Lo spettacolo Se questo è un uomo diretto e interpretato da Valter Malosti, come ogni rilettura di un testo fortemente connotato e identitario come l’opera di Levi, crea sempre la necessità di riaprire nodi dialettici. Nonostante l’allestimento risalga al 2019 il lavoro sopravvive e continua a permanere nel tentativo di dare vita ad alta voce a questo microcosmo. L’universo del testo è complesso e controverso, scevro da ogni tentativo di pietà o solidarietà, ma quanto di più lontano dalla fredda restituzione documentaristica, è un romanzo prima di essere una testimonianza, che tiene ancorato il lettore alle pagine, trascinandolo Sul fondo e facendolo risalire nell’incresparsi delle onde del canto di Ulisse.
Come si costruisce uno spettacolo che abbia tutti questi tasselli al suo interno? Che permetta al delicatissimo e mai casuale linguaggio di un chimico come Levi di attivarsi sulla scena senza perdere la sua energia centrifuga? Se infatti ormai il rapporto tra romanzo e teatro è una questione rodata e profusamente discussa, questo progetto dimostra come la riflessione sui meccanismi vada ciclicamente rinnovata. Nonostante stiamo parlando di un binomio metabolizzato, il tema continua ad aprire interrogativi importanti, uno fra tutti quello del cambio generazionale dei lettori.
Le repliche svoltesi recentemente all’Arena Del Sole hanno avuto la fortuna e il merito, forse grazie ai lungimiranti insegnanti, o al fascino senza tempo che Primo Levi suscita in ambito didattico, di aver riempito la sala di studenti, che con i loro nuovi occhi, hanno reinventato di nuovo Se questo è un uomo, inserendolo nel loro mutato quotidiano, seminando e lasciandosi concimare. Lo stesso Levi confessò in una conversazione agli inizi degli anni 80 con Anna Bravo e Federico Cereja: “Ho l’impressione che il mio linguaggio sia diventato insufficiente, di parlare di una lingua diversa, E poi devo dire ancora questo, mi ha scottato una delle mie ultime esperienze in cui due ragazzi, mi hanno detto a muso duro “perché venite ancora a raccontarci queste cose dopo quarant’anni, dopo il Vietnam, e i campi di Stalin, dopo la Corea dopo tutto questo, perché? E io devo dire mi sono sentito incastonato, messo alle corde, fermo nella mia condizione di reduce a tutti costi.”
Forse è proprio qui che si pone la nuova sfida che il romanzo pone al teatro: restituire la forza sovversiva di una voce letteraria fuori dal coro, una sfida che scardina qualsiasi tentativo di incastonare delle immagini, e per questo doppiamente ambiziosa e di difficile raggiungimento. In questa intervista abbiamo cercato di riflettere sui meccanismi attivatori della scena, sull’importanza di risvegliare il genius loci del territorio, ma soprattutto sulla ricchezza delle differenze.
Se questo è un uomo è un romanzo polifonico, fatto di lingue e modalità espressive diverse, filtrate attraverso la macro-voce dell’autore, in questo il teatro è uno strumento privilegiato in quanto funziona da attivatore di meccanismi, in che modo la messa in scena cerca di restituire questa polifonia?
L’innamoramento per questo testo è nato proprio dall’aspetto linguistico. Dopo aver fatto un lavoro su Levi e la chimica, sempre con la collaborazione di Domenico Scarpa, ho riletto Levi dopo molto tempo, in particolare Se Questo è un Uomo l’avevo letto ai tempi della scuola, e leggendo a voce alta il pezzo del laboratorio di chimica, quando lui subisce l’esame in Lager, mi sono reso conto del grande potenziale di questa lingua, in cui appunto, come per tutti i grandi autori, in cui non c’è solo il contenuto, ma anche il suono, che dà altri sensi a ciò che si dice. Levi compie una doppia azione da una parte il suono della fabbrica di morte, delle lingue della Babele, e dall’altro il suono interiore, che leggendo il testo rischia di venire meno fuori, mentre a voce alta, come Dante, che è il suo riferimento costante, incredibilmente prende un altro suono, ma me ne sono accorto solo leggendo il testo ad alta voce appunto, così una decina di anni fa riprendendo in mano il romanzo ho deciso di fare questo spettacolo.
Parte da questo innamoramento linguistico dunque e per quanto riguarda i registri, avendo scelto una recitazione all’indietro, che non utilizza nessun virtuosismo teatrale, se non un lavoro molto sottile, tutta la parte sinestetica di suono, luce, video aiuta lo spettacolo a cogliere questo cambio di registri molto potente e riconoscibili. C’è l’io narrante, molto curioso, che parla di sé mentre è dentro il campo, sembra quasi una soggettiva da dentro il campo; l’io narrante che parla di quando era più giovane e l’io narrante che parla dall’oggi, questo vero oggi, una specie di trinità molto difficile da rendere; c’è l’aspetto legato alla collettività, molto teatrale, del voi presente nella poesia in esergo, che in qualche modo è un voi che pone domande a chi ascolta e legge e infine c’è un noi, che prende tutti sé e la collettività dei cittadini.
