meno giovani, più o meno apparentemente istruiti, più o meno avvezzi a un discorso teatrale contemporaneo o storicamente orientato, pochi si sono inibiti. Gli sguardi non si riposano, ancora stimolati a seguire il dibattito, seguendo le voci da una parte all’altra della sala. Il discorso è accolto dagli spettatori, partecipano anche gli attori, si ascolta in silenzio. I commenti cavalcano le sensazioni, chi colpito dalla recitazione diretta proprio agli spettatori, chi dall’assetto del pubblico.

Qualcuno sottolinea la responsabilità della violenza inscenata dalla coppia di protagonisti e condivisa tra gli attori e gli spettatori. Qualcuno esterna l’imbarazzo provato per settantacinque minuti nella stanza da letto di una coppia. Casi esterna il suo entusiasmo per l’esperimento di condivisione riuscito, suggerisce al direttore e agli attori di reiterarlo nelle prossime repliche. L’assemblea si scioglie con un ultimo applauso.

Il Manifesto pasoliniano è figlio del suo tempo, la sua stessa struttura è espressione degli anni della contestazione. Come lo era la forma dello happening, di un avvenimento appunto, come quello vissuto subito dopo l’Orgia del 2023, che non è di certo molto frequente in un teatro nazionale. Resta il dubbio che si sia trattato di un semplice revival, di una esperienza immersiva in un passato che ormai non ci appartiene, più che di un esperimento performativo “fedele” al teatro (non alla drammaturgia) pasoliniano, instaurando, seppur con gli strumenti di ieri, un discorso sull’oggi. Tuttavia, la discussione non è stata portata oltre lo stupore di una esperienza così spazialmente e emotivamente ravvicinata. «Operaio, la tua fatica a comprendere questo teatro consiste in una pura e semplice mancanza di quegli strumenti che la società non ti ha dato», un altro cartello del ’68. E se fossero diversi gli strumenti da fornire?

Post Scriptum_Gaia_log000, drammaturgia artificiale per raccontare la fine del mondo

Post Scriptum_Gaia_log000, drammaturgia artificiale per raccontare la fine del mondo

Umano o poco umano. Forse per nulla. Post Scriptum_Gaia_log000 è un racconto che appare davanti al pubblico un po’ perché scritto e letto su un testo in parte generato dal drammaturgo, un po’ seguendo l’ombra del cursore di ChatGpt. E siccome al pubblico il racconto arriva di spalle alla narratrice, Gaia, appunto, la fonte si confonde e si co-fonde, impossibile, quindi, separare nuovamente le parole imparate da un cervello e quelle apprese dall’intelligenza artificiale. Post Scriptum_Gaia_log000 ha debuttato martedì 16 maggio a Torino in apertura del Torino Fringe Festival e sarà in scena fino al 19 al Cubo Teatro di via Pallavicino. L’opera, prodotta da Cubo Teatro in collaborazione con Grey Ladder Productions, Club Silencio, GreenMe, si ispira alla serie TV Post Scriptum: Uno sguardo ottimista dalla fine del mondo, coprodotta da Infinity+ nell’ambito dell’iniziativa Infinity Lab.

Uno degli elementi più interessanti di Post Scriptum_Gaia_log000 è il processo creativo, mostrato apertamente. La regia in diretta di Girolamo Lucania permette di seguire da vicino lo sviluppo delle idee e delle azioni, mentre le musiche e i suoni di Ivan Bert e Max Magaldi vengono composti e suonati sul momento, senza filtri. Il confronto tra intelligenza artificiale e naturale è uno degli aspetti più intriganti dell’opera. 

E poi c’è Letizia Russo, che dà un corpo a Gaia, gambe, mani e spalle, mentre il viso si restituisc al pubblico attraverso il riflesso filtrato di una web cam. 

