People of theatre di Giuliano Levato: raccontare il teatro tra presenza e distanza

People of theatre di Giuliano Levato: raccontare il teatro tra presenza e distanza

Giuliano Levato ha 36 anni e l’energia di un vulcano attivo. Da Catanzaro a Roma, da Pechino a Londra, quella del fondatore di People of Theatrepiattaforma online dedicata all’informazione teatrale e ai processi creativi legati al mondo delle arti performative – è una storia fatta di occasioni sapientemente colte e tanta determinazione.

Dopo essersi laureato in Lingua e Letteratura Cinese presso l’Università La Sapienza di Roma, Giuliano è volato a Londra per frequentare un master in International Journalism alla City University con il desiderio di acquisire competenze legate anche e soprattutto alla produzione televisiva. Grazie ai suoi studi trova lavoro come TV Producer per CGTN a Pechino, dove resta fino al 2017, quando decide di rientrare a Londra per iniziare la sua più grande avventura.

Hai un passato nel giornalismo e nella televisione. Come sei arrivato al teatro?

Quando vivevo in Cina e lavoravo per la CGTN, ho avuto modo lavorare a un documentario che aveva per protagonista una compagnia teatrale italiana che si trovava in tournée a Pechino. Ero l’unico italiano a lavorare per la CGTN e così mi è stato chiesto di seguire la co-direzione della produzione, anche e soprattutto per superare la barriera linguistica che ci separava. Ho trascorso un’intera settimana a contatto con la compagnia, aiutandoli con il cinese e accompagnandoli alla scoperta del paese durante il tempo libero. In questo periodo mi sono reso conto che volevo fare teatro, è iniziata così una collaborazione occasionale con il Teatro Nazionale di Pechino come interprete e assistente alla programmazione internazionale.

Come sei passato da Pechino a Londra?

Volevo lasciare la Cina. A Londra avevo frequentato un master che mi aveva dato la possibilità, in passato, di collaborare con la BBC, con la quale avevo mantenuto dei contatti. Nel 2017 sono riuscito ad ottenere un contratto a BBC Radio 2 e sono tornato nel Regno Unito. Mi sono reso conto che faticavo a trovare lo spazio per parlare di quello mi interessava realmente, ovvero esplorare la marginalizzazione, la migrazione, le tematiche legate al sociale attraverso il teatro e la danza.

Ho così iniziato a pensare a come potevo utilizzare le mie skills comunicative a servizio di questa urgenza. Ecco come nasce People of Theatre: dal desiderio di avere uno spazio mio. Londra è il posto perfetto, mi ha dato enormi possibilità per esplorare il settore anche a livello internazionale, come forse nessun altro luogo mi avrebbe permesso di fare.

C’è sempre molta difficoltà, da parte del fruitore medio, a riconoscere che dietro al palcoscenico c’è un intero mondo di forze che collaborano per rendere possibile la realizzazione di uno spettacolo. Credo che in realtà in Italia manchi anche un vero e proprio percorso di istruzione per chi vuole intraprendere le professioni dietro le quinte, non c’è una specializzazione delle qualifiche così come non c’è una vera e propria carta delle professioni.

Non posso parlare dell’Italia perché manco ormai da troppi anni, ma posso dirti che in UK ci sono sicuramente percorsi di studio più radicati per quanto riguarda le diverse figure professionali che lavorano nel theatre making. C’è un evento, Theatre Craft, che nasce proprio con l’idea di dare alle nuove generazioni alcuni punti di riferimento per reperire informazioni e opportunità per intraprendere percorsi di studio e professionali nel settore dell’industria teatrale.
Quello che credo che manchi qui nel Regno Unito è la conoscenza di queste figure da parte dell’audience. Nonostante il pubblico britannico sia molto raffinato – un pubblico che ama, conosce, paga, sostiene il teatro e vuole che il teatro sia sostenuto – c’è una mancanza di educazione sulle figure che il teatro lo fanno.

Persiste un po’ la favola per cui chi è on stage è il fautore unico dello spettacolo. Quello che cerco di fare io con People of Theatre è proprio di dare spazio a tutte quelle altre figure che stanno attorno ai performer perché dietro di loro c’è un mondo creativo di sostegno che talvolta è molto più grosso ed interessante di quello che si vede poi sul palco.

