Don Chisciotte narratore inaffidabile, cavaliere errante, ostinato visionario, giace ormai morto al centro del teatro. Don Chisciotte ad ardere, che il Teatro delle Albe di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari porta in scena dal 25 giugno al 13 luglio, giunge con la sua terza anta, al termine, nell’ambito della 35esima edizione del Ravenna Festival, che ne è anche co-produttore.
Se l’immagine dell’hidalgo immobile e inerte strappa inevitabilmente un po’ di malinconia sia negli spettatori che nei partecipanti alla chiamata pubblica che in questi tre anni hanno vibrato e vissuto in questo teatro-mondo che è l’opera di Cervantes messa in vita, rimangono le domande. Rimane soprattutto la speranza in un teatro-comunità, ricettacolo, filtro privilegiato e sintesi tra vita reale e rappresentazione, tra visionarietà dell’arte e concretezza della polis, oltre che epifania e monito su quanto ci circonda.
Come già nella folla ammorbata che danza allegramente il suo tip tap di morte in Salmagundi, così nella gente festante e beota raccolta intorno alle imminenti nozze di Chiteira e Gamaccio di Saverio Mercadante, allestita negli spazi del Teatro Rasi, dove lo spettacolo si conclude, c’è un richiamo inevitabile a scenari sinistri. Una civiltà, quella occidentale, in declino, una preoccupante immaturità sociale e civica, iper stimolata da slogan e messaggi subliminali e dalla voglia di scattarsi selfie. Inevitabile, però, pensare anche a quanto accade in questi giorni in alcuni teatri italiani pesantemente ridimensionati.
Ancora una volta, tante le riflessioni che emergono anche in questa terza e conclusiva tappa della corposa opera di Cervantes, che attraverso lo strampalato Don Chisciotte, parla di una società corrotta e venale allora quanto quella di oggi. Lo fa immancabilmente attraverso la diade Montanari-Martinelli che è l’una magica, iniziatica e proiettata sulla memoria negli antri del palazzo e l’altro razionale, solare, ironico, incline a camminare e a guidare. Ma la diade diventa, attraverso la chiamata pubblica e il teatro di massa, energia vitale, connessione e contatto di anime, esperienza collettiva e capacità di abitare la propria unicità, di essere sia Don Chisciotte che Sancho Panza.
Don Chisciotte tenta di smontare ingiustizie e atrocità col solo risultato di essere messo alla berlina e umiliato. Un eroe deciso a ingannarsi da sé, in balìa dei suoi libri, che nella prima anta sono stati dati alle fiamme dal curato e dal barbiere, ma che viene anche ingannato. In primis dallo stesso Sancho Panza, spesso per salvarlo da situazioni catastrofiche. A volte razionale, altre volte ambizioso, Sancho rappresenta l’uomo comune che è in ciascuno di noi, come Don Chisciotte rappresenta il nostro essere stupendamente asinini e utopici.
L’opera, targata 1605, che anticipa il romanzo moderno e che Martinelli-Montanari hanno trasposto nella contemporaneità, riprendendone e accentuandone la componente intertestuale e metaletteraria, è policentrica, determinata a non voler dare soluzioni finali, ma votandosi ad una trasformazione perenne.
Il richiamo al farsi e disfarsi all’infinito dato sul piano visivo dal disegno dal vivo di Stefano Ricci. Ma anche lo stile narrativo scelto dalla maga Hermanita (Ermanna Montanari) nel prologo, con i versi dalla testa rotta di Alvarez de Soria, gli scherzosi giochi di parole del mago Marcus (Marco Martinelli) che rivolge ai suoi attori (Roberto Magnani nei panni di Don Chisciotte, Alessandro Argnani in quelli di Sancho Panza e Laura Redaelli in quelli di Dulcinea) per sdrammatizzare le loro diatribe all’interno del Palazzo Teodorico.
