Era molta la curiosità, dopo l’intervista a Barbe à Papa Teatro, di vedere come l’ardore e le peculiarità artistiche, le difficoltà e i vissuti personali si sarebbero tradotti concretamente sulla scena. Nel caso specifico, è stato dentro un accogliente e intimo Spazio Franco – scrigno di creazione contemporanea all’interno dei Cantieri culturali alla Zisa di Palermo – dove la compagnia siciliana ha presentato lo spettacolo conclusivo della trilogia Generazione Y,L’arte della resistenza, di cui si era solo accennato nella scorsa intervista.
Accolti e sostenuti dal calore umano della loro terra, i quattro performer – Chiara Buzzone, Federica D’Amore, Totò Galati, Roberta Giordano, guidati dal regista e autore Claudio Zappalà – hanno raccontato, con umorismo e insieme profondità, i disagi e le consapevolezze della loro generazione, provata da crisi multiformi e alla costante ricerca di una direzione e di certezze, sfuggenti, a cui affidarsi.
Il tema della “malattia mentale” viene subito introdotto e posto all’attenzione del pubblico. Dopo una vera e propria irruzione sulla scena come per prepararsi a una lotta – tra allenamenti in abiti sportivi, urla di sfogo e musica energica – qualcuno sta per crollare, o meglio, per essere attirato al cielo verso il quale tende, sfinito e speranzoso, una mano; cala allora un improvviso silenzio e una domanda lo scuote: si può fare teatro quando si è depressi? Cosa si può fare quando si è depressi?– chiede, affacciandosi al pubblico e interrogando anche il cielo, Federica, che come gli altri compagni, non porta in scena alcuno specifico personaggio se non se stessa e la collettività di cui si fa portatrice. La società e il pensiero ormai automatico del “dover fare” impongono di andare avanti sempre e comunque, ma la risposta dell’organismo sembra la più sana e umana possibile, e chiede solamente di fermarsi e ascoltare.
Lo spettacolo – in cui Barbe à Papa Teatro si mette in gioco nel tentativo di condurne un altro, situato nell’intercapedine tra finzione e realtà – si realizza dunque come una risposta a questa esigenza di pausa e riflessione. I quattro attori/non-attori iniziano così a dialogare; a sostenersi a vicenda sorreggendo, anche fisicamente, chi sta per mollare; a raccontarsi, tra sentimenti di inadeguatezza, sogni e la sensazione di essere perennemente fuori tempo. Ma cosa si sta inseguendo e, soprattutto, per cosa si sta vivendo? Dalle domande sul senso ultimo e personale dello stare al mondo – frapposte tra aneddoti e gag, mentre si ha la sensazione di stare in confidenza come con degli amici – risulta chiara l’identità della compagnia, che si era auto-descritta con l’aggettivo “ambivalente”: leggera come lo zucchero quando viene filato, ma allo stesso tempo tagliente come quando si solidifica dopo esser stato sciolto.
Nel buio delle incertezze, ci sono però dei punti chiari che via via emergono dal fondo: quello di non voler rinunciare a tutto per poter dire di essere sopravvissuti; e l’importanza dell’amicizia e della condivisione, strumenti di forza nella resistenza di esseri umani fragili. Prima di connettersi agli altri, però, è necessario denudarsi dei panni che si indossano nella vita e delle maschere, riducendosi all’essenza di cui siamo fatti: nient’altro che desideri e paure. Così, anche il corpo fisico diviene simbolo, oggetto di svestizioni e vestizioni, mostrato con e senza artifici, davanti e di spalle, nella forma in cui parte del senso di inadeguatezza si concretizza.
Scegliere una strada che ci disancori dai canoni e dagli obblighi sociali, dalla certezza dell’infelicità, richiede però un grande coraggio, che non sempre si ha; a volte si decide di rinunciare alla propria vocazione e ai propri ideali in nome di una serenità perlopiù fittizia, altre volte il prezzo da pagare risulta inaccettabile.
Sulla scena, intanto, si alternano differenti ritmi, così come i dialoghi lasciano il posto ai monologhi in cui l’attore o l’attrice di turno vanno in primo piano, mentre gli altri rimangono sullo sfondo; ora in ascolto come un pubblico partecipe, ora agendo e animandolo. La scena varia inoltre lentamente sul piano cromatico, verso una maggiore intensità di colori per poi incupirsi, sempre però mantenendo un senso complessivo di armonia; così, anche le emozioni e gli umori seguono questa continua altalenanza, a volte in modo sorprendente: l’allegria un po’ forzata di una festa di fine anno racchiude anche un fondo di malinconia e una riflessione sul senso del tempo; la grinta di un karaoke conduce a un clima gioioso fino a un picco di speranza che non lascia presagire in alcun modo il finale che attende. Improvvisamente, si viene catapultati in una nuova dimensione – antica e attuale insieme – che richiama quella di una tragedia greca reinventata in chiave contemporanea, dove l’ineluttabilità si affianca a un’estenuante lotta contro i propri demoni e quelli di una realtà non sempre così benevola.
Della vita che si lascia non resta soltanto una manciata di oggetti che ci hanno rappresentato, ma persiste il senso di unione e l’amore che abbiamo coltivato – fino alla fine e mano nella mano – con chi ci ha accompagnato lungo il viaggio e dovrà proseguirlo; ed è una fusione che avviene anche col pubblico in sala, accompagnato anch’esso con candore e genuinità fino al momento dei saluti. Ma non c’è alcuna linea di separazione tra il dentro e il fuori: ci si guarda dalla penombra alla luce con occhi visibilmente commossi – ognuno artista della propria resistenza – e la certezza che il messaggio sia arrivato, confortante come un abbraccio dentro al quale, anche se forse per poco tempo, non ci si è sentiti soli.
–
Barbe à Papa Teatro sarà presente al Festival Off d’Avignon2023 (8 – 26 luglio) con il primo spettacolo della trilogia, Il coro di Babele; ed è attualmente impegnata con il laboratorio teatrale “Prima del viaggio” a cura dell’autore e regista della compagnia Claudio Zappalà, prossimamente a Imola, Napoli e Catania.
Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.
È un mese d’indignazione, questo marzo, per i lavoratori del comparto privato dello spettacolo dal vivo in Sicilia. Si è inaugurato infatti con la pubblicazione, in Gazzetta Ufficiale, della Finanziaria per il prossimo triennio, approvata a Palazzo dei Normanni dall’ARS, ma disapprovata – a un attento esame – dalle quasi sessanta associazioni teatrali della Rete Latitudini,per ciò che concerne i criteri di ripartizione dei fondi destinati alla Cultura.