Nelle tue conversazioni parli anche molto di minoranze e integrazione, tematiche nelle quali sei fortemente impegnato. Anche attraverso il tuo sguardo da italiano che vive all’estero, com’è cambiato secondo te questo tema dopo Brexit?

È una domanda molto difficile e delicata. Da italiani si pensa sempre che l’estero sia meglio, che la Gran Bretagna sia meglio. Si cresce con il mito della lingua inglese, del Regno Unito come un luogo meritocratico in cui i sogni si possono realizzare, l’andare a vivere in Inghilterra è il sogno nel cassetto di molti. In realtà, è un paese con grosse difficoltà sociali, pieno di contraddizioni. Scherzando, dico sempre che sono bravissimi a fare marketing, sono eccellenti nel coprire l’inefficienza che esiste nel paese su più livelli. È tutto molto contrattuale, a partire dalle relazioni.

Sul lavoro, per esempio, esiste il duty of care, un documento che sancisce il dovere ad essere caring nella nostra relazione. Perché abbiamo bisogno di questa formula per un’azione che nasce dalla consapevolezza di essere umani? Se non credi autenticamente a una situazione, come puoi pensare di cambiarla? È qualcosa che vedi accadere anche in teatro, sai. Non tanto sul palco, ma all’interno delle istituzioni. Se guardi alla programmazione, la proposta è molto varia e attenta alle tematiche più calde, ma non sempre questi valori si riflettono anche all’interno delle venues o delle produzioni stesse. Se scorri l’organico di alcuni dei teatri principali ti accorgerai che un’altissima percentuale di lavoratori è british, white, middle class, eterosessuale.

Con Brexit è cambiata molto la consapevolezza di noi europei che viviamo nel Regno Unito: abbiamo preso consapevolezza della nostra identità in maniera molto più forte, perché ora siamo in una situazione in cui ci siamo noi e ci sono loro. Un po’ di tempo fa mi sono ritrovato a pensare che non ho mai sentito un accento straniero in una play a Londra. In una città global come Londra, non ho mai sentito un accento straniero sul palcoscenico. Pensa. La situazione cambia un po’ se ti sposti nel mondo della danza perché è maggiormente aperto all’internazionalizzazione, hanno anche bisogno di danzatori stranieri.

Nel Regno Unito solo il 3% dei testi rappresentati non è anglofono. E comunque, tendenzialmente, quando lo è si tratta di classici. A Londra c’è molto new writing, ma sono quasi sempre le loro storie o la loro prospettiva. Noi abbiamo una storia di migrazione molto forte, i britannici no, non hanno esperienza di prospettive altre rispetto alla loro. In un paese in cui vivo e lavoro e di cui sono parte perché appartengo a quella dimensione multiculturale che ne caratterizza la comunità, anch’io meriterei di essere rappresentato sul palcoscenico.

Ci sono sotto tracce, realtà più inclusive che si muovono in questa direzione in maniera più o meno underground?

Sì, certo. Ad esempio, il Voilà Festival è gestito da creativi europei che vivono nel Regno Unito e che portano voci europee sulla scena londinese proprio a partire da questa mancanza. Il pubblico che vi partecipa è molto europeo, poco britannico. Ci sono piccole finestre, ma faticano a trovare spazio.

A proposito delle infrastrutture, abbiamo visto la solidità dei teatri britannici durante la pandemia, a partire da un utilizzo consapevole del digitale per incrementare la propria presenza in un momento di assenza. Lo streaming era già ben radicato nella quotidianità in tempi non straordinari. In Italia si è sentita la mancanza di strumentazioni adeguate e di una conoscenza evolutiva della materia digitale, sia per quanto riguarda i contenuti che la loro forma.

Mi ha molto emozionato vedere il settore dimostrare una forza creativa senza pari. Penso che questo si basi su un assunto fondamentale: coloro che lavorano nell’arte e nella cultura vivono la condizione creativa come una passione viscerale a cui non si può rinunciare. Il teatro è un’urgenza, e si è rivelato come tale anche durante la pandemia.Il settore ha sentito la responsabilità di fare qualcosa per poter ispirare e coccolare una popolazione che stava vivendo un’esperienza nuova e totalmente al di fuori dell’immaginario più assoluto.

