Liv Ferracchiati e La morte a Venezia: perdersi per ritrovarsi in una versione inedita di sé

Liv Ferracchiati e La morte a Venezia: perdersi per ritrovarsi in una versione inedita di sé

L’incontro magico tra La morte a Venezia di Thomas Mann e la versione drammaturgica e registica di Liv Ferracchiati, liberamente ispirata al testo dello scrittore tedesco pubblicato nel 1912, crea le condizioni e l’opportunità di esplorare un’opera letteraria attraverso le lenti del teatro contemporaneo.

Motore pulsante del romanzo di Mann è la tensione, l’attrito tra razionalità e passione, tra l’intellettualismo impassibile e il desiderio sensuale. Il testo è una riflessione sulla bellezza, l’ossessione e la morte, sullo sfondo di una città asfissiante e decadente come Venezia. Potremmo definire Gustav Von Aschenbach, il protagonista, come un uomo di cultura, controllato da un forte senso di disciplina morale, che si lascia sovrastare dalla bellezza e dalla giovinezza di Tadzio. La sua passione non è soltanto un’infatuazione, ma una lotta interiore che lo costringe a confrontarsi con la sua natura primitiva. Nel percorso tracciato da Mann verso l’autodistruzione, la ricerca della bellezza si rivela come la ricerca di una morte estetica, una ricerca che non nutre la vita, ma la svuota di significato. L’incontro tra il desiderio di perfezione e la capacità di distruggere ciò che è autentico riduce l’esistenza a un riflesso sterile di sé stessa.

Il viaggio a Venezia di Aschenbach diventa una discesa simbolica nell’abisso al punto che la città sull’acqua diventa essa stessa la rappresentazione di un mondo sospeso, come il corpo di Gustav, il quale non riesce più a distinguere tra vita e morte, tra desiderio e rovina. La sua fine non è una débâcle, ma la fusione, l’accorpamento con l’oggetto del suo desiderio. La sua è una morte estetica che diventa parte di un ciclo più ampio, quello dell’arte, dove l’autodistruzione non è mai del tutto separata dalla creazione.

Da questo paesaggio culturale e con queste premesse, il regista e drammaturgo Liv Ferracchiati progetta e concepisce una lettura contemporanea dell’opera, collocandola nel presente e scrostando le atmosfere ottocentesche del romanzo di Mann.
Aperto all’innovazione e alla ricerca di nuove forme espressive, Ferracchiati recupera la forza dei temi originali dell’opera servendosi di un linguaggio teatrale che sfida la tradizione. Pur mantenendo il nucleo drammatico del romanzo, cerca di rendere più concreto e palpabile il conflitto di Aschenbach, utilizzando elementi di teatralità fisica e di metateatro che sembra mettano l’accento sull’auto-percezione del protagonista. Il filtro della scena teatrale rende così predominanti sia l’elemento psicologico di Gustav Von Aschenbach che la percezione della bellezza di Tadzio.

Emerge chiaramente una precisa scelta registica di voler scardinare gli stereotipi legati al genere e all’età anagrafica. Tadzio, interpretato da Alice Raffaelli, non è quello che dovrebbe essere e potrebbe anche non essere quel che è. Anche Gustav potrebbe avere l’età che ha il personaggio, nel libro di Mann, così come qualsiasi altra età non scritta. La scena diviene agita non da un uomo maturo attratto dalla bellezza di un uomo giovane, ma è l’universalità delle persone a muoversi sul palcoscenico restituendo così all’opera una sospensione tra realismo esistenziale e dimensione simbolica.

La stessa Venezia, lo spazio e il tempo sono messi in discussione da un approccio teatrale che rende la narrazione più fluida, fisica e visibile, meno legata a un luogo preciso, ma più astratta. La regia di Ferracchiati si fa veicolo di un’esperienza viscerale che parla direttamente ai sensi e alle emozioni degli spettatori.
Le pulsioni di Gustav, la bellezza di Tadzio non sono solo un ideale distante, ma l’immagine tangibile dei corpi dei performer esibiti, ripresi e video proiettati. Il teatro di Ferracchiati riesce ad aggiungere alla prosa di Mann la tensione tra il sublime e il distruttivo, svelandola attraverso una videocamera, rendendo visibile l’invisibile.

