da Valentina Dall'Ara | 22 Nov 2018 | Interviste
Arturo Cirillo, attore e regista napoletano, il 24 e il 25 novembre porta in scena al Teatro Menotti di Milano una maratona dedicata alla drammaturgia americana del secolo scorso.
TRILOGIA AMERICANS è il titolo scelto per racchiudere le tre pièce Lo zoo di vetro (1944) di Tennessee Williams, Lunga giornata verso la notte (1942) di Eugene O’ Neill e Chi ha paura di Virgina Woolf? (1962) di Edward Albee.
Per l’occasione, il regista Arturo Cirillo è stato raggiunto ed intervistato da Theatron 2.0:
Cosa ti ha spinto a lavorare sulla drammaturgia americana di metà ‘900? Qual è stata la tua curiosità iniziale e da quale pièce sei partito?
Sono partito da Lo zoo di vetro, libro che mi è stato suggerito da Milva Marigliano, in scena con me in tutta la trilogia. Volevamo fare un progetto insieme e, dopo vari tentativi piuttosto fallimentari di farmi appassionare a testi di drammaturgia contemporanea, mi consiglia Lo zoo di vetro, testo che avevo letto molti anni prima. Fino a quel momento non avevo mai immaginato nella mia vita teatrale di poter affrontare autori americani perché li ho sempre considerati legati a un teatro troppo naturalistico rispetto al quale avevo la sensazione di essere troppo distante. Però Lo zoo di vetro mi è subito parso bello e mi ha commosso. Ho affrontato la pièce rispettando un codice di tipo naturalistico da un punto di vista recitativo mentre poi la messa in scena è stata pensata a sottrazione: cito, ad esempio, il film “Dogville” disegnando la perimetria della casa per terra. Non ho voluto ricostruire uno spaccato sociale americano anche perché non ne so nulla e non ci sono mai stato. Mi viene in mente il saggio “Dall’altra parte dell’America” che Andrea Porcheddu ha curato e che tratta di questa trilogia dove dice “Cirillo è un po’ come Salgari, riesce a parlare dell’America non essendoci mai stato” quindi, se c’era una persona poco adatta ad affrontare la drammaturgia americana forse quella ero proprio io! Questo primo spettacolo è andato molto bene, lo abbiamo portato in tournée e abbiamo deciso di farne un secondo. La scelta del testo si è rivelata ancora più complicata e più lunga della prima ma alla fine abbiamo deciso di mettere in scena Chi ha paura di Virginia Woolf?. Ma non c’è due senza tre e, con Lunga giornata verso la notte, abbiamo terminato la trilogia.
Mi incuriosisce la tua formazione, nasci danzatore, poi attore e infine diventi regista.
Arrivo alla regia attraverso il corso per attore all’Accademia Silvio D’Amico di Roma: ho fatto per dieci anni l’attore e poi sono approdato alla regia con canali narrativi. Sì, in effetti ho avuto un percorso curioso, ho cominciato con la danza perché avevo la scoliosi e mi ero stancato di fare piscina ortopedica. All’epoca una mia amica seguiva un corso di danza classica russa e mi sono iscritto anch’io. Non ho mai pensato di fare seriamente la carriera del ballerino, però il fatto di avere calcato i palcoscenici danzando mi ha certamente aiutato.
Tutti e tre gli spettacoli sono già andati in scena e hanno affrontato la tournée. Come ha reagito il pubblico italiano rispetto a una drammaturgia che oggi non è più molto conosciuta?