E fin qui è solo descrizione. Quel che accade. Punto. Dentro il perimetro delle musiche, i testi e un allestimento ancora da prova d’orchestra, tutto a scena aperta, si nasconde l’inquietudine della sostituibilità e perfetta complementarietà di parole e musiche prodotte da esperienza umana e da apprendimento artificiale. I personaggi si confrontano con le potenzialità e i limiti delle intelligenze artificiali, cercando di comprendere se queste possano realmente sostituire l’essere umano nella sua complessità e unicità.

Si tratta di forma, certo, che raccoglie un racconto avvolto intorno alla prospettiva dell’estinzione e alle derive della parola intelligenza.

L’accumulo di apprendimento dell’IA è davvero la chiave per svelare l’apprensione verso un mondo popolato da scarafaggi? Può essere. Il punto, però, da non sottovalutare è come uno dei picchi più alti dello spettacolo sia l’eco di una nenia appresa e ripetuta con i mezzi per la riproducibilità tecnica. Ma il portato di quelle note è in realtà la memoria emotiva non appresa, ma sedimentata dalle generazioni, dagli antenati di tutti coloro che sono passati prima di noi. E forse, l’inquietudine più grande resta perdere quelle tracce, al di là di chi e che cosa camminerà dopo.

Per questo Post Scriptum_Gaia_log000 è da vedere e sicuramente questa prima forma di studio o prova aperta è un materiale da approfondire e valorizzare.  

Piccola parentesi: anche questa recensione è stata in parte scritta dall’autore e in parte prodotta da intelligenza artificiale.

Impossibile (credo) anche in questo caso definire l’origine delle parole. Tuttavia, per chi gestisce il trucco, c’è un elemento che emerge. La cosa che manca nella cronaca automatica prodotta, è proprio la presenza di Letizia Russo. Perché non appresa da testi già presenti nell’internet. Insomma chiedere a ChatGPT di raccontare Gaia, vuol dire farsi scrivere una storia senza Gaia. E’ una nemesi? Forse. E’ la speranza per ritardare la conquista degli scarafaggi? Altrettanto forse.

Di fatto all’intelligenza artificiale manca il ruolo di testimonianza, quello che segna lo spettatore, quello che tiene traccia del teatro in chi lo fa e in chi lo vede.

L’arte della resistenza di Barbe à Papa Teatro

L’arte della resistenza di Barbe à Papa Teatro

Era molta la curiosità, dopo l’intervista a Barbe à Papa Teatro, di vedere come l’ardore e le peculiarità artistiche, le difficoltà e i vissuti personali si sarebbero tradotti concretamente sulla scena. Nel caso specifico, è stato dentro un accogliente e intimo Spazio Franco – scrigno di creazione contemporanea all’interno dei Cantieri culturali alla Zisa di Palermo – dove la compagnia siciliana ha presentato lo spettacolo conclusivo della trilogia Generazione Y, L’arte della resistenza, di cui si era solo accennato nella scorsa intervista.

Accolti e sostenuti dal calore umano della loro terra, i quattro performer – Chiara Buzzone, Federica D’Amore, Totò Galati, Roberta Giordano, guidati dal regista e autore Claudio Zappalà – hanno raccontato, con umorismo e insieme profondità, i disagi e le consapevolezze della loro generazione, provata da crisi multiformi e alla costante ricerca di una direzione e di certezze, sfuggenti, a cui affidarsi. 

Il tema della “malattia mentale” viene subito introdotto e posto all’attenzione del pubblico. Dopo una vera e propria irruzione sulla scena come per prepararsi a una lotta – tra allenamenti in abiti sportivi, urla di sfogo e musica energica – qualcuno sta per crollare, o meglio, per essere attirato al cielo verso il quale tende, sfinito e speranzoso, una mano; cala allora un improvviso silenzio e una domanda lo scuote: si può fare teatro quando si è depressi? Cosa si può fare quando si è depressi? – chiede, affacciandosi al pubblico e interrogando anche il cielo, Federica, che come gli altri compagni, non porta in scena alcuno specifico personaggio se non se stessa e la collettività di cui si fa portatrice. La società e il pensiero ormai automatico del “dover fare” impongono di andare avanti sempre e comunque, ma la risposta dell’organismo sembra la più sana e umana possibile, e chiede solamente di fermarsi e ascoltare.

