Quando il buio in sala allo Spazio Diamante inghiotte le facce del pubblico, l’umanità lì fuori sembra perdere consistenza per addensarsi di nuovo sul palcoscenico, dove appare tra le ombre il corpo seminudo di Michele Schiano di Cola. Nella pièce diretta da Teresa Ludovico, l’attore interpreta Barabba, sobillatore zelota del I secolo che verrà amnistiato per volere della folla al posto di Gesù Cristo. Antonio Tarantino ci racconta cosa succede prima dell’episodio evangelico quando Barabba è ancora solo un condannato in attesa dell’esecuzione della pena capitale, intrappolato fra le sbarre di un’impalcatura che materializza la sua prigione.
Barabba impersona, l’umanità tutta, incastrata come da tradizione platonico-cristiana, nella propria stessa carne. Indimenticabile è il clangore delle membra dell’attore che colpiscono quel carcere metallico della materialità, traslando nel corpo dello spettatore quella costrizione, il freddo sulla pelle sudata.

Le parole del drammaturgo Antonio Tarantino risultano spesso sovrabbondanti in questa messa in scena tutta fisica della sua opera, dominata dall’intensità penetrante della recitazione di Michele Schiano di Cola, dalla sua gestualità appassionata e da una regia che mette in risalto la sua corporeità. La profondità delle riflessioni dell’autore sul potere e sulla natura umana sfugge spesso, mentre le battute sono rovesciate dall’alto come una valanga sul pubblico, travolto dall’inarrestabile fiume di parole di un Barabba sovraeccitato e, forse, folle.
Nonostante questo del protagonista unico che dà il nome all’opera è possibile delineare con precisione la personalità, segnata dalla doppiezza. Barabba, arrestato come rivoltoso per aver fomentato una ribellione contro i romani in cui un soldato è rimasto ucciso, diventa attraverso la lente di Antonio tarantino un esaltato, un rivoluzionario e un terrorista, un fanatico e al tempo stesso un cinico criminale, violento e opportunista. Questo antieroe raccoglie la simpatia del pubblico dipingendo se stesso come un libero pensatore o un perseguitato politico, ma solo per disperderla un minuto dopo con un commento sgradevole o un insulto gratuito che svela il suo qualunquismo.
Sull’ambivalenza di questo personaggio, il cui fato è infatti in bilico tra quello glorioso del martire e quello del mafioso latitante, si gioca l’intero monologo, a partire dalla stessa lingua utilizzata dall’autore. Tarantino permette al suo personaggio di essere tutto e niente, di parlare in rima come un poeta, di arringare come un retore e come un bestemmiatore, di parlare con tutti gli accenti delle regioni italiane e dei personaggi televisivi e politici, di diventare in scena Berlusconi e poi Mussolini. Barabba passa da un registro linguistico all’altro con la stessa velocità con cui smette di lamentarsi della propria condizione miserabile e della crudeltà dello stato e inizia a rivendicare i propri crimini, mostrando scarso interesse nei confronti della propria morte imminente.

Tuttavia, la reale, profonda duplicità della sua figura si manifesta solo nel momento in cui inizia a riflettere ad alta voce sul suo nome completo: Gesù Barabba. Se è vero che nomen omen e che nel nome si può leggere il destino di una persona, il delinquente non può dimenticare che quel bar-abba in ebraico vuol dire figlio del padre e che un altro Gesù figlio del Padre si trova in quei giorni rinchiuso nello stesso carcere.
Sebbene Barabba si prenda gioco fino alla fine di quel povero spiritualista disposto a morire per un ideale, quello di cui ha sentito le grida mentre veniva frustato nella stanza a fianco, questa straordinaria omonimia non può fare a meno di turbarlo. Teme, infatti, prima di essere scambiato proprio con quel predicatore, che avrà post mortem la fama che spetterebbe a lui, e, successivamente, che Gesù venga liberato al posto suo. Per un momento anche lo spettatore contempla queste possibilità: finali che pervertirebbeo la vicenda che forse più di tutte ha condizionato la cultura occidentale.
Questo, però, non succede, perché la verità, il cammino dell’uomo sulla terra, è, su ammissione dello stesso zelota, unica, assoluta, incontrovertibile, anche quando sembra nascosta dall’equivoco. Se Cristo, Dio fatto uomo, è il peccatore che deve morire sulla Croce come capro espiatorio per cancellare le colpe dell’umanità, Barabba – come tutti i corrotti esseri umani – è lui stesso agnello innocente, figlio di Dio che merita di essere perdonato e amato.
Crediti:
di Antonio Tarantino
regia Teresa Ludovico
spazio scenico e luci Vincent Longuemare
con Michele Schiano di Cola
cura della produzione Sabrina Cocco
assistente alla regia Domenico Indiveri

La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.