Altro elemento-chiave in tutte e tre le edizioni è il fuoco, nelle sue più disparate declinazioni: quella distruttiva del rogo dei libri della biblioteca di Don Chisciotte con cui si concludeva la prima anta; quella di fuoco come memoria viva, a cui si sono richiamati i due maghi alla fine della seconda anta, lo scorso anno, per ricordare la tragedia della bambina senza nome, il cui corpo, sconciato più e più volte, adagiato in fondo al mare, ricorda le tragedie contemporanee della prostituzione minorile e del traffico di esseri umani.
Ma il fuoco che divampa è infine, anche quello del teatro, come si evince dal titolo della “messa in vita” dell’opera di Cervantes, Don Chisciotte ad ardere, e la scelta del teatro Rasi dove svolgere l’epilogo delle peripezie del personaggio, che ci ricorda appunto la sua forza trascinatrice.
Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.
Una platea può ridere di cuore assistendo alla messa in scena di Macbeth, senza che questa “notturna” tragedia del sangue cessi di inquietare gli animi e di insinuare il dubbio sull’ineluttabilità del destino. Succede nella grande sala del Teatro del Lido di Ostia, a due passi dal mare, in una bella serata estiva che nulla sembra avere a che fare con le cupe atmosfere di Dunsinane.
Lo spettacolo è la restituzione del percorso d’alta formazione teatrale La palestra dell’attore di Argot Studio, dedicato a giovani interpreti freschi d’accademia e a professionisti affermati che vogliano continuare a imparare dal confronto con grandi nomi della recitazione. Il regista Filippo Gili decide di preparare il pubblico a ciò che sta per andare in scena: questo Macbeth sarà la storia di un brav’uomo, un generale, un eroe trasformato in tiranno assassino dal fato o da un pantheon di fattucchiere crudeli. Adesso si può cominciare.
Spettatori e spettatrici si ritrovano ad assistere al ritrovo di cinque streghe che per noia decretano, utilizzando a tratti un grammelot incomprensibile che riunisce suoni di diverse provenienze geografiche, la caduta del conte scozzese. Queste creature non abbandoneranno mai la scena e, una alla volta, si sostituiranno a Lady Macbeth per istillare con la loro pungente ironia nella mente del protagonista prima l’idea del regicidio e poi la paranoia che lo porterà a compiere ciascuno degli altri delitti.
Lo spazio scenico è delimitato da una decina di sedie nere disposte a semicerchio sul fondo e sui lati del palco. Qui – fra risatine di scherno e versi animaleschi – trovano posto, alternandosi, queste streghe-attrici. Sono loro, infatti, che osservano, controllano, dominano lo spazio vitale di questo Macbeth, uomo nevrotico, solo e insicuro. Il conte è interpretato a sua volta da tre attori e un’attrice che si danno il cambio in scena per rendere evidente la frammentazione della psiche di un personaggio portato sull’orlo della schizofrenia da emozioni – ambizione, paura, odio, rancore, paranoia – che si avvicendano a un ritmo pericoloso.
La rappresentazione del femminile in questo spettacolo si direbbe seguire la tradizionale lettura misogina del classico shakespeariano. La tentazioneassume sembianze di donna e sfrutta le movenze sensuali e provocanti delle cinque attrici che danno un volto alle fattucchiere. È però vero che non solo, come nella tragedia originale, femminile è anche la risoluzione ad agire, il lato più sincero e meno pusillanime di Macbeth – che compie infatti il delitto a lungo meditato nel momento in cui è interpretato da una donna – ma anche che la consorte del nuovo re risulta del tutto scagionata, ignara del complotto, vittima infine non dei sensi di colpa ma del suo stesso marito. Anche la supposta ferocia di Lady Macbeth ritorna in questo modo a essere espressione dell’uomo e della sua empietà.