Il motivo non sorprende di certo: oltre al taglio di quasi un milione e mezzo del FURS (Fondo Unico Regionale per lo Spettacolo) rispetto all’anno precedente, risulta ancora più iniquo il trattamento che, favorendo gli enti pubblici, va a scapito delle realtà private, le quali continuano a produrre – nonostante lo scarso sostegno – un’immensa ricchezza per il territorio, l’arte e le comunità.
In attesa di conoscere il riscontro alla nota di appello inviata qualche giorno fa all’assessore regionale Elvira Amata, abbiamo fatto qualche domanda al presidente di Latitudini Gigi Spedale che, operando nel settore dagli anni Ottanta, ha offerto una visione più chiara sulle buone e cattive pratiche di cultura in Sicilia, indagando le cause della mala gestione e mostrando, nello specifico, le criticità e le storture di una legge finanziaria da cui dipenderà il prossimo futuro.
Presentiamo Latitudini: cosa rappresenta e da quali esigenze è nata?
Latitudini si è costituita nel 2011 grazie alla presa di coscienza di autori e teatranti provenienti da diverse parti della Sicilia che si identificano in un teatro di ricerca e sperimentazione volto a mettere in scena, con nuovi linguaggi e strumenti, la contemporaneità. L’esigenza era quella di incrementare la conoscenza delle attività di spettacolo in una regione che, per dimensioni e difficoltà nei collegamenti, è quasi un continente, nonché di interloquire in maniera efficace con le istituzioni che hanno in mano la gestione di enormi flussi di denari investiti per un nobile scopo. È vero, infatti, che la Sicilia spende per la cultura più di tante altre regioni italiane, ma il problema centrale è, come sempre, il modo.
Il nostro ruolo è dunque diventato automaticamente di rappresentanza del mondo dello spettacolo, portando alla luce i numeri di una “forza lavoro” e del complesso di attività che è molto maggiore rispetto a quello riferibile a un altro settore dove arrivano molti più soldi. La percentuale di fondi destinata al pubblico è infatti mediamente l’89% contro l’11% destinato al privato; con brevissime oscillazioni tra il 10 e il 13% nel corso delle fasi che si sono susseguite. Paradossalmente, però, è proprio il secondo ad assicurare maggiori livelli occupazionali e minori costi per l’Erario regionale, per cui tale condotta risulta oggettivamente poco redditizia per l’Amministrazione.
La tua attività inizia negli anni Ottanta con la compagnia Nutrimenti Terrestri, di cui sei uno dei fondatori insieme, tra gli altri, a Ninni Bruschetta e Maurizio Puglisi; hai dunque un chiaro quadro d’insieme sulle attività teatrali della regione e sui fondi che negli anni sono stati stanziati per il loro sviluppo. Quali sono stati – se ci sono stati – i momenti di maggiore apertura?
Senza andare troppo indietro nel tempo c’è stato un “periodo aureo” con tanti difetti ma anche tanti pregi, tra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’90; una fase di grande fermento, con investimenti in tutti i settori dello spettacolo che hanno fatto rifiorire le città e il territorio. Pensa che arrivavano artisti fantastici da tutte le parti del mondo: dal Living Theatre ai migliori musicisti internazionali di jazz, e si organizzavano festival magnifici… tutto questo però finì con l’implosione della politica e il salvifico fenomeno Mani Pulite, che lavò via tutto: errori e orrori della mala politica e purtroppo anche i grandi investimenti nelle attività artistiche sane e di alto valore. Penso alla bellissima stagione artistica che fece rifiorire Arte e Cultura nella Palermo degli anni ’90; alle mirabili edizioni dei Festival Jazz estivi e invernali di Messina fra gli ’80 e i ’90; ai primi decenni della bellissima (un tempo) Taormina Arte; ai ricchissimi e prestigiosi cartelloni del Teatro Vittorio Emanuele di Messina che, prima di diventare l’attuale grigio ente stipendificio, riusciva a ospitare anche nomi quali Bob Wilson, Philip Glass, Tiezzi, Servillo, De Berardinis, Carpentieri, Calamaro, Latella, Randisi/Vetrano, Sinisi, etc.
Dopo più di un decennio, una vera svolta si ebbe con l’adozione di uno strumento legislativo all’avanguardia per il teatro e la danza, ancora oggi uno dei migliori esistenti per lo spettacolo dal vivo in Italia: la Legge regionale n. 25 del 2007. Essa prevedeva anche una commissione di esperti per stabilire, di anno in anno, i finanziamenti più utili da attuare, tenendo conto di criteri anche qualitativi che, nel tempo, sono stati però abbandonati (insieme alla commissione, forse scomoda per chi non prediligeva la qualità) per privilegiare criteri quantitativi.
Quali credi siano i motivi alla base della mala gestione del settore e cosa vi ha invece agevolati?
È difficile fare un’analisi che sia perfettamente aderente alla realtà perché negli anni cambiano gli assessori e l’orientamento, gli esperti vengono sostituiti o aboliti del tutto e la propensione verso un teatro di qualità o di quantità è perciò un po’ ondivaga; inoltre, la frequente rapida rotazione dei politici fa sì che il nostro referente sia sempre diverso e spesso, venendo da chissà quale mondo, ignaro di ciò che succede nel settore di cui si va a occupare.
Della rete Latitudini fanno parte compagnie anche molto importanti, riconosciute di interesse pubblico dal Ministero; cito, solo per fare un esempio, quella dei Figli D’Arte Cuticchio, che gode di grande spazio e apprezzamento all’estero, mentre qui ha difficoltà a trovare ospitalità e luoghi in cui operare.
La politica purtroppo spesso non sa favorire l’ambiente adatto a chi vuole fare questo tipo di ricerca e, nonostante il grande indotto scaturito da attività come quelle di residenza e i numeri che mostriamo da dodici anni, dobbiamo sempre affidarci a singole amministrazioni illuminate che saltuariamente ci permettono di avere in gestione teatri nei piccoli centri per creare rassegne che si rivelano poi qualitativamente anche migliori rispetto alle stagioni ufficiali di grandi città metropolitane.
Puoi farci qualche esempio virtuoso?
WRITE di Tino Caspanello, un progetto di residenza che abbiamo iniziato nel 2016 nel comune di Mandanici, dove abbiamo riunito per ogni edizione nove drammaturghi provenienti da tutte le parti del mondo. Ciò è stato possibile grazie al supporto di amministratori comunali sensibili alla materia dello spettacolo e consci delle relative problematiche, nonché alla messa a disposizione del Monastero basiliano del 1100, un piccolo gioiello ben ristrutturato di Mandanici che ha ospitato la residenza.
