Stuporosa, il rituale di Marilungo tra concentrazione sognante e memoria del corpo

Stuporosa, il rituale di Marilungo tra concentrazione sognante e memoria del corpo

Sopraggiunta la notizia della morte di Patroclo per mano di Ettore, Achille esplose in un pianto straziante e così, dalle tende, le donne escono fuori, disponendosi in cerchio intorno ad Achille. Gridano e piangono, con lui, si battono il petto.

[…] Una nube di strazio, nera, lo avvolse:
con tutte e due le mani prendendo la cenere arsa
se la versò sulla testa, insudiciò il volto bello;
la cenere nera sporcò la tunica nettarea;
e poi nella polvere, grande, per gran tratto disteso,
giacque, e sfigurava con le mani i capelli, strappandoli.
Le schiave, che Achille e Patroclo s´eran conquistati,
straziate in cuore, ulularono, corsero fuori
intorno ad Achille cuore ardente; e con le mani tutte
battevano il petto; a tutte, sotto, le gambe si sciolsero.
(Iliade, XVIII, vv. 22-31; trad. di Rosa C. Onesti)

Tutti, nel corso dei millenni, hanno pianto: divinità e profeti, eroi mitici e gente comune. C’è chi trattiene le lacrime, chi non riesce a controllarle e chi se ne serve per allentare le tensioni. Il pianto è il modo in cui l’umanità esprime i propri sentimenti, le emozioni e la fragilità nei confronti del grande mistero della vita e della morte. Dal verbo latino “lugere” che significa “piangere” deriva la parola “lutto”.
Del pianto e dei rituali intorno al lutto parla Stuporosa, un progetto composito, con linguaggi diversi, al quale Francesco Marilungo – performer, autore e coreografo – ha iniziato a lavorare in piena pandemia.

«In quel momento siamo stati messi a contatto con la morte in maniera abbastanza cruda e così ho riletto Morte e pianto rituale di De Martino perché secondo me era urgente la necessità di un rito funebre nel momento in cui veniva privata la possibilità di elaborare il lutto attraverso i codici tradizionali. Mi ha molto colpito il racconto di un’immagine, delle persone anziane che morivano da sole con in mano le foto stropicciate dei nipoti o dei figli».

Questa è stata la spinta da cui ha avuto origine Stuporosa. Non un’esperienza personale specifica o, meglio, non solo una pratica personale, ma una pratica condivisa.

«Credo che l’arte abbia anche una valenza politica e sociale, deve indurre a riflettere, a porre delle domande, deve problematizzare. Ho iniziato nel 2020 a leggere testi sull’argomento, sui rituali funebri sia nelle popolazioni primitive che contemporanee e da lì è iniziata tutta la ricerca teorica. Ho proposto il progetto a Korper, l’associazione che mi produce, e il direttore artistico Gennaro Cimmino ha espresso il suo entusiasmo sul tema. Dopo un anno di studio teorico è iniziata la ricerca in sala per tradurre il tutto il materiale artistico».

Stuporosa è un progetto nato con l’idea di realizzare un lavoro corale, con più corpi in scena – il coro – e con una cantante –il corifeo – integrata con il contesto e con il tessuto drammaturgico. Il canto è una componente fondamentale del lamento funebre.

L’incontro con Vera Di Lecce     

«Ho iniziato la ricerca di una cantante che sapesse adattare i lamenti funebri in chiave contemporanea, con la musica techno, con la trance.
L’incontro con Vera è stato un incontro casuale e magico; sembrava che io avessi scritto un progetto per lei. Come se una congiunzione astrale mi avesse permesso di incontrare la persona giusta nel momento giusto. Un giorno sono andato ad un concerto di musica elettronica con una mia amica e un suo amico, il quale era il manager di Vera. Parlando con lui mi ha suggerito di incontrarla. Ho fatto una residenza estiva in Salento e così, in quella occasione, l’ho invitata a venire.

Appena l’ho vista, ho capito che era lei la persona che stavo cercando. Mi ha raccontato che i suoi genitori lavoravano nell’ambito teatrale e si occupavano di tradizione, di canti e danze salentine. Erano una sorta di etnomusicologi, elaboravano i dati che avevano ricercato nel loro territorio in danze e in performance. Vera, nel suo progetto musicale, porta avanti una contaminazione tra tradizione e contemporaneo, elettronica e tradizione. In più danza: sua madre le ha insegnato e trasmesso il patrimonio di sua conoscenza, la pizzica pizzica e altre danze tradizionali. Sul palcoscenico Vera è colei che dirige il rituale coreografico attraverso la musica, il canto e i gesti; è una figura centrale».

Stuporosa
Ph Luca del Pia

«Figlio, perché piangi?»

Stuporosa si avvale di una eccezionale troupe de danse, quattro anime elettriche che incarnano un modello di comunità: Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis, Francesca Linnea Ugolini. Indossano abiti sontuosi, creati da un collettivo di stilisti milanesi chiamato Lessico Familiare che hanno ripreso un po’ l’abito da lutto vittoriano. Con quelle vesti e sottovesti, veli e velette, le danzatrici-performer camminano, rimangono immobili, cadono, si rialzano, si bagnano il viso, compongono figure, si avvicinano, si allontanano, piangono

Come Achille, il quale si isola per piangere sulla riva del mare, guardando i flutti, e per invocare la madre, Teti, la più bella tra le Nereidi, le ninfe del mare, la quale lo raggiunge, si siede accanto a lui e lo accarezza e gli chiede: «Figlio, perché piangi? Quale dolore ti ha invaso il cuore? Parla, non celarlo […]»

Il Professore di studi classici dell’Università di Edimburgo, Douglas Laidlaw Cairns ha indagato sulla stretta analogia tra la separazione spaziale e la funzione culturale del velamento. Coprirsi con i veli del lutto è un dato, un elemento chiaramente osservabile dal pubblico, ma è nella drammaturgia che avviene un riscontro simbolico. Ricorrendo a una dimensione fortemente iconica, Francesco Marilungo ha interiorizzato un modello compositivo, una drammaturgia ripetibile, utile per mettere lo spettatore nella condizione di porre a sé stesso la domanda «Perché piangi?». Mediante un setting tragico, reiterato con schemi, movimenti e lamentazioni. La ripetizione di gesti viene prima della ripetizione delle litanie. Il silenzio, prima dei suoni.

«De Martino – dice Marilungo-  parla di concentrazione sognante, che è la condizione per entrare in un altro tempo, quello del sacro. Un tempo sospeso, diverso. L’intento della performance è quello di fare entrare in questo tempo sospeso anche il pubblico».

 La sospensione, la dilatazione del tempo 

«Quello che abbiamo cercato con Stuporosa è un tempo rituale, un tempo altro che richiede al pubblico un’attenzione e una concentrazione maggiore, fondamentali per entrare nel rituale del lavoro. Non è casuale che ci sia una prima parte completamente in silenzio e i corpi si frammentano come se fossero sulle tracce di un’antica memoria, nell’atto di recuperare antiche figure archetipiche che tornano anche nell’arte, nell’ iconografia del dolore. I gesti che vengono ripetuti sembrano appartenere ad un contesto quasi religioso ed è quello il momento che secondo me dovrebbe condurre a un tempo sospeso. 