È così che il palco del Teatro del Lido di Ostia si trasfigura davanti ai nostri occhi, prendendo la forma della mente di uno dei più famosi personaggi shakespeariani. Qui la volontà del protagonista si trova ostaggio di impulsi contrastanti, come un burattino strattonato dai fili di un marionettista impazzito. Se Filippo Gili non avesse fatto quella premessa verrebbe da dubitare dell’integerrima moralità di Macbeth, spezzata solo dal divino intervento del fato: sembra piuttosto che la sete di potere e il delitto si siano sempre annidati nel suo cervello, che qui siano nate e sempre vissute le strigi che lo perderanno.
Crediti
A cura di Filippo Gili e Massimiliano Benvenuto Con Agata Fortis, Alice Azzariti, Carolina Patino, Federico Giovannoli, Giacomo Galeone, Gianpiero Cavalluzzi, Ida Maurano, Valentina Maffei, Valentina Oteri
Nata a Roma nel 1998, si laurea in Lettere all’Università di Tor Vergata e Filologia Moderna alla Sapienza, occupandosi di letterature comparate e viaggiando per studio e lavoro in Europa. Frequenta il master in Critica Giornalistica dell’Accademia Nazionale Silvio d’Amico. Appassionata di poesia e di parole, scrive per diverse testate e blog di argomento teatrale e culturale, accordando un interesse speciale alla drammaturgia contemporanea e agli studi di genere.
Un unico corpo a terra al centro della scena del Teatro Nuovo di Napoli, di spalle, inizia il proprio movimento, quasi impercettibile, mentre le luci sono ancora accese e il pubblico si accinge a prendere posto in platea. In questo modo MUTE incuriosisce lo spettatore che solo allora si siede, pronto a dedicare la sua attenzione alla performer Martina Gambardella, che effettua piccoli bounces in silenzio, andando poi a compiere visibili e ripetute scomposizioni del corpo, facendo risaltare all’occhio quella del piede destro. La danzatrice articola il proprio bacino, il collo e le spalle, poi effettua circonduzioni di braccia. Il silenzio è spezzato da un suono che dapprima sembra un leggero fruscio, trasformandosi in seguito in un vento più forte e infine in un rumore metallico, paragonabile forse al clangore delle chiavi nella serratura.
La performer per la prima parte dell’esibizione continua a danzare al suolo in cerca di nuove e differenti connessioni. Poi il suo corpo si alza in piedi per assomigliare a quello di una marionetta che, in assenza di fili, si muove con libertà nello spazio. Allora la danzatrice pare scoprire le proprie possibilità di movimento: articola le dita della propria mano come se tra queste ci fosse della sabbia e fa in modo che l’input danzante origini da particolari punti, come il gomito, il braccio o i polsi. Il suo respiro è affannoso e il suo sguardo si orienta nel proprio spazio di spinta cinetica. La danzatrice guarda in direzione della quinta e quasi mai verso l’audience, ma i movimenti si fanno più veloci quando poi un’espressione sul volto, quasi impaurita, sembra spingerla a riappropriarsi del proprio posto inziale sul palcoscenico. Adesso lo stesso piede che s’articolava nella prima sequenza del solo sbatte a terra più volte, divenendo per qualche secondo lo strumento sonoro e comunicativo. La tensione corporea, mantenuta costante per la durata di MUTE, s’arresta solo alla fine, quando la performer ritorna alla posizione di partenza.
Un breve momento di silenzio separa la danza di Gambardella dalla seconda performance, DOT, che presenta due danzatori in punti opposti della scena, in penombra. Indossano i costumi di Lina Orlando che assumeranno un ruolo determinante nella costruzione del pezzo. Marco Casagrande e Nicolò Giorgini, creano — e danzano — una coreografia ipnotica. Riflettono sulla teoria dei buchi neri, immaginando DOT comeuna regione isolata dello spazio-tempo. Non è un caso allora che il pubblico si ritrovi dinanzi ad una visione quasi onirica, che segue l’orizzonte degli eventi con un andamento circolare, attraverso la forza gravitazionale del corpo. Ciò permette ai due danzatori, prima distanti, di unirsi poi in un tutt’uno.