Sì, è vero, non sono autori così conosciuti e rappresentati oggi in Italia ma hanno avuto un enorme successo intorno agli anni ’50, ’60, basti pensare che Lo zoo di vetro nel 1946 fu messo in scena da Luchino Visconti, poi sono andati un po’ nel dimenticatoio. Il pubblico ha reagito in maniera molto differente rispetto ai tre spettacoli. Per Lo zoo di vetro tutti si aspettavano un testo fortemente datato e, invece, si sono trovati davanti a qualcosa per niente americano e sono rimasti tutti molto commossi da questa storia dalle tematiche universali. Tutta la trilogia, in fondo, è un guardare all’America attraverso una distanza e non una vicinanza, attraverso un tradimento e non una fedeltà. Chi ha paura di Virginia Woolff? è un testo molto diverso rispetto agli altri due, è stato scritto 30 anni dopo e studiato dagli psicoanalisti per i temi che tratta. La chiave vincente per questo spettacolo è stata di averlo reso estremamente cattivo, caustico, sarcastico e, soprattutto, di averlo contaminato con la colonna sonora del film “Birdman” di Inarritu che lo ha reso rock contemporaneo. Lunga giornata verso la notte è, infine, il più tosto dei tre testi. Con questo testo io stesso ho avuto un rapporto meno conflittuale quindi sono stato portato a rimanere più fedele al testo originale. È strano come sia stato magnificamente accolto nel centro sud e come, invece, molto meno nel nord dove l’hanno trovato troppo datato. Al centro sud, non so se per un motivo sociologico o per un maggior coinvolgimento per le tematiche familiari, è piaciuto enormemente. È dei tre lo spettacolo che più divide il pubblico.
Il tema che lega i tre spettacoli è sicuramente quello della famiglia non vista però in chiave rassicurante ma come una famiglia che si sgretola, che vive nel ricordo del passato, cinica e, a volte ,disperata. C’è spazio per la salvezza o per un futuro positivo?
Secondo me dei tre testi quello che paradossalmente ha più una visione di salvezza è Chi ha paura di Virginia Woolf? Anche se è piuttosto caustico e dominato da persone incattivite e arrabbiate col mondo, è un testo che alla fine sorprende perché ha un finale – o, per lo meno, per come lo abbiamo affrontato noi – che lascia spiragli positivi: i due protagonisti, nel momento in cui ammettono e riconoscono di avere inventato una storia fasulla, si ritrovano, davanti ad un’alba alcolica, solidali e accettano di vivere l’uno con l’altra. È una coppia che prende atto della situazione in cui si trova e questo porta il testo a un finale molto struggente. Le altre due pièce sono molto meno positive o salvifiche perché Lo zoo di vetro descrive una fuga del protagonista che scappa da se stesso e dal suo passato che però continuerà a tormentarlo. Lunga giornata verso la notte è, invece, dei tre quello in cui la famosa catarsi aristotelica proprio non avviene: lo spettacolo finisce e si ha la sensazione che tutto riprenda come prima, anzi, sembra che la situazione possa addirittura peggiorare.
L’ultima domanda riguarda il senso del tempo all’interno dei tre spettacoli. Nella trilogia sono anche protagoniste la malinconia, la nostalgia, sentimenti quindi molto legati al passato, ai ricordi e dunque al tempo. In che modo sfrutti o non sfrutti il fattore tempo?
Lo zoo di vetro è decisamente tra i tre lo spettacolo che ha un rapporto più forte col tempo. Il monologo finale del narratore Tom dice “Il tempo è la distanza più grande tra due luoghi” oppure, parlando rispetto al fatto che il padre era scappato di casa dice “Ho cercato di trovare le orme di mio padre, trovare nel cammino quello che nello spazio era perduto”. Anche nelle battute della madre è presente, ad esempio dice “il presente rischia di diventare un eterno rimpianto”. Con gli attori sono partito dicendo loro che il tempo è la nostalgia e il ricordo. Lo zoo di vetro ha un tempo stranissimo, viene tutto ricordato. Per la messa in scena mi sono ispirato a un film di Louis Malle “Vanya sulla 42esima strada”, in cui alcuni attori stanno provando delle parti e finiscono per interpretare i personaggi di Zio Vanya, rimanendo sempre attori. Così per Lo zoo di vetro: gli attori in scena si ricordano sempre di essere attori, non escono mai in quinta e compiono una serie di processi anti-immaginifici. Ho cercato di fare lo stesso anche con gli altri due spettacoli, partendo sempre da un conflitto, uno scontro, una contraddizione tra il tempo della rappresentazione e il tempo di cui si parla e, in questo senso, posso parlare di approccio meta-teatrale. Tutte e tre sono pièce che hanno a che fare col passato che non si riesce a dimenticare e che determina tantissimo il presente e anche il futuro ma sono anche tre spettacoli i cui personaggi non dimenticano di essere anche attori mentre sono in scena.