Ogni parola, ogni movimento, ogni taglio di luce, ogni inquadratura, ogni respiro è un passo di danza verso la morte. In questo senso, La morte a Venezia di Liv Ferracchiati è tanto un tributo all’opera di Mann, quanto una sua reinvenzione teatrale che rompe la distanza tra l’intimo e il pubblico.
Quello che emerge con forza è la dislocazione, il passaggio da un ragionamento solitario e intellettuale ad una catarsi fisica. Quasi come se il desiderio, la bellezza che seduce, diventassero un atto di forza contro il pubblico. La bellezza si fa carne, la morte viene resa visibile e il desiderio diventa un’esperienza fisica. Ferracchiati mette lo spettatore nella condizione di fare i conti con l’ossessione e la morte, come esperienze che si consumano, nel qui e ora.

La scelta di realizzare la performance come un lungo monologo a due voci registrate implica alcune stimolanti riflessioni sul rapporto tra il pubblico e la performance, creando una distanza tra la parola e la presenza fisica dell’attore. Da un lato, la voce fuori campo può risultare potente come un’eco che si diffonde nello spazio, come se i pensieri del personaggio venissero svelati direttamente al pubblico. Dall’altro, questa scelta può limitare l’immediatezza emotiva che un attore riesce a comunicare dal vivo, privando lo spettatore di un’esperienza più diretta e materiale. Il rischio è che il monologo registrato finisca per diventare un elemento estraneo alla scena, distaccato dal corpo e dall’energia del performer.

È evidente che la scelta di un monologo fuori campo, nell’impianto registico di Liv Ferracchiati è servito a sottolineare l’alienazione del personaggio, l’impossibilità di comunicare direttamente con gli altri, trascinando lo spettatore in una riflessione più profonda sulla solitudine del protagonista. Questa scelta stilistica, alla fine, risulta funzionale ed efficace in quanto ben integrata con la visione registica complessiva dello spettacolo. È come un’ombra che si allunga sulla scena: distante eppure onnipresente. Non “ruba la scena”, ma al contrario contribuisce a costruire una narrazione più stratificata.
La voce, non più vincolata al corpo dell’attore, si fa Verbo, entità a sé, sospesa, a volte inquietante, come un fantasma che non trova pace. Questa scelta può trasformare il monologo in una riflessione interiore, una confessione che non vuole essere condivisa con tutti, indistintamente, ma solo rivelata nell’intimità di chi sa ascoltare.

La distanza fisica crea una frattura tra l’emozione e la sua manifestazione, come se il protagonista, pur parlando, fosse incapace di toccare gli altri con la propria presenza. La scelta registica di Ferracchiati, ben ponderata, la sua idea audace sfida il pubblico a confrontarsi con l’assenza, a sentirne il peso, a rivelare una verità che non si lascia possedere facilmente. È la voce, pura e distaccata, a fare il suo gioco di seduzione e disorientamento, al punto che alla fine sembra rendere tridimensionale, la coscienza di Aschenbach, la prosa di Mann, la drammaturgia di Ferracchiati. Diventa altro.

Nessuno di noi è mai uguale a sé stesso nel tempo: cambiamo nel corpo, nella mente e nel cuore, mutiamo opinioni, a volte quasi senza accorgercene. Cambia la percezione durante e dopo i sessanta minuti di La morte a Venezia. Se ne può uscire trasformati, diversi da prima. Diventare altro è una catarsi, una metamorfosi. È abbracciare la contraddizione. È avere il coraggio di scoprire chi siamo e chi non siamo. Proprio come riscrivere una storia, la nostra storia.

Fuori dall’oscurità c’è la speranza: la sperimentazione Multisensoriale di Arno Schuitemaker

Fuori dall’oscurità c’è la speranza: la sperimentazione Multisensoriale di Arno Schuitemaker

Le opere e le creazioni di Arno Schuitemaker sono momenti di profonda sperimentazione. Le sue performance si caratterizzano come l’esercizio all’abbandono più estremo, flessibile e accondiscendente, lasciando una duratura sensazione di trasporto impetuoso e di coinvolgimento emozionale. 

La sua ricerca coreografica contemporanea e radicale immerge il pubblico in un universo di luci, oscurità, movimento e onde sonore in continua espansione. Caratteristiche che lo rendono uno degli artisti performativi più affascinanti del momento. Le forme che crea danno senso ed espressione a temi universali come la paura, il desiderio, la speranza..