Il sound, ideato da Borgo Perez, è sempre più incalzante e i performer sembrano a tratti fluttuare. L’occhio in platea osserva un susseguirsi alternato di luci ed ombre che si riflettono sui costumi dei danzatori e sulla base tonda e luccicante al centro della scena. Sopra di essa Casagrande e Giorgini iniziano un sapiente e affascinante lavoro di contact. I due danzatori, sfidando lo sguardo degli spettatori, si uniscono come per mimetizzarsi e creare con i loro corpi forme astratte, anche attraverso alcuni profondi cambré. Le due figure sono catturate da questa forza spaziale invisibile, che permette loro di seguirel’orbita ininterrotta con la medesima spinta, annullando per sempre le distanze.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Portare per la prima volta sulla scena, in uno spettacolo di poco più di un’ora e mezza, un romanzo contemporaneo non è un compito facile: il rischio che le parole prendano il sopravvento sulla rappresentazione o di non riuscire a condensare in maniera credibile, o quantomeno godibile, una trama troppo articolata è sempre dietro l’angolo. Ci riescono invece con grande semplicità il regista Nino Sileci e le attrici Valeria D’Angelo e Silvia Ponzo, della compagnia Opificio03, dando vita sul palco del Teatro Vittoria di Roma Teresa degli Oracoli, spettacolo tratto dall’omonimo libro di Arianna Cecconi e vincitore della rassegna Salviamo i talenti 2024.
Protagoniste della vicenda sono una famiglia di sole donne, una casa buia abitata dagli spiriti del passato e del futuro, la presenza assente dell’anziana Teresa sul suo invisibile letto di morte, dalla cui spalliera pendono i ricordi di tutta la sua vita, e la divinazione.
La capacità di vedere gli eventi, di guardare all’esistenza individuale come a un punto fisso nel disegno del fato, si manifesta in differenti forme in Teresa degli oracoli: è fede religiosa e scienza naturale, superstizione, medicina, costume, interpretazione dei sogni. Ognuno di questi strumenti d’indagine su ciò che ancora non è stato trova in questa storia la propria funzione, ma, infine, è solo su quel letto – posizionato idealmente nel bel mezzo di una stanza in cui il pubblico riconosce il salotto borghese – che i destini di questa strana famiglia tornano ad incontrarsi. Così, mentre attendono la dipartita dell’anziana signora predetta per l’ennesima volta in dieci anni di malattia dal medico, le altre abitanti della casa percepiscono l’approssimarsi della fine di un capitolo della propria vita e si sforzano di tirare le somme, di chiudere i conti con il passato.
Le due attrici danno vita a quattro personaggi molto diversi, in grado di contrapporsi e compensarsi a vicenda: le due giovani figlie di Teresa, ovvero l’intraprendente Irene e la sapiente e pantofolaia Flora, la zia Rusì, religiosa, alcolizzata e xenofoba quanto basta, e la dolce Pilar, superstiziosa badante peruviana. Valeria D’Angelo e Silvia Ponzo riescono a caratterizzare tutte e quattro le donne quasi solo grazie alla recitazione e a pochi, semplici trucchi ingegnosi: un’alternanza di toni e accenti diversi per fingere lontane conversazioni dietro le quinte, qualche variazione nell’atteggiamento del corpo e il cambio di appena un capo d’abbigliamento. In questo modo spettatori e spettatrici si scoprono d’improvviso parte di una famiglia numerosa e immaginaria, che esiste solo nei corpi di due interpreti.
Gli affetti e la casa d’infanzia delle due ragazze si rivelano, però, dei rifugi troppo fragili in confronto alla società e a tutte le sue malattie. Anche all’interno di questo universo tutto femminile non sembra possibile sfuggire né alla violenza delmondo né alla prevaricazione maschile, che getta la sua lunga ombra fino ai piedi del letto di morte di Teresa. Mentre Irene cerca di scoprire da dove provengono i sogni che la tormentano e scava nel suo rapporto conflittuale con il padre, Flora ricorda il triste naufragio del grande amore della sua vita e Rusì si rende conto di aver lasciato – tanti anni prima, ai tempi della guerra – una parte di sé nella sua lontana Genova. Come intuisce la saggezza peruviana di Pilar, per interpretare in maniera corretta gli oracoli, per definire la propria direzione, le protagoniste dovranno prima chiarire qual è e da dove viene il loro “susto”, lo spavento, il trauma che ha fatto loro perdere quel pezzetto di anima che ancora le attende, dimenticato da qualche parte.
