Avevamo salutato Barbe à Papa Teatro quasi un anno fa, mentre affinavanoL’arte della resistenza nell’intrico di comuni problemi generazionali; li abbiamo ritrovati – sempre ai Cantieri culturali della Zisa di Palermo, l’11 febbraio scorso – con La ricetta di Danilo, un’altra storia di resistenza esemplare, tratta stavolta dal passato, sul “Gandhi della Sicilia” Danilo Dolci: poeta e intellettuale-attivista, ai più sconosciuto, e modello di lotta nonviolenta che a partire dagli anni Cinquanta risollevò le sorti degli abitanti del comune di Trappeto e, in un’aura virtuosa che da lì andava diffondendosi, anche di altri luoghi dell’isola abbandonati da Stato e istituzioni.
La storia di Danilo Dolci – particolarmente cara alla compagnia che, insieme all’associazione Partinico Solidale, opera ormai da anni sul territorio con progetti di risanamento culturale – è narrata stavolta, con la regia di Claudio Zappalà, attraverso le parole di un unico attore, Totò Galati, che accoglie informalmente il pubblico nella sala con mattoni a vista dello Spazio Marceau. Un bicchiere di vino, un assaggio di pane con l’olio di casa e qualche dolce di Carnevale riempiono l’attesa dell’inizio dello spettacolo, che si immette fluidamente nel discorso senza il confine materiale di un palco o di un sipario, e nemmeno di quello immateriale di luci o parole.
Partendo da argomenti apparentemente lontani – come il richiamo all’aneddoto della moltiplicazione dei pani e dei pesci, o alla pesca della neonata che impoverisce il mare, e ancora alla disquisizione su ricette tipiche a base di sarde – si inserisce, senza quasi accorgersene, il racconto sulla vita di Danilo Dolci, attraverso un monologo che ripercorre i tratti salienti di un’esperienza così straordinaria da risultare incredibile. Galati entra in punta di piedi ed esce dal personaggio, vi si accosta con modestia senza incarnarlo del tutto, interpreta la miseria e la disperazione degli uomini facendosi alternativamente attore e narratore; e mentre prepara delle polpette su un tavolo da cucina che fa da elemento scenografico, le domande che sembra rivolgere ironicamente a ogni piccola creazione che modella tra le mani, o più realisticamente a un gruppo di persone che lo stanno ad ascoltare, richiamano alla mente le stesse del loro precedente spettacolo: come vedi il tuo futuro? Cosa ti rende felice? E cosa ti fa paura? Il contesto narrativo, però, stavolta, è totalmente diverso, perché sono alcuni degli interrogativi che Danilo Dolci poneva alla gente reietta che aveva deciso di salvare, attraverso una maieutica che costituiva il fondamento del suo metodo d’azione.
Nato a Sesana, nell’allora provincia di Trieste, Dolci aveva avuto la possibilità di entrare in contatto con realtà differenti ma estremamente formative sul piano valoriale; già avverso alla dittatura e dunque arrestato per un breve periodo, fu decisivo per lui l’incontro con Don Zeno Saltini e l’adesione alla comunità Nomadelfia di Fossoli, in provincia di Carpi, dalla quale in seguito si staccò per trasferire la sua attività a Trappeto, un piccolo paese in provincia di Palermo di cui aveva potuto vedere da vicino le condizioni miserevoli per via di un breve trasferimento familiare. Egli fonda qui il suo operato perseguendo lo stesso fine solidale di Nomadelfia, ovvero quello di accogliere e aiutare i bisognosi, ma abbandonando l’impianto cattolico che la caratterizzava; Danilo, infatti, arriva a Trappeto da uomo laico, non intellettuale o poeta, ma quale encomiabile essere umano animato da valori a tal punto nobili da suscitare l’iniziale, e forse comprensibile, diffidenza nella popolazione del luogo.
Totò Galati mette in scena il suo vissuto con un’ammirazione così reale e sentita da andare oltre il racconto che lui stesso ha scritto, creando un immediato coinvolgimento emotivo con gli spettatori; e con la stessa concitazione nell’agire di Dolci, parla del suo potere quasi sovrannaturale di farsi carico di tutti i problemi di questi abitanti poverissimi, che non avevano nemmeno una rete fognaria e i gabinetti, in un paese ridotto a palude, a volte senza cibo, men che meno con la possibilità di avere un’istruzione che desse loro la speranza di una salvezza. Galati delinea la figura di Danilo anche attraverso un’immagine, probabilmente rievocata da una sua fotografia, in cui l’uomo dal maglioncino bianco (verrà ripetuto altre volte, per sottolinearne la sua apparenza pulita e quasi aliena) spicca nel fango tra bambini vestiti di nero. Sono proprio questi ultimi, non ancora intaccati dal pregiudizio, i primi a prenderlo in simpatia, iniziando a chiamarlo confidenzialmente “zio” e a salutarlo con un “ciao”, alla stessa maniera, inusuale per quei tempi e luoghi, in cui lo faceva lui. In una progressiva presa di fiducia, gli abitanti di Trappeto (e di altre zone vicine, come Partinico) decidono di farsi salvatori di loro stessi e di aiutarlo (e aiutarsi) nel risanamento di un territorio che pian piano – con fatica e lotte pacifiche – comincia miracolosamente a rinascere; si rimboccano infatti le maniche e costruiscono strade, edifici, chiedendo a gran voce – ma senza letteralmente alzarla davvero – il riconoscimento del loro diritto a vivere e dunque ad avere condizioni igieniche dignitose, a istruirsi, ma prima di tutto a soddisfare un bisogno imprescindibile per qualsiasi essere vivente: quello di poter mangiare.
A questo punto, lo spettacolo, che si era sviluppato finora in un lento crescendo affidato prevalentemente al racconto, fa alcuni balzi di intensità, e i momenti di maggior pathos vengono accompagnati dall’intervento di altri due linguaggi sensoriali: la luce, che a volte cala fino a divenire penombra, e la musica tribale di un lungo flauto e di un tamburo composta e suonata dal vivo da Nathan Tagliavini.