Una volta entrati nel lavoro, si entra nel flusso. Tutto quello che avviene in scena sono continui tentativi di sostenere il singolo nel momento della crisi. Un po’ come avviene nella comunità. Il silenzio, la dilatazione del tempo e la “concentrazione sognante” di cui parla De Martino devono averla sia le danzatrici in scena che il pubblico. Magari qualcuno potrà non entrarci o entrare più tardi, ma questo aspetto per me è fondamentale».

In questo stato di sospensione temporale e di concentrazione sognante è possibile riscoprirsi, come Achille, vulnerabili. È probabile che si affrontino le mostruosità del destino e della propria anima, facendo attenzione a non diventare la metamorfosi di tutti quei mostri incontrati. È prevedibile, infine, accettare la condizione di umanità tra dolore, gioia, amore e morte. Stuporosa si nutre di umanità, Francesco Marilungo ha raccolto in un lungo arco di tempo tante testimonianze, aneddoti, suggestioni, racconti di persone che hanno vissuto quei rituali antichi.

Stuporosa
Ph Luca del Pia

Può essere definita scienza la coreografia? Il nesso con l’antropologia 

La danza non è solo pratica corporea ma è anche oggetto di studio nel campo dell’antropologia medica e culturale. L’essere umano è il nesso con la scienza, la disciplina che studia l’essere umano. Il corpo viene considerato come soggetto di conoscenza e (non solo) come oggetto di narrazioni sociali, nel lavoro di Francesco Marilungo.

«Ho un approccio scientifico alla teatralità, al lavoro sul corpo. La terminologia che utilizzo quando lavoro è scientifica, legata alla fisica pura, ai corpi che cambiano stato, alla transizione di materia, la materia che diventa altro. Trattare i corpi come materia fisica significa capire come plasmarli. La ricerca, per me, sta nel trovare la modalità per effettuare questa trasformazione, ma è anche tradurre i concetti in forma artistica. Per me ci deve essere una connessione poetica con la teoria.

Nel caso di Stuporosa il nesso consiste nel concetto di mimesi del dolore, la base del lamento funebre, utilizzato senza cadere nel pathos eccessivo e cercando una sorta di stilizzazione del dolore. Mi sono agganciato alle Pathosformel, delle figure di dolore archetipiche tramandate nei secoli. L’essere umano ha manifestato i sentimenti In un modo identico nel corso del tempo. Le forme del dolore sono state codificate, a livello iconografico, nella storia dell’arte. 

Siamo partiti da queste forme del dolore basate sul concetto di mimesi e da come il corpo poteva avvicinarsi a queste forme. Abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato “qualità della memoria del corpo”, tramite una frammentazione anatomica del corpo, isolando parti specifiche di esso. La forma ritrovata nel processo mnemonico, svanisce successivamente. Il corpo è in continua ricerca di queste forme, come se fosse soggetto ad una sorta di amnesia anterograda. Cerca di ricordare il passato però non riesce ad afferrarlo e, ricordando il passato, non riesce nemmeno a vivere il presente. Si crea una sorta di corto circuito che credo sia anche un po’ uno specchio dell’uomo contemporaneo.

La qualità del movimento ha un nome preciso, si chiama pluriball; volevo che la frammentazione del corpo si sviluppasse su traiettorie circolari. Applico dei principi matematici geometrici per plasmare il corpo, per far dialogare la ricerca con la teoria, trovando dei nessi. C’è anche una creazione, una drammaturgia di immagini in Stuporosa; i rimandi sono rivolti ad alcune tradizioni, come la danza con il fazzoletto. Nel finale compare la componente del sacrificio; essa si manifesta in tutti i rituali funebri e serve a facilitare il distacco dal defunto. Ne è l’esempio il tagliarsi una ciocca o strapparsi i capelli per lanciarli sulla bara. 

Anticamente il vestito era il mezzo con il quale si mostrava lo stato del proprio dolore. Il nero è presente in tutte le civiltà occidentali e l’uscita dal lutto corrispondeva ad un cambio di colore del vestito. Si passava in maniera graduale al blu, poi al viola fino ad arrivare al Bianco. Ciò avviene anche in Stuporosa perché nel finale si passa dal nero al banco e rappresenta, per me, l’inizio di una elaborazione che si manifesta nel colore delle sottovesti. La scelta di utilizzare il nero è avvenuta perché c’è sempre stato un rapporto contrastante nei confronti della persona defunta. Da una parte c’è il desiderio che il morto resti per sempre e, dall’altra, c’è la paura che la sua anima possa tornare per tormentare i vivi. 

Vestendosi di nero si diventa un’ombra e questo colore dovrebbe impedire, secondo le leggende, nel momento del ritorno, il riconoscimento dei sopravvissuti. Le tradizioni e i colori del lutto, tuttavia, cambiano in base alle popolazioni del mondo. Tutto quello che avviene in scena è stato studiato precedentemente in maniera scientifica attraverso una ricerca su ogni aspetto: dai costumi, alle musiche e ai gesti, alle immagini che vengono realizzate in scena. Si è trattato di un processo ultimato con un metodo a volte deduttivo e a volte intuitivo. Un’altra cosa che ha catturato il mio interesse sono state le dinamiche sociali e di potere che si instaurano nelle comunità poiché anche nei rituali si innesca una tendenza verso l’assoggettamento e la subordinazione».

Valeria Told e la rivoluzione calma dell’INDA

Valeria Told e la rivoluzione calma dell’INDA

La 58° edizione delle rappresentazioni classiche del Teatro Greco di Siracusa è stata caratterizzata da un debutto molto importante avvenuto non in scena, ma nel quartier generale dell’INDA, nel cuore del centro storico, a Ortigia.
Valeria Told è stata nominata dal Ministero della Cultura, Gennaro Sangiuliano, sovrintendente dello storico Ente. Di lei si sa che ha ricoperto la stessa carica dirigenziale per undici anni presso la Fondazione Haydn di Bolzano e che è da sempre una grande appassionata dell’arte greca.

Dalle risposte alla nostra intervista emerge che, nascosto tra le pieghe della sua personalità forte, ma anche molto disponibile, si cela un animo riservato.
La presentazione dei registi della 59° stagione delle rappresentazioni classiche, in programma dal 10 maggio al 29 giugno 2024, è la prova di una scelta fatta con cura artigianale.

Luca Micheletti dirigerà Aiace di Sofocle nella traduzione di Walter Lapini. Paul Curran curerà la regia di Fedra (Ippolito portatore di corona) di Euripide nella traduzione di Nicola Crocetti e, infine, Leo Muscato sarà il regista della commedia Miles Gloriosus di Plauto nella traduzione di Caterina Mordeglia.

La prima domanda, lungi dall’essere irriverente…chi è Valeria Told?

Sono cresciuta in un contesto che fin da piccola ha stimolato la mia passione per lo spettacolo dal vivo, coltivata attraverso percorsi formativi legati alla danza, al teatro e al canto, ai quali si è aggiunto poi lo studio del flauto. Una volta concluso il mio percorso di studi universitari in Letterature comparate, Economia aziendale ed Economia politica, ho intrapreso la professione di manager culturale, continuando a coltivare così la mia passione per il teatro e la musica. 