La giornata era divisa in precise fasi di lavoro: al mattino, i drammaturghi ricevevano un tema su cui scrivere all’impronta dei brevi testi teatrali; all’ora di pranzo, quelli in lingua straniera venivano tradotti; al pomeriggio si allestivano gli spettacoli, presentati infine al pubblico nel corso della stessa serata. Questo magnifico progetto è andato avanti per diverse edizioni e replicato in altri comuni siciliani, attirando anche l’attenzione dei media e della RAI, fino a che non si è interrotto per via dell’avvicendamento dei nuovi amministratori comunali e di un’insana sospensione delle attività nel monastero.
A volte ci sembra di essere un po’ migranti e solo grazie a chi ci dà supporto e ospitalità possiamo proseguire le nostre attività; in cambio – nonostante il non sempre sufficiente sostegno da parte della Regione – imbastiamo stagioni teatrali miracolose nei centri che soffrono del continuo spopolamento, come Calascibetta, Serradifalco, Scicli, Petralia, Malfa, etc. Sebbene il pubblico, dopo l’orrenda stasi e crisi pandemica, sia in crescita, non possiamo praticare politiche di prezzi alti al botteghino. Per questo motivo il finanziamento FURS della Regione diviene fondamentale, perché i Comuni coi loro magri bilanci non possono aiutarci in maniera significativa a compensare il nostro disavanzo.
Anche nel triennio ’20/21/22, con l’emergenza Covid, siamo riusciti a instaurare e mantenere un dialogo schietto e proficuo col precedente assessore regionale, che ha portato all’incremento del fondo FURS; grazie a questo enorme aiuto per noi – per i bilanci regionali si tratta di una bazzecola – è stato possibile far rinascere e inventare il teatro in tanti luoghi dove non arrivava e dove crediamo sia giusto che arrivi, al contrario di quanto fa la Regione che spende la grandissima parte dei fondi per lo spettacolo concentrandoli prevalentemente in sole tre città: Palermo, Catania e Messina.
Quanto all’attuale Finanziaria, nella nota indirizzata a Elvira Amata, avete evidenziato la rimessa in essere della “scandalosa” Tabella H. Di cosa si tratta e quali altre criticità riscontrate sul piano legislativo?
La Tabella H, ai tempi delle vacche grasse, era un allegato al Bilancio annuale della Regione che prevedeva una serie di beneficiari a cui veniva destinata una somma più o meno cospicua di denaro per le più disparate attività. Tale strumento, divenuto scandaloso e abnorme, venne a un certo punto ufficialmente abolito, ma sembra essere stato adesso resuscitato. È vero che nella lista di queste elargizioni “ad personam” figurano talvolta dei validi progetti ma il problema è che delle norme, mirate a beneficio di singole realtà, movimentano ingenti somme – non passando per le leggi di settore come la n. 25 del 2007 e la n. 44 del 1985 – che finiscono per essere lasciate in mano alla discrezionalità del politico di turno. È dunque una stortura, che non garantisce parità di trattamento e non fa che incrementare i divari già esistenti in diversi settori della vita pubblica.
Altra stortura è il fatto che da qualche anno si concentrano tutti i fondi nelle attività di produzione teatrale (secondo criteri perlopiù quantitativi); di contro, non vengono finanziate tutte le altre a esse collegate, essenziali per il buon funzionamento del sistema: la programmazione nei teatri privati, le rassegne e i festival, la circuitazione fuori dal territorio siciliano, l’acquisto di attrezzature… a dispetto di quanto invece prevede la già citata legge n. 25/2007.
Non riusciamo a intravedere una stabile, concreta e coerente politica di investimenti regionali, tranne quando accade che il politico abbia una propria sensibilità e buona volontà sufficienti e pure il tempo e la voglia di instaurare un dialogo con chi pratica queste attività. Quando ciò si verifica, è più probabile che vengano finanziati sempre di più progetti e iniziative di valore, altrimenti si rischia di andare un po’ a casaccio.
Pur nella possibilità di apportare migliorie alla legge finanziaria approvata, è ormai trascorso il primo trimestre dell’anno e il danno è già in parte stato fatto. Continuate comunque ad avere fiducia nel futuro e quali azioni pensate di intraprendere nel caso non arrivasse un riscontro positivo?
Per il futuro continueremo a insistere, a chiedere sempre con più fermezza. I finanziamenti purtroppo sono noti solitamente verso l’estate (a volte anche dopo) ed è sempre come andare alla cieca; poi, quando si ha contezza dei contributi assegnati, è comunque tardi per una sana programmazione e bisogna organizzarsi in fretta, finendo magari per spendere male i fondi che arrivano. La programmazione anticipata è infatti essenziale per poter fare un lavoro di qualità e ben distribuito nel tempo e nel territorio, così come avviene normalmente fuori dall’Italia, dove le stagioni si preparano l’anno precedente, mentre qui andiamo all’impronta e non facciamo che moltiplicare gli sprechi. E purtroppo questo vale per tutti i settori dell’economia.
Comunque, nonostante questo quadro un po’ apocalittico, siamo sempre fiduciosi perché, se si riesce a instaurare un dialogo proficuo con i politici, è possibile in effetti trovare soluzioni adeguate e le attività possono riprendere a fiorire, grazie agli autori e agli artisti bravissimi che abbiamo in Sicilia. Il problema è quando sono costretti migrare, in cerca di un “ecosistema” più adatto alla loro creatività.
Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.
Vivere in Italia e decidere di fare del teatro un mestiere è già di per sé una bella sfida. Se a questo si aggiunge far parte della precaria “Generazione Y” ed essere una compagnia emergente che si è formata un anno prima che iniziasse la pandemia, la bella sfida sembra diventare un’arrampicata scivolosa, una corsa controvento, una lotta ad armi impari. Un percorso talmente accidentato che se non fosse per la tenacia, la forza dell’unione e gli spiragli oltreconfine a rischiarare il cammino, sarebbe probabilmente già stato abbandonato.
Questo è il succo molto concentrato di tante storie di giovani teatranti, e anche quella di Barbe à Papa Teatro – compagnia siciliana formata da Chiara Buzzone, Federica D’Amore, Totò Galati, Roberta Giordano e Claudio Zappalà – che ha fatto de L’arte della resistenza non soltanto l’ultimo spettacolo e capitolo conclusivo della trilogia sui Millennials, ma anche un modus (soprav)vivendi in questi tempi difficili. È infatti grazie a tante piccole azioni diffuse che sono ancora qui a raccontare – con le parole di Federica e Chiara – i loro progetti di creazione e scambio culturale: nel luogo altrettanto difficile che hanno scelto come base, Partinico, fino alle varie congiunzioni col resto del continente.
La lingua francese ha questa buffa metafora per definire lo zucchero filato: letteralmente, la “barba di papà”. Come mai, essendo tutti siciliani, avete scelto un nome francese per identificarvi e perché proprio questo?