La mancanza di cibo, la morte, la disperazione – vissute con un orgoglio che viene sempre sottolineato – chiedono adesso misure più forti: è il 1956, a quattro anni dal proprio arrivo in Sicilia, quando Danilo esorta i siciliani a non patire più la fame nel chiuso delle loro abitazioni, nascosti agli occhi dello Stato, ma ad attirare l’attenzione pubblica con l’arma silenziosa del digiuno volontario: se morirà il primo, cioè Danilo, toccherà a un altro, e poi a un altro ancora, fino a che non verranno ascoltati.
Appare lampante, allora, il messaggio di denuncia che la compagnia vuole lanciare, attuale oggi come allora, verso tutte le realtà di povertà e degrado che non vengono viste dallo Stato perché motivo di colpa e vergogna, o perché semplicemente non conviene; nonché quello di non stare con le mani in mano patendo la propria condizione, e invece di farsi guidare dall’esempio apparentemente utopico, ma in verità possibile, di Danilo Dolci. Questa salvifica spinta dal basso è di certo così avvertita perché già praticata in altre forme con il teatro e le attività a esso collaterali, ed è un monito che si estende anche al rapporto tra uomo e natura, in questo caso soprattutto con il mare.
Ecco, dunque, che si collegano i fili con l’iniziale richiamo biblico allo sfamarsi insieme provando a condividere ciò che si ha; con le informazioni quasi documentaristiche sulla pesca delle larve di sardine – la cosiddetta nunnata (neonata) – che depaupera senza rispetto il mare; e infine con le stesse sarde, forse l’esempio migliore nel mondo animale del vivere vantaggiosamente in comunità. Il muoversi in banchi per sopravvivere e avere così la meglio sul nemico ricordano infatti da vicino le stesse modalità riproposte da Dolci: aiutarsi l’un l’altro in modo compatto per un bene superiore che rappresenterà poi la salvezza di ciascuno.
Sapete da cosa deriva la parola “gruppo”? – chiede al pubblico Totò, sul finire dello spettacolo. Deriva dal germanico “kruppa”, che a sua volta ricorda da vicino la parola “ruppa”, cioè “i nodi”, in un dialetto siciliano che è ricorso frequentemente durante l’ora di rappresentazione; e tanti nodi è vero che legano e limitano, ma creano anche un’inscindibile forza: quella di una rete. La stessa che i poveri pescatori di Trappeto, sopra cui si posa una carezza compassionevole, dovevano rendere sempre più fitta per colpa dei grandi pescherecci che si avvicinavano troppo alla costa facendo sì che il mare non potesse più sfamarli; e la stessa che invece si allarga e libera i pesci, permettendo il passaggio dei più piccoli.
Ecco, le polpette di pane sono pronte – sollevate dalla rete metallica di un arnese da cucina proprio come dal mare si tira su il pescato – e secondo la “ricetta di Danilo”: senza neanche una sarda dentro, solo ingredienti non violenti e tanti grammi di coraggio.
Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.
Era molta la curiosità, dopo l’intervista a Barbe à Papa Teatro, di vedere come l’ardore e le peculiarità artistiche, le difficoltà e i vissuti personali si sarebbero tradotti concretamente sulla scena. Nel caso specifico, è stato dentro un accogliente e intimo Spazio Franco – scrigno di creazione contemporanea all’interno dei Cantieri culturali alla Zisa di Palermo – dove la compagnia siciliana ha presentato lo spettacolo conclusivo della trilogia Generazione Y,L’arte della resistenza, di cui si era solo accennato nella scorsa intervista.
Accolti e sostenuti dal calore umano della loro terra, i quattro performer – Chiara Buzzone, Federica D’Amore, Totò Galati, Roberta Giordano, guidati dal regista e autore Claudio Zappalà – hanno raccontato, con umorismo e insieme profondità, i disagi e le consapevolezze della loro generazione, provata da crisi multiformi e alla costante ricerca di una direzione e di certezze, sfuggenti, a cui affidarsi.
Il tema della “malattia mentale” viene subito introdotto e posto all’attenzione del pubblico. Dopo una vera e propria irruzione sulla scena come per prepararsi a una lotta – tra allenamenti in abiti sportivi, urla di sfogo e musica energica – qualcuno sta per crollare, o meglio, per essere attirato al cielo verso il quale tende, sfinito e speranzoso, una mano; cala allora un improvviso silenzio e una domanda lo scuote: si può fare teatro quando si è depressi? Cosa si può fare quando si è depressi?– chiede, affacciandosi al pubblico e interrogando anche il cielo, Federica, che come gli altri compagni, non porta in scena alcuno specifico personaggio se non se stessa e la collettività di cui si fa portatrice. La società e il pensiero ormai automatico del “dover fare” impongono di andare avanti sempre e comunque, ma la risposta dell’organismo sembra la più sana e umana possibile, e chiede solamente di fermarsi e ascoltare.
Lo spettacolo – in cui Barbe à Papa Teatro si mette in gioco nel tentativo di condurne un altro, situato nell’intercapedine tra finzione e realtà – si realizza dunque come una risposta a questa esigenza di pausa e riflessione. I quattro attori/non-attori iniziano così a dialogare; a sostenersi a vicenda sorreggendo, anche fisicamente, chi sta per mollare; a raccontarsi, tra sentimenti di inadeguatezza, sogni e la sensazione di essere perennemente fuori tempo. Ma cosa si sta inseguendo e, soprattutto, per cosa si sta vivendo? Dalle domande sul senso ultimo e personale dello stare al mondo – frapposte tra aneddoti e gag, mentre si ha la sensazione di stare in confidenza come con degli amici – risulta chiara l’identità della compagnia, che si era auto-descritta con l’aggettivo “ambivalente”: leggera come lo zucchero quando viene filato, ma allo stesso tempo tagliente come quando si solidifica dopo esser stato sciolto.