Lo spettacolo – in cui Barbe à Papa Teatro si mette in gioco nel tentativo di condurne un altro, situato nell’intercapedine tra finzione e realtà – si realizza dunque come una risposta a questa esigenza di pausa e riflessione. I quattro attori/non-attori iniziano così a dialogare; a sostenersi a vicenda sorreggendo, anche fisicamente, chi sta per mollare; a raccontarsi, tra sentimenti di inadeguatezza, sogni e la sensazione di essere perennemente fuori tempo. Ma cosa si sta inseguendo e, soprattutto, per cosa si sta vivendo? 
Dalle domande sul senso ultimo e personale dello stare al mondo – frapposte tra aneddoti e gag, mentre si ha la sensazione di stare in confidenza come con degli amici – risulta chiara l’identità della compagnia, che si era auto-descritta con l’aggettivo “ambivalente”: leggera come lo zucchero quando viene filato, ma allo stesso tempo tagliente come quando si solidifica dopo esser stato sciolto.

Nel buio delle incertezze, ci sono però dei punti chiari che via via emergono dal fondo: quello di non voler rinunciare a tutto per poter dire di essere sopravvissuti; e l’importanza dell’amicizia e della condivisione, strumenti di forza nella resistenza di esseri umani fragili.
Prima di connettersi agli altri, però, è necessario denudarsi dei panni che si indossano nella vita e delle maschere, riducendosi all’essenza di cui siamo fatti: nient’altro che desideri e paure. Così, anche il corpo fisico diviene simbolo, oggetto di svestizioni e vestizioni, mostrato con e senza artifici, davanti e di spalle, nella forma in cui parte del senso di inadeguatezza si concretizza.

Scegliere una strada che ci disancori dai canoni e dagli obblighi sociali, dalla certezza dell’infelicità, richiede però un grande coraggio, che non sempre si ha; a volte si decide di rinunciare alla propria vocazione e ai propri ideali in nome di una serenità perlopiù fittizia, altre volte il prezzo da pagare risulta inaccettabile.

Sulla scena, intanto, si alternano differenti ritmi, così come i dialoghi lasciano il posto ai monologhi in cui l’attore o l’attrice di turno vanno in primo piano, mentre gli altri rimangono sullo sfondo; ora in ascolto come un pubblico partecipe, ora agendo e animandolo. La scena varia  inoltre lentamente sul piano cromatico, verso una maggiore intensità di colori per poi incupirsi, sempre però mantenendo un senso complessivo di armonia; così, anche le emozioni e gli umori seguono questa continua altalenanza, a volte in modo sorprendente: l’allegria un po’ forzata di una festa di fine anno racchiude anche un fondo di malinconia e una riflessione sul senso del tempo; la grinta di un karaoke conduce a un clima gioioso fino a un picco di speranza che non lascia presagire in alcun modo il finale che attende. Improvvisamente, si viene catapultati in una nuova dimensione – antica e attuale insieme – che richiama quella di una tragedia greca reinventata in chiave contemporanea, dove l’ineluttabilità si affianca a un’estenuante lotta contro i propri demoni e quelli di una realtà non sempre così  benevola.

Della vita che si lascia non resta soltanto una manciata di oggetti che ci hanno rappresentato, ma persiste il senso di unione e l’amore che abbiamo coltivato – fino alla fine e mano nella mano – con chi ci ha accompagnato lungo il viaggio e dovrà proseguirlo; ed è una fusione che avviene anche col pubblico in sala, accompagnato anch’esso con candore e genuinità fino al momento dei saluti. Ma non c’è alcuna linea di separazione tra il dentro e il fuori: ci si guarda dalla penombra alla luce con occhi visibilmente commossi – ognuno artista della propria resistenza – e la certezza che il messaggio sia arrivato, confortante come un abbraccio dentro al quale, anche se forse per poco tempo, non ci si è sentiti soli. 