Federica D’Amore: Barbe à PapaTeatro nasce da un innesto drammaturgico del nostro primo spettacolo Il coro di Babele, in cui Claudio dice che i ricordi sono buffi e leggeri come lo zucchero filato. Questo nome ci piaceva perché parla di noi, avendo in sé un’ambivalenza nel significato data dal fatto che lo zucchero non è solo dolce e leggero, ma se lo sciogli può diventare tagliente. La leggerezza che nasconde una pesantezza appartiene anche al nostro teatro, multiforme come i diversi linguaggi che lo caratterizzano.
Chiara Buzzone: Quanto alla lingua che abbiamo scelto, la motivazione risiede nel contatto molto stretto con la Francia che vediamo come un modello di rispetto verso le maestranze e di tutela nei confronti degli artisti, in particolare di quelli emergenti. Inoltre, un nostro desiderio – che abbiamo realizzato e realizzeremo ancora – era quello di partecipare al Festival d’Avignon, dove la scorsa estate Barbe à Papa Teatro ha portato in scena Il coro di Babele. Sebbene fosse recitato in italiano con sottotitoli in francese, la fruizione non ha risentito del problema linguistico, riscuotendo anzi successo, proprio per la pluralità di linguaggi di cui parlavamo.
In cosa consiste questa multiformità che rende il vostro teatro così immediato?
F.D.A: I nostri spettacoli sono di prosa, di testo, ma portiamo anche l’aspetto performativo, termine col quale non ci riferiamo soltanto al teatro fisico – che comunque ci è proprio ed è presente, venendo tutti da una formazione in quel campo – piuttosto nel senso del linguaggio. Noi, per esempio, non utilizziamo dei personaggi, ma le nostre biografie; in scena ci chiamiamo coi nostri nomi e da qui costruiamo le drammaturgie.
C.B: Pescare dal nostro vissuto ha però il fine di riportarci a un’esperienza collettiva. Entrando nello specifico del nostro lavoro creativo, con l’ultimo spettacolo L’arte della resistenza, che ha debuttato da poco concludendo la trilogia, ci siamo aperti a studiare la nostra generazione, quella dei cosiddetti Millennials, capendo che il coro è molto più ampio di quello che pensavamo e apre tematiche che coinvolgono inevitabilmente anche le altre a noi limitrofe.
Possiamo rintracciare un sentimento comune e prevalente nei tre spettacoli?
F.D.A: La nostalgia, sicuramente: di un passato in cui non c’era la crisi economica, sanitaria, ambientale e un futuro non futuribile che oggi genera inevitabilmente angoscia. La nostra indagine, in particolare nel secondo spettacolo Mi ricordo, è volta a cercare la matrice dei nostri traumi, delle nostre ansie, dei nostri attacchi di panico, così comuni nella nostra generazione e ancor più in quella successiva. L’approccio che utilizziamo, però, non è mai eccessivamente intellettualistico o psicologico; al contrario, la drammaturgia si serve di elementi quali l’ironia, la pantomima, che sono delle chiavi molto importanti nella nostra “cassetta degli attrezzi”…
C.B: …oppure il ritmo, l’elemento visivo e onirico in alcuni punti, perchè oltre a questo aspetto un po’ dark che stiamo descrivendo c’è anche quello del sogno e della speranza che precede la delusione delle aspettative: quest’ultima riguarda non soltanto, banalmente, i sentimenti, ma anche questioni più pragmatiche come quelle relative al lavoro o alle migrazioni.
I tre spettacoli, inoltre, attraversando i tempi passato, presente e futuro, conducono a un’analisi profonda che si collega a una situazione collettiva, oserei dire universale; l’obiettivo è quello di costruire un rapporto onesto con lo spettatore per farlo sentire meno solo nelle proprie paure, attraverso un’esperienza condivisa e l’invito alla riflessione che ne consegue.
In quanto Generazione Y, che rapporto avete col tema della migrazione affrontato ne Il coro di Babele, operando sia in Sicilia che all’estero?
C.B: L’esperienza de Il coro di Babele parte da laboratori di ricerca in cui abbiamo sciorinato questo tema partendo da una domanda: “dov’è, per te, casa?” Quando Claudio, il regista della compagnia, ce l’ha posta per la prima volta abbiamo avuto un attimo di esitazione. Io stessa ho vissuto all’estero, prima in Francia poi in Spagna, ma esistono anche altri tipi di migrazione entro i confini dell’Italia, indice di uno spostamento dalla casa di origine ad altri luoghi che vengono riconosciuti come tali. Per noi la Sicilia resta comunque la casa primordiale, il luogo in cui ci siamo incontrati non casualmente…
F.D.A: …ma ovviamente anche noi, come molti nostri amici che hanno seguito percorsi diversi, ci siamo ritrovati a vivere altrove, e spesso le comunità in cui ci siamo sentiti al sicuro sono diventate la nostra nuova famiglia, altro che quella “tradizionale”… Anche la nostra compagnia in fondo lo è: un’unione che va controcorrente rispetto all’individualismo imperante della società e ci ha permesso di non andare alla deriva in questi ultimi anni.
C.B: La Sicilia, però, pur rimanendo la nostra base, non è il luogo in cui tutti noi abitiamo, perché siamo ancora dei migranti alla ricerca di nuovi luoghi da chiamare a casa. Viceversa, vorremmo che la nostra regione diventasse un luogo accogliente e aperto alle migrazioni altrui.
Per questo collaborate da alcuni anni con un’associazione molto attiva sul territorio: Partinico Solidale. Potete parlarci di questa esperienza?
F.D.A: Partinico, pur essendo un comune commissariato da anni e ad alta densità mafiosa, ha una bellissima storia, che è quella di Danilo Dolci, il “Gandhi italiano”, oltre ad essere il paese del nostro Totò (Galati ndr) grazie al quale abbiamo un contatto così forte con questo territorio. Dolci è la figura di riferimento alla quale ci ispiriamo, portatore di un meraviglioso modello di maieutica reciproca e di comunità fondata sui sogni e i bi-sogni degli abitanti, di cui i partinicesi hanno accolto l’eredità. Da tale esempio è nata anche l’associazione di promozione sociale Partinico Solidale con cui collaboriamo per portare avanti i nostri valori di compagnia legati al concetto di comunità partecipata: nel 2020, per esempio, abbiamo introdotto la materia teatro all’interno di un doposcuola popolare per contrastare l’abbandono scolastico e trovare nuove strategie per sopravvivere a un tempo funesto, sopperendo inoltre al bisogno di socialità in diversi ambiti, come quello riabilitativo o psicoterapico.