Nel buio delle incertezze, ci sono però dei punti chiari che via via emergono dal fondo: quello di non voler rinunciare a tutto per poter dire di essere sopravvissuti; e l’importanza dell’amicizia e della condivisione, strumenti di forza nella resistenza di esseri umani fragili. Prima di connettersi agli altri, però, è necessario denudarsi dei panni che si indossano nella vita e delle maschere, riducendosi all’essenza di cui siamo fatti: nient’altro che desideri e paure. Così, anche il corpo fisico diviene simbolo, oggetto di svestizioni e vestizioni, mostrato con e senza artifici, davanti e di spalle, nella forma in cui parte del senso di inadeguatezza si concretizza.
Scegliere una strada che ci disancori dai canoni e dagli obblighi sociali, dalla certezza dell’infelicità, richiede però un grande coraggio, che non sempre si ha; a volte si decide di rinunciare alla propria vocazione e ai propri ideali in nome di una serenità perlopiù fittizia, altre volte il prezzo da pagare risulta inaccettabile.
Sulla scena, intanto, si alternano differenti ritmi, così come i dialoghi lasciano il posto ai monologhi in cui l’attore o l’attrice di turno vanno in primo piano, mentre gli altri rimangono sullo sfondo; ora in ascolto come un pubblico partecipe, ora agendo e animandolo. La scena varia inoltre lentamente sul piano cromatico, verso una maggiore intensità di colori per poi incupirsi, sempre però mantenendo un senso complessivo di armonia; così, anche le emozioni e gli umori seguono questa continua altalenanza, a volte in modo sorprendente: l’allegria un po’ forzata di una festa di fine anno racchiude anche un fondo di malinconia e una riflessione sul senso del tempo; la grinta di un karaoke conduce a un clima gioioso fino a un picco di speranza che non lascia presagire in alcun modo il finale che attende. Improvvisamente, si viene catapultati in una nuova dimensione – antica e attuale insieme – che richiama quella di una tragedia greca reinventata in chiave contemporanea, dove l’ineluttabilità si affianca a un’estenuante lotta contro i propri demoni e quelli di una realtà non sempre così benevola.
Della vita che si lascia non resta soltanto una manciata di oggetti che ci hanno rappresentato, ma persiste il senso di unione e l’amore che abbiamo coltivato – fino alla fine e mano nella mano – con chi ci ha accompagnato lungo il viaggio e dovrà proseguirlo; ed è una fusione che avviene anche col pubblico in sala, accompagnato anch’esso con candore e genuinità fino al momento dei saluti. Ma non c’è alcuna linea di separazione tra il dentro e il fuori: ci si guarda dalla penombra alla luce con occhi visibilmente commossi – ognuno artista della propria resistenza – e la certezza che il messaggio sia arrivato, confortante come un abbraccio dentro al quale, anche se forse per poco tempo, non ci si è sentiti soli.
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Barbe à Papa Teatro sarà presente al Festival Off d’Avignon2023 (8 – 26 luglio) con il primo spettacolo della trilogia, Il coro di Babele; ed è attualmente impegnata con il laboratorio teatrale “Prima del viaggio” a cura dell’autore e regista della compagnia Claudio Zappalà, prossimamente a Imola, Napoli e Catania.
Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.
È un mese d’indignazione, questo marzo, per i lavoratori del comparto privato dello spettacolo dal vivo in Sicilia. Si è inaugurato infatti con la pubblicazione, in Gazzetta Ufficiale, della Finanziaria per il prossimo triennio, approvata a Palazzo dei Normanni dall’ARS, ma disapprovata – a un attento esame – dalle quasi sessanta associazioni teatrali della Rete Latitudini,per ciò che concerne i criteri di ripartizione dei fondi destinati alla Cultura.
Il motivo non sorprende di certo: oltre al taglio di quasi un milione e mezzo del FURS (Fondo Unico Regionale per lo Spettacolo) rispetto all’anno precedente, risulta ancora più iniquo il trattamento che, favorendo gli enti pubblici, va a scapito delle realtà private, le quali continuano a produrre – nonostante lo scarso sostegno – un’immensa ricchezza per il territorio, l’arte e le comunità.
In attesa di conoscere il riscontro alla nota di appello inviata qualche giorno fa all’assessore regionale Elvira Amata, abbiamo fatto qualche domanda al presidente di Latitudini Gigi Spedale che, operando nel settore dagli anni Ottanta, ha offerto una visione più chiara sulle buone e cattive pratiche di cultura in Sicilia, indagando le cause della mala gestione e mostrando, nello specifico, le criticità e le storture di una legge finanziaria da cui dipenderà il prossimo futuro.
Presentiamo Latitudini: cosa rappresenta e da quali esigenze è nata?
Latitudini si è costituita nel 2011 grazie alla presa di coscienza di autori e teatranti provenienti da diverse parti della Sicilia che si identificano in un teatro di ricerca e sperimentazione volto a mettere in scena, con nuovi linguaggi e strumenti, la contemporaneità. L’esigenza era quella di incrementare la conoscenza delle attività di spettacolo in una regione che, per dimensioni e difficoltà nei collegamenti, è quasi un continente, nonché di interloquire in maniera efficace con le istituzioni che hanno in mano la gestione di enormi flussi di denari investiti per un nobile scopo. È vero, infatti, che la Sicilia spende per la cultura più di tante altre regioni italiane, ma il problema centrale è, come sempre, il modo.
Il nostro ruolo è dunque diventato automaticamente di rappresentanza del mondo dello spettacolo, portando alla luce i numeri di una “forza lavoro” e del complesso di attività che è molto maggiore rispetto a quello riferibile a un altro settore dove arrivano molti più soldi. La percentuale di fondi destinata al pubblico è infatti mediamente l’89% contro l’11% destinato al privato; con brevissime oscillazioni tra il 10 e il 13% nel corso delle fasi che si sono susseguite. Paradossalmente, però, è proprio il secondo ad assicurare maggiori livelli occupazionali e minori costi per l’Erario regionale, per cui tale condotta risulta oggettivamente poco redditizia per l’Amministrazione.
