Back to the future, festival dedicato ai temi e linguaggi del contemporaneo è una realtà che parla di riappropriazione di un futuro negato e di riformulazione di linguaggi per tornare a parlare di progettualità a lungo termine, senza però rinunciare ad un margine di incertezza costruttiva e processuale.
Ne abbiamo parlato con Josephine Magliozzi, coordinatrice dei processi partecipati e membro di Ecate, che dal 2009 si occupa di creare progetti di community engagement per l’attivazione della cittadinanza. Abbiamo parlato di recupero, di riscoperta della stratificazione delle periferie e di come i giovani milanesi si sono riappropriati di una definizione nuova di futuro e socialità, addentrandosi tra le maglie di un territorio stratificato e complesso come il Quartiere Adriano.
Per prima cosa vorrei che mi raccontassi la genesi del progetto, cosa innesca di diverso una co-creazione come quella del festival Back to the future?
Let’s keep in touch che è l’azione di Back to the future è stata sperimentata per la prima volta dall’associazione Ecate nel 2019, la creazione di un progetto specifico su un bando del comune di Milano, un bando sperimentale sui quartieri della città. Il municipio I di Milano aveva individuato come problematiche alle quali far fronte la mancanza di socialità nel centro, nel cuore della città.
Noi avevamo risposto creando un’azione che potesse essere un processo di co-creazione artistica ,che coinvolgesse però altre persone, un gruppo di under 25 che creasse relazioni all’interno del municipio I che è il centro di Milano, in cui si trovano tutte le istituzioni come il Duomo o la borsa, ma che al tempo stesso producono un senso di poca accessibilità, di poca socialità. Da quello spunto siamo partiti per ricreare un progetto simile sul quartiere Adriano che è una realtà molto particolare, all’interno della quale si svolgerà specificamente Back to the future.
Come è stato accolto il progetto dagli autoctoni del quartiere Adriano e quale tipo di narrazione è fuoriuscita da questo vostro percorso di dialogo con il territorio?
Quartiere Adriano è un quartiere particolare, perché ha al suo interno una stratificazione molto peculiare di passato e futuro, ed è qualcosa che abbiamo cercato di rintracciare nelle interviste che abbiamo fatto alle persone del territorio. Abbiamo cercato di approfondire questa idea di un quartiere che non c’è più e di un quartiere che ancora non si definisce completamente. Perché Adriano è anche un territorio molto periferico e tra due arterie multiculturali come via Padova e Viale Monza ,ma in realtà è anche una realtà residenziale che storicamente ha avuto la Magnete Marelli la fabbrica intorno alla quale il quartiere si è costruito, della cui identità , tuttavia rimane in realtà anche abbastanza poco.
I simboli di questa struttura industriale in realtà non sono più presenti, Milano è una città che va avanti, cancella e ricostruisce continuamente e questo in Adriano è molto evidente ed è uscito anche fuori dalle interviste. Ci ha stupito l’estrema disponibilità delle persone, che abbiamo incontrato che hanno chiacchierato con chi ha organizzato il progetto attivamente. Abbiamo assistito anche ad una sorta di recupero di alcune occasioni di socialità, di relazione che invece in un primo momento non avevamo intercettato, mentre in realtà esistono, sono presente e sono vive.
I ragazzi e le ragazze che hanno partecipato alla direzione artistica under 30 non sono esclusivamente del quartiere, quindi in verità qualche persona del quartiere si è avvicinata anche dopo, proprio attraverso le interviste. Una constatazione a cui siamo arrivati è che stiamo è che pian piano che gli autoctoni hanno iniziato a vedere la concretizzazione di un progetto si sono avvicinati di più. Perché chiaramente noi raccontiamo, ma vedere la realizzazione è tutt’altro.
Quindi cominciando a vedere i primi ospiti, a capire chi sono, si crea un rapporto che è ciò che vorremmo coltivare per il futuro.
Avete deciso di chiamare le persone coinvolte nel processo di creazione keepers ovvero curatori, il concetto di cura ha un ruolo centrale nel tipo di lavoro che avete fatto, cosa significa cura per te e cosa ha significato nel processo di creazione del festival?