Nata a Roma nel 1998, si laurea in Lettere all’Università di Tor Vergata e Filologia Moderna alla Sapienza, occupandosi di letterature comparate e viaggiando per studio e lavoro in Europa. Frequenta il master in Critica Giornalistica dell’Accademia Nazionale Silvio d’Amico. Appassionata di poesia e di parole, scrive per diverse testate e blog di argomento teatrale e culturale, accordando un interesse speciale alla drammaturgia contemporanea e agli studi di genere.
È giunto alla VI edizione il Festival InDivenire, il progetto di Alessandro Longobardi dedicato agli studi teatrali che si avviano a diventare spettacoli completi. Sedici in totale sono i lavori selezionati dalla direzione artistica di Giampiero Cicciò e andati in scena allo Spazio Diamante di Roma tra il 28 aprile e l’11 maggio 2025. La nostra redazione, all’interno di questa ampia proposta, ha scelto di dedicare l’attenzione a tre studi: Autogrill della compagnia Focus_2, Il tempo di una sigaretta di Limina e Delizia di Poveri Comuni Mortali.
Autogrill si apre in medias res con il racconto di una serata che già si preannuncia sfortunata, di un viaggio in automobile, dei capricci di una bimba e dei tentativi della mamma di calmarla. La scena appare abbastanza quotidiana, familiare per il pubblico, fino a che la protagonista, all’inizio interpretata da Eleonora Gusmano, non chiarisce di essere di ritorno da una trasferta di ultras del Toro a cui lei e suo marito hanno deciso di portare i loro figli.
Si apre così uno squarcio su un mondo ai più sconosciuto, quello delle tifoserie estremiste osservate da un’inedita prospettiva femminile, spesso sottovalutata in questo mondo. Ma infiniti sono i metodi escogitati dagli esseri umani per sentirsi, in un’esistenza fatta di responsabilità e omologazione, diversi, vivi, appassionati fino alla follia e parte di un gruppo che condivide i propri slanci. I tifosi ultras come lei, spiega la donna, trovano la loro ragione di vita nello scontro fisico, tanto che la vittoria e la sconfitta della propria squadra passano in secondo piano. E in una società che considera la violenza come appannaggio dei soli uomini, le tifose non sembravo invece estranee a questo bisogno di contatto.
Che il vero tema sia appunto il confronto tra i generi appare chiaro fin dai primi minuti dello spettacolo – ancor prima che si entri con l’immaginazione nell’autogrill che dà il titolo alla pièce e dove la vita della donna cambierà – dalla presenza di una seconda attrice sulla scena, Ania Rizzi Bogdan, che si alterna con Gusmano nei panni della protagonista. Le due interpreti prestano il volto anche alla migliore amica di questa, Valeria, capo delle donne ultras, riammessa allo stadio dopo anni di daspo. Il continuo, ritmato rimpallo di identità fra Gusmano e Rizzi Bogdan è forse l’elemento più riuscito nella scrittura di Nicolò Sordo, premiato come Miglior Autore di questa edizione del Festival InDivenire. La relazione simbiotica tra le due voci presenti nel testo originale, resa con grande precisione dalle due attrici, restituisce la forza lacerante del trauma subito dal personaggio principale all’interno della stazione di sosta, una brutale violenza sessuale ad opera di un tifoso della squadra avversaria.