Con il digitale sono riusciti a fare cose molto belle, e si tratta di una rivoluzione che rimarrà. Come dici tu, credo fosse già nei piani, almeno delle main venues, perché hanno molti più strumenti. La rivoluzione digitale si è comunque avvantaggiata di almeno un decennio anche per le venues più piccole, che ora hanno un digital stage, un live streaming che porta il teatro di Londra in tutto il paese. Con il digitale si riesce a riempire anche quest’altra debolezza, quella della diffusione su scala nazionale.

Com’è cambiato People of Theatre con la pandemia?

È cambiato moltissimo, soprattutto perché è venuto meno l’elemento chiave su cui si reggeva il format del mio blog: l’incontro. L’idea dietro le couchersations sessioni di conversazione con i creativi del settore comodamente seduti su un divano – era proprio quella di dialogare con i miei ospiti entrando nel loro mondo, andando nelle loro case. Quando la pandemia non mi ha più permesso di incontrare gli artisti e ha portato alla chiusura dei teatri, mi sono trovato a riflettere su cosa fare con il blog, a chiedermi come avrei fatto a mantenere vivo il progetto in una situazione così complessa e difficile. Mi sono ovviamente dovuto reinventare, a partire dai contenuti. Dovevo cercare di capire come analizzare la situazione in maniera differente, indagare e capire le storie dietro la pandemia, soprattutto quelle di successo.

Sembra paradossale, sai, ma per alcuni la pandemia è stata un trampolino di lancio grazie all’utilizzo del digitale, che ha portato con sé una maggiore accessibilità. L’ho visto anch’io con People of Theatre, che è cresciuto molto proprio durante la pandemia perché c’è stata un’attenzione ancora più affettiva da parte di chi mi segue. Ci si è uniti nel desiderio di voler conoscere meglio il settore, di ascoltare le voci di chi partecipa al processo di creazione, di supportarlo in un momento di difficoltà.

Ho infatti creato uno shop online con lo scopo di donare il ricavato delle vendite dei miei prodotti – felpe, t-shirt, tazze con alcune tra le mie citazioni teatrali preferite – al Theatre Artist Fund, un fondo creato dal SOLT (Society of London Theatres) per sostenere i freelancer del settore, messi in ginocchio dalla pandemia. Sono riuscito a donare più di 1500£. La risposta che ho ottenuto dalla community è stata incredibile, una vera e propria dimostrazione di amore verso il progetto che mi ha permesso di capire la magia della connessione: le persone che mi seguono hanno sentito il mio stesso bisogno, o forse lo hanno sentito attraverso di me, non lo so, ma siamo stati tutti uniti nel desiderare lo stesso risultato.

Con la tua community hai un rapporto molto forte e diretto, determinato sicuramente anche dalla tua capacità di creare contenuti di qualità con un linguaggio accessibile. Non parli infatti ai soli addetti al settore, ma ti rivolgi anche ai semplici curiosi e per portare a casa questo risultato dialoghi con i tuoi ospiti sullo stesso piano, in una conversazione naturale e confidenziale.

Il mio progetto è genuino. È passione, rispetto e venerazione per una forma d’arte che mi dà moltissimo. Credo che le persone mi seguono e gli artisti con cui dialogo lo riconoscano e si connettano a questo livello. Il mio motto è theatre is people, ecco da dove deriva il nome del mio blog. People è la prima parola perché per me, il teatro, sono le persone: chi lo fa, chi lo guarda, chi lo respira, chi lo vive. Parlo di chi e a chi è ispirato e vede il mondo attraverso il teatro. Per questo mi rivolgo a tutti nello stesso modo: se crediamo tutti che il teatro possa cambiare la società, non ci sono barriere, non ci sono diversità di livello. Io ho studiato giornalismo perché volevo avere un impatto sulla comunità, volevo a mio modo cambiare il mondo e lo voglio tutt’ora – solo che ho scoperto che riesco a farlo meglio tramite il teatro. Non c’è rivoluzione senza le arti, ecco in cosa credo.