Con 30 Appearances out of darkness, presentato durante l’ultima edizione di Romaeuropa Festival, coreografo olandese gioca in modo sottile con le apparizioni e le sparizioni dei corpi in movimento tra i pilastri di velluto nero di una scena scarna. Il buio del teatro è una condizione, un luogo sicuro. Lì dove si prova l’eccitazione, la sensazione di vivere qualcosa di speciale grazie anche alle composizioni musicali di Aart Strootman e al design delle luci di Jean Kalman. Cosa rappresenta il non poter vedere tutto?  È stimolante, frustrante , interessante? C’è un sottile profumo di speranza nell’ abbandonarsi al  buio più totale? Ne abbiamo parlato con Arno Schuitemaker.

Quali eventi ed esperienze hanno plasmato 30 Appearances out of darkness e cosa ti ha ispirato?

Alcuni anni fa stavo leggendo un libro dell’artista Derek Jarman intitolato Chroma. È un libro poetico e bellissimo sui colori. C’era anche un capitolo sul colore nero. Quando lo stavo leggendo, qualcosa ha catturato la mia attenzione. Jarman scriveva: «Il nero è senza speranza? Non ha ogni nuvola temporalesca una fascia d’argento? Nel nero risiede la possibilità di speranza». È stato affascinante pensare che  l’oscurità potesse essere interpretata come qualcosa di positivo. Mi sono subito reso conto che sarebbe stato un ottimo punto di partenza per una performance. Perché l’oscurità nel teatro non è affatto insolita, anzi spesso la rendiamo buia nel teatro. Ma invece di considerare l’oscurità come l’assenza di luce, volevo parlarne in relazione a ciò che vi associamo: l’ignoto, il vuoto, l’oscuro. In altre parole, volevo usare l’oscurità nel mio senso metaforico e scoprire come possiamo cambiare la sua prospettiva in qualcosa di promettente.

Come descriveresti 30 Appearances out of darkness?

30 Appearances out of darkness In realtà comincia con molta luce, tantissima. Da questa luminosità, che è quasi accecante, creiamo l’oscurità. Utilizzando luci molto fioche, al limite della visibilità, scopriamo i danzatori uno per uno. Ma non è subito chiaro  quanti siano e come sia lo spazio in cui si trovano. C’è una sensazione di disorientamento. Ho trovato questo molto interessante perché quando ci troviamo in  tempi oscuri, questa oscurità che sperimentiamo può disorientare. Ci sentiamo fragili, ma se ci arrendiamo adesso può darci di nuovo forza.  La performance è un invito a scomparire nell’oscurità per trovare l’illuminazione, per vivere L’esperienza di poter uscire di nuovo dall’altra parte.

© Bart Grietens

Come la tua storia personale ha influenzato la tua visione e la tua percezione dell’arte, del mondo e della società? 

La danza come forma d’arte è arrivata tardi nella mia vita. Quando ho visto la mia prima performance di danza, credo che avessi circa 22 o 23 anni, sono rimasto stupito da come potesse generare emozioni, come potesse mettere le persone in contatto con loro stesse. Questa esperienza è stata molto importante per il modo in cui ora mi piace creare il mio lavoro. Mi piace avvicinarmi all’idea di una performance come a un’esperienza, qualcosa in cui ci si può immergere piuttosto che essere semplicemente osservatori. Trovo che sia anche un modo bello e importante di comunicare nel nostro mondo digitalizzato, quello di comunicare con i nostri sensi e di vivere qualcosa di significativo in questo modo.

Quali sono state le sfide e le scoperte più grandi che hai affrontato durante il processo creativo?

Quello che è stato difficile è stato che avevo bisogno dell’oscurità per capire su cosa stavo lavorando, ma lo studio non poteva diventare molto buio. Gli studi non sono fatti per questo. Ho dovuto usare molta immaginazione pensando continuamente a come sarebbe potuto apparire ciò che stavamo facendo. Una bella scoperta è stata l’importanza della scelta di avere i danzatori nudi nella performance. Quasi non si nota, soprattutto all’inizio, ma lo si percepisce E questo rende l’intera esperienza più raffinata a livello sensoriale.  è stata una scelta importante per questo lavoro.

L’oscurità, il mistero possono essere disorientanti e minacciosi. Possono trasformarsi in potenziale umano?

Sì, penso che sia possibile. Ma prima devi arrenderti, devi entrarci dentro e guardare il leone negli occhi. Questo è essenziale affinché la trasformazione diventi potenziale. È lo stesso, per esempio, con il lutto. Può essere un momento molto difficile della vita, può sembrare molto oscuro, la perdita di qualcuno o di qualcosa. È importante arrendersi al lutto, per quanto difficile sia. Arrendersi a tutte quelle emozioni, sentirle tutte, altrimenti è difficile uscirne. È utile sapere e rendersi conto che è importante attraversare le emozioni oscure e che, attraversandole, si può ritrovare la speranza nei momenti in cui ci si sente completamente persi. In questo senso, le parole della scrittrice Rebecca Solnit sono molto precise: «La speranza è rischiosa poiché in fondo è una forma di fiducia, fiducia nell’ignoto e nel possibile».