In più tutta la parte interiore nascosta che brucia sotto questa ragione potente, per cui l’emozione è controllatissima, ci sono poi delle zone, note a chi ha letto I sommersi e i salvati, zone di riflessione filosofica e antropologica. Inoltre vi è un altro aspetto linguistico legato alla poesia, questo grande riferirsi a Dante, leggendo emerge, con questi endecasillabi disseminati nel testo in prosa, fra l’altro molti capitoli di Se questo è un uomo, ma anche La tregua prendono vita da poesie che lui scrive appena arrivato al campo, quasi in sintesi i capitoli che poi si leggono.
Ricollegandomi alla poesia in esergo al romanzo (Shemà, 1947 n.d.r.), Levi sottolinea l’importanza della dimensione dentro/fuori, dimensione che rimane uno degli elementi più impattanti per il lettore, c’è la volontà di restituire questo binomio con l’impianto scenico?
Si, il campo di concentramento si può capire solo attraverso la casa, le famose tiepide case, per questo quella poesia è importante, e credo parli anche di sé, infatti ne La tregua traspare chiaramente: quando lui torna in una casa accogliente, col calore degli amici in un letto che lo fa sprofondare in un incubo, viene fuori questo doppio aspetto: per Levi il lager è sempre esistito e forse per lui esiste solo quello, ma quando è dentro al lager l’incubo più grande è quello di raccontare ai suoi amici e sua sorella, quello che accade al campo e nessuno gli creda, quindi una specie un incubo quotidiano e feroce, quindi questo aspetto della casa è importante per capire il campo. E da lì in poi molto spesso viene fuori nel romanzo questo, ma serve anche a noi per capire che lui è una persona comune, nonostante sia un testimone gigantesco, quello che è successo a Levi è successo a una persona comune.
Nel 1977 Enzo Biagi chiese a Primo Levi in un’intervista “Come nascono i Lager” e lui rispose “Facendo finta di niente”, vorrei farle oggi la stessa domanda.
Assolutamente una risposta brillantissima. Quando recito questo testo, che aveva debuttato nel 2019, in un periodo molto problematico per i migranti, ma non solo, ci sono dei cortocircuiti che si aprono sulla contemporaneità e questo rende il libro universale. Fra l’altro il pezzo che noi aggiungiamo all’inizio dello spettacolo, che è l’introduzione che lui scrive per l’edizione scolastica di Se questo è un uomo, parla della paura dello straniero che è un’infezione latente, che piano piano si trasforma nella paura e nell’ipotesi di lager, poi arriva il lager, e facendo finta di niente non ci si accorge della sua nascita.
Le sue due direzioni in ambienti teatrali così diversi (Bologna e Torino n.d.r) la avvicinano all’esperienza da direttore di teatro che fu di Luca Ronconi, che ha sempre parlato della necessità di un rapporto organico con il territorio. Vorrei dunque chiederle quanto è importante questa rapporto con il territorio?
Sono partito proprio da quello, ovviamente sono passati ancora pochi mesi. Penso però che a Bologna sia molto evidente quel poco che abbiamo fatto: a dicembre siamo in un chiostro all’aperto, Bologna per me è così, una città che deve lasciare le porte sempre apert. Una caratteristica proprio della città per accogliere persone che non entrerebbero a teatro altrimenti. Trovo importante non fissarsi su un solo modo di fare teatro, è altrettanto civile e sociale capire un romanzo come questo o la tragedia antica, tanto quanto fare lavoro con la cittadinanza, per me il teatro è partecipato a prescindere.
L’ho scritto anche nel bando, io ho lavorato molto con Ronconi, nonostante quello che si diceva, lui era molto attento alle città, basti pensare quello che ha fatto a Milano e a Roma quando ha fatto il pasticciaccio, quando l’ho conosciuto la prima volta io ho lavorato su Artaud, lui mi aveva scelto per fare il laboratorio di Narni, ma io non sono diplomato, non ho fatto una scuola, mi aveva visto, ero stato contattato per andare a questo seminario ed è così che è nata la nostra collaborazione in maniera ibrida.
L’altro obiettivo che mi propongo è questa idea civile di testi importanti restituiti in maniera forte, i tempi sono cambiati, ora non è possibile proporre la dittatura di un direttore regista: mi è stato molto utile in questo senso dirigere la scuola per attori a Torino, lì ho capito che era importante considerare la ricchezza delle differenze come dico io, sei costretto visto che hai a che fare con il futuro di molte persone, a dare una prospettiva più ampia possibile, rappresentare l’esistente, fare una cartina tornasole dell’esistente. L’unica cosa che cerco di tenere presente è la qualità, che lo spettatore rimanga colpito dalla qualità della proposta. C’è bisogno che il pubblico si fidi di un luogo, come in un cinema d’essai.
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Nata a Pescara nel 1995, diplomata al Liceo Classico G.D’Annunzio di Pescara nel 2014, consegue la doppia laurea in Filologia Moderna e Études Italiennes all’interno del progetto di codiploma fra l’Università la Sapienza di Roma e La Sorbonne Université di Parigi con una tesi dal titolo La Nuit des Rois di Thomas Ostermeier alla Comédie-Française: per una definizione di transnazionalità a teatro. , svolgendo inoltre ricerca archivistica presso la biblioteca della Comédie-Française. Scrive per diverse testate online di critica e approfondimento teatrale, occupandosi soprattutto di studiare gli intrecci fra i linguaggi e le estetiche dei vari teatri nazionali europei.