Il tuo futuro è a Londra? O meglio, pensi che il progetto continuerà a realizzarsi nel luogo in cui ti trovi o pensi che potrà essere un seme da piantare anche altrove?

Io vivrei solo a Londra, perché è una città così ricca di sfumature… ti reinventi sempre, ti ritrovi sempre in un te stesso diverso. Londra mi dà questa opportunità ed è una cosa che non potrò mai lasciare. Il progetto respira di Londra e in futuro vorrà avere anche un respiro più internazionale, ma credo sempre che Londra sia la piattaforma ideale da cui partire per poter viaggiare. C’è una parte del progetto che voglio dedicare proprio a questa trasversalità di esperienze per scoprire altre realtà. Adesso, per esempio, sto organizzando un viaggio in Africa per incontrare alcune compagnie di teatro e danza che operano sul territorio, così da poter offrire al mio pubblico prospettive molto diverse sulla loro identità.

Una storia di rivalsa: la nascita dell’Edinburgh Fringe Festival

Una storia di rivalsa: la nascita dell’Edinburgh Fringe Festival

In un presente dai contorni sbiaditi, confusi e instabili, la sensazione di muovere piccoli passi incerti su un terreno sconnesso diventa spesso ricorrente. L’equilibrio è delicato, se non precario, e destreggiarsi tra gli ostacoli del momento storico che stiamo attraversando somiglia talvolta più ad una modesta forma di sopravvivenza che ad un glorioso salto verso l’ignoto, verso l’idea del futuro a venire. 

E mentre sgomitiamo per riconquistare il nostro posto all’interno di una dimensione sociale e culturale sotto lo sguardo severo, impassibile e intransigente del peggior giudice che ci sia – noi stessi – finiamo con il guardarci intorno e chiederci molto erroneamente ed ingiustamente se siamo abbastanza (abbastanza bravi, abbastanza competenti, abbastanza competitivi, abbastanza inseriti in una rete, abbastanza abbastanza abbastanza) per farci strada e stare a galla in questo nuovo scenario intermittente in rapida evoluzione.

C’è un’interessante storia di determinazione da raccontare, a tal proposito, e riguarda la nascita di uno dei più importanti appuntamenti culturali al mondo: l’Edinburgh Fringe Festival.

La Scozia al centro del mondo

Nel 1945, un’Europa devastata dalla seconda guerra mondiale cercava di risorgere dalle proprie ceneri in mezzo agli strascichi della paura e dell’incertezza. La cultura rappresentava il patrimonio da cui ripartire per ritrovare il senso di un’unità sociale, le radici della propria identità e l’appartenenza ad una comunità che aveva vissuto collettivamente la più grande delle tragedie. Edimburgo – «with its numerous artistic facilities, ancient beauty, safe atmoshpere and walk-able size» – venne designata come la città più adatta ad ospitare un festival internazionale destinato ad unire negli animi spettatori e artisti da ogni dove, per ricostruire insieme le basi di un continente frammentato. E così, su idea di Rudolf Bing, venne istituita una commissione che individuò nel 1947 il primo anno utile a proporre un evento di questo tipo, che si sarebbe dovuto svolgere in agosto con il nome di Edinburgh International Festival.

I lavori di preparazione attirarono l’entusiasmo del popolo scozzese e coinvolsero la comunità a tal punto da rendere le persone l’essenza stessa dell’evento. La partecipazione si misurò in forma di aiuti consistenti, donazioni e attività di volontariato, l’intera città aprì le porte delle sue case per ospitare invitati e visitatori, per un totale di più di seimila posti letto disponibili tra privati e hotel.