C.B: Ogni evento è sempre molto partecipato e ha determinato la creazione di una comunità fondata sull’ascolto dei bisogni e sull’aiuto reciproco a un livello paritario. Grazie alla forza di questo sodalizio, inoltre, porteremo a Partinico il Belgio e l’esperienza di diverse associazioni culturali europee e mediterranee, coinvolte in un nuovo progetto di più ampio respiro.
Di cosa si tratta?
C.B: È per l’appunto un grande progetto di cui mi sto occupando in prima persona nell’ambito del programma Europa Creativa: si tratta di realizzare una Casa Nomade delle Culture Euro-mediterranee (Maison nomade des cultures euro-méditerranéennes) che vede coinvolti sei Paesi partner: il Belgio, che ne è l’organizzatore, la Francia, la Germania, la Grecia, la Tunisia e l’Italia con le rispettive associazioni culturali, tra cui proprio Partinico Solidale. A partire da marzo 2023, per una durata complessiva di 18 mesi, si organizzeranno attività laboratoriali, esposizioni, conferenze, costruendo un centro culturale itinerante che tappa per tappa si sposterà tra i vari Paesi, culminando con la rappresentazione di un unico grande spettacolo come risultante. Noi, in particolare, collaborando con Partinico Solidale, ospiteremo la compagnia belga dei Nouveaux Disparus occupandoci di attività inerenti al macro-tema delle migrazioni su cui verte il progetto. In generale, esse spazieranno dal teatro alla fotografia, dalla musica all’aspetto visivo e documentaristico, come nel caso della Germania.
Visto l’argomento affrontato, la scelta dei territori non è affatto casuale, e punta l’attenzione su un’area di forte interesse, quella del Mediterraneo e di un mare attraversato dai migranti dove ancora oggi purtroppo si muore, aiutandoci ad ampliare lo sguardo su problemi che vanno il più possibile collettivizzati come chiave per affrontare il presente.
Anche l’idea di Ad Avignone col furgone, un progetto che al momento è rimasto in sospeso per via di questo più imminente al quale abbiamo dovuto dare la priorità, nasce allo scopo di vedere cosa accade intorno e come siamo visti al di fuori non in quanto italiani, ma in quanto esseri umani.
Quali altre necessità vi hanno spinto a realizzarlo?
F.D.A: La spinta internazionale è sempre presente perché ci accorgiamo che le porte in Italia sono tutte chiuse per un artista emergente che vuole fare questo mestiere. Anche noi, nonostante l’ampliamento delle nostre competenze e i diversi riconoscimenti ottenuti (per ultimo quello di aver vinto il bando di residenza Chiamata Offline del Ferrara Off grazie al quale abbiamo creato L’arte della resistenza), fatichiamo molto a trovare una porta aperta, e questa situazione genera un livore molto forte, presente inevitabilmente nei nostri spettacoli. Se dovessimo immaginarci solo nei confini dello stivale non so se avremmo tutto questo coraggio, e forse ci saremmo già dedicati a un altro mestiere come molti di noi sono costretti a fare.
Ad Avignone col furgone vuole dunque essere un’alternativa rispetto a questa chiusura e un modo per mettere in contatto realtà periferiche dove vogliamo portare il teatro: il fil rouge nella scelta delle tappe del viaggio è infatti lo spopolamento, e così come facciamo a Partinico, dove abbiamo tenuto, grazie a PASOL, laboratori di teatro nelle piazze di spaccio, vorremmo contaminare e far fiorire luoghi difficili e dimenticati, come fanno tante altre associazioni che anche prima di noi si sono insediate nei territori portando l’inimmaginabile. C.B: Per noi è anche dare un’alternativa valida a chi vuole andare via, con queste piccole esperienze di resistenza basate sui valori che portiamo anche tra di noi, come amici ed esseri umani. L’obiettivo del nostro teatro è ancora più ampio: operare lì dove tutto manca per dare agli altri una ragione in più per restare, o per tornare.
Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.
Lo spopolamento dei borghi e il conseguente bisogno di far tornare a rivivere luoghi altrimenti dimenticati non è una missione da affidare esclusivamente agli interventi politici; il cambiamento, infatti, potrebbe partire anche dal basso, attraverso il teatro che, come un sarto riparatore, si occupi di ricucire efficacemente un tessuto sociale compromesso, in territori che meritano, per la loro genuinità e bellezza, di essere vissuti ancora.
Il Teatro dei Venti – compagnia modenese che fa del teatro di comunità una missione – continua nell’intento di combinare la sperimentazione dei linguaggi di scena contemporanei con l’arte di stabilire legami umani, e lo fa con tante piccole azioni diffuse, compresa quella di occuparsi di un festival, Trasparenze, che da qualche anno si è irradiato da Modena – la base del loro lavoro, da cui tutto ebbe inizio – verso l’Appennino. In circa un’ora di macchina e una serie di curve si arriva infatti a Gombola, uno dei tanti borghi colpiti dal suddetto spopolamento dove, dal 28 al 31 luglio, ha luogo la seconda parte della decima edizione del festival che, come spiegato dal direttore artistico della compagnia Stefano Té, non esaurisce in questo tempo limitato la sua funzione.
Com’è nato Trasparenze e perché avete scelto proprio questo nome?
Trasparenze è nato da una collaborazione e uno scambio molto intensi con Stefania Piccolo e Agostino Riitano, quando con Officinae Efesti, dieci anni fa, si immaginò un festival alternativo che volgesse lo sguardo sulle realtà invisibili – trasparenti, per l’appunto – che normalmente si visitano poco perché marginali, preferendo guardarvi piuttosto attraverso.
Come siete arrivati dunque a Gombola e con quale prospettiva?
Sono ormai tre anni, concomitanti dunque con la pandemia, che il FestivalTrasparenze si svolge, oltre a Modena, anche a Gombola. Ci siamo arrivati per caso, quando si è presentata l’opportunità di prendere in gestione l’ostello del borgo, e da lì l’idea di immaginare un posto che potesse accogliere gli artisti più che i turisti, e divenire un luogo di residenza dedicato allo studio e alla ricerca a partire dal silenzio circostante e dalla natura. È stato dunque un passaggio spontaneo quello di portare il festival qui, per comprendere le capacità di questo posto e le prospettive attuabili, grazie anche alla collaborazione con ATER che ha creduto nel progetto sebbene la complessità di portare il pubblico in un luogo oggettivamente fuori mano, che per gran parte dell’anno rimane disabitato.
La prospettiva è allora quella di costruire una presenza stabile e un luogo di permanenza per gli artisti, estendendo questo momento di condivisione e apertura anche oltre il festival. Per tale motivo abbiamo chiesto la partecipazione delle persone del territorio, che hanno reagito fin da subito con grande passione: è nato così il progetto Spettatori residenti che permette loro di prendersi cura degli ospiti aprendo le proprie case e accogliendo chi viene fin qui per assistere agli eventi.