da Valentina Dall'Ara | 20 Ott 2018 | Interviste
Umberto Angelini da gennaio 2017 è curatore artistico della Triennale Teatro dell’Arte. In pochissimo tempo è riuscito, grazie alla sua esperienza e, soprattutto, a un forte lavoro di squadra, a riaccendere i riflettori sul Teatro dell’Arte con una programmazione innovativa, indipendente, multidisciplinare e internazionale.
• Come prima domanda vorrei chiederti qual è la tua idea di teatro, cosa ti ha fatto pensare che il teatro fosse la tua strada e se l’innamoramento per questo lavoro è stato lento o folgorante.
Ho approcciato il teatro fin da ragazzo. Vengo da una città di provincia, Ascoli Piceno, e nei primi anni delle superiori, quando avevo quindi 15-16 anni, ho avuto la fortuna di vedere a teatro quello che in quel momento storico erano le avanguardie di allora: sto parlando, ad esempio, di Falso Movimento, La Gaia Scienza, Sosta Palmizi. Credo che non ci fosse una vera consapevolezza nel portare i ragazzi delle scuole a vedere quel tipo di spettacolo ma per me è stata una folgorazione perché per la prima volta ho avuto di fronte un teatro che non aveva bisogno della parola in maniera evidente ma parlava con il corpo. Era un teatro molto visivo e, per me, molto affascinante e soprattutto sorprendente: è stato un imprinting molto forte. Non mi piace il teatro d’intrattenimento e non mi piace il teatro dove la funzione dell’attore è un po’ autoreferenziale. Mi piace, invece, un teatro in grado di interagire anche con gli altri linguaggi.
Il teatro della metà degli anni ‘80 aveva un forte collegamento con le arti visive, con il fumetto, con la musica. La scena teatrale indipendente di allora era creativa e trasversale, era un mondo totalmente differente da quello di adesso. Oggi potremmo avere più consapevolezza e possibilità di trasversalità anche attraverso l’uso della rete, invece, questi mondi mi sembrano tornati in separazione. Quello che ho cercato di fare in questi anni con Uovo o al CRT alla fine degli anni ‘90 è stato il tentativo di superare qualsiasi tipo di barriera. Non amo chiudermi dentro confini disciplinari.
Umberto Angelini
• Sia la stagione di quest’anno che quella dello scorso rispecchia, infatti, questa tua visione.
La programmazione teatrale è un lavoro collettivo. Sono direttore artistico e ci metto la faccia ma in realtà è un lavoro che nasce dal confronto con le persone che mi stanno attorno e che lavorano con me. Ho la fortuna di collaborare con persone anche giovani che sono molto appassionati e hanno voglia di fare questo lavoro.
• Il festival dello scorso anno ha chiuso con bilancio assolutamente positivo con più di 20.000 presenze. È un dato decisamente confortante. Come si conquista il pubblico oggi?
Ho la fortuna di avere una splendida responsabile della promozione. Il lavoro che dobbiamo fare è certamente un lavoro molto lungo. Siamo molto contenti perché abbiamo raggiunto in un anno e mezzo degli obiettivi che non pensavamo di raggiungere in così breve tempo considerando che siamo arrivati in un teatro che negli ultimi anni non era più rintracciabile sulla mappa della scena teatrale milanese e di conseguenza è stata dura perché è stato un lavoro di semina e il tempo della semina e il tempo del raccolto non coincidono. Ci siamo dati un orizzonte molto lungo perché non significa solo rigenerare un teatro che si era spento ma significa anche cambiare le abitudini di un pubblico milanese che frequenta moltissimo i teatri ma non è abituato a vedere spettacoli internazionali. Al di là di alcune eccezioni teatrali milanesi, non c’è una continuità e un’abitudine nel vedere spettacoli in lingua.