Sicuramente per noi cura è una sinonimo di responsabilità di potere anche, questo è molto evidente all’interno dell’esperienza della direzione artistica partecipata, però è anche proprio la capacità di intendersi all’interno di una relazione, un rapporto che necessita di attenzione, ascolto, rispetto, mancanza di pregiudizio totale. Ecco in questo il percorso di Keep in touch forse ancora di più ha questa investitura. Perché le relazioni sono dei keepers, spesso noi incontriamo le persone intervistate solo durante la restituzione del percorso, nel momento in cui vengono a riascoltarsi, a sentire cosa è stato preso delle loro parole del loro racconto. Il tenere viva la relazione, invitarli a partecipare attivamente è tutto compito dei keepers, per questo li chiamiamo così, perché custodiscono un’esperienza unica. La fiducia che creano è tutta in capo a loro ed è fondamentale.
Quest’anno le keepers sono tutte donne, all’inizio nessuna delle partecipanti aveva mai partecipato ad una performance itinerante in cuffia. Un’esperienza che per noi era ovvia, per loro è stata completamente nuova e questo ha significato che ad un certo punto, che mentre noi spiegavamo, ci siamo resi conto della necessità di far vivere quell’esperienza, per comunicare sullo stesso livello. La fiducia riposta dalle keepers ha permesso loro di lasciarsi accompagnare e esperire qualcosa, anche senza capire inizialmente il risultato.
Back to the future è un titolo interessante perché intende il futuro come qualcosa di cui riappropriarsi, quali evoluzioni vi attendete da questa riappropriazione, come vi aspettate l’avvenire di questo festival?
Noi ci auguriamo innanzitutto che questo progetto non sia un progetto spot e so già che non potrà esserlo, fondamentalmente perché si è creata veramente una comunità, una volontà che sta lavorando con una visione e respiro comune che è quello che vuole essere Back to the future, una moltitudine di sguardi, di voci e di pensieri, che però lavorano condividendo un obiettivo, non è solo quello di creare il festival, ma costruire una volontà e capacità di cooperare e lavorare insieme. Persone che vengono da biografie e esperienze differenti e che però si uniscono, sapendo che quello che c’è oggi nel presente non ci basta e non ci corrisponde totalmente , cercando di immaginare qualcosa che sia un po’ di diverso da quello che è la realtà contingente.
C’è una parola che abbiamo volutamente usato anche se è un po’ anacronistica e passata di moda, ma noi crediamo in un futuro che possa essere anche utopico recuperare quel senso di utopia che vuol dire essere capaci di immaginare qualcosa e quantomeno lavorare nella direzione di renderla possibile, recuperando anche dal passato.
Uno dei luoghi del festival è Magnete, uno spazio di comunità all’interno di un edificio più grande che ospita un RSA, in realtà quello che abbiamo anche pensato quando abbiamo immaginato il progetto era una connessione fra le persone che sono considerate anziane e invece tutta un’altra fascia di individui che questo futuro fanno veramente fatica a vederlo in concreto.
Uno degli incontri si chiami lo spazio dell’errore e il margine del fallimento, i millenials sono considerati attualmente la generazione dei cosiddetti falliti, l’anello mancante che non riesce ad imporre le proprie idee, invece questa progettualità dimostra che c’è una volontà di riappropriarsi del proprio futuro.
È precisamente questo e anche l’accettazione dell’errore, non che tutte le cose vengono benissimo, questa secondo me è una delle lezioni più belle di un processo come questo, alla fine del festival, da intendere come festa, ma anche tante altre cose, ma soprattutto come qualcosa di complesso da organizzare, da gestire, da monitorare e la complessità per forza implica che ci sarà un margine di miglioramento su delle cose che succederanno. Questa in realtà è ciò che è più interessante, andare a capire cosa ha funzionato o no, per quello è un peccato leggere i processi come progetti che abbiano un inizio e una fine, va bene a livello gestionale, ma ci sono dei processi che si innescano e che è giusto che siano difficili da frenare.
Nata a Pescara nel 1995, diplomata al Liceo Classico G.D’Annunzio di Pescara nel 2014, consegue la doppia laurea in Filologia Moderna e Études Italiennes all’interno del progetto di codiploma fra l’Università la Sapienza di Roma e La Sorbonne Université di Parigi con una tesi dal titolo La Nuit des Rois di Thomas Ostermeier alla Comédie-Française: per una definizione di transnazionalità a teatro. , svolgendo inoltre ricerca archivistica presso la biblioteca della Comédie-Française. Scrive per diverse testate online di critica e approfondimento teatrale, occupandosi soprattutto di studiare gli intrecci fra i linguaggi e le estetiche dei vari teatri nazionali europei.