Mentre lo scontro tra le due fazioni viene rappresentato, secondo l’interpretazione logica ultras, anche come una lotta di classe fra borghesia e proletariato, la ricerca di vendetta della protagonista si concretizzerà in una richiesta di aiuto che andrà al di là della legge e degli schieramenti calcistici, appellandosi direttamente alla solidarietà femminile della sua migliore amica.
Il tema della guerra che negli ultimi tre anni ha riconquistato una posizione centrale nel dibattito pubblico non può restare fuori dalle sale dello Spazio Diamante neanche in occasione di questo festival. Lo studio Il tempo di una sigaretta, a cui va la Menzione Speciale della Giuria, non si propone, però, di raccontare tanto la crudeltà e la smania distruttrice del conflitto armato, non si sofferma sulla rappresentazione delle inaccettabili brutalità né indugia in quella pornografia del dolore che rischia di far sentire impotenti e di giustificare l’inazione di fronte al reale. I personaggi dello spettacolo – generali, soldati, vittime civili – vengono piuttosto presentati in quei brevi momenti di quotidianità tragicomica che la guerra ancora concede loro, alle prese con i loro dilemmi morali e gli esami di coscienza.
Nei primi minuti di questo studio le spettatrici e gli spettatori sono introdotti in una base militare facente capo al personaggio di Alessandro Burzotta, che dalla sua scrivania guarda ormai alla guerra e al destino dei propri uomini con indifferenza, come spiega al suo sottoposto interpretato da Marcello Gravina. Incarica perciò un povero contabile imbelle e inadatto, il soldato Bonavita, da lui considerato alla stregua di carne da macello, di consegnare un messaggio misterioso a uno degli uomini di stanza in una città distrutta. Ivan Graziano, nei panni di Bonavita, scopre che tra le macerie del centro abitato la vita si ostina a rinnovarsi. Qui incontra infatti due amiche, impersonate da Francesca Piccolo e Noemi Apuzzo, ognuna delle quali sembra guidata dalla propria ostinata follia ottimista: la prima continua, infatti, a cercare riferimenti familiari e persone care nella città spopolata e distrutta, la seconda si rifiuta, nonostante le contrazioni, di mettere al mondo la propria bambina in tempo di guerra.
La messa in scena si regge sul contrasto tra il crudo realismo della guerra, che richiama in modo così puntuale la contemporaneità, e la totale alienazione dei personaggi. Il distacco dalla realtà della maggior parte di loro, pur essendo nella drammaturgia un effetto del conflitto stesso, ha però come riferimento scenico la tradizione del teatro dell’assurdo. La riflessione dello studio si concentrerà infatti sull’ironico e triste destino di Bonavita, l’ultima e inattesa vittima di una guerra che si avvia alla conclusione, ucciso dal fuoco amico mentre si accinge a consegnare il messaggio di pace.
Il terzo spettacolo di cui si è deciso di parlare è invece Delizia, premio alla Miglior regia per Gemma Costa. Il titolo richiama il dipinto Il giardino delle delizie di Borsch, dove veniva rappresentato il paradiso terrestre, ma è anche il nome del pianeta scoperto dalla scienziata, interpretata da Carlotta Solidea Aronica, protagonista di questa storia. Insieme a lei anche il personaggio di Michele Breda, un vecchio compagno di scuola della donna, un ragazzo confuso e all’apparenza sperduto che si è offerto di affrontare il viaggio di migliaia di anni per raggiungere Delizia pur di dare forse una svolta alla sua esistenza. La scienziata verrà ibernata e partirà con lui alla volta del pianeta, la cui maggiore attrazione sembra essere un semplice albero.
Che si tratti – anche – di una storia d’amore ce lo rivela lo stesso protagonista, che ancora prima della partenza chiede con sarcasmo alla sua scontrosa compagna di smettere da subito di battibeccare per arrivare a rivelarsi più in fretta la loro reciproca attrazione, come in film hollywoodiano. Ma è solo l’atmosfera sognante e rarefatta di Delizia, resa dalla qualità del movimento degli attori che simula l’assenza di gravità, a trasformare questa coppia improbabile una contemporanea, fantascientifica versione del mito di Adamo ed Eva.