«The people of Edinburgh rallied enthusiastically to welcome the world. The atmosphere of austerity was banished as residents transformed the city with decorated shop fronts, magnificent floral displays, and flags, and pennants flapping on every available spot. Topping it all, the sun shone gloriously for three continuous weeks»

Round the fringe

In questo clima di festa glorioso, otto gruppi teatrali costituiti rimasti esclusi dalla programmazione ufficiale decisero di presentarsi ugualmente senza invito e di portare in scena i loro spettacoli, parallelamente allo svolgimento della manifestazione principale. Le compagnie operarono in maniera totalmente indipendente l’una dall’altra, senza alcuna struttura di supporto, mosse solo dal desiderio di partecipazione e di inclusione. Erano stati lasciati ai margini (fringe, ndr) dell’evento, e nei margini avevano trovato il loro spazio d’azione, il luogo deputato entro cui rivendicare la propria identità teatrale. Il termine fringe entrò nell’immaginario collettivo (ufficialmente il nome che il gruppo si era dato era quello di Festival Adjuncts) con il 1948, quando il giornalista e drammaturgo Robert Kemp descrisse così la situazione:

«Round the fringe of official Festival drama, there seems to be more private enterprise than before … I am afraid some of us are not going to be at home during the evenings!»

L’evento prese così tanto piede che nel 1958 si arrivò alla costituzione della Fringe Festival Society, un’istituzione no profit che permettesse di rispondere alle esigenze di quello che si andava creando come vero e proprio appuntamento di tendenza. Lo scopo era quello di formalizzare l’evento e creare così una rete di supporto per gli artisti, costituendo un botteghino centrale di riferimento e un programma del festival sul quale la Società aveva il veto di non esprimersi. Un ideale che tuttora accompagna le politiche di inclusività e partecipazione portate avanti dall’istituzione.

Il Fringe oggi: here’s to the uninvited 

Il Fringe Festival rappresenta oggigiorno un appuntamento imperdibile che ogni anno, ad agosto, per tre settimane, trasforma Edimburgo nel palcoscenico più spettacolare che ci sia. Un calendario ricco di eventi colora le strade attraverso le esibizioni di artisti e performers, distribuiti su centinaia di venues sparse per la città e pensate per offrire una rete capillare diffusa di proposte adatte ad incontrare e soddisfare qualunque gusto. Il festival non è solo una vetrina di prestigio internazionale, ma anche e soprattutto un luogo di scambio e incontro per chiunque abbia una storia da raccontare, uno spazio sicuro in cui ciascuno può avere l’opportunità di esprimersi attraverso l’esperienza creativa.

In occasione dei lavori per il settantacinquesimo anniversario dalla nascita (da segnare in agenda, l’edizione del 2022 sarà particolarmente celebrativa), l’Edinburgh Festival Fringe Society ha pubblicato nel 2018 un documento intitolato The Fringe Blueprint che racconta l’impegno portato avanti dalla società in vista di questo prestigioso traguardo. Il manifesto è corredato in otto punti. Otto come quelle compagnie che, con determinazione, non si sono rassegnate e hanno fatto della loro emarginazione un punto di forza, dando origine ad un evento collettivo e unico nel suo genere che nel corso degli anni ha ispirato più di 200 movimenti off in tutto il mondo.

​​Robert Wilson: l’architettura del silenzio

​​Robert Wilson: l’architettura del silenzio

Nell’anno del suo ottantesimo compleanno, Robert Wilson è in pieno fermento creativo: un debutto atteso per giugno 2022 all’Auditorium Parco della Musica di Roma (A work in three parts, titolo provvisorio per lo spettacolo in collaborazione con la coreografa Lucinda Childs) e una mostra/installazione su Jack Keruac a Milano, a Palazzo Reale, in occasione del centenario della nascita dello scrittore statunitense. Artista poliedrico, maestro indiscusso delle avanguardie della seconda metà del Novecento, Wilson è stato recentemente celebrato dal MEET Digital Cultural Center di Milano con una giornata interamente dedicata, durante la quale si sono susseguite diverse proiezioni di alcuni dei suoi più famosi spettacoli, culminata in un talk serale alla presenza del regista stesso per ripercorrere le fasi del suo percorso artistico. 