Il festival diventa così un pretesto per costruire relazioni che siano effettive e durature, ma anche per uscire dalla trappola della comodità, che ci porta a escludere tutto ciò che appare complesso in favore del raggiungibile; Gombola, infatti, per noi che tutto l’anno andiamo a mille all’ora, ci offre la possibilità di fermarci, soffermarci, e anche esitare, che è una cosa molto bella.
In che modo riuscite a mantenere la continuità?
Riusciamo a mantenerla grazie ai laboratori permanenti con gli abitanti del territorio, che incontriamo tutte le settimane con l’intenzione di costruire lo spettacolo di apertura del festival insieme a loro. Quest’anno, è stata fatta una tappa a maggio e una in questo mese per il progetto Misura umana che avrà un futuro perché sarà il nostro prossimo lavoro per spazi urbani: il segnale dunque di un’inclusione più ampia che va ben oltre l’evento Trasparenze.
Abbiamo inoltre presentato alla Regione un ulteriore progetto per diventare un luogo di residenza, con la proposta di ospitare cinque compagnie per venti giorni ciascuna, affidando loro la missione sia di lavorare sulla propria produzione, sia di trovare una maniera logica e naturale per entrare in interazione con gli abitanti e coi luoghi. Si tratta di un vero e proprio progetto di trasformazione che necessita però di essere premiato e ricevere il sostegno e gli investimenti delle istituzioni.
Che tipo di collegamento esiste – se esiste – con la prima parte del festival tenutasi nel mese di maggio a Modena, e quale il senso specifico di questa decima edizione?
Trasparenze – per ricollegarmi a quanto spiegato all’inizio – si svolge a Modena in un quartiere periferico, dando attenzione alle realtà artistiche più marginali, nonché a luoghi come il carcere della città o a quello di Castelfranco Emilia, dove lavoriamo con continuità, e in cui è sempre prevista una tappa all’interno del festival. L’allargamento in questi due anni verso l’Appennino, ovvero una zona caratterizzata da complessità per via di uno spopolamento e un progressivo svuotamento di contenuti, appare dunque coerente, sia all’interno dell’evento sia nel quadro più ampio della nostra vocazione, con questa idea.
Sebbene l’edizione di quest’anno si concluda con la camminata utopica, questo decennale segna un importante passaggio: dall’utopia – una parola che sorvola il nostro lavoro da tempo e che ha contrassegnato gli ultimi anni del festival – alla misura umana, ovvero alla dimensione dell’abitare e della relazione. Stiamo infatti lavorando a un progetto che, dopo Moby Dick, sarà il grande spettacolo di comunità per spazi urbani, e vedrà compimento – si spera – tra circa tre anni, per il nostro ventennale come compagnia; nel corso di questa trasformazione, Trasparenze rappresenta un po’ il passaggio di consegna, l’edizione del cambiamento, anche nella sua veste che probabilmente non sarà più quella di un festival vero e proprio, ma di una presenza distesa nel tempo.
Hai accennato allaCamminata utopica: è una novità? Di cosa si tratta?
In verità abbiamo già fatto in passato una camminata utopica: all’alba dell’ultima notte di coprifuoco quando, insieme a centinaia di persone tra artisti, volontari, spettatori, amici e partecipanti ai laboratori, abbiamo attraversato la città di Modena costruendo un distanziamento poetico con i nastri colorati che abbiamo chiesto loro di portare; per poi concludere il nostro percorso in Piazza Grande dove, attraverso la lettura di poesie, abbiamo dedicato un momento di riflessione all’abitare, al bisogno di tornare a popolare luoghi che si erano fatti deserti.
Adesso è sembrato naturale riproporla, ma stavolta nel bosco, dove la camminata si fa utopica anche perché complessa, visto che saliremo attraverso sentieri ripidi fino ad arrivare a un altro borgo, disabitato a causa di una frana; e lì, in una piccola piazza piena di macerie, incontreremo il professore Gerardo Guccini, il direttore artistico de L’Arboreto–Teatro Dimoradi MondainoFabio Biondi e la poetessa Azzurra D’Agostino che, in tre forme diverse – rispettivamente, storica e visionaria, narrativa e poetica – ci presenteranno il concetto di utopia da differenti livelli. Il ritorno sarà poi percorso lungo i calanchi, dove potremo vedere in lontananza il borgo di Gombola, a cui giungeremo nuovamente per pranzare tutti insieme.
Un momento di grande condivisione che sembra permeare ogni parte del festival. Quale sentire vi ha guidato nella scelta degli altri spettacoli e delle attività collaterali all’evento?
La collaborazione con ATER e la proposta di progetti in sintonia con un luogo che ha bisogno di un certo sottotipo di spettacolo, non invasivo e persino adatto a essere sussurrato, è stata cruciale per poter realizzare un evento rispettoso della natura circostante. La scelta è stata inoltre guidata dal tema dell’umano ricorrente negli spettacoli, che ben si presta ad essere associato all’ambiente – come nel caso delle rappresentazioni che si terranno nel bosco – senza creare cortocircuiti, ma rimettendo al centro il luogo.
Quanto alle attività collaterali, sarà possibile visitare l’asineria, l’apiario, il vecchio mulino, coinvolgendo anche i bambini, al fine di portare l’attenzione su altre realtà invisibili. Sarà così un’occasione per presentarle, parlare con chi se ne occupa e conoscere i loro progetti, così che il festival non sia che un pretesto per far luce sulle presenze utopiche attorno a noi, spesso oscurate dalle brutture, ma che esistono, così come esiste tanta altra bellezza.
Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.
È necessario percorrere a ritroso l’albero genealogico di due secoli per individuare le origini della famiglia Monticelli, tra le più longeve d’Italia nella tradizione del teatro di figura. Siamo infatti nell’Ottocento, quando il marionettista Ariodante Monticelli dà avvio alla storia della compagnia che, con Andrea e Mauro, continuatori da oltre quarant’anni di cinque generazioni ininterrotte, verrà ribattezzata col nome Teatro del Drago. Dal 1979, la loro attività non si è concretizzata soltanto nella messa in scena di trentanove spettacoli – frutto dell’incontro tra la costante ricerca e la tradizione in gran parte ereditata dal nonno Otello – ma anche in numerosi progetti di educazione, formazione, valorizzazione e circuitazione della cultura della Figura, oltre che nella direzione artistica del Festival Internazionale dei Burattini e delle Figure Arrivano dal Mare! e nella gestione del prezioso patrimonio della famiglia Monticelli, custodito nel museo La Casa delle Marionette, nel cuore di Ravenna.