La tua attività inizia negli anni Ottanta con la compagnia Nutrimenti Terrestri, di cui sei uno dei fondatori insieme, tra gli altri, a Ninni Bruschetta e Maurizio Puglisi; hai dunque un chiaro quadro d’insieme sulle attività teatrali della regione e sui fondi che negli anni sono stati stanziati per il loro sviluppo. Quali sono stati – se ci sono stati – i momenti di maggiore apertura?
Senza andare troppo indietro nel tempo c’è stato un “periodo aureo” con tanti difetti ma anche tanti pregi, tra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’90; una fase di grande fermento, con investimenti in tutti i settori dello spettacolo che hanno fatto rifiorire le città e il territorio. Pensa che arrivavano artisti fantastici da tutte le parti del mondo: dal Living Theatre ai migliori musicisti internazionali di jazz, e si organizzavano festival magnifici… tutto questo però finì con l’implosione della politica e il salvifico fenomeno Mani Pulite, che lavò via tutto: errori e orrori della mala politica e purtroppo anche i grandi investimenti nelle attività artistiche sane e di alto valore. Penso alla bellissima stagione artistica che fece rifiorire Arte e Cultura nella Palermo degli anni ’90; alle mirabili edizioni dei Festival Jazz estivi e invernali di Messina fra gli ’80 e i ’90; ai primi decenni della bellissima (un tempo) Taormina Arte; ai ricchissimi e prestigiosi cartelloni del Teatro Vittorio Emanuele di Messina che, prima di diventare l’attuale grigio ente stipendificio, riusciva a ospitare anche nomi quali Bob Wilson, Philip Glass, Tiezzi, Servillo, De Berardinis, Carpentieri, Calamaro, Latella, Randisi/Vetrano, Sinisi, etc.
Dopo più di un decennio, una vera svolta si ebbe con l’adozione di uno strumento legislativo all’avanguardia per il teatro e la danza, ancora oggi uno dei migliori esistenti per lo spettacolo dal vivo in Italia: la Legge regionale n. 25 del 2007. Essa prevedeva anche una commissione di esperti per stabilire, di anno in anno, i finanziamenti più utili da attuare, tenendo conto di criteri anche qualitativi che, nel tempo, sono stati però abbandonati (insieme alla commissione, forse scomoda per chi non prediligeva la qualità) per privilegiare criteri quantitativi.
Quali credi siano i motivi alla base della mala gestione del settore e cosa vi ha invece agevolati?
È difficile fare un’analisi che sia perfettamente aderente alla realtà perché negli anni cambiano gli assessori e l’orientamento, gli esperti vengono sostituiti o aboliti del tutto e la propensione verso un teatro di qualità o di quantità è perciò un po’ ondivaga; inoltre, la frequente rapida rotazione dei politici fa sì che il nostro referente sia sempre diverso e spesso, venendo da chissà quale mondo, ignaro di ciò che succede nel settore di cui si va a occupare.
Della rete Latitudini fanno parte compagnie anche molto importanti, riconosciute di interesse pubblico dal Ministero; cito, solo per fare un esempio, quella dei Figli D’Arte Cuticchio, che gode di grande spazio e apprezzamento all’estero, mentre qui ha difficoltà a trovare ospitalità e luoghi in cui operare.
La politica purtroppo spesso non sa favorire l’ambiente adatto a chi vuole fare questo tipo di ricerca e, nonostante il grande indotto scaturito da attività come quelle di residenza e i numeri che mostriamo da dodici anni, dobbiamo sempre affidarci a singole amministrazioni illuminate che saltuariamente ci permettono di avere in gestione teatri nei piccoli centri per creare rassegne che si rivelano poi qualitativamente anche migliori rispetto alle stagioni ufficiali di grandi città metropolitane.
Puoi farci qualche esempio virtuoso?
WRITE di Tino Caspanello, un progetto di residenza che abbiamo iniziato nel 2016 nel comune di Mandanici, dove abbiamo riunito per ogni edizione nove drammaturghi provenienti da tutte le parti del mondo. Ciò è stato possibile grazie al supporto di amministratori comunali sensibili alla materia dello spettacolo e consci delle relative problematiche, nonché alla messa a disposizione del Monastero basiliano del 1100, un piccolo gioiello ben ristrutturato di Mandanici che ha ospitato la residenza.
La giornata era divisa in precise fasi di lavoro: al mattino, i drammaturghi ricevevano un tema su cui scrivere all’impronta dei brevi testi teatrali; all’ora di pranzo, quelli in lingua straniera venivano tradotti; al pomeriggio si allestivano gli spettacoli, presentati infine al pubblico nel corso della stessa serata. Questo magnifico progetto è andato avanti per diverse edizioni e replicato in altri comuni siciliani, attirando anche l’attenzione dei media e della RAI, fino a che non si è interrotto per via dell’avvicendamento dei nuovi amministratori comunali e di un’insana sospensione delle attività nel monastero.
A volte ci sembra di essere un po’ migranti e solo grazie a chi ci dà supporto e ospitalità possiamo proseguire le nostre attività; in cambio – nonostante il non sempre sufficiente sostegno da parte della Regione – imbastiamo stagioni teatrali miracolose nei centri che soffrono del continuo spopolamento, come Calascibetta, Serradifalco, Scicli, Petralia, Malfa, etc. Sebbene il pubblico, dopo l’orrenda stasi e crisi pandemica, sia in crescita, non possiamo praticare politiche di prezzi alti al botteghino. Per questo motivo il finanziamento FURS della Regione diviene fondamentale, perché i Comuni coi loro magri bilanci non possono aiutarci in maniera significativa a compensare il nostro disavanzo.
Anche nel triennio ’20/21/22, con l’emergenza Covid, siamo riusciti a instaurare e mantenere un dialogo schietto e proficuo col precedente assessore regionale, che ha portato all’incremento del fondo FURS; grazie a questo enorme aiuto per noi – per i bilanci regionali si tratta di una bazzecola – è stato possibile far rinascere e inventare il teatro in tanti luoghi dove non arrivava e dove crediamo sia giusto che arrivi, al contrario di quanto fa la Regione che spende la grandissima parte dei fondi per lo spettacolo concentrandoli prevalentemente in sole tre città: Palermo, Catania e Messina.