In più di sessant’anni di carriera in cui Bob Wilson ha toccato tutte le forme d’arte, una costante della sua produzione performativa fin dagli esordi (“Oh, it’s so Bob Wilson”, pronunciò estasiata una signora al termine di uno spettacolo) resta l’intersezione di tre elementi sulla scena: la destrutturazione del movimento, il tempo e lo spazio. La tessitura narrativa prodotta dall’associazione di questi tre elementi è sostenuta nel suo accadere da una ritmica gestuale  e da una partitura sonora espresse in un dialogo perpetuo dell’attore con la luce, la scenografia e lo spettatore, a sua volta chiamato a lasciarsi sedurre dalla somma armoniosa di queste stratificazioni visive e acustiche.
Allo stesso modo in cui riesce a catalizzare l’attenzione del suo pubblico attraverso la fascinazione onirica dei suoi spettacoli, anche nella sala del Theater del MEET Bob Wilson ha trascinato con sé una sala gremita e in attesa iniziando con alcuni minuti di denso e profondo silenzio.

Il silenzio e la parola

Il silenzio appartiene alla storia personale di Wilson e affonda le sue radici negli anni Sessanta, nel preciso momento dell’incontro con Raymond Andrews, un ragazzo di colore sordo che il regista salvò da un pestaggio con la polizia e prese con sé divenendone il tutore legale. Attraverso la frequentazione con Andrews, Wilson imparò a comprendere il mondo attraverso le immagini, indagando le infinite possibilità di comunicazione dettate dal linguaggio non verbale. Già in passato Wilson aveva avuto modo di sperimentare forme di narrazione non lineare partecipando come educatore a programmi di riabilitazione per ragazzi cerebropatici e lavorando con anziani e malati terminali presso il Goldwater Memorial Hospital, arrivando a comprendere quanto la frammentazione del movimento nelle sue componenti più basilari potesse portare i soggetti coinvolti a riappropriarsi di una gestualità deformata dalle inibizioni e dalla malattia.

La critica ha spesso fatto riferimento alla natura terapeutica del lavoro di Wilson sottolineando l’atto di rieducazione dell’attore/paziente da parte del regista, attraverso la ridefinizione di un linguaggio funzionale destinato a produrre un riadattamento sociale. È indubbio che le condizioni di salute dei soggetti coinvolti abbiano subito un miglioramento progressivo, ma se si analizza a fondo la struttura delle opere di Wilson ci si accorge che il lavoro operato sulla percezione varia in senso opposto: ad adattarsi ai codici esterni è il regista stesso – dopo aver sperimentato in prima persona le difficoltà di una comunicazione negata e di un grave tracollo nervoso che lo ha portato, sul finire degli anni ‘60, a un tentato suicidio con conseguente ricovero in una clinica per malattie mentali –, che destruttura e disarticola il proprio linguaggio per comprendere appieno la realtà dell’altro, ponendosi sul suo stesso livello comunicativo. Non stupisce, dunque, che i primi lavori performativi di Wilson siano nati sotto l’influenza della danza, lontana da quei canoni didascalici che solitamente nel teatro vedono il movimento assoggettato alla parola. 

A introdurre l’artista allo studio del corpo in movimento fu l’insegnante Byrd Hoffman con cui, nel corso della prima adolescenza, Wilson imparò a correggere i propri disturbi fonetico-motori. Il debito verso la Hoffman si evince anche dalla fondazione di The Byrd Hoffman School of Byrds (da cui poi la Byrd Hoffman Foundation nata per realizzare gli spettacoli da portare poi in tournée), teatro-laboratorio costituito in forma di collettivo nel 1968 con il desiderio di portare avanti l’esperienza di comunicazione ludica e terapeutica intrapresa già in precedenza con i programmi di educazione e riabilitazione Head Start. Partendo dal presupposto che ciascuno occupa lo spazio in modo differente e personale, la funzione dei laboratori di Wilson consisteva proprio nell’aiutare le persone a stimolare la propria energia creativa entrando in contatto con se stesse e il proprio corpo, al fine unico di rimuovere gradualmente i freni che ne contrastano la libertà di movimento e  avvicinandosi così ad un metodo di comunicazione e percezione che andasse oltre i confini verbali.