Troveremo di nuovo l’intimità o resteremo permanentemente soli nell’oscurità?

Nella performance i danzatori si ritrovano e vedo la fine dello spettacolo come una conquista, una danza di vittoria sull’oscurità. Escono dall’altra parte insieme e generano un’energia molto forte. È questa energia che ci fa sentire molto connessi con i danzatori ed è piuttosto potente, credo.

Quali sono gli elementi chiave che dovrebbero essere presenti in una creazione di danza contemporanea per renderla veramente significativa? 

L’onestà. Questa è la cosa più importante. Se sei onesto riguardo ciò che vuoi condividere e comunicare, allora hai già tra le mani le cose più importanti.

Nel tuo concetto di danza c’è o non c’è un limite concettuale o fisico per l’espressione?

Mi piacerebbe credere che non ci sia. Penso che tutto possa essere espresso, ma è  il come farlo che può renderlo interessante da guardare e vivere.

C’è qualcuno con cui non hai ancora lavorato, non necessariamente nel campo della danza, con cui ti piacerebbe collaborare?

Ci sono molte persone con cui mi piacerebbe lavorare. Ci sono tantissimi artisti che mi ispirano!  ma ce n’è una con cui scherzo sempre un po’, mi piacerebbe lavorare con Cate Blanchett. Lo farei davvero.

© Bart Grietens

Se non fossi coinvolto nella danza e nella coreografia quale altro percorso artistico ti piacerebbe esplorare?

Forse sarei uno scrittore. Mi piacerebbe scrivere un libro. Non so di cosa tratterebbe il libro e non penso di essere molto bravo a scrivere, ma se posso fantasticare, questo sarebbe il percorso artistico che sceglierei.

Pensi che il futuro, il tuo futuro, il nostro futuro come generazione stia andando verso la luce o verso l’oscurità?  Cosa pensi che accadrà a noi?

Penso che tutto dipenda da noi. Abbiamo una scelta, credo. Noi possiamo scegliere la luce.

La danza sperimentale e viscerale di Nunzio Perricone

La danza sperimentale e viscerale di Nunzio Perricone

Nunzio Perricone si forma presso il Teatro dell’Opera di Roma e il suo talento si è impreziosito mediante le sue numerose esperienze lavorative, nazionali ed internazionali, da Montreal a Chicago, da Singapore, alla Corea del Sud. La sua impronta di danzatore e di coreografo è tipica dell’isolano plasmato dal vivere in mezzo al mare. “L’isolano vive nell’attesa e nella paura dell’inabissamento” – ha scritto Leonardo Sciascia. Nato in Sicilia, come Sciascia, lo stile di Perricone è unico e riconoscibile. Cattura l’attenzione fin dal primo momento, creando una connessione con gli spettatori. Abita la scena mediante il suo corpo: fluttua, scivola e dal basso si solleva verso l’alto. 

La presenza di diversi linguaggi, nelle sue composizioni, e di diverse forme di espressione artistica, tra cui l’arte visiva e la ricerca sonora, rende universale l’estetica e la sua poetica. Si spinge fino a scendere nell’intimità dell’Io per risalire e raggiungere la superficie, la dimensione del Noi. E lì vi rimane, in sospensione, come un funambolo su una fune d’acciaio. 
In questa intervista abbiamo raccolto la sua testimonianza e quelle di Alessandro Floridia e Ivan Gasbarrini, con i quali forma il collettivo Secondonome.

Nunzio Perricone, raccontaci qualcosa sul tuo percorso di formazione

L’inizio della mia formazione nella danza è stata molto “tradizionale”, ho cominciato da piccolo in una scuola di danza di Catania, ho approfondito in seguito lo studio della danza classica e contemporanea al Teatro dell’Opera di Roma. Fu lì che capii quanto quel tipo di pratica non fosse adatta a me, quanto io non fossi adatto. Cominciai degli studi sulla sperimentazione corporea, che man mano si allontanavano sempre più dalle discipline prettamente coreutiche per avvicinarsi ad un approccio più performativo e sperimentale. Guardai per caso un documentario su I like America and America likes me di Joseph Beuys, fu la svolta nel mio pensiero. Sono sempre stato attratto dalla verità della semplicità nella comunicazione artistica, nei gesti e nell’approccio alla creazione. Da questo punto di vista trovavo la danza, tradizionalmente concepita, lontana dalle mie intenzioni.