Non è tanto la scoperta del nuovo mondo il tema centrale dello spettacolo, scritto dai due stessi attori, quanto piuttosto il viaggio compiuto dai due protagonisti, e per estensione dall’umanità tutta, alla scoperta della propria natura e degli altri, quel percorso di autoconsapevolezza dell’umanità tutta così ben rappresentato anche nella Genesi. Questi novelli progenitori si interrogano a vicenda su cosa li abbia portati a partire, su quale sia la ragione ultima o la causa scatenante dei loro comportamenti e, grazie alle domande dell’altro, imparano a conoscere se stessi. Dopo aver compreso come muoversi insieme, come un unico corpo, sul suolo di questo nuovo pianeta, i due ragazzi scovano l’albero il cui unico frutto è un pulsante cuore umano. Lo spettatore li lascia così: lo studio si conclude con questo moderno Adamo che, invertendo i ruoli biblici, vorrebbe cogliere il frutto, mentre Eva tenta di farlo desistere. Il finale è sospeso, il pubblico dovrà aspettare di vedere lo spettacolo completo per conoscere il destino di Delizia e dell’umanità.
Nata a Roma nel 1998, si laurea in Lettere all’Università di Tor Vergata e Filologia Moderna alla Sapienza, occupandosi di letterature comparate e viaggiando per studio e lavoro in Europa. Frequenta il master in Critica Giornalistica dell’Accademia Nazionale Silvio d’Amico. Appassionata di poesia e di parole, scrive per diverse testate e blog di argomento teatrale e culturale, accordando un interesse speciale alla drammaturgia contemporanea e agli studi di genere.
Articolo realizzato da Corrado Passalacqua, Elisa Furiosi, Giusy Cirillo, partecipanti al workshop Theatertelling – Futuro Roma, nell’ambito del Festival internazionale di danza e cultura contemporanea Futuro Roma.
In The Day When I Chose to Be a Daughter, DaCruDanceCompany affida a un viaggio coreografico intimo e viscerale, le tensioni profonde legate alla costruzione della propria identità e alle dinamiche familiari. Marisa Ragazzo e Omid Ighani firmano una performance che mescola danza urbana e contemporanea. Corpi disarticolati, attraversati da scariche, l’uso della tecnica del popping, ma anche del locking e del floor-work. Il dato di partenza, però, sembra essere soprattutto quello biologico: camminate, gesti, tocchi. L’estetica è sempre l’esito di un montaggio di sensazioni, mai il punto di partenza. La comunicazione non è strettamente simbolica, ma un richiamo agli istinti del corpo spettatoriale, un sentire trasferito e quindi condiviso, che induce a definire gli orizzonti della rappresentazione attraverso il proprio sguardo.
Uno sguardo narrativo: Nella danza di Elda Bartolacci, Davide Angelozzi e Graziana Marzia una serie di quadri che, come fotogrammi interiori, raccontano le tappe della crescita: la dipendenza dai genitori, la ribellione, l’allontanamento e, infine, il ritorno. L’atmosfera intima si fonde con l’universalità del tema: essere figli non è solo un dato biologico, ma una scelta identitaria che si rinnova (o si rifiuta) nel tempo. Scenografia e luci essenziali sostengono una narrazione danzata che si sviluppa tra contrasti: tensione e abbandono, contatto e distanza, silenzi e rotture. Il corpo diventa rifugio e costrizione, il luogo in cui si inscrivono le influenze genitoriali che modellano la personalità e lasciano tracce nella postura e nella mente, nel gesto e nella relazione con gli altri. In particolare, la conflittualità con la figura del genitore emerge non come frattura sterile, ma come momento necessario nel processo di emancipazione. L’allontanamento dalla casa – intesa come nucleo sicuro ma anche spazio limitante – è visto nei movimenti decisi, a tratti spezzati, come se il corpo stesso resistesse a quel distacco. Ma è proprio nell’abbandono di quel luogo che inizia la costruzione consapevole di sé, con tutte le sue incertezze e contraddizioni. La danza qui non è mai solo esecuzione, ma ricerca, provocazione, perdita di equilibrio, ripresa. Il ritorno – o meglio, la memoria del ritorno – si carica di malinconia e tenerezza. Non si torna mai uguali, e forse non si torna mai del tutto. Ma l’attaccamento rimane, trasfigurato, nella dimensione del ricordo, che si fa corpo e movimento. La musica amplifica questo flusso di emozioni, incorniciando ogni gesto come fosse parte di una serie di fotografie vivide.