How can I see this really quick

Inizialmente iscritto alla facoltà di Business Administration, presso la University of Texas di Austin, per accontentare la volontà dei genitori, Wilson abbandonò presto gli studi per inseguire il sogno d’arte a Brooklyn, dove nel 1962 iniziò a frequentare il corso di Interior Design presso il Pratt Institute. Negli stessi anni entrò in contatto con alcuni pionieri della ricerca coreografica come Merce Cunningham, George Balanchine e Martha Graham, che lo invitò a prendere parte ad alcune delle sue lezioni. La possibilità di creare scene e costumi per alcuni spettacoli di Alwin Nikolais e del suo collaboratore Murray Louis – fondatori del Teatro Astratto Multimediale e del relativo metodo pedagogico Nikolais/Louis basato  sulla motion, ovvero la creazione del gesto e del movimento in relazione alle categorie universali di tempo, spazio e forma – catapultò Wilson nella dimensione sperimentale dello spettacolo inteso come aggregazione di danza, teatro, musica e arti visive

Per sua stessa ammissione, Wilson all’epoca non sapeva molto di teatro. Frequentava spettacoli e rappresentazioni con regolarità, ma non riusciva a trarre piacere dalla fruizione nel momento in cui il rapido susseguirsi di tempi e luoghi condensati sulla scena non gli permetteva di pensare o compiere riflessioni personali. L’esigenza di riscontrare un tempo naturale che possa concedere al pubblico lo spazio per pensare, scaturisce dalla necessità di dare un valore al singolo individuo per quello che è, così da instaurare una piena relazione con il pubblico.

La partitura visiva che costituisce la forma di partenza dello spettacolo deve molto alla formazione in campo architettonico di Wilson. Tra le personalità incontrate durante il percorso accademico, l’architetto Louis Kahn e la storica dell’arte Sibyl Moholy-Nagy hanno avuto un peso di rilievo: al primo si deve il rapporto di Wilson con la luce, alla seconda la costruzione geometrica dei quadri performativi e la rapidità della visione di insieme. Poiché senza luce non vi è spazio e con la luce si crea uno spazio attivo, essa deve costituire il punto di partenza in cui inserire il resto degli elementi performativi: una tela bianca da riempire con l’esperienza dello scambio e del dialogo, un vuoto vivo e agente che libera dai condizionamenti della materia, che esiste non in quanto tale, ma nella relazione che esso intraprende con il processo di interiorizzazione e trasformazione strutturato nella mente di chi osserva. 

L’azione deve essere chiara, pulita, immediata, così come lo deve essere la meccanica del movimento, scandita dai ritmi estenuanti di una geometria ben definita basata su una scansione numerica (tendenzialmente multipla di 4) che permette di scomporre anche il più piccolo gesto in impulsi da sviluppare e trasformare in energia. Il performer dialoga con un’interiorità da esternare prima per se stesso che con il pubblico. Allo spettatore è data la possibilità di procedere nella fruizione secondo una sorta di zapping visivo delineato dalla doppia costruzione della scena che si muove su un piano sia orizzontale (a rappresentare lo spazio) che su di uno verticale (il tempo), riprendendo la strutturazione del teatro Nō giapponese. L’azione per Wilson si svolge da destra verso sinistra, in maniera indipendente e svincolata dalla totalità della vicenda. La scena appare frammentata, decostruita, in cui i cambiamenti di luce determinano lo svolgersi degli eventi e accentuano le pure strutture geometriche prive di riferimenti alla funzione scenica che devono assolvere. 

Si è spesso fatto riferimento a Wilson come a uno dei massimi esponenti della corrente fredda dell’avanguardia, appellandosi alla forma delle geometrie elementari che caratterizzano la sua produzione in una dimensione di non-oggettività astratta. Niente di più lontano dal pensiero del regista stesso, in realtà, che nel suo schema di applicazione vede quanto più di classico possa esserci: l’alternarsi dei concetti di tema e di variazione a partire da un centro di azione nevralgico intorno al quale si sviluppano atti destinati ad essere simmetrici gli uni con gli altri. Si tratta di una visione estremamente razionale degli eventi che abbandona dietrologie e sottotesti per rispondere nel modo più rapido, semplice e diretto possibile alla domanda what is it. Che cos’è. Come posso vedere rapidamente, in pochi minuti, l’essenza della narrazione.