Barbe à Papa Teatro sarà presente al Festival Off d’Avignon 2023 (8 – 26 luglio) con il primo spettacolo della trilogia, Il coro di Babele; ed è attualmente impegnata con il laboratorio teatrale “Prima del viaggio” a cura dell’autore e regista della compagnia Claudio Zappalà, prossimamente a Imola, Napoli e Catania.

Il teatro si trova dove il teatro avviene. Spazi alternativi a Torino

Il teatro si trova dove il teatro avviene. Spazi alternativi a Torino

Articolo a cura di Alessandro Cappai

Un uomo attraversa lo spazio e un altro lo guarda. E basterebbe questo, brechtianamente parlando, per dare inizio a un’azione teatrale. L’uomo trasforma  lo spazio in teatro con l’azione, così come il teatro trasforma lo spazio per vocazione, perché il teatro si trova dove il teatro avviene.

Torino è una città bifronte spaccata tra aristocrazia sabauda e quarto stato operaio. Torino così si è inventata il teatro in luoghi altri.

Ci sono i relitti post industriali che hanno ripreso vita. Il primo sono le mastodontiche Fonderie Limone Moncalieri, oggi spazio del Teatro Stabile di Torino, ma dagli anni Venti al agli anni Settanta luogo di trasformazione per bronzo, alluminio e ghisa. Metalli da solidi a liquidi negli stessi luoghi che oggi forgiano gli attori della scuola per attori e attrici del TST, due sale teatrali, due sale prove, l i laboratori di scenografia, la sartoria, i magazzini elettrico-fonici e la foresteria per gli artisti.

E restando sulle grandi superfici, sempre a ridosso della città si trova la Lavanderia a Vapore. La struttura è stata costruita tra il 1870 al 1875 e l’edificio fu poi adibito al lavaggio dei panni del Regio Manicomio che era sorto dal 1851. Dal 2008 sotto le capriate degli ex capannoni si trova un centro di eccellenza per la danza. Così come l’intera palazzina dell’ex officina dell’Azienda Elettrica Municipale di corso Ferraris 266 ospita un teatro polivalente con due sale teatrali, un’ampia arena esterna, aule per laboratori e sala prove della Casa del Teatro Ragazzi e Giovani.

Nel novero delle ex fabbriche, ma di più piccole dimensioni, si aggiunge anche Bellarte, è un’ex fabbrica tessile trasformata in uno spazio polivalente nel 2006 dove ha trovato casa Tedacà. Quando il gruppo è entrato negli spazi di questo centro appena ristrutturato, situato in via Bellardi a Torino, la struttura si presentava come due grandi stanze di colore giallo canarino nel bel mezzo del quartiere residenziale operaio di Parella. Oggi tutto questo è diventato il “Teatro della porta accanto”.

Mestieri e vocazioni, storie dei luoghi ed echi. 

Anche il piccolo ex negozio di cornici è diventato il teatro Gar(a)bato. È la sala più piccola della città perché conta solo venticinque posti a sedere, ma l’ex laboratorio è sufficiente per un piccolo palco di cartapesta sotto un soffitto affrescato.

Teatro, poi cinema a luci rosse e oggi di nuovo teatro. La storia ciclica del Cinema Teatro Maffei, nel quartiere di San Salvario, parte nell’anno 1908 quando veniva inaugurata sala nata in copia carta carbone dei cafè-chantant parigini. Negli anni 50, quando si restaura l’intera struttura, nasce su quel palco la prima compagnia stabile di avanspettacolo italiana. Ma poi dal corpo delle soubrette e del teatro leggero, il teatro ha lasciato posto al cinema. E il Maffei ha portato sul grande schermo solo pellicole per adulti fino alla sua chiusura nel 2019. Oggi una nuova associazione promuove nuovamente teatro e performance dal vivo.