La mia carriera è stata caratterizzata da una costante ricerca di innovazione e connessione tra tradizione e sperimentazione che mi ha portato a ricoprire incarichi di relatrice in varie conferenze internazionali e a creare una start up innovativa per sviluppare un progetto europeo di digital education. Sono guidata dalla passione per il patrimonio culturale e dalla volontà di creare esperienze significative per il pubblico, lavorando per il successo e la crescita delle istituzioni culturali che ho avuto il privilegio di servire.

Proviamo a dare uno sguardo al futuro prossimo. Quali saranno i suoi prossimi passi, come immagina l’INDA dal suo interno?

Guardando al futuro prossimo, vedo l’INDA continuare sulla strada della crescita. Mi impegno a portare avanti progetti che uniscano il valore intrinseco del dramma antico con l’audacia della sperimentazione contemporanea. Intendo consolidare le collaborazioni con altri teatri e istituzioni culturali nazionali e internazionali, creando una rete più ampia di scambi. Voglio sviluppare ulteriormente l’aspetto educativo, per continuare a coinvolgere i giovani nelle attività della Fondazione e promuovendo lo sviluppo di un percorso universitario all’interno della nostra Accademia d’Arte del Dramma Antico. 

Un altro obiettivo è ampliare il pubblico, coinvolgendo nuove fasce di spettatori attraverso un’offerta coinvolgente. Nel complesso, vedo l’INDA come un luogo di incontro tra tradizione e modernità, dove il patrimonio culturale è reinterpretato in modo fresco e stimolante, contribuendo al vibrante panorama culturale dell’isola e oltre.

Come pensa di coniugare la tradizione del classico con la necessaria innovazione, per venire incontro al mutato sentimento di un pubblico eterogeneo nella nostra epoca?

La coniugazione tra la tradizione del classico e l’innovazione rappresenta una sfida affascinante e cruciale per l’INDA. La mia visione è quella di preservare l’integrità del patrimonio classico, rispettando l’essenza delle opere e dei miti, ma al contempo riuscire a trasmetterli in modo rilevante e coinvolgente al pubblico contemporaneo. Questo può avvenire attraverso l’uso di linguaggi artistici diversi, dalla scenografia alla musica, dalla coreografia alla tecnologia. 

L’innovazione non deve essere fine a sé stessa, ma deve servire a far emergere nuovi strati di significato nelle opere, a creare connessioni tra il passato e il presente. È importante coinvolgere il pubblico in un dialogo stimolante, consentendo interpretazioni multiple e personali delle opere. Ciò richiede una programmazione variegata, che possa includere anche la collaborazione con artisti provenienti da diverse discipline e l’apertura a nuove forme di espressione artistica. L’obiettivo è trovare un equilibrio tra autenticità e innovazione, per offrire al pubblico esperienze teatrali coinvolgenti che risuonino con la sensibilità moderna.

In che modo, secondo lei, fuori e dentro il teatro, il “nuovo” è diverso dal “vecchio”?

Il concetto di “nuovo” e “vecchio” può essere interpretato in diversi modi a seconda del contesto e delle prospettive. Fuori dal teatro, il “nuovo” spesso rappresenta l’innovazione tecnologica, le tendenze culturali in evoluzione e le idee emergenti. È ciò che ci spinge a esplorare, sperimentare e adattarci alle mutevoli dinamiche della società. Dentro il teatro, il rapporto tra “nuovo” e “vecchio” può avere una dimensione più complessa. Il “vecchio” rappresenta il patrimonio culturale, le radici delle tradizioni artistiche, le opere classiche che sono state tramandate attraverso i secoli. Questi elementi costituiscono le fondamenta su cui si basa il mondo teatrale e ciò che ha formato il nostro linguaggio artistico. Tuttavia, il “nuovo” all’interno del teatro non lo considero come qualcosa che sostituisce il “vecchio”, ma piuttosto come un complemento e un’evoluzione. 

L’innovazione teatrale può nascere dalla fusione della tradizione con nuove idee e approcci, creando così nuove forme di espressione e nuove esperienze per il pubblico. Sia fuori che dentro il teatro, il “nuovo” e il “vecchio” sono in costante dialogo e interazione. La sfida è trovare il giusto equilibrio tra il rispetto per le radici e la voglia di sperimentare, per creare un continuum artistico che abbracci il passato e si proietti verso il futuro.

Il senso del teatro è l’appartenenza, la condivisione, il fare comunità tra le persone. Cambiano le direzioni, ma non cambiano i bisogni. Parafrasando il titolo del libro del regista tedesco Milo Rau: perché il teatro, oggi?

Milo Rau ci invita a riflettere sul significato continuo del teatro nel contesto attuale: Il teatro è sempre stato un luogo di incontro e condivisione, un punto di riferimento per la comunità in cui le persone si riuniscono per condividere esperienze, emozioni e riflessioni. Il teatro è ancora fondamentale oggi perché soddisfa quei bisogni umani profondi di appartenenza e connessione che sono sempre stati presenti nella nostra natura. 

In un mondo in continua trasformazione, in cui la tecnologia ha modificato in maniera significativa la nostra vita, il teatro continua a offrire qualcosa di unico e insostituibile. È uno spazio fisico e culturale dove le persone si riuniscono per assistere a rappresentazioni dal vivo, sperimentando una condivisione autentica e immediata, dove le storie possono essere raccontate. La magia del teatro sta nell’esperienza collettiva, nel respirare lo stesso spazio, nell’ascoltare le stesse parole, nel condividere emozioni palpabili.

Scambi, identità, riferimenti interculturali. Quanto è importante per lei connettere il mondo sperimentando spazi e/o linguaggi diversi?

La connessione tra mondi diversi e la sperimentazione di spazi e linguaggi differenti rappresentano una parte cruciale della mia missione artistica, poiché credo che il teatro abbia il potenziale per unire, ispirare e trasformare attraverso l’arte e la condivisione di storie che risuonano nell’anima umana. Credo che il teatro abbia il potere di superare le barriere culturali e linguistiche, creando ponti di comprensione e dialogo tra diverse realtà. Questo non solo arricchisce il panorama artistico, ma contribuisce anche a costruire una società, in cui le diversità sono celebrate e condivise anziché essere motivo di divisione.

Performance, musica, produzione letteraria e poetica teatrale sono forme diverse d’arte. Qual è la sua preferita?

È difficile per me scegliere una forma d’arte preferita, poiché ognuna di queste espressioni artistiche ha il suo fascino unico e la sua capacità di comunicare emozioni e concetti in modi diversi. Tuttavia, se dovessi identificare una preferenza personale, direi che la letteratura e la poetica teatrale hanno un posto speciale nel mio cuore perché consentono un’immensa libertà espressiva. Attraverso le parole, è possibile creare mondi, personaggi e narrazioni che possono ispirare profonde riflessioni e connessioni emotive con il pubblico. La scrittura teatrale permette di esplorare temi complessi e universali, di dare voce a diverse prospettive e di catturare l’essenza delle esperienze umane in modo profondo e coinvolgente.

Qual è la sua opinione sull’industria teatrale italiana? È possibile parlare del teatro o della cultura in generale come un’industria?