Siamo contenti dei risultati che abbiamo raggiunto sia con la stagione sia con il festival, non bisogna dimenticare che, anche se siamo all’interno di una delle istituzioni più importanti milanesi e italiane, siamo comunque un teatro che lavora sulla scena indipendente e la maggior parte della nostra programmazione è fatta di nomi sconosciuti alla maggior parte dal pubblico anche se poi questi stessi nomi li troviamo nelle più importanti istituzioni internazionali. Abbiamo un pubblico soprattutto giovane e internazionale e questo per noi è un dato importante perché vuol dire crescere insieme ad un pubblico che cresce assieme a te.
• Parliamo ora della stagione alle porte. Qual è il filo che unisce gli spettacoli? E c’è una continuità con la stagione precedente?
Questa stagione è segnata da due aspetti: il primo è che in stagione saranno presentati alcuni tra gli artisti più grandi a livello mondiale e alcuni di questi ci hanno cercato per essere inseriti all’interno della stagione quindi metteremo a confronto la nuova generazione del pubblico con i maestri del teatro internazionale come Eugenio Barba, Romeo Castellucci, Jan Fabre. Poi c’è un altro aspetto a noi molto affine e poco praticato in città se non attraverso i festival: avere una stagione di danza, un’altra caratteristica del Teatro dell’Arte. Questo significa ragionare con continuità sulla programmazione di danza all’interno della stagione. E i protagonisti di questo filone sono: Saburo Teshigawara, Collettivo Cinetico, Alessandro Serra, Cristiana Morganti. Questo è entrare in una dimensione europea abituale dove una programmazione di danza ha la stessa identica dignità delle altre. Ci sono dei ritorni quest’anno, pensiamo ad Alessandro Serra che l’anno scorso ha avuto la consacrazione con Macbettu, spettacolo che è stato lanciato qui. Con Serra abbiamo fatto un progetto di ritorno che prevede di nuovo una settimana di Macbettu e un lavoro coreografico, L’ombra della sera, che testimonia l’eclettismo dell’autore.
• Chi sono tra le associazioni e i teatri italiani e internazionali i vostri ‘partners in crime’?
A Milano bbiamo assistito negli ultimi 20 anni ad una metodologia di lavoro di isolamento. Credo che questo non abbia senso. Ci sono delle realtà che delimitano un paesaggio e che permettono di pensare la città come una serie di nodi che consentono di costruire una rete di progettualità. Quando noi ragioniamo con il Teatro alla Scala su progetti di musica contemporanea o quando ospitiamo La Scala per tre settimane con una prova aperta, è un modo di mischiare i pubblici e le progettualità. Quest’anno faremo una giornata attorno a Schubert in cui con un biglietto del Teatro alla Scala si potrà avere una riduzione al Teatro dell’Arte e viceversa. Non è una cosa abituale ma secondo me è un segno molto significativo così come ragionare con il Piccolo su un progetto visionario il prossimo anno, oppure con il Franco Parenti pensare a degli scambi tra produzioni: lo facciamo perché pensiamo ci siano delle affinità, all’interno delle diversità, che vanno coltivate. E poi ci sono delle affinità naturali di tipo ideologico, progettuale, penso al lavoro con la Fondazione Feltrinelli, che vanno al di là del singolo spettacolo ma che rendono più forte il legame con la città e il rapporto con il pubblico.