A teatro per incontrare fantasmi.

Non si parla né di Amleto né dei nemici di Riccardo III. Si tratta della Dama Velata. È lo spirito della principessa Barbara Jakovlevna Tatisjtjeva, moglie dell’ambasciatore russo a Torino, morta giovanissima, che si dice cammini di notte per le strade di Borgo Dora. Lei come i boia e i morti sulla forca erano seppelliti nel cimitero di San Pietro in Vincoli, voluto da Vittorio Amedeo III nel 1777. Il vecchio campo santo oggi ospita l’attività delle compagnie teatrali A.M.A. Factory(nata dalla collaborazione tra Acti Teatri Indipendenti e Il Mulino di Amleto) e LabPerm di Domenico Castaldo. Nella navata a pianta centrale della cappella c’è lo spazio scenico coperto, mentre lungo il porticato che porta al palco e alle cripte ci sono ancora alcune lapidi. Altre storie.

Due amanti, il mare: Totò e la sua radiolina

Due amanti, il mare: Totò e la sua radiolina

Articolo a cura di Francesca Lupo

«EMMÌA» recita la panchina al centro del palcoscenico, insieme ad altri improperi, falli stilizzati, inneggi a Palermo e alla sua patrona, Santa Rosalia. Totò (Nicolò Prestigiacomo) si stupisce che Gisella (Eletta Del Castillo) non se ne sia accorta. Quella panchina è sua, c’è scritto. È abbastanza infastidito, ma alla fine le concede di sedersi.

Allo Spazio Franco di Palermo, dal 5 al 7 aprile è andato in scena Totò e la sua radiolina, uno spettacolo scritto e diretto da Giada Baiamonte, attrice, drammaturga e regista palermitana.

La panchina di Totò è incredibilmente simile a quelle che si possono trovare tuttora in via Cala a Palermo, dove ci si siede per rilassare lo sguardo davanti alle barche attraccate. Anche a questo molo sono attraccate delle barche, ma di carta di giornale. I flutti che si scorgono dallo strapiombo sono di tulle, delle luci di scena lo rendono azzurro; in alto le nuvole sembrano disegnate da un bambino. Un principio di mare, ancora troppo vicino alla città per essere sintomo di libertà, eppure la sua brezza trova comunque un modo per farsi strada tra i volti di chi si ferma. Come quello di Gisella, stanco. È avvolta da un cappotto nero, che le arriva fin sotto le ginocchia, dove invece inizia il cuoio beige dei suoi stivali, con il tacco. L’ampiezza di qualche movimento tradisce mentre avanza in scena un reggiseno di pizzo, delle calze a rete e dei pantaloncini azzurri, stretti, di un tessuto leggerissimo. Ha appena finito di lavorare, si accende una sigaretta. In quella notte placida Gisella si sporge dal molo. Il mare è un padre affettuoso, ma il rumore di un piede trascinato sull’asfalto la distrae. Totò arranca: la mandibola inferiore tende verso sinistra, dalle maniche della camicia di flanella gialla, abbottonata fino all’ultimo, vengono fuori le sue mani, le cui figlie, le dita, sembrano litigare tutto il tempo, si accavallano, attorcigliate, costrette, impossibili da articolare.