Il teatro è un luogo di espressione artistica e di riflessione critica con un valore intrinseco che va oltre il mero profitto. Allo stesso tempo, è anche un ambiente in cui si producono e mettono in scena spettacoli con l’obiettivo di coinvolgere il pubblico e generare ricavi. Questa dualità crea un equilibrio delicato tra l’aspetto artistico e culturale e le esigenze economiche e logistiche dell’industria teatrale. Ritengo che sia possibile parlare del teatro e della cultura in generale come un’industria, ma con delle sfumature specifiche. Molti teatri e artisti dedicano tempo ed energie considerevoli per bilanciare questi aspetti, cercando di preservare l’integrità artistica mentre si cercano soluzioni per sostenere finanziariamente le produzioni e garantire la loro accessibilità al pubblico.

Riconosco nel panorama italiano la necessità di una maggiore professionalizzazione e di una visione strategica. Definire obiettivi chiari, creare piani di sviluppo e strategie a lungo termine può sicuramente contribuire a ottimizzare l’allocazione delle risorse e a prendere decisioni migliori. In questo modo, si può garantire una crescita sostenibile, preservando al contempo l’essenza creativa e culturale che la contraddistingue.

Lei ha dichiarato al suo insediamento che sono tre i pilastri sui quali si regge e può crescere una fondazione, ovvero, il rapporto con il pubblico, la sostenibilità economica e la trasformazione digitale. A tal proposito, cosa ha avuto modo di verificare sul campo?

Qui a Siracusa, il pubblico si dimostra fedele e profondamente appassionato delle rappresentazioni classiche. Questo costituisce un punto di partenza molto solido. Vogliamo nutrire questa relazione, offrendo proposte coinvolgenti, ma vogliamo anche incentivare il pubblico che viene al di fuori dei confini nazionali.

In merito alla sostenibilità economica, l’INDA gode di un solido sostegno, una condizione piuttosto rara tra i teatri europei. Mentre altrove i ricavi propri spesso si attestano intorno al 20% del budget, qui siamo in grado di raggiungere l’80%. Ciò ci pone in una situazione ottimale per garantire la massima qualità degli spettacoli e per abbracciare progressivamente anche le nuove tecnologie, ovvero la cosiddetta trasformazione digitale. Questa trasformazione può manifestarsi sul palcoscenico, ma può anche manifestarsi internamente all’ambito della Fondazione. L’integrazione di strumenti digitali nella promozione, nella vendita dei biglietti e nell’interazione con il pubblico può per esempio favorire un maggiore accesso al teatro.

Al termine della nostra intervista, vorrebbe condividere con i nostri lettori una riflessione su questi primi mesi come sovrintendente dell’Inda? Quali sono le sensazioni, le immagini, le esperienze e le persone che hanno caratterizzato l’inizio di questo suo percorso?

Certamente, con piacere. In questi primi mesi come Sovrintendente dell’INDA, ho avuto il privilegio di immergermi in un mondo ricco di creatività, passione e impegno. Ogni giorno mi trovo circondata da persone straordinarie: artisti, tecnici, collaboratori e appassionati del teatro, ognuno contribuendo con il proprio talento e dedizione al successo delle nostre produzioni e iniziative. Le sensazioni che ho provato sono state una miscela di emozione e responsabilità. Emozione nell’affrontare ogni sfida con la consapevolezza che il teatro è un luogo in cui le emozioni si svelano, si esprimono e si condividono. Responsabilità nel garantire che l’eredità del teatro classico sia rispettata e innovata. Le esperienze che ho vissuto finora mi hanno confermato che il teatro qui a Siracusa è un vero luogo di incontro, di scambio culturale e di arricchimento personale. E le persone che ho incontrato, mi hanno accolto con calore e condiviso la loro passione per il teatro. Sono specialmente grata per tutti i miei collaboratori all’INDA: loro sono il cuore pulsante dell’INDA e sono determinate a portare avanti la missione di creare spettacoli che ispirino, coinvolgano e lascino un segno nel mondo culturale.

Teatro d’aMare, a Tropea, è la casa del contemporaneo

Teatro d’aMare, a Tropea, è la casa del contemporaneo

Ai luoghi del Festival Teatro d’aMare si accede percorrendo a piedi dalla stazione ferroviaria una lunga strada in discesa, “a calata”, che si immette nel corso centrale lungo e stretto. Tra i negozi con le celebri cipolle rosse esposte e l’artigianato locale, tra i bar e i ristoranti, si mescolano e si confondono i suoni, i rumori, gli accenti di diverse provenienze geografiche con l’odore pregnante di fritture e grigliate di pesce. E poi, finalmente, si intravede via Glorizio, ripida e nascosta, alla cui sommità, superati altri ristoranti che diffondono una delicata musica di sottofondo jazz, si trova il palazzo del Museo Diocesano. L’atmosfera è rarefatta, bastano pochi passi in salita e ci si allontana dalla folla festante. Si entra in un’altra dimensione e chi si dirige là, non ci finisce per caso.

Tropea è fatta così: le discese e i tratti in salita, le luci soffuse dei vicoli e quelle sfolgoranti delle illuminazioni delle feste patronali, il silenzio e la vivacità, l’opulenza e la decadenza. Il luogo dove ogni forma è un’armonia di contrasti che ricordano e raccontano le storie di vite vissute tra speranze e sogni. Tra partenze e ritorni. Anche per me si tratta di un ritorno e la città è bella così come la ricordavo.
Sette sono gli anni trascorsi dall’ultima volta che sono stato lì nonché le edizioni del Festival Teatro d’aMare. Arrivo trafelato ma felice, un po’ in ritardo per l’opening Redreading #13 – Un giorno bianco (Esercizi sull’abitare), di e con Bartolini/Baronio

Saluto rapidamente Francesco Carchidi che condivide l’amore per il teatro, la direzione artistica di Teatro d’aMare e il fecondo universo dei sentimenti con Maria Grazia Teramo. La prima serata è un rituale collettivo come il teatro. E il teatro è casa, è giardino di desiderio. È un “giardino in movimento”, per dirla con le parole di Gilles Clément (paesaggista, ingegnere agronomo, botanico ed entomologo), da La Vallée al giardino planetario. È comunità, fratellanza, è il bello che chiama il bello, è la prima pietra che viene posata là dove si è deciso di costruire, è l’educazione all’ascolto, allo sguardo attento, affinché si possa rinvenire ciò che nel mondo è invisibile e fondamentale. 

Tamara Bartolini incanta e appassiona con le parole, come una pittrice usa i colori delle storie che vivono due volte attraverso la sua voce, i filmati, le fotografie e le registrazioni. Michele Baronio aumenta le suggestioni con una devota selezione musicale. «Ovunque andrai è lì che sarai» recita un proverbio amish. Con Michele e Tamara, dal vivo e non, ci sono anche Luigi Giffone, Domenica e Francesca Mamone, Ludovica Franzè con la sua testimonianza sulla “restanza”. 

Ci sono i giovani musicisti e le persone che i due artisti hanno incontrato lungo il cammino e le strade di Tropea, c’è il vino rosso e il mare azzurro, ci sono impronte, tracce manifeste e nascoste, ci sono vite segnate dalla nascita, dalla morte e dalla rinascita, ci sono le lacrime di Maria Grazia Teramo che, commossa, sale sul palco per ringraziare. «Ma dove le avete trovate le nostre vecchie foto?» chiede visibilmente emozionata. È il mestiere, sono i segreti dei teatranti. Redreading #13 è un viaggio che parte da Napoli e arriva a Riace. Un viaggio che è fatto di tante finestre che si aprono. È l’attenzione e la cura in ogni saluto, in ogni abbraccio, in ogni promessa fatta a voce da Tamara Bartolini: «Noi partiamo domani, ma prima faremo colazione insieme».

