Bernini, il potere e la seduzione dell’ellisse

Dic 19, 2024

Bernini e il suo rapporto con il potere, la sua teatralità e la sua arte, figlia del ‘600, secolo per eccellenza dell’oscillazione ellittica, capace di trascinare la prospettiva fuori dal suo centro e sdoppiarla, in grado di parlare all’uomo di una duplicità da cui imparare a guardare a se stesso e al mondo. Lettere a Bernini, monologo del regista Marco Martinelli, dato alle stampe per Einaudi a novembre e in scena al Teatro Rasi di Ravenna dal 3 al 15 dicembre, racchiude in poche decine di pagine temi cari al regista, regalando però al pubblico che segue il Teatro delle Albe aspetti inediti della sua produzione drammaturgica.

Innanzitutto un testo pubblicato, per la prima volta, prima delle prove e quindi diverso rispetto alla versione andata in scena, che risente inevitabilmente della entelechia scaturita dal rapporto col testo dal vivo, sul palco. 

In secondo luogo la sua genesi, raccontata dallo stesso regista all’incontro del 7 dicembre scorso al Rasi di Ravenna con Mauro Bersani, consulente per la casa editrice torinese. Lettere a Bernini prende infatti le mosse nel 2015 con la visita di Martinelli, insieme ad Ermanna Montanari (co-ideatrice dello spettacolo), nella chiesa di San Carlino alle Quattro Fontane a Roma, progettata da Francesco Borromini, rivale di Bernini. 

Un edificio considerato tra i capolavori dell’architettura barocca, che “pur con le sue piccole dimensioni, costringe l’osservatore a guardare in alto, verso la volta, aprendosi così verso il mistero in cui siamo immersi”. 

Il regista, affascinato, decide di approfondire la conoscenza attraverso una considerevole quantità di letture che tuttavia lo conducono, paradossalmente, proprio verso Gian Lorenzo Bernini, l’acerrimo nemico di Borromini. 

Due geni e due personalità antitetiche. L’uno arrogante, dispotico, scaltro e capace di ingraziarsi le simpatie dei potenti, in grado di sopravvivere a cinque papi e di procurarsi le loro commissioni. L’altro introverso, triste,  insofferente alle regole dell’architettura e morto suicida. 

Un testo, quindi, partito esso stesso da una polarità, da un’oscillazione che interroga l’artista su quanto sia disposto a vendersi per potersi esprimere. 

Così, se all’inizio, racconta Martinelli, avevo pensato ad un dialogo tra i due, poi Bernini, come un vampiro, ha reclamato in modo prepotente lo spazio. Perché è accaduto? Perché Bernini è il teatro stesso. Eccolo quindi sul palco, interpretato dall’attore Marco Cacciola, che con una straordinaria padronanza vocale e scenica, dà voce al Bernini corrotto e venale, che si vanta della propria sfrontatezza e sbeffeggia il Borromini paragonandolo a un corvo. Frasi brevi, dal tono concitato, che alternano il colorito dialetto napoletano alla lingua italiana, che si susseguono ad un ritmo serrato e incalzante, senza stacchi predisposti. 

Una scelta, come Bersani ha evidenziato, che richiama il Pasticciaccio di Gadda, altra opera in cui è evidente “come l’oscillazione di questi due fuochi, il dialetto e l’italiano, si adatti in modo particolare al teatro che non dà risposte, ma serve a causare incidenti di percorso tra due posizioni possibili”. Lo stesso monologo conosce frequenti intervalli in cui si inserisce un narratore esterno, che racconta gli avvenimenti in terza persona, in quella che Bersani ha definito amalgama polifonico. Forse Bernini stesso, depurato dall’acredine della sua invettiva contro l’intagliatrice di pietre che lo cita davanti ai cardinali per non essere stata retribuita equamente. 

Il lettore/spettatore è quindi  di fronte al Bernini furioso che tormenta il suo modello di undici anni, preso dalla strada per posare come angelo con la corona di spine, che impreca contro San Carlino, che definisce cuillon il sovrintendente Colbert, che si vanta di saper stare al mondo, che “parla e disegna (… ) veloce come una lucertola”. Ma emerge anche un altro Bernini, mentre parla della sua lotta per rendere molle la pietra, per farla diventare carne viva, del suo rovello per giungere ogni volta a catturare la luce. Per poi finalmente riconoscere la grandezza di Borromini, col suo “cielo di cerchi e croci di stucco”, quando viene a sapere che è morto. 

In questa trascinante traiettoria ellittica, le prove del Coviello, farsa pensata dal Bernini per Sua Santità, in un inquietante spostamento dal Barocco all’età contemporanea, in cui Cacciola-Bernini apre le gigantesche ante delle scatole di legno sul palco e compaiono le immagini video del concerto che Wilhelm Furtwängler diresse nel 1942 alla fabbrica dell’AEG in Germania, in pieno delirio hitleriano. La musica è di Wagner, gli operai guardano Bernini, sulle immagini la scritta in latino Hoc theatrum hic labor est (“questo teatro è qui per lavorare”), forse proprio questo l’incidente tra le due visioni possibili su cui la drammaturgia di Martinelli vuole richiamare l’attenzione.

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