Il pensarsi all’interno di una comunità cittadina in cui ogni istituzione fa il suo ma allo stesso tempo trovare dei territori di convergenza: secondo me questa è la vera grande novità che il Teatro dell’Arte ha portato nello scenario milanese. Fuori Milano, invece, abbiamo collaborazioni molto strette con il TFE a Torino, con il Metastasio di Prato, con lo Stabile del Veneto. Abbiamo coprodotto e coprodurremo con in Grec di Barcellona, il Pompidour, Kunstenfestivaldesarts per citarne alcuni.
da Valentina Dall'Ara | 15 Ott 2018 | Interviste
Il 17 ottobre al Teatro I di Milano debutta L’indifferenza, l’ultimo lavoro del giovane regista Pablo Solari che, per questo spettacolo, ne firma anche il testo. A Theatron 2.0 rivela degli indizi su come prepararsi alla visione.
Come ti inseriresti nel panorama teatrale italiano?
Non riesco a darmi nessun tipo di etichetta, il mio è più un percorso di studio che di etichette. Vivo il mio percorso brutalmente giorno per giorno. In questa fase sono estremamente legato ad un teatro di parola. Anche quest’ultimo spettacolo che sto ultimando è formato da molti materiali diversi, tantissimo viene dal contemporaneo ma altrettanto viene dallo studio dell’Antico Testamento.
Chi sono i tuoi maestri?
Diciamo che ho fatto degli incontri e sicuramente il più recente è con Antonio Latella con il quale ho lavorato a Santa Estasi; mi ha dato tanto e, soprattutto, mi ha permesso di riscoprirmi drammaturgo, autore. Poi Marco Macceri e tutto il contesto dei MaMiMò che mi hanno insegnato e responsabilizzato molto. Prima di loro Antonio Albanese è stato il primo a raccogliermi in teatro, facendomi fare l’elettricista e facendomi capire come funziona la macchina teatrale. Infine devo citare per forza la mia famiglia, i miei genitori e i miei nonni e bisnonni che dolcemente “pesano”.
Qual è un regista e qual è un drammaturgo che ammiri?
Se posso anche rispondere con un regista cinematografico, dico Martin Scorsese. Teatrale, invece, dico Ivo van Hove. Un drammaturgo che ammiro invece è Euripide. Di contemporaneo mi interessa molto il lavoro di Rafael Spregelburd, grande riferimento per la sua semplicità e concretezza.
Nasci regista?
Non nasco regista, divento regista. Non pensavo di fare questo lavoro, ora sono ancora nella fase di sperimentazione, alla ricerca del mio colore artistico. Sono stato musicista per tanto tempo, batterista, e ho ricominciato da poco, sto riscoprendo il punk rock, la mia grande passione che sto riprendendo con gran voglia. È dalla musica che prendo tanto fulcro energetico.
Parliamo dello spettacolo. Non hai mai scelto temi semplici da trattare, uno dei tuoi spettacoli, ad esempio, Scusate se non siamo morti in mare, parla di un tema caldissimo oggi, l’immigrazione. Neppure L’Indifferenza che debutta al Teatro I il 17 ottobre ha un tema semplice. Ci dai una linea guida per prepararci alla visione?
La creazione dello spettacolo è frutto di un percorso di due anni che ha attraversato diverse fasi. Il titolo deriva da un libro che si intitola «La mia guerra all’indifferenza» di Jean-Sélim Kanaan che ho letto da adolescente. Si tratta di un’autobiografia di un ragazzo, un operatore ONU, morto nel 2003 durante l’attentato di Bagdad. La lettura di questo testo mi ha imposto uno sbilanciamento. Chi vedrà lo spettacolo assisterà ad un’opera imperfetta, immatura, soprattutto a livello drammaturgico, ma è proprio questa la sua bellezza. È un’opera che attraversa diversi stili e contaminazioni, ci si trova tanto Antico Testamento, ci si domanda quali siano le radici e cosa porti un popolo alla ricerca di una terra promessa.