Se Gisella è una buttana, Totò è inequivocabilmente un luacco, ovvero uno stupido: soli, emarginati in egual maniera. Spogliandosi dei ruoli in cui la società li ha intrappolati sin dalla più tenera età, davanti al mare si esprime la loro vera personalità. Gisella e Totò, senza fretta, senza pretese, da quel loro primo incontro ne faranno seguire tanti altri, nutrendo un’abitudine, un’amicizia; probabilmente una materia a loro completamente nuova. Gisella è diventata donna molto presto, suo malgrado, troppo bella per esserle concessa ancora dell’ingenuità. A Totò invece non è mai stato permesso di crescere, perché più lento degli altri, a camminare, a parlare, a emozionarsi. Totò porta sempre con sé un sacchetto pieno di caramelle gommose, di tutte le forme, di tutti i colori, ma non può mangiarle, così le offre a Gisella, alla quale da bambina non è stato concesso “neanche un palloncino”. Il tempo scorre sul palcoscenico, dopo ogni buio di fine scena i costumi indossati dai personaggi cambiano. I due ritagliano dei momenti nelle loro vite per incrociarsi a quel molo, approfondendo sempre di più le loro infelici storie. La violenza è stata una costante nelle loro vite, ma non è riuscita a renderli tanto ciechi da non riconoscere quei barlumi di purezza che anche in un mondo come il loro si possono celare. Gisella incontra così un uomo molto distante dai profili dei suoi clienti, mentre Totò forse per la prima volta si trova vicino a una donna diversa dalla defunta madre o dalla sorella che l’ha sempre accudito, che sceglie di condividere con lui lo spazio di una panchina. Insieme scoprono le mille sfumature dell’amore, che pian piano diventano veri e propri stadi dell’evoluzione del loro rapporto: l’amore fraterno, filiale, anche sentimentale. È in quest’ultima tappa che tutto si incrina.

Totò e la sua radiolina è la storia di un amore così profondo da non potersi consumare, così peculiare da avere la forma di una piccola radio, cui è attaccato un cordino, per poterla indossare al collo, un regalo di Gisella, per sconfiggere la solitudine. La sincerità della Baiamonte nel raccontare e rappresentare la diversità di Totò è ciò che colpisce di più di tutta la pièce. Il personaggio ha una sua tridimensionalità e la sua veste di luacco è solo il medium superficiale attraverso cui esprimere la sua personalità. L’interprete indossa la paralisi fisica del suo personaggio in maniera eccellente, letteralmente si trasforma, secondo una direzione artistica mimetica che non lascia spazio a nessuna immaginazione. L’irriverente diversità del protagonista maschile viene raccontata in alcuni monologhi, in cui, tra le tante tristezze, per prima cosa viene fuori la sofferenza di essere sempre stato considerato troppo fragile per avere un proprio pensiero. Totò, anche grazie al confronto con Gisella, rivendica una profondità interiore che non gli è mai stata riconosciuta dai suoi cari. Costretto dalla frustrante difformità della sua condizione, Totò ha dovuto accettare di farsi attribuire parole non sue, mentre di cose da dire ne avrebbe avute fin troppe. In scena Totò infrange una narrazione pietosa della diversità, colma di un’ipocrita sensibilità, evitando il cliché dello storpio apparentemente scimunito. Baiamonte tratteggia il suo protagonista maschile in un modo così peculiare che la lirica bellezza della “normalità” di Gisella scompare.

La lingua dei protagonisti è il dialetto palermitano, sguaiato, colorito, violento e sincero.  Un dialetto verace, che non manca d’essere veicolo di riso, prodotto propriamente dai suoni, dalle parole, dai concetti della lingua popolare, ma anche da una sagacia che permea le battute che i due si scambiano con ritmo sostenuto. Quest’ironia, alle volte dolente, altre semplice, immediata e sincera, calza perfettamente alla situazione. È facile immaginare che i due appartengano allo stesso rione, con le stesse leggi non scritte nei confronti di chi nasce prostituta e chi scemo. Con piacere entrambi, in egual maniera, alleggeriscono l’azione con molti momenti leggeri, di prese in giro, sebbene il mattatore tra i due sia proprio Totò.

I brevi silenzi in scena sono colmati dallo sciabordio del mare, il quale è considerato alla stregua di personaggio, cui i protagonisti si rivolgono nei momenti di solitudine e come pretesto per approfondire la loro amicizia. Gisella vorrebbe che il mare la portasse via dalla sua quotidianità sofferente, a lui collega i suoi ricordi di bambina. Totò invece, come tutto, lo guarda da lontano (a differenza di Gisella non ha mai imparato a nuotare), limitandosi a dare da mangiare ai pesci, respirando la salsedine. «Siamo tutti figli tuoi», gli dice.