Quanto all’attuale Finanziaria, nella nota indirizzata a Elvira Amata, avete evidenziato la rimessa in essere della “scandalosa” Tabella H. Di cosa si tratta e quali altre criticità riscontrate sul piano legislativo?
La Tabella H, ai tempi delle vacche grasse, era un allegato al Bilancio annuale della Regione che prevedeva una serie di beneficiari a cui veniva destinata una somma più o meno cospicua di denaro per le più disparate attività. Tale strumento, divenuto scandaloso e abnorme, venne a un certo punto ufficialmente abolito, ma sembra essere stato adesso resuscitato. È vero che nella lista di queste elargizioni “ad personam” figurano talvolta dei validi progetti ma il problema è che delle norme, mirate a beneficio di singole realtà, movimentano ingenti somme – non passando per le leggi di settore come la n. 25 del 2007 e la n. 44 del 1985 – che finiscono per essere lasciate in mano alla discrezionalità del politico di turno. È dunque una stortura, che non garantisce parità di trattamento e non fa che incrementare i divari già esistenti in diversi settori della vita pubblica.
Altra stortura è il fatto che da qualche anno si concentrano tutti i fondi nelle attività di produzione teatrale (secondo criteri perlopiù quantitativi); di contro, non vengono finanziate tutte le altre a esse collegate, essenziali per il buon funzionamento del sistema: la programmazione nei teatri privati, le rassegne e i festival, la circuitazione fuori dal territorio siciliano, l’acquisto di attrezzature… a dispetto di quanto invece prevede la già citata legge n. 25/2007.
Non riusciamo a intravedere una stabile, concreta e coerente politica di investimenti regionali, tranne quando accade che il politico abbia una propria sensibilità e buona volontà sufficienti e pure il tempo e la voglia di instaurare un dialogo con chi pratica queste attività. Quando ciò si verifica, è più probabile che vengano finanziati sempre di più progetti e iniziative di valore, altrimenti si rischia di andare un po’ a casaccio.
Pur nella possibilità di apportare migliorie alla legge finanziaria approvata, è ormai trascorso il primo trimestre dell’anno e il danno è già in parte stato fatto. Continuate comunque ad avere fiducia nel futuro e quali azioni pensate di intraprendere nel caso non arrivasse un riscontro positivo?
Per il futuro continueremo a insistere, a chiedere sempre con più fermezza. I finanziamenti purtroppo sono noti solitamente verso l’estate (a volte anche dopo) ed è sempre come andare alla cieca; poi, quando si ha contezza dei contributi assegnati, è comunque tardi per una sana programmazione e bisogna organizzarsi in fretta, finendo magari per spendere male i fondi che arrivano. La programmazione anticipata è infatti essenziale per poter fare un lavoro di qualità e ben distribuito nel tempo e nel territorio, così come avviene normalmente fuori dall’Italia, dove le stagioni si preparano l’anno precedente, mentre qui andiamo all’impronta e non facciamo che moltiplicare gli sprechi. E purtroppo questo vale per tutti i settori dell’economia.
Comunque, nonostante questo quadro un po’ apocalittico, siamo sempre fiduciosi perché, se si riesce a instaurare un dialogo proficuo con i politici, è possibile in effetti trovare soluzioni adeguate e le attività possono riprendere a fiorire, grazie agli autori e agli artisti bravissimi che abbiamo in Sicilia. Il problema è quando sono costretti migrare, in cerca di un “ecosistema” più adatto alla loro creatività.
Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.
Vivere in Italia e decidere di fare del teatro un mestiere è già di per sé una bella sfida. Se a questo si aggiunge far parte della precaria “Generazione Y” ed essere una compagnia emergente che si è formata un anno prima che iniziasse la pandemia, la bella sfida sembra diventare un’arrampicata scivolosa, una corsa controvento, una lotta ad armi impari. Un percorso talmente accidentato che se non fosse per la tenacia, la forza dell’unione e gli spiragli oltreconfine a rischiarare il cammino, sarebbe probabilmente già stato abbandonato.
Questo è il succo molto concentrato di tante storie di giovani teatranti, e anche quella di Barbe à Papa Teatro – compagnia siciliana formata da Chiara Buzzone, Federica D’Amore, Totò Galati, Roberta Giordano e Claudio Zappalà – che ha fatto de L’arte della resistenza non soltanto l’ultimo spettacolo e capitolo conclusivo della trilogia sui Millennials, ma anche un modus (soprav)vivendi in questi tempi difficili. È infatti grazie a tante piccole azioni diffuse che sono ancora qui a raccontare – con le parole di Federica e Chiara – i loro progetti di creazione e scambio culturale: nel luogo altrettanto difficile che hanno scelto come base, Partinico, fino alle varie congiunzioni col resto del continente.
La lingua francese ha questa buffa metafora per definire lo zucchero filato: letteralmente, la “barba di papà”. Come mai, essendo tutti siciliani, avete scelto un nome francese per identificarvi e perché proprio questo?
Federica D’Amore: Barbe à PapaTeatro nasce da un innesto drammaturgico del nostro primo spettacolo Il coro di Babele, in cui Claudio dice che i ricordi sono buffi e leggeri come lo zucchero filato. Questo nome ci piaceva perché parla di noi, avendo in sé un’ambivalenza nel significato data dal fatto che lo zucchero non è solo dolce e leggero, ma se lo sciogli può diventare tagliente. La leggerezza che nasconde una pesantezza appartiene anche al nostro teatro, multiforme come i diversi linguaggi che lo caratterizzano.
Chiara Buzzone: Quanto alla lingua che abbiamo scelto, la motivazione risiede nel contatto molto stretto con la Francia che vediamo come un modello di rispetto verso le maestranze e di tutela nei confronti degli artisti, in particolare di quelli emergenti. Inoltre, un nostro desiderio – che abbiamo realizzato e realizzeremo ancora – era quello di partecipare al Festival d’Avignon, dove la scorsa estate Barbe à Papa Teatro ha portato in scena Il coro di Babele. Sebbene fosse recitato in italiano con sottotitoli in francese, la fruizione non ha risentito del problema linguistico, riscuotendo anzi successo, proprio per la pluralità di linguaggi di cui parlavamo.