E anche di prolifiche collaborazioni, come quella di lunga data con il festival La macchina dei sogni dei Figli d’Arte Cuticchio a Palermo, giunto quest’anno alla sua 39esima edizione; in programma dal 7 al 10 luglio in tre luoghi d’elezione del capoluogo siciliano, la rassegna ha come tema Il Paese dei balocchi, e quale miglior spettacolo da presentare, dunque, per la compagnia ravennate, se non il loro “cult” Pinocchio?
Abbiamo parlato di tutto questo con Roberta Colombo, attrice, autrice e direttrice artistica, insieme ai fratelli Monticelli, del Teatro del Drago, risalendo fin su in cima a quell’albero, o al principio di tutte le fiabe: “C’era una volta…”
C’era una volta… la famiglia Monticelli, che in realtà c’è ancora. Ci racconti la storia della compagnia nei suoi snodi principali?
Le prime notizie sulla famiglia hanno come luogo di riferimento la città di Cremona, che ha dato i natali ad Ariodante, capostipite della tradizione. Il primo secolo di storia dei Monticelli come girovaghi marionettisti è caratterizzato da numerosi spostamenti, per motivi politici o economici: prima il Piemonte, poi Fiorenzuola d’Arda e Salsomaggiore Terme, dunque l’Emilia, e infine la Romagna, dove si stabiliranno appena dopo la Seconda Guerra Mondiale scegliendo la città di Ravenna. Negli anni Cinquanta, la regione si stava già ricostruendo come la conosciamo, e cambiando il contesto sociale ed economico di riferimento, i Monticelli adattano a esso il loro repertorio.
Il trasferimento a Ravenna determina infatti uno snodo cruciale, segnato sia dal graduale abbandono delle marionette in favore dei fantocci e, in particolare, dei burattini, sia da nuovi testi portati in scena: si passa da quelli classici dell’Opera Lirica e della Letteratura (Shakespeare, Manzoni) ai testi tratti dalle fiabe classiche di tradizione orale (Cappuccetto Rosso) e dai canovacci ottocenteschi della commedia Burattinesca dell’Emilia Romagna, con protagonisti i personaggi della Commedia Popolare e della Commedia dell’Arte: Fagiolino Fanfan diventa così l’eroe del teatrino dei Monticelli. Le motivazioni di tale cambiamento hanno sia carattere pratico (le marionette richiedono un apparato differente e più complesso, al contrario dei burattini che necessitano di uno o due attori), sia funzionale: si andava infatti prediligendo una forma di teatro più semplificata e popolare, di intrattenimento e dal tono salace, a differenza di quello di marionette più serio e rivolto agli adulti; sebbene gli spettacoli coi burattini avessero pure un’utilissima funzione informativa. Ciò che cambiava, dunque, era il target di riferimento, che abbracciava un pubblico misto, composto anche, più specificatamente, da bambini e ragazzi.
Non bisogna dimenticare poi che questo mestiere era fatto anche di precarietà e talvolta di stenti, al punto che, sebbene molte marionette siano custodite oggi nel museo di Ravenna, tante altre sono andate perdute, perché il legno di cui erano costruite fu necessario, in tempi duri, per scaldarsi. Gli artisti e i saltimbanchi venivano infatti trattati alla stregua di diversi, e ospitati in case periferiche, spesso senza riscaldamento, o nei casi più fortunati nelle parrocchie, come fu anche per i Monticelli.
La tradizione dei burattini fu quella che alla fine sopravvisse, e nel 1979 passò in mano ai fratelli, ancora giovanissimi, Mauro e Andrea, che raccolsero gli insegnamenti del nonno Otello, avviandosi, non privi di una certa dose di ribellione e grinta tipiche dell’età, verso un nuovo orizzonte. Furono loro, infatti, a portar fuori il teatro e i primi ad “aprire la baracca” per mostrare al pubblico tutti i trucchi del mestiere, arricchendo e rinnovando la tradizione con uno spettacolo dentro allo spettacolo, nonché ad avvicinare nuovamente a esso un pubblico più adulto.
Pinocchio, il burattino per eccellenza, sarà lo spettacolo cult della compagnia con cui andrete in scena al festival La macchina dei sogni. Com’è nato e di quali tecniche di teatro di figura si fa portatore?
Pinocchio è uno spettacolo a cui siamo particolarmente legati, che costituisce un po’ il cavallo di battaglia del Teatro del Drago, con oltre 1500 repliche e tour che hanno toccato tutti gli Stati d’Europa e quattro continenti, fatta eccezione per l’Australia. Nasce nel 1990, a partire dalla restaurazione delle tavole a china, ispirate alla fiaba di Collodi, del fumettista francese Alain Letort, trovate in un mercato e in seguito colorate dal pittore ravennate Gianni Plazzi. Da lì sono nati i personaggi dello spettacolo: una vera e propria trasposizione dalla pittura al teatro! I pupazzi si muovono sul palco insieme agli attori secondo una linea artistica di animazione a vista: questa è un po’ la marca del Teatro del Drago, introdotta da Mauro e Andrea, con l’attore che si serve delle braccia per manovrare la testa e il braccio del pupazzo, cui talvolta presta anche la parte inferiore del corpo. La tecnica adottata, che la compagnia ha forse sperimentato tra le prime in Europa, si ispira in parte al Bunraku giapponese, ma è sicuramente originale per la naturalezza e l’agilità del movimento, possibile grazie all’utilizzo di tubi di gomma che collegano la testa al corpo del pupazzo, costruito in garza con anima in creta. Da ricordare poi la tradizione, ereditata dal nonno Otello e tutt’ora in uso, di servirsi di materiali casalinghi che allora, più per necessità, si avevano a disposizione, come la colla composta da farina, bianco d’uovo e aceto.
In Pinocchio, sono inoltre presenti anche delle commistioni tra generi, come quella col teatro d’ombre, nonché un particolare linguaggio – il cosiddetto grammelot, di cui Dario Fo fu grande maestro – fatto esclusivamente di suoni e privo di parole, che ben si presta, nella sua apparente indecifrabilità, ad essere compreso universalmente.
Così universalmente che lo portate da anni in giro per il mondo. Qual è stata la vostra esperienza con l’estero?