L’allegria che si respira per le strade, di sabato sera, a Tropea, non è molto diversa da quella del venerdì. L’appuntamento con Francesco Carchidi è al giardino del Museo Diocesano, per fare due chiacchiere e scambiarci un po’ di informazioni. Per esempio l’iniziativa del giorno dopo, con i ragazzi del laboratorio “Mi ricogghiu (ritirarsi, ritornare a casa)”, una restituzione dopo tre giorni di ricerca, confronti e condivisioni sulla “restanza”. Il tema è quello sul quale Ludovica Franzè ha incentrato la sua testimonianza, la sera precedente, durante il Redreading di Bartolini/Baronio, traendo ispirazione dall’opera omonima dell’antropologo Vito Teti. “Restanza” è quella condizione umana a metà tra il sentirsi ancorati e disorientati in un luogo da salvaguardare e rinnovare.

Mentre aspetto, ne approfitto per fare due chiacchiere con Marilena Polito, la quale si occupa della direzione organizzativa di Teatro d’aMare. La mia curiosità è catturata dal viavai di tante signore che non sono lì per il Festival; si dirigono con fretta da qualche altra parte, oltre la curva in discesa. Là dietro si trova il secondo accesso di una chiesa e quelle signore impettite vanno ad ascoltare la messa e a recitare la novena in onore della Madonna di Romania. La Madonna venuta dal mare, in una nave, durante una tempesta. Al vescovo dell’epoca chiese in sogno di rimanere lì, diventando la Patrona della città. Marilena mi racconta che molte ragazze del luogo si chiamano Romina, Romana o Romania, per devozione. Un tempo Tropea veniva invasa dai fedeli che, in occasione dell’anniversario dell’incoronazione del 9 settembre, erano ospiti a pagamento nelle abitazioni private di famiglie che offrivano una o più camere. L’ospitalità del luogo è rimasta, anche se ha assunto modalità diverse nel corso dei decenni.

Il tempo scorre, i pensieri vagano, decido di ritornare a sedermi su quella che è diventata la mia postazione ufficiale, un nero case del servizio audio-luci. All’improvviso arrivano, provenienti da Melfi, la tappa di viaggio intermedia per “spezzare il sistema nervoso”, Paola Vannoni e Roberto Scappin, i Quotidiana.com e, quasi in contemporanea, Francesco e Maria Grazia. Ci salutiamo affettuosamente e ci abbracciamo. Ci sentiamo tutti a casa. Il dialogo è lieve, ironico e gradevole; scorre tra tutti noi quella che Scappin definisce una “serena buona educazione empatica”. 

È già ora del primo spettacolo, Mio Padre non è ancora nato, il secondo capitolo di una trilogia sui legami familiari, scritta a quattro mani, di e con Caroline Baglioni, con la regia di Michelangelo Bellani. Una composizione per voce sola che è anche un dialogo sordo tra una figlia e un padre assente in scena. Un uomo di sessant’anni che ha avuto un’amnesia temporanea e che ha deciso di andare a vivere in un camper. Sette sono stati gli anni di un’assenza da decodificare e comprendere: «Quando lo guardo non è che provo disagio, è una specie di rabbia, sottile, appoggiata su un cuscino». Nonostante tutto lei prova dell’affetto per lui, ma forse perché è qualcosa che qualcuno le ha detto, qualcosa che deve essere fatta. Forse dovrebbe essere un sentimento viscerale. Quella figlia non sa cosa prova per suo padre, forse non lo conosce, anche se sa chi è lui. 

Nel rapporto con il proprio padre è facile perdersi nelle distonie, nelle asimmetrie, nelle proporzioni imprecise di un quadro metaforico, tra un “piccolo muro di roccia” e un “piccolo rametto di felce” che spunta fuori a catturare l’attenzione, come a voler squarciare quella tela. «Ma perché se la montagna è più grande io non posso fare a meno di guardare la felce? Perché non importa la grandezza, importa la vicinanza».

Al termine del primo spettacolo, approfittando di una pausa, io e i Quotidiana.com ci dirigiamo verso un chiosco il cui nome, “La piccola fame”, cattura la nostra attenzione. Prima però incontriamo Mariano Dammacco e Serena Balivo, protagonisti del secondo spettacolo della serata di sabato. A bruciapelo, Mariano mi chiede: «Anche la tua vita è funestata dal teatro?». La risposta immediata di Roberto Scappin è inequivocabile: «Funestatissima».
«Accanto ai festival storici – mi racconta Dammacco –  c’è un fiorire di nuove esperienze, festival alle loro prime edizioni, spesso frutto della volontà di teatranti o compagnie. In alcuni casi si tratta di festival con poche risorse economiche. Ciononostante, il teatro accade. E sempre si riparte per tornare a casa con un senso di “pienezza”».   

A Tropea, Mariano e Serena sono presenti per la terza volta per completare, secondo il desiderio e la strategia di Maria Grazia Teramo e Francesco Carchidi, la Trilogia della fine del mondo. Dopo L’inferno e la fanciulla ed Esilio, questa volta portano in scena La buona educazione. «È il segno di un’affezione reciproca» confessa Dammacco, ricordando l’incontro con Francesco Carchidi e sua sorella Antonella a Primavera dei teatri, nel 2019, nell’ambito del progetto Finestre, ai laboratori di drammaturgia e sul lavoro degli attori. L’incontro successivo fu quello con Maria Grazia Teramo che Mariano definisce come una «figura esperta di prezioso presidio culturale del territorio attraverso le pratiche di teatro».

«Eccola la comunità teatrale, ecco le relazioni tra persone, lo scegliersi reciprocamente – ribadisce Dammacco. Non vedevo Francesco da prima della pandemia, il ragazzo ha lasciato spazio a un giovane uomo che parla con pacatezza e humor agli spettatori del festival tra un evento e l’altro, segue di persona ogni aspetto organizzativo e logistico e si prende cura dei suoi numerosi ospiti. Maria Grazia risolve grane e mi marca a uomo per essere sicura che io sia soddisfatto dell’allestimento tecnico». Di questa comunità teatrale fanno anche parte Enzo Matarozzo, il titolare del service che fornisce le strumentazioni audio e luci al festival, Daniele Zagari, colui che si è preso cura dell’allestimento scenico, Nunzia Schiariti che fa da padrona di casa nel palazzo del Museo Diocesano, dove una sala della biblioteca è stata allestita a spazio teatrale.  

Lo spettacolo La buona educazione scorre fluido, in bilico tra l’assurdo della realtà e l’incanto, la poesia, gli straniamenti di cui è capace, nella sua prova di attrice, Serena Balivo. La “pienezza”, di cui mi parla Mariano Dammacco arriva puntuale, come testimoniano le sue parole del giorno dopo: «È domenica mattina e Serena ed io partiamo in macchina per un viaggio di mille e dieci chilometri, Tropea-Modena, ma l’umore è dei migliori. Guido, ascoltiamo musica e mi tornano alla mente tutti i momenti, tutti gli incontri, le persone, tutti i volti, tutti gli altri teatranti con le loro storie, li riassaporo in mente e sento di essere parte di una comunità, quella del Teatro. E così il viaggio, lungo, faticoso e pieno di traffico, si fa lieve».