In cosa consiste questa multiformità che rende il vostro teatro così immediato?
F.D.A: I nostri spettacoli sono di prosa, di testo, ma portiamo anche l’aspetto performativo, termine col quale non ci riferiamo soltanto al teatro fisico – che comunque ci è proprio ed è presente, venendo tutti da una formazione in quel campo – piuttosto nel senso del linguaggio. Noi, per esempio, non utilizziamo dei personaggi, ma le nostre biografie; in scena ci chiamiamo coi nostri nomi e da qui costruiamo le drammaturgie.
C.B: Pescare dal nostro vissuto ha però il fine di riportarci a un’esperienza collettiva. Entrando nello specifico del nostro lavoro creativo, con l’ultimo spettacolo L’arte della resistenza, che ha debuttato da poco concludendo la trilogia, ci siamo aperti a studiare la nostra generazione, quella dei cosiddetti Millennials, capendo che il coro è molto più ampio di quello che pensavamo e apre tematiche che coinvolgono inevitabilmente anche le altre a noi limitrofe.
Possiamo rintracciare un sentimento comune e prevalente nei tre spettacoli?
F.D.A: La nostalgia, sicuramente: di un passato in cui non c’era la crisi economica, sanitaria, ambientale e un futuro non futuribile che oggi genera inevitabilmente angoscia. La nostra indagine, in particolare nel secondo spettacolo Mi ricordo, è volta a cercare la matrice dei nostri traumi, delle nostre ansie, dei nostri attacchi di panico, così comuni nella nostra generazione e ancor più in quella successiva. L’approccio che utilizziamo, però, non è mai eccessivamente intellettualistico o psicologico; al contrario, la drammaturgia si serve di elementi quali l’ironia, la pantomima, che sono delle chiavi molto importanti nella nostra “cassetta degli attrezzi”…
C.B: …oppure il ritmo, l’elemento visivo e onirico in alcuni punti, perchè oltre a questo aspetto un po’ dark che stiamo descrivendo c’è anche quello del sogno e della speranza che precede la delusione delle aspettative: quest’ultima riguarda non soltanto, banalmente, i sentimenti, ma anche questioni più pragmatiche come quelle relative al lavoro o alle migrazioni.
I tre spettacoli, inoltre, attraversando i tempi passato, presente e futuro, conducono a un’analisi profonda che si collega a una situazione collettiva, oserei dire universale; l’obiettivo è quello di costruire un rapporto onesto con lo spettatore per farlo sentire meno solo nelle proprie paure, attraverso un’esperienza condivisa e l’invito alla riflessione che ne consegue.
In quanto Generazione Y, che rapporto avete col tema della migrazione affrontato ne Il coro di Babele, operando sia in Sicilia che all’estero?
C.B: L’esperienza de Il coro di Babele parte da laboratori di ricerca in cui abbiamo sciorinato questo tema partendo da una domanda: “dov’è, per te, casa?” Quando Claudio, il regista della compagnia, ce l’ha posta per la prima volta abbiamo avuto un attimo di esitazione. Io stessa ho vissuto all’estero, prima in Francia poi in Spagna, ma esistono anche altri tipi di migrazione entro i confini dell’Italia, indice di uno spostamento dalla casa di origine ad altri luoghi che vengono riconosciuti come tali. Per noi la Sicilia resta comunque la casa primordiale, il luogo in cui ci siamo incontrati non casualmente…
F.D.A: …ma ovviamente anche noi, come molti nostri amici che hanno seguito percorsi diversi, ci siamo ritrovati a vivere altrove, e spesso le comunità in cui ci siamo sentiti al sicuro sono diventate la nostra nuova famiglia, altro che quella “tradizionale”… Anche la nostra compagnia in fondo lo è: un’unione che va controcorrente rispetto all’individualismo imperante della società e ci ha permesso di non andare alla deriva in questi ultimi anni.
C.B: La Sicilia, però, pur rimanendo la nostra base, non è il luogo in cui tutti noi abitiamo, perché siamo ancora dei migranti alla ricerca di nuovi luoghi da chiamare a casa. Viceversa, vorremmo che la nostra regione diventasse un luogo accogliente e aperto alle migrazioni altrui.
Per questo collaborate da alcuni anni con un’associazione molto attiva sul territorio: Partinico Solidale. Potete parlarci di questa esperienza?
F.D.A: Partinico, pur essendo un comune commissariato da anni e ad alta densità mafiosa, ha una bellissima storia, che è quella di Danilo Dolci, il “Gandhi italiano”, oltre ad essere il paese del nostro Totò (Galati ndr) grazie al quale abbiamo un contatto così forte con questo territorio. Dolci è la figura di riferimento alla quale ci ispiriamo, portatore di un meraviglioso modello di maieutica reciproca e di comunità fondata sui sogni e i bi-sogni degli abitanti, di cui i partinicesi hanno accolto l’eredità. Da tale esempio è nata anche l’associazione di promozione sociale Partinico Solidale con cui collaboriamo per portare avanti i nostri valori di compagnia legati al concetto di comunità partecipata: nel 2020, per esempio, abbiamo introdotto la materia teatro all’interno di un doposcuola popolare per contrastare l’abbandono scolastico e trovare nuove strategie per sopravvivere a un tempo funesto, sopperendo inoltre al bisogno di socialità in diversi ambiti, come quello riabilitativo o psicoterapico.
C.B: Ogni evento è sempre molto partecipato e ha determinato la creazione di una comunità fondata sull’ascolto dei bisogni e sull’aiuto reciproco a un livello paritario. Grazie alla forza di questo sodalizio, inoltre, porteremo a Partinico il Belgio e l’esperienza di diverse associazioni culturali europee e mediterranee, coinvolte in un nuovo progetto di più ampio respiro.
Di cosa si tratta?