Le crudeltà di cui Totò e Gisella sono stati resi testimoni, riflessa nelle loro esperienze di vita, si nota tutta intorno, a partire dalle usuali volgarità scritte con un pennarello sulla nostra panchina, non impediscono alla loro vicenda di concludersi nel modo migliore. L’incontro di quella prima notte cambierà il corso delle loro vite: Gisella avrà il coraggio di lasciare Palermo e trasferirsi a Milano da una cugina, dove potrà lavorare senza mercificare il suo corpo concedendosi una maternità che per molto tempo le era stata negata. Totò rimarrà a Palermo, sulla panchina tiene stretta la sua radiolina, dopo la prima esperienza di amicizia nei confronti di una donna che ha cercato di amare a suo modo (purtroppo diverso da quello che Gisella avrebbe desiderato) e forse amerà sempre. Totò e la sua radiolina è una favola, fatta di carta di giornale e tulle che però non riesce a nascondere l’incredibile mimetismo degli interpreti, del linguaggio, dei costumi. La sincerità della scena si propone di perseguire una “verità” della rappresentazione, tanto che il racconto e la sua interpretazione hanno un che di cinematografico.

Al termine della messa in scena, agli ultimi spettatori che la raggiungono per farle i complimenti, la regista svela che si tratta di uno spin-off. Si fa riferimento a E muriu ‘u cani, sempre ambientato a Palermo, dove cinque fratelli si riuniscono nella casa del padre, appena venuto a mancare. Tra questi è presente anche Totò, che si ritroverà a parlare della sua famiglia a Gisella durante gli incontri al molo. Interessante che anche i presupposti per la realizzazione di questo spettacolo – “spin-off” è un termine che si impiega per lo più nell’ambito del cinema o addirittura della serialità – si allontanino da una teatralità propriamente detta. In un mondo squallido e ingiusto una puttana si innamora di un “ritardato”, su un molo che sembra sia stato costruito plasticamente dall’immaginazione di un bambino: sono tanti gli aspetti che in questo scenario rischiano di contraddirsi. Ma forse è questa la più fedele rappresentazione della realtà che ci circonda, della vita che viviamo.

OVERVIEW esperimenti organizzativi di un progetto artistico – Il podcast dei dodici/decimi

OVERVIEW esperimenti organizzativi di un progetto artistico – Il podcast dei dodici/decimi

Dal 16 al 19 marzo, si è tenuto in Umbria, tra Foligno e Cannara, il secondo appuntamento di OVERVIEW esperimenti organizzativi di un progetto artistico.
Quattro giorni di incontri e approfondimento dedicati alle pratiche di promozione e produzione teatrale, che hanno visto susseguirsi undici spettacoli, sette compagnie, un focus sul sistema della produzione, promozione e distribuzione.

L’evento – proposto da Quieora Residenza Teatrale, Alessandro Sesti, Créature Ingrate, La Confraternita del Chianti, Tiziana Francesca Vaccaro – ha riunito artisti e operatori da tutto il territorio nazionale, con la volontà di condividere visioni artistiche e di elaborare e sviluppare competenze.
Guidati da Ornella Rosato, i ragazzi e le ragazze dei dodici/decimi, la direzione artistica partecipata under 30 del Festival Strabismi, hanno ideato e realizzato un podcast per raccontare attraverso il proprio sguardo l’esperienza di OVERVIEW, dando voce agli artisti e alle artiste coinvolti e al pubblico.

Crediti

Voci di: Giulia Corvaro, Clara Lolletti, Sheila Mirabile, Sebastiano Ragni, Debora Troiani
Coordinamento: Ornella Rosato
Montaggio: Laura Rondinella