Il terzo ed ultimo giorno del Festival inizia presto, alle 16 al Sedile dei Nobili, sede della Pro Loco e di uffici di rappresentanza del Comune. È domenica e fa caldo. Lì conosco Ludovica Franzé, Sebastiano Sicurezza e i ragazzi del laboratorio. Ognuno di loro ha un uovo, simbolo del Festival, un segreto/desiderio da custodire e proteggere, un’urgenza. Conosco anche Mariateresa Surianello che è al Festival per presentare il libro Uno strappo nella rete. Faremo una camminata tutti insieme, sostando in luoghi del cuore e della mente. Attraverseremo il paesaggio urbano osservando e ascoltando, nella modalità del laboratorio, mediante soste, dibattiti, ricerche e rielaborazioni.

Dammi un attimo è il primo spettacolo della serata conclusiva del Festival, firmato da Aiello/Greco e prodotto da Teatro Rossosimona. Parla dei modelli e delle relazioni sociali di una generazione che ha assorbito il sistema e le trasformazioni culturali del precariato. Il sodalizio tra Francesco Aiello e Mariasilvia Greco, originari entrambi di Cosenza, nasce all’interno del Festival Scritture, nel 2019, curato da Lucia Calamaro e conclusosi al teatro India di Roma. 

«Da lì è partita l’idea di scrivere un testo a quattro mani – racconta Francesco Aiello. Dammi un attimo è una creatura che ci è costata molta fatica, ma che ci ha regalato molti momenti di gioia e soddisfazione. Io mi sento parte di Teatro d’aMare fin dai suoi esordi e ogni anno, d’estate, passo da Tropea con lavori presenti nella programmazione ma anche solo in veste di spettatore. E più volte ho approfittato dell’ospitalità di Francesco e Maria Grazia che mi hanno offerto un letto per permettermi di rimanere a Tropea e vedere spettacoli che difficilmente avrei potuto recuperare a queste latitudini. 

Credo che un contenitore come questo sia diventato un luogo prezioso per il teatro di ricerca, per compagnie e artisti che si interrogano su temi e forme. Esperienze del genere devono essere difese e protette e – vorrei evitare i soliti piagnistei sulla Calabria, terra disgraziata, ma sono consapevole che il rischio è alto –  nella nostra regione le programmazioni che riescono ad avere proposte e luoghi di confronto sono sempre di meno».

La scelta di concludere la rassegna con lo spettacolo dei Quotidiana.com, Io muoio e tu mangi risulta emblematico. Si finisce in bellezza parlando di morte. Morire e mangiare sono o non solo le due facce d’una stessa medaglia? Si usa l’espressione “morire di fame”, ma “Mangjâ e murî”, ovvero mangiare e morire, è un detto friulano che si usa per dire che una pietanza è davvero buona. Talmente buona che, dopo averla mangiata, si può lasciare questo mondo in pace. «Io muoio e tu mangi» nel caso dei Quotidiana.com è la frase che il genitore rivolge al figlio che smette di mangiare per accorrere al suo capezzale. La singolarità di Paola Vannoni e Roberto Scappin è che loro sono così anche nella vita: mordaci, pungenti, intelligenti, ironici in pensieri, parole e opere. Vederli fare in scena un uso sapiente di giochi di parole e tempi comici fatti di pause, accelerazioni, gesti, ripetizioni e vederli ordinare un panino è un’esperienza unica, un piacere simultaneo e multiplo. 

All’apparenza la loro scrittura, l’eloquio può sembrare surreale; di fatto però viene nutrita dal reale. I racconti ospedalieri, i pannoloni, gli schizzi di catarro. Nuclei di realtà che attivano reazioni diverse. Perché rido, perché ridiamo – per esempio – quando non c’è nulla da ridere? Vannoni e Scappin non hanno come obiettivo né quello di far ridere, né quello di far piangere. Catturano l’attenzione del pubblico, senza mollare mai la presa. Si mettono in sordina. Si ovattano. Nei loro testi c’è violenza ed energia in parti uguali. I loro gesti sono volutamente compressi. 

E, alla fine, riescono a mettere lo spettatore di fronte all’incapacità di dare un senso alla vita, nella ripetizione dei suoi fatti. Harold Rosenberg, in alcune pagine molto belle de La Tradizione del nuovo, ha evidenziato che gli attori creano quando si identificano con delle figure del passato. E, in questo senso, la storia è un teatro: «…La loro azione fu la ripetizione automatica di un vecchio ruolo… È la crisi rivoluzionaria, l’impulso a creare qualcosa che non è mai esistito che spinge la storia ad ammantarsi nel mito». 

E così, quando finisce e si conclude la settima edizione del Festival Teatro d’aMare a Tropea, sulla Costa degli Dei, qualcosa che è realmente esistito c’è. È un albero che fa da cornice nello spazio scenico del giardino del Museo Diocesano. Una parte è secca, la parte rimanente ha le foglie verdi. «Mezzo vivo e mezzo morto –  mi fa notare Roberto Scappin – come il teatro».

Fuori Programma: un cuore che batte all’unisono con l’universo

Fuori Programma: un cuore che batte all’unisono con l’universo

Si è da poco conclusa l’edizione 2023 di Fuori Programma Festival, nato nel 2016 e giunto alla sua ottava edizione, con la direzione artistica di Valentina Marini. Un appuntamento estivo che unisce i luoghi della Capitale e gli artisti della danza contemporanea con le multiformi sensibilità del pubblico che respira, vede, vive la composita programmazione di spettacoli, laboratori, residenze, incontri e progetti speciali.

All’unisono. Come recita il sottotitolo, con le voci di artiste e artisti come Jacopo Godani, Daniele Ninarello, Cristina Donà, Marta Ciappina, Salvo Lombardo, Andrea Costanzo Martini, Ophir Kunesh, Lior Tavori, Francesco Marilungo, Thomas Alfred Bradley, Michele Di Stefano, Masako Matsushita, Qabalum, Elias Aguirre, Silvia Gribaudi, Caroline Larn, Krassen Kratsev, David Zagari.

Il nostro racconto è consapevolmente tratteggiato, si riferisce ad alcuni spettacoli scelti con un pizzico di imprevedibilità ma che hanno saputo lasciare il segno. E che hanno fornito la temperatura di linguaggi artistici, diversi tra loro, di battiti e tempi che si manifestano all’unisono, sebbene le esperienze e gli eventi della vita tendono a dividerci, a tenerci separati.

Le giovani voci della danza contemporanea israeliana sono la testimonianza di una creatività riconosciuta e apprezzata in tutto il mondo. Una contestualità e una contemporaneità che si propone con un ricco patrimonio di contrasti, fascino, bellezza e transitorietà.

Il 23 giugno, ultimo appuntamento di Fuori Programma presso l’Arena del Teatro India di Roma, sono stati presentati in collaborazione con l’Ambasciata di Israele in Italia, le creazioni di due giovani coreografi israeliani.