Uno sguardo metaforico: un percorso che, partendo da un’identità maschile di base, sceglie di evolversi verso un’identità femminile o non binaria. Anche il titolo, in questa interpretazione, richiama fortemente questa tematica: “Il giorno in cui ho scelto di essere una figlia”. Quattro elementi presenti in scena a sostenere una simile prospettiva: un cardigan rosa (il colore culturalmente associato al genere femminile), un foulard (simbolo di eleganza femminile, nel contesto europeo del Novecento), una borsetta a mano (emblema fortemente collocato nell’identità di genere femminile) e una sedia (attesa, staticità, ruolo imposto o posizione sociale). Ancora, musica e voce fuori campo che evocano il concetto di “two is better than one”, come a suggerire che due identità di genere possano coesistere armonicamente in un corpo che si riconosce altrove, oltre la dicotomia tradizionale. Un messaggio che sembra legittimare e valorizzare la complessità del sentire e dell’essere. Sul finale, i tre i performer assumono una posizione fetale e ovarica, un ritorno all’origine, un desiderio di protezione e di rinascita. Una riflessione sulla complessità dell’identità, e abbandono della verticalità dell’identità imposta.
Uno sguardo esperienziale: oltre un racconto, una relazione familiare. Tre corpi, due femminili e uno maschile, appaiono come il nucleo. Nucleo che si fonda su una prossimità fisica: il cozzare, convivere, confondersi dei corpi. Non dei ruoli definiti ma le dinamiche di una famiglia: quelle esplosive del litigio, quelle dolci dell’intimità, quelle necessarie del supporto. Si delinea via via un triangolo Madre-Padre-Figlia. Una delle due danzatrici indossa un cardigan, un foulard e una borsetta. Viene introdotta una sedia. Nel legame con l’oggetto, nel dato fisico, cioè la prova innegabile di una presenza, passata o attuale, il corpo si trasforma. Non sorprende come il movimento di lì in avanti sia sempre più caratterizzato da una contrazione del centro del corpo, come un continuo incassare. Il ruolo materno, femminile, troppo spesso caratterizzato da un dolore che va sopportato, da un destino inevitabile. Anche la figura paterna pare volutamente standardizzata. Un modo di essere padri legato alla responsabilità di tenere in piedi quella famiglia che, portando il suo nome, su di lui deve reggersi. E quando questo sostegno non è atto d’amore, si rivela trappola.
Dopo questa assunzione di ruoli, una messa alla prova. Per mischiarsi, indagarli e infine trasferirli, forse un po’ cambiati. Si alternano ancora momenti di accordo del movimento, anche se più rari, a movimenti di puro contatto o di sfogo nevrotico. Tocca nel profondo la maniera di vestire di ricordi gli oggetti, quando la presenza fisica non è più possibile. Poter vivere solo nei ricordi altrui a cui tutti siamo destinati. Infine, il ritorno all’universale: l’uovo, la cellula, il feto. The Day When I Chose to Be a Daughter un’opera sulle relazioni interpersonali, una riflessione sul significato della crescita anagrafica ma soprattutto interiore. È una provocazione poetica e potente a scandagliare il nostro io alla ricerca della sua individualità. Un invito a venire a patti con la nostra persona e assolvere finalmente il genitore (inteso come archetipo, al di là di ogni situazione particolare). Una danza che non cerca risposte, ma abita con sincerità le domande.
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