C.B: È per l’appunto un grande progetto di cui mi sto occupando in prima persona nell’ambito del programma Europa Creativa: si tratta di realizzare una Casa Nomade delle Culture Euro-mediterranee (Maison nomade des cultures euro-méditerranéennes) che vede coinvolti sei Paesi partner: il Belgio, che ne è l’organizzatore, la Francia, la Germania, la Grecia, la Tunisia e l’Italia con le rispettive associazioni culturali, tra cui proprio Partinico Solidale. A partire da marzo 2023, per una durata complessiva di 18 mesi, si organizzeranno attività laboratoriali, esposizioni, conferenze, costruendo un centro culturale itinerante che tappa per tappa si sposterà tra i vari Paesi, culminando con la rappresentazione di un unico grande spettacolo come risultante. Noi, in particolare, collaborando con Partinico Solidale, ospiteremo la compagnia belga dei Nouveaux Disparus occupandoci di attività inerenti al macro-tema delle migrazioni su cui verte il progetto. In generale, esse spazieranno dal teatro alla fotografia, dalla musica all’aspetto visivo e documentaristico, come nel caso della Germania.
Visto l’argomento affrontato, la scelta dei territori non è affatto casuale, e punta l’attenzione su un’area di forte interesse, quella del Mediterraneo e di un mare attraversato dai migranti dove ancora oggi purtroppo si muore, aiutandoci ad ampliare lo sguardo su problemi che vanno il più possibile collettivizzati come chiave per affrontare il presente.
Anche l’idea di Ad Avignone col furgone, un progetto che al momento è rimasto in sospeso per via di questo più imminente al quale abbiamo dovuto dare la priorità, nasce allo scopo di vedere cosa accade intorno e come siamo visti al di fuori non in quanto italiani, ma in quanto esseri umani.
Quali altre necessità vi hanno spinto a realizzarlo?
F.D.A: La spinta internazionale è sempre presente perché ci accorgiamo che le porte in Italia sono tutte chiuse per un artista emergente che vuole fare questo mestiere. Anche noi, nonostante l’ampliamento delle nostre competenze e i diversi riconoscimenti ottenuti (per ultimo quello di aver vinto il bando di residenza Chiamata Offline del Ferrara Off grazie al quale abbiamo creato L’arte della resistenza), fatichiamo molto a trovare una porta aperta, e questa situazione genera un livore molto forte, presente inevitabilmente nei nostri spettacoli. Se dovessimo immaginarci solo nei confini dello stivale non so se avremmo tutto questo coraggio, e forse ci saremmo già dedicati a un altro mestiere come molti di noi sono costretti a fare.
Ad Avignone col furgone vuole dunque essere un’alternativa rispetto a questa chiusura e un modo per mettere in contatto realtà periferiche dove vogliamo portare il teatro: il fil rouge nella scelta delle tappe del viaggio è infatti lo spopolamento, e così come facciamo a Partinico, dove abbiamo tenuto, grazie a PASOL, laboratori di teatro nelle piazze di spaccio, vorremmo contaminare e far fiorire luoghi difficili e dimenticati, come fanno tante altre associazioni che anche prima di noi si sono insediate nei territori portando l’inimmaginabile. C.B: Per noi è anche dare un’alternativa valida a chi vuole andare via, con queste piccole esperienze di resistenza basate sui valori che portiamo anche tra di noi, come amici ed esseri umani. L’obiettivo del nostro teatro è ancora più ampio: operare lì dove tutto manca per dare agli altri una ragione in più per restare, o per tornare.
Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.
Lo spopolamento dei borghi e il conseguente bisogno di far tornare a rivivere luoghi altrimenti dimenticati non è una missione da affidare esclusivamente agli interventi politici; il cambiamento, infatti, potrebbe partire anche dal basso, attraverso il teatro che, come un sarto riparatore, si occupi di ricucire efficacemente un tessuto sociale compromesso, in territori che meritano, per la loro genuinità e bellezza, di essere vissuti ancora.
Il Teatro dei Venti – compagnia modenese che fa del teatro di comunità una missione – continua nell’intento di combinare la sperimentazione dei linguaggi di scena contemporanei con l’arte di stabilire legami umani, e lo fa con tante piccole azioni diffuse, compresa quella di occuparsi di un festival, Trasparenze, che da qualche anno si è irradiato da Modena – la base del loro lavoro, da cui tutto ebbe inizio – verso l’Appennino. In circa un’ora di macchina e una serie di curve si arriva infatti a Gombola, uno dei tanti borghi colpiti dal suddetto spopolamento dove, dal 28 al 31 luglio, ha luogo la seconda parte della decima edizione del festival che, come spiegato dal direttore artistico della compagnia Stefano Té, non esaurisce in questo tempo limitato la sua funzione.
Com’è nato Trasparenze e perché avete scelto proprio questo nome?
Trasparenze è nato da una collaborazione e uno scambio molto intensi con Stefania Piccolo e Agostino Riitano, quando con Officinae Efesti, dieci anni fa, si immaginò un festival alternativo che volgesse lo sguardo sulle realtà invisibili – trasparenti, per l’appunto – che normalmente si visitano poco perché marginali, preferendo guardarvi piuttosto attraverso.
Come siete arrivati dunque a Gombola e con quale prospettiva?
Sono ormai tre anni, concomitanti dunque con la pandemia, che il FestivalTrasparenze si svolge, oltre a Modena, anche a Gombola. Ci siamo arrivati per caso, quando si è presentata l’opportunità di prendere in gestione l’ostello del borgo, e da lì l’idea di immaginare un posto che potesse accogliere gli artisti più che i turisti, e divenire un luogo di residenza dedicato allo studio e alla ricerca a partire dal silenzio circostante e dalla natura. È stato dunque un passaggio spontaneo quello di portare il festival qui, per comprendere le capacità di questo posto e le prospettive attuabili, grazie anche alla collaborazione con ATER che ha creduto nel progetto sebbene la complessità di portare il pubblico in un luogo oggettivamente fuori mano, che per gran parte dell’anno rimane disabitato.