Il nostro teatro all’estero è visto come ambasciatore di una italianità che affonda le sue origini nella Commedia dell’arte, e il riscontro di chi assiste agli spettacoli è sempre molto positivo. Il rapporto di scambio e la reazione del pubblico, anche di quello straniero, genera in noi di volta in volta l’entusiasmo che alimenta il nostro lavoro e ne costituisce il punto di arrivo e di partenza. Quando poi ci invitano a partecipare ai vari festival di teatro di figura e incontri in giro per il mondo – come quello di Castelier in Canada a cui siamo stati a marzo di quest’anno, o il Festival Fidena di Bochum in Germania a maggio – abbiamo la grande opportunità di far conoscere il nostro lavoro e conoscere a nostra volta quello di tantissimi artisti, rendendoci conto di quanto la materia di cui ci occupiamo sia ancora viva e sempre pronta a rigenerarsi attraverso lo scambio e, soprattutto, finalmente riconosciuta nel suo valore artistico; al contrario purtroppo di ciò che avviene in Italia dove il Teatro di Figura è ancora troppo poco tutelato e viene spesso confuso con il teatro ragazzi (con cui, peraltro, si condivide un circuito di inestimabile il valore).
A proposito di collaborazioni culturali, cosa mi dici del rapporto che vi lega al festival La macchina dei sogni?
Il rapporto che lega la famiglia Monticelli ai Figli d’Arte Cuticchio è di lunga data, tanto da risalire probabilmente alla generazione precedente. Anche La macchina dei sogni, così come il Festival Internazionale dei Burattini e delle FigureArrivano dal mare! di cui il Teatro del Drago ha assunto la direzione artistica nel 2015, è un festival che resiste da tanti anni e, nel tempo, ha generato forti sinergie. Una di queste è quella che ci lega anche alla formazione artistica della famiglia Colla di Milano: si tratta infatti di tre compagnie custodi di tradizioni antichissime – quella delle marionette prevalentemente al Nord, dei burattini a guanto al Centro Nord e dei pupi al Sud – che si vengono a incontrare nella comunanza di intenti, storie e intrecci.
Nell’ultima edizione di Arrivano dal mare! è stato inoltre dedicato uno spazio a Nudità, lo spettacolo in cui la danza di Virgilio Sieni ha incontrato l’arte dei pupi di Mimmo Cuticchio, che ha poi raccontato la sua storia in un incontro-dialogo con Massimo Marino; e così, come in una sorta di osmosi, il contest realizzato nell’ambito del nostro festival, Animati in video, sarà ora accolto con la proiezione delle opere partecipanti in questo nuovo appuntamento de La macchina dei sogni.
Approdiamo dunque ad Arrivano dal mare!, uno dei più antichi festival di teatro di figura in Italia, che continua a svolgersi ogni anno in diversi paesi della Romagna da ben 47 edizioni. L’ultima si è conclusa da circa un mese: cosa puoi dirci a proposito di questa rassegna?
Arrivano dal mare! è un festival internazionale che ospita numerosi spettacoli dagli argomenti assai vari, da quelli dedicati alla prima infanzia fino a rappresentazioni più crude su temi come la violenza sulle donne, accogliendo in tal modo spettatori di tutte le età. Quest’anno, sul fronte della ricerca, sono stati presentati esperimenti di varia natura, con linguaggi estremamente contemporanei capaci di attirare un range d’età che facilmente sfugge al richiamo del teatro: quello degli adolescenti e dei ventenni.
Le ultime edizioni ci hanno visto inoltre impegnati in attività di indagine e mappatura sulle famiglie e le botteghe d’arte in Italia, attraverso convegni sul tema per approfondire un insieme di tradizioni tra le più antiche d’Europa che continuano strenuamente a resistere; ponendo quesiti, dubbi e domande sulla trasmissione dei saperi artistici e culturali del nostro incredibile mondo.
Il festival ha avuto anche una sezione di workshop e laboratori per adulti e una speciale cura per i giovani che hanno frequentato in questi tre anni Animateria, il corso di alta formazione dedicato alla professione di artista della figura realizzato in collaborazione con il Teatro Gioco Vita di Piacenza e la Fondazione Simonini.
La vostra attività sul piano della formazione è particolarmente significativa: cosa mi dici rispetto ai progetti recenti?
La nostra attività formativa come compagnia si estende in numerosi progetti rivolti sia agli adulti sia ai bambini e ragazzi, non soltanto in ambito scolastico. Potrei citarti uno degli ultimi destinato agli studenti delle scuole secondarie di primo grado, dal titolo In Tournée, indetto dal Servizio Patrimonio della Regione Emilia Romagna e vincitore del Concorso regionale Io Amo i Beni Culturali, da cui è emersa la grande capacità di questi ragazzi di tirare fuori racconti bellissimi, segnale che non si tratta affatto di una generazione perduta dietro a uno smartphone, ma che, al contrario, ha poche occasioni “umane” per raccontarsi lontano dai riflettori dei social. Il problema è dunque da rilevare nella mancanza di stimoli per una creatività tutt’altro che assente, e che fatica piuttosto a trovare uno sfogo; perciò, il nostro compito di operatori culturali e artistici deve essere proprio quello di offrirgli l’opportunità di creare, riflettere e inventare.
La pandemia ha portato con sé un enorme stravolgimento nella vita di questi giovani, penalizzata dalla mancanza di punti di riferimento a cui tenersi saldi, e uno di questi potrebbe essere garantito dall’arte, in particolare dal teatro, e ancor di più dal teatro di figura. Bisogna dunque tenere aperto il varco e puntare sulla cultura, sulla valorizzazione e il riconoscimento del lavoro degli artisti, creando reti di comunicazione capillari. E questo può realizzarsi non col fascismo dei grandi eventi, ma attraverso piccole azioni che possano propagarsi gradatamente, così come un sassolino lanciato in uno specchio d’acqua genera infiniti centri concentrici…
Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.
Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti per garantirti la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. These cookies ensure basic functionalities and security features of the website, anonymously.
Cookie
Durata
Descrizione
cookielawinfo-checkbox-analytics
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Analytics".
cookielawinfo-checkbox-functional
11 months
The cookie is set by GDPR cookie consent to record the user consent for the cookies in the category "Functional".
cookielawinfo-checkbox-necessary
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookies is used to store the user consent for the cookies in the category "Necessary".
cookielawinfo-checkbox-others
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Other.
cookielawinfo-checkbox-performance
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Performance".
viewed_cookie_policy
The cookie is set by the GDPR Cookie Consent plugin and is used to store whether or not user has consented to the use of cookies. It does not store any personal data.
Functional cookies help to perform certain functionalities like sharing the content of the website on social media platforms, collect feedbacks, and other third-party features.
Performance cookies are used to understand and analyze the key performance indexes of the website which helps in delivering a better user experience for the visitors.
Analytical cookies are used to understand how visitors interact with the website. These cookies help provide information on metrics the number of visitors, bounce rate, traffic source, etc.
Advertisement cookies are used to provide visitors with relevant ads and marketing campaigns. These cookies track visitors across websites and collect information to provide customized ads.