Qual è stata la genesi del vostro progetto?

Alessandro Floridia: Il periodo di clausura pandemica mi aveva sottratto dal lavoro di “operaio della musica” e questa per me come per tante altre persone, è stata occasione di recupero di spazio mentale e tempo per affrontare tematiche e procedure creative in una modalità molto naturale e rilassata. Nunzio mi ha chiamato al telefono per spiegarmi che stava cercando un percussionista. Quando ci siamo incontrati ho subito chiarito che qualsiasi collaborazione sarebbe dovuta nascere da vere esigenze di ricerca da entrambe le parti. 

Ho cercato di proporre l’uso di strumenti alternativi alla percussione, ad esempio in ambito elettroacustico, e ho subito notato interesse e una grande voglia di novità anche da parte sua. Nessuno dei due conosceva precisamente il lavoro dell’altro ma nonostante questo è nata da subito una grande intesa sia a livello umano (non è difficile andare d’accordo con una personalità accogliente e solare come quella di Nunzio) sia artistico, vista la sua versatilità fisica e immaginativa e la sua grande esperienza di professionista.

N.P.: Su queste basi è cominciato il nostro percorso dapprima con una rivisitazione di Elogio del Silenzio, una mia performance che portavo in giro da qualche tempo. Poi con il progetto Antropo_Cenere che ha visto l’ingresso del video nel lavoro con l’importante apporto di Ivan Gasbarrini.Ed eccoci a Spettro Variabile che ci vede coinvolti tutti e tre (Nunzio Perricone per il movimento, Alessandro Floridia per il suono, Ivan Gasbarrini per il video).

La scelta del titolo Spettro Variabile e l’indagine intorno a queste due parole per la vostra performance

A.F.: Si tratta di un lavoro che vorrebbe restare aperto alla mutazione indotta dai luoghi e dalle circostanze: questa impostazione stimola Secondo Nome a un’indagine e un dibattito interno sull’idea di Improvvisazione e di rapporto rispetto all’idea di Opera. Possiamo dire che è uno dei temi centrali sui quali stiamo ragionando e mettendo alla prova come gruppo. Il nome di questo nuovo ciclo di performance Spettro Variabile, ci sembra una delle soluzioni scelte fra tante che lascia aperte molte interpretazioni, in linea con il discorso cui si accennava legato alla possibilità di questi tre linguaggi – corpo, suono, video – di comporre la propria poetica in una sorta di interplay entro uno schema nei quali trovare appuntamenti ma anche nuove zone di incontro e vie d’uscita.

Chi vi ha dato dei consigli utili per il vostro ultimo progetto e cosa, in particolare, avete condiviso?

Ultimamente abbiamo avuto l’onore di presentare Spettro variabile ad una straordinaria performer, Alessandra Cristiani. Il suo sguardo così acuto ci ha fornito degli ottimi spunti di riflessione. In particolar modo, abbiamo approfondito insieme, la tematica del tempo scenico, il timore del vuoto scenico, la possibilità di dilatare il tempo di un’azione, fino a che non muti in qualcos’altro ed avere il coraggio di spingersi fino a questi confini, che in prima analisi appaiono nascosti. È stato prezioso

Chi è Nunzio Perricone (persona/artista)? Che rapporto hai con te stesso?

N.P.: Mi ritengo una persona, irrimediabilmente curiosa. Ogni qual volta mi si presenta un nuovo argomento, inizia la fame insaziabile di sapere e questo richiede un consistente dispendio di energie. Artisticamente si traduce in una passione totale per il processo creativo respingendo spesso il compimento di un’Opera. In queste due fasi distinte, processo e concretizzazione, cambia il rapporto con me stesso.
Mentre nella prima fase riesco ad avere totale fiducia in me stesso, anche nei possibili fallimenti, lo stesso non avviene nella fase realizzativa, dove raggiungo livelli di lotta interiore davvero significativi. Solo la reale necessità di comunicare quanto pensato, fa sì che io esca da certi meccanismi di auto-sabotaggio.

Se dovessi scegliere una parola soltanto per descrivere la tua sensibilità artistica, quale sceglieresti e perché?