La prospettiva è allora quella di costruire una presenza stabile e un luogo di permanenza per gli artisti, estendendo questo momento di condivisione e apertura anche oltre il festival. Per tale motivo abbiamo chiesto la partecipazione delle persone del territorio, che hanno reagito fin da subito con grande passione: è nato così il progetto Spettatori residenti che permette loro di prendersi cura degli ospiti aprendo le proprie case e accogliendo chi viene fin qui per assistere agli eventi.
Il festival diventa così un pretesto per costruire relazioni che siano effettive e durature, ma anche per uscire dalla trappola della comodità, che ci porta a escludere tutto ciò che appare complesso in favore del raggiungibile; Gombola, infatti, per noi che tutto l’anno andiamo a mille all’ora, ci offre la possibilità di fermarci, soffermarci, e anche esitare, che è una cosa molto bella.
In che modo riuscite a mantenere la continuità?
Riusciamo a mantenerla grazie ai laboratori permanenti con gli abitanti del territorio, che incontriamo tutte le settimane con l’intenzione di costruire lo spettacolo di apertura del festival insieme a loro. Quest’anno, è stata fatta una tappa a maggio e una in questo mese per il progetto Misura umana che avrà un futuro perché sarà il nostro prossimo lavoro per spazi urbani: il segnale dunque di un’inclusione più ampia che va ben oltre l’evento Trasparenze.
Abbiamo inoltre presentato alla Regione un ulteriore progetto per diventare un luogo di residenza, con la proposta di ospitare cinque compagnie per venti giorni ciascuna, affidando loro la missione sia di lavorare sulla propria produzione, sia di trovare una maniera logica e naturale per entrare in interazione con gli abitanti e coi luoghi. Si tratta di un vero e proprio progetto di trasformazione che necessita però di essere premiato e ricevere il sostegno e gli investimenti delle istituzioni.
Che tipo di collegamento esiste – se esiste – con la prima parte del festival tenutasi nel mese di maggio a Modena, e quale il senso specifico di questa decima edizione?
Trasparenze – per ricollegarmi a quanto spiegato all’inizio – si svolge a Modena in un quartiere periferico, dando attenzione alle realtà artistiche più marginali, nonché a luoghi come il carcere della città o a quello di Castelfranco Emilia, dove lavoriamo con continuità, e in cui è sempre prevista una tappa all’interno del festival. L’allargamento in questi due anni verso l’Appennino, ovvero una zona caratterizzata da complessità per via di uno spopolamento e un progressivo svuotamento di contenuti, appare dunque coerente, sia all’interno dell’evento sia nel quadro più ampio della nostra vocazione, con questa idea.
Sebbene l’edizione di quest’anno si concluda con la camminata utopica, questo decennale segna un importante passaggio: dall’utopia – una parola che sorvola il nostro lavoro da tempo e che ha contrassegnato gli ultimi anni del festival – alla misura umana, ovvero alla dimensione dell’abitare e della relazione. Stiamo infatti lavorando a un progetto che, dopo Moby Dick, sarà il grande spettacolo di comunità per spazi urbani, e vedrà compimento – si spera – tra circa tre anni, per il nostro ventennale come compagnia; nel corso di questa trasformazione, Trasparenze rappresenta un po’ il passaggio di consegna, l’edizione del cambiamento, anche nella sua veste che probabilmente non sarà più quella di un festival vero e proprio, ma di una presenza distesa nel tempo.
Hai accennato allaCamminata utopica: è una novità? Di cosa si tratta?
In verità abbiamo già fatto in passato una camminata utopica: all’alba dell’ultima notte di coprifuoco quando, insieme a centinaia di persone tra artisti, volontari, spettatori, amici e partecipanti ai laboratori, abbiamo attraversato la città di Modena costruendo un distanziamento poetico con i nastri colorati che abbiamo chiesto loro di portare; per poi concludere il nostro percorso in Piazza Grande dove, attraverso la lettura di poesie, abbiamo dedicato un momento di riflessione all’abitare, al bisogno di tornare a popolare luoghi che si erano fatti deserti.
Adesso è sembrato naturale riproporla, ma stavolta nel bosco, dove la camminata si fa utopica anche perché complessa, visto che saliremo attraverso sentieri ripidi fino ad arrivare a un altro borgo, disabitato a causa di una frana; e lì, in una piccola piazza piena di macerie, incontreremo il professore Gerardo Guccini, il direttore artistico de L’Arboreto–Teatro Dimoradi MondainoFabio Biondi e la poetessa Azzurra D’Agostino che, in tre forme diverse – rispettivamente, storica e visionaria, narrativa e poetica – ci presenteranno il concetto di utopia da differenti livelli. Il ritorno sarà poi percorso lungo i calanchi, dove potremo vedere in lontananza il borgo di Gombola, a cui giungeremo nuovamente per pranzare tutti insieme.
Un momento di grande condivisione che sembra permeare ogni parte del festival. Quale sentire vi ha guidato nella scelta degli altri spettacoli e delle attività collaterali all’evento?
La collaborazione con ATER e la proposta di progetti in sintonia con un luogo che ha bisogno di un certo sottotipo di spettacolo, non invasivo e persino adatto a essere sussurrato, è stata cruciale per poter realizzare un evento rispettoso della natura circostante. La scelta è stata inoltre guidata dal tema dell’umano ricorrente negli spettacoli, che ben si presta ad essere associato all’ambiente – come nel caso delle rappresentazioni che si terranno nel bosco – senza creare cortocircuiti, ma rimettendo al centro il luogo.
Quanto alle attività collaterali, sarà possibile visitare l’asineria, l’apiario, il vecchio mulino, coinvolgendo anche i bambini, al fine di portare l’attenzione su altre realtà invisibili. Sarà così un’occasione per presentarle, parlare con chi se ne occupa e conoscere i loro progetti, così che il festival non sia che un pretesto per far luce sulle presenze utopiche attorno a noi, spesso oscurate dalle brutture, ma che esistono, così come esiste tanta altra bellezza.
Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.
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