Lo spettacolo L’indifferenza nasce in seguito all’attentato del Bataclan. Mi era capitato di vedere lo stesso gruppo che suonava quella sera al Bataclan a Milano, qualche mese prima. Quando poi è successo l’attentato ho avuto la sensazione che, oltre alla pelle, ci potesse essere qualcos’altro che potesse essere perforato da un momento all’altro. Quello è stato un attacco alla gioventù e mi sono sentito colpito in prima persona sia in quanto giovane sia in quanto appartenente a quella comunità di musicisti e spettatori di concerti. Ho pensato allora fosse giunto il momento di aprire le ferite. L’uomo e la cultura occidentale stanno vivendo una grande crisi che deve ora avere la forza di aprire le ferite e mostrare il dolore da cui nasce. È ora di rompere i tabù, il primo è quello della morte, poi quello della paura e della fragilità.
Il momento che stiamo vivendo adesso in Italia è un momento di poca responsabilità politica, non mi interessa giudicare la politica ma mi interessa il movimento del pensiero e la responsabilità educativa che c’è dietro. Voglio capire, ad esempio, quello che succede nelle scuole e mi arrabbio con chi dice che tutti i giovani sono attaccati al cellulare, non è vero! I ragazzi hanno già pochi punti di riferimento poi vengono buttati in una scuola dove sono costantemente giudicati invece di essere accolti in un sistema che gli dia stimoli culturali. I voti, a mio parere, sono una grossa fandonia. Ecco, L’indifferenza parla un po’ di questo, della necessità di aprire delle ferite.
Mi incuriosisce il tema del male all’interno del testo. Come lo hai trattato?
Andando avanti nella stesura del testo mi sono reso conto che i miei personaggi sono tutti dei maledetti che hanno bisogno di una redenzione. Sono tre personaggi che mentono costantemente e anche chi sembra una vittima innocente, in realtà, è carnefice perché crea una tragedia. Viviamo in un mondo in cui il male delle persone non è accettato socialmente, invece bisognerebbe accettare il fatto che le persone convivono anche con il male presente dentro di se’.
Definisci lo spettacolo un thriller, perché?
La differenza tra thriller e dramma è che nel dramma c’è uno sviluppo lineare attraverso i personaggi, nel thriller, invece, è la trama al centro dell’attenzione anche attraverso i colpi di scena. Ho cercato di lavorare tanto sulla suspense poi, in realtà, anche la trama è un pretesto per parlare d’altro: ho sviluppato la trama per poterla superare e fare emergere i temi a me cari. Anche lo spettacolo, ad un certo punto, evolverà e diventerà un’altra cosa a livello di linguaggio, la parola – che è la grande creazione occidentale – verrà mangiata dalla ‘bestia’.
Come è avvenuta la scelta degli attori per questo spettacolo?
Ho scelto attori che prima di tutto sposassero questa scommessa: Luca Mammoli, Woody Neri, Valeria Perdonò si sono lasciati ispirare dai temi e mi hanno aiutato a scrivere. Ho scelto attori maturi, avevo bisogno di un confronto con qualcuno che avesse qualche anno più di me soprattutto per quanto riguarda esperienze vissute. Mi sono trovato molto bene con loro, formiamo una bella squadra.
Ultima domanda: un resoconto del 2018 e previsioni per il 2019, ovvero come è andato quest’anno e come andrà l’anno prossimo?
Questo è un anno che sta andando benissimo, faticosissimo e con mille avventure. L’indifferenza debutta in contemporanea con il progetto all’Elfo Puccini M8 – Prossima fermata Milano dove io e Carlo Guasconi (Leche de Tigre) presentiamo 2# Milano capitale della Gig Economy. Un’apocalisse consegnata a domicilio assieme alla pizza. Poi ho lavorato allo spettacolo Copernico non ci credeva, un lavoro che parla di fisica, sui temi della rivoluzione, scritto con il amico fisico folle Rocco Gaudenzi. Sono stato alla Biennale di Venezia, un’esperienza bellissima e faticosa, per me un momento di crescita molto importante. Il 2019 sarà ancora meglio, già da gennaio sarò a MTM Manifatture Teatrali Milanesi con Contenuti Zero – Varietà, divertente, apparentemente superficiale ma si scaverà anche con questo lavoro fino alle radici della follia occidentale.