N. P.: Viscerale. Nel senso di profondità fisica. Nella mia espressione artistica tendo alla ricerca del ‘nucleo embrionale’ dell’argomento trattato, o anche semplicemente del movimento suscitato da tale argomento. Ecco perché parlo di semplicità nella domanda precedente. La mia azione tende sempre a “togliere” fino ad affrontare frontalmente l’essenza. Alessandro ed Ivan mi hanno molto spinto ed aiutato in questa direzione. È stato spesso doloroso. Asciugare il superfluo può risultare semplice se non addirittura necessario, ma sacrificare un atto proveniente dall’esigenza comunicativa o da un’idea forte e ben radicata, appartiene alla rinuncia e in quanto tale, violenta.

Qual è il tuo rapporto personale e artistico con questi due opposti: luce e ombra?

N. P.: Sono attratto dall’ombra in quanto spazio negativo, in quanto abitante dello spazio negativo. In Spettro variabile ad esempio, abbiamo utilizzato diverse torce da lavoro, rinunciando del tutto ai fari scenici, proprio per lasciare che la luce, ma soprattutto le numerose ombre, stessero sullo stesso piano degli altri elementi, il più naturalmente possibile e a più livelli. Solo a performance ultimata ci siamo resi conto del ruolo fondamentale che hanno ricoperto.

Quali sono (o sono stati) i tuoi riferimenti nel mondo della danza e dell’arte in generale?

N. P.: Il teatro di Carmelo Bene, di Bob Wilson, i saggi di Derrida e i libri di Gurdjieff, le performance di Bruce Nauman, i film di Tarkovskij ma soprattutto l’intera corrente dell’Arte Povera. La ritengo fonte inesauribile d’ispirazione. Ci sono moltissimi artisti che non cito, per ovvie ragioni di spazio e tempo, ma questi elencati rientrano sicuramente in ogni mia creazione. D’altra parte confesso anche, che solo da qualche anno concedo realmente un tempo di qualità allo studio. Sto scoprendo quotidianamente personalità e correnti di pensiero che mi affascinano. Tra un anno questa risposta potrebbe essere del tutto diversa. Per quel che riguarda la danza, sicuramente Omar Rajeh, con cui ho la fortuna di lavorare, rappresenta un esempio fondamentale, soprattutto per la pratica d’improvvisazione.

Verso quale direzione sta andando la Danza contemporanea? C’è ancora spazio, un’urgenza artistica per rielaborare uno o più linguaggi attuali e di rinnovamento?

N.P.: Ho dialogato con Alessandro di questa domanda e della possibile risposta, perché avvertivo una vena polemica nel mio pensiero. Lui mi ha fornito un ottimo spunto sul quale ragionare. Personalmente ritengo la danza la più restia, tra le forme d’arte, all’avanzamento, al rinnovamento, per una vera e propria direzione che ha l’intero circuito, a tutti i livelli e a tutte le latitudini, non di certo per mancanza di talento, che anzi ritengo debordante soprattutto tra i giovani artisti.

Alessandro giustamente ha però ribattuto a questa mia riflessione, ponendo al centro la questione dell’inserimento di linguaggi altri. Di pratiche creative trasversali, che integrino e coinvolgano altri approcci provenienti da un qualsiasi altro sistema. É lì che vedo ancora spazio e infinite possibilità di comunicazione, lasciando che l’urgenza di espressione tracci il cammino di un’Opera. Senza limiti e/o percorsi pregressi.

Continua questa frase: se potessi cambiare qualcosa di te, del mondo, della danza, sarebbe…

N.P.: Se potessi cambiare qualcosa di me, cambierei la gestione del tempo. Me ne concederei molto di più per lo studio, per l’ozio (alla maniera dei greci antichi), invece che questa sorta di horror vacui che mi accompagna. Del mondo cambierei, l’animale umano. Porrei a margine il punto di vista antropocentrico. Della danza cambierei il fine ultimo. Vorrei fosse espressione massima del brutto e non ricerca di bellezza. Vorrei crollasse definitivamente il pilastro dell’estetica.

Dove e come ti immagini tra 10 anni?

N.P.: Mi piace immaginarmi, abbastanza interessante da suscitare continuamente curiosità, in un pubblico. M’immagino a raccontare ad una platea di giovani il processo creativo della mia ultima creazione presentata. Un’ alternativa sarebbe invece, una vita alla Thoreau di Walden o la “casa al mare” di Le Corbusier, rinunciando completamente alla socialità così come la concepiamo quotidianamente. In questo caso però, dovrei