Arba, in prima assoluta, è la restituzione al pubblico di una residenza che si è svolta al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma, a cura di Ophir Kunesch. Un progetto nato nell’ambito di 1|2|3 del Suzanne Dellal Center, un programma annuale di sviluppo per coreografi israeliani emergenti che supporta la creazione di nuove opere. Tutto è danzabile, qualsiasi musica, condizione umana o poesia. Persino il silenzio.

E in effetti Arba è un duetto che si svolge in totale assenza di una drammaturgia sonora ed esplora la condizione della verticalità e delle camminate in contiguità. Un danzatore e una danzatrice si muovono e si spostano come se fossero le parti di un tutto, un unicum. Ancor più interessante sembrano essere le cadute. Prima di alzarsi in piedi permettono di proiettarsi verso direzioni nuove. Non si tratta, in questo caso, di inventare nuove dinamiche del contatto con il suolo, quanto piuttosto di riscoprirle e di impossessarsene nuovamente. Senza una caduta non può esserci in definitiva una spinta verso l’alto, un salto.

Nella stessa sessione serale, in sequenza, Fuori Programma ha ospitato la Lior Tavori Dance Company di Tel Aviv con Mars, uno studio sull’identità maschile, aggiornato al tempo presente, interpretato da Ori Moshe Ofri, Amit Marcino, Reches Yitshak e Tamar Lev.

Mars come una delle divinità più importanti dell’antica Roma nel Pantheon, il dio della guerra a cui è dedicato Marte, il pianeta rosso, Marzo, il terzo mese dell’anno e il Martedì, il secondo giorno della settimana.

Quattro corpi maschili in scena realizzano un manifesto programmatico di libertà e di emancipazione dai ruoli di genere. La danza, con i suoi linguaggi, riesce a smontare gli stereotipi, gli schemi predefiniti, mettendoli in discussione. Fin dall’inizio, Mars di Lior Tavori si palesa come un interscambio dinamico di movimenti, di aggregazioni e di combinazioni corporee ad incastro che si susseguono fino alla fine tra corse, parti da solista, composizioni dove la gestualità viene modulata armonicamente dal ritmo.

Sfidando i limiti fisici, Tavori esplora e crea qualcosa di singolare che supera il linguaggio della danza. Un affresco che sarà irripetibile o comunque non replicabile all’infinito che contiene un messaggio artistico e coreografico. Il movimento, la fisicità, così come l’identità sono “Harder. Better. Faster. Stronger”, per usare il titolo di una canzone dei Daft Punk. Ossa, muscoli e articolazioni possono essere spinti al massimo, un corpo allenato può superare più di un limite, ma non potrà mai replicarli a lungo termine. Nella danza i corpi bruciano e si consumano in un arco di tempo definito ed è da questo sacrificio che si genera la bellezza. Diversamente dalle altre arti, il rito coreutico prevede che l’opera non sopravviva all’artista come un quadro o una scultura, se non nel ricordo e con le emozioni di chi l’ha vissuta.

Il rituale di cui si occupa Francesco Marilungo con la sua restituzione-presentazione di Stuporosa, al termine della residenza presso il Teatro Biblioteca Quarticciolo, trae ispirazione ed ha come riferimento il saggio “Morte e pianto rituale” di Ernesto De Martino. Con diversi nomi quali lamentatrici, prefiche, reputatrici, il pianto di quelle donne mercenarie accompagnava i cortei funebri. Loro avevano il compito di compiangere e di esaltare le virtù dei defunti.

Secondo De Martino, due possono essere le reazioni al dolore nei confronti della morte: l’esasperazione violenta oppure uno stato di catatonia e di “ebetudine stuporosa”. Il lavoro e la ricerca coreografica di Francesco Marilungo mette al centro il recupero di alcune pratiche, canti, danze popolari del passato, portando in scena lo schema e la mimesi del dolore, i due estremi opposti: la staticità da un lato e il dinamismo parossistico dall’altro. Tradizioni di cui si è quasi persa ogni traccia, lentamente, dal secondo dopoguerra in poi, sopravvissute fino agli anni ’70, per poi sparire.

Fuori Programma

Nelle lacrime e nel pianto di quelle donne, l’antropologo ed etnomusicologo Ernesto De Martino riconosce un legame simbolico tra chi resta e chi muore, simile a un cordino. Rappresenta un segno di interpunzione necessario affinché i congiunti possano elaborare il lutto, la perdita. Le cinque performer-prefiche, eredi legittime della cultura mediterranea, che Francesco Marilungo ha selezionato per Stuporosa sono: Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis, Francesca Ugolini, Vera di Lecce. Insieme con loro Marilungo ha creato una drammaturgia e una coreografia dove la morte, da fatto biologico diventa espressione culturale e arrivano a fondersi insieme le pulsioni, le superstizioni e le emozioni.

Non è un caso che il lutto sia diventato sempre di più un fatto solitario, isolato, nascosto come qualcosa di scandaloso. Parole come condoglianze e compassione sembra siano diventate difficili da pronunciare e usare nonostante contengano la particella latina “cum”, l’abbraccio simbolico rappresentato dalla congiunzione “con”. L’obiettivo posto al centro di questo progetto vuole essere quello di riflettere e recuperare la condivisione perché ogni persona, come sostiene Francesco Marilungo, dovrebbe avere il diritto di essere commemorata mediante il pianto.

Conclude il nostro reportage lo spettacolo ON/OPUS III che ha chiuso il Festival Fuori Programma, con tre performer protagonisti: Caroline Lam, Krassen Krastev, e Morgane Dickler-Doukelsky, in prima nazionale al Parco Tor Tre Teste. Un momento di poesia e di introspezione, nella semplice complessità di un rito collettivo, che rinnova l’estetica e la pratica della pole dance.

Gli artisti camminano in cerchio seguendo un’orbita immaginaria, come il viaggio che compie la Terra attorno al Sole e, contemporaneamente, sporadicamente, si staccano per realizzare un movimento aereo, rotatorio. Ogni corpo sfida le leggi della fisica ruotando, come la Terra, intorno al proprio asse. La precisione di quel meccanismo verrà spezzata verso la fine, alternando ordine e caos.ON/OPUS III sembra parlare di e con noi, di quanto siamo intrappolati in una routine cosmica millenaria, come pianeti. Immensamente grandi se considerati singolarmente e clamorosamente piccoli se collocati in uno spazio infinito che la mente umana non potrebbe rappresentare. Con questi pensieri nella mente, emergono le parole di una celebre frase di Simone de Beauvoir che sembra realizzare una sintesi tra le immagini degli spettacoli visti con la mission di Fuori Programma. “Invidiai un cuore capace di battere all’unisono con l’universo”.

In viaggio con Equilibrio, il Festival di Danza Contemporanea di Roma

In viaggio con Equilibrio, il Festival di Danza Contemporanea di Roma

L’edizione 2023 di Equilibrio, Festival di Danza Contemporanea di Roma prodotto da Fondazione Musica per Roma, con la direzione artistica di Emanuele Masi, si è svolta all’insegna e nel segno della fusione, della concentrazione di diverse ramificazioni del contemporaneo. Con l’obiettivo di far incontrare e di ibridare i diversi linguaggi e le diverse discipline con le persone e i luoghi – l’Auditorium Parco della Musica, il Teatro Argentina e il Teatro Palladium – di una città sconfinata, complessa, ma sempre eterna come la Capitale.

Sono state tre le settimane di durata del Festival con undici serate, quindici coreografi con i loro rispettivi lavori, quattro prime italiane, due spettacoli per famiglie e una Notte a Teatro – residenza notturna con laboratorio per bambini e bambine dai 7 ai 12 anni – e numerosi incontri. Due sono stati i film proiettati nell’ambito della rassegna: Radix I-II-III di Cristiano Leone e Will you still love me tomorrow? di Matteo Mafesanti.

L’opening night ha visto coinvolti sette coreografi e coreografe influenti per mettere in scena i vizi capitali. Una produzione concepita e nata dall’idea di Eric Gauthier, il direttore artistico e il fondatore dell’omonima compagnia, Gauthier Dance // Dance Company Theaterhaus Stuttgard, il quale ha coinvolto i massimi esponenti della coreografia mondiale: Sidi Larbi Cherkaoui, Aszure Barton, Marcos Morau, Marco Goecke, Hofesh Shechter Sasha Waltz e Sharon Eyal. Questi sette artisti sono stati così invitati a trasformare ogni peccato – avidità, accidia, orgoglio, golosità, lussuria, ira e invidia – in una creazione coreografica.

Il 10 febbraio è andato in scena Satiri, al Teatro Palladium, la nuova produzione di Virgilio Sieni, danzatore e coreografo attivo in ambito internazionale per le massime istituzioni teatrali e musicali, fondazioni d’arte e musei. I due danzatori protagonisti, Maurizio Giunti e Jari Boldrini – su musica di Johann Sebastian Bach, eseguita al violoncello da Noemi Berrill – si scoprono e si sfidano, contemplano e sperimentano il gesto simmetrico che incontra il suo simile.

«Il danzatore getta il corpo nell’abisso del gesto dicendo sì alla vita» ha dichiarato Sieni, il suo messaggio è positivo e consapevole. Uscire dallo stato di natura non corrisponde all’implicita accettazione di una civiltà in crisi, quanto piuttosto riscoprire la forma e la dimensione di essere parte di essa mediante il gesto e la danza. L’uomo prende atto della tragedia e del dramma della sua condizione, di fronte alle leggi della natura. Non sarà questa profezia o verità rivelata, però, a condurlo allo sconforto. Supera l’angoscia, nella relazione poetica con l’altro. Ogni essere umano ridefinisce il proprio spazio e ambiente vitale attraverso la traduzione fisica della sua intima essenza. Ecco perché «La danza – sempre Sieni – si presta ancora una volta a laboratorio della vita».

Ink, di Dimitris Papaioannou è una creazione anch’essa per due uomini in scena, uno vestito in total black (Papaioannou) e uno nudo (Šuka Horn); quest’ultimo potrebbe essere a grandi linee collegato alla figura del satiro in quanto archetipo di desiderio frenetico e dionisiaco. Si manifesta fin da subito come la trasposizione di una metafora sinestetica immersa nell’inconscio che associa il dolce rumore dell’acqua e il sapore oscuro dell’inchiostro. La vista morbida di un giovane nudo (un alieno, un figlio, uno schiavo, una preda da domare?) e quella ruvida, dura di un uomo adulto (un padre, un amante, un maestro, un padrone?). Entrambi cercano di divorarsi a vicenda, di nutrirsi l’uno dell’altro.
Ink è tornato sui palcoscenici internazionali e nei teatri in una nuova versione con la musica originale di Kornilios Selamsis, con un formato più completo e un finale rimodellato rispetto alla versione del 2020.

Se all’inizio si viene a manifestare l’intenzione, il desiderio di esprimere la curiosità e, forse, la reciprocità di una relazione sociale tra due uomini, con le forme di uno schema performativo, successivamente si trasforma in un vigoroso e spettacolare duello per conquistare e abitare lo spazio. Un incontro/scontro che sprigiona una forma di (tentativo di) controllo sull’altro. In bilico tra il mantenimento degli equilibri e la complessità del dolore in cui l’inconscio fa sprofondare. Il coreografo, a rappresentanza del genere umano, pone una questione: sopravvivenza o fuga? Sembrano risuonare, tra i riflessi dell’acqua e il colore nero dell’inchiostro, le parole di Carl Gustav Jung: «Non puoi fuggire da te stesso per sempre, devi fare ritorno, riuscire ad amarti». E, subito dopo, ad amare.

E di umanità parla il coreografo francese Olivier Dubois, ad essa si rivolge con il suo poema per 18 danzatori: Tragédie, new edit. Dieci anni dopo la sua prima, questa composizione corale è stata riscritta da Dubois spingendo gli spettatori verso il “sentimento del mondo”, come recita la poesia di Carlos Drummond de Andrade. È l’immagine plastica di un’umanità in cammino e in movimento che, come il ciclo della vita, inizia, finisce e ricomincia.

In Tragédie, gli interpreti, nove donne e nove uomini nudi, entrano, avanzano, resistono, scivolano, si raddrizzano, si inginocchiano, scompaiono, riappaiono. Al suo debutto, nel 2012, al Festival di Avignone, l’opera è diventata fin da subito un manifesto, un caposaldo della Danza Contemporanea. Inequivocabili sono le parole di Olivier Dubois: «Se Tragédie parla dell’Umanità, deve interrogare l’oggi e parlare del domani». Per creare un grande collettività senza differenze e per rappresentare autenticamente gli uomini, le donne, gli spettatori di oggi. I performer vengono liberati dai ruoli di genere e la nudità viene utilizzata come costume esclusivo e originale. Sembra quasi compiersi una desessualizzazione di quei corpi che diventano poetici, politici ed artistici.E la danza ha il potere di sopravvivere quando continua ad apparire, scomparire e riapparire, nel corso degli anni.

Chiudiamo il nostro racconto del Festival con The Collection. L’opera di Alessandro Sciarroni esprime con forza il messaggio che si può concepire e vivere la Danza non solo come qualcosa di esperto o virtuoso, ma anche come un pensiero, un processo che riesce a comunicare mediante quello che potrebbe essere definito una presenza viva e specifica. Più gli artisti riescono ad aprirsi alla fragilità e più gli spettatori riusciranno a riconoscerli come esseri umani, ritrovandosi un po’ in loro.

The Collection si interroga ed esamina ciò che la ripetizione di una frase coreografica produce su sé stessa. A dieci anni dal suo debutto e dopo diverse repliche in tutto il mondo, il gruppo di undici danzatori del Ballet de l’Opérà de Lyon riprende la danza tradizionale tirolese e bavarese dello Schuhplattler che consiste nel colpire, con le mani e ritmicamente, le scarpe, i polpacci e le cosce. Gli interpreti realizzano una magia ipnotica con precisione, regolarità e coerenza. I cambiamenti sono minimi, ma per essere eseguiti con pulizia e sincerità, devono accadere ed essere ripetuti all’unisono. Man mano che il movimento progredisce, il gruppo si sintonizza nell’ascolto reciproco. I cerchi diventano linee, il dentro diventa fuori e viceversa. Di undici ne resteranno solo due a continuare quello che diventerà alla fine un curioso pas de deux. È chiaro che non è tutto scritto e deciso a tavolino, i danzatori vanno oltre, si spostano, decostruiscono e trasportano altrove il pubblico insieme con loro. Ed è questo il trasporto, il viaggio, quello che è successo nelle tre settimane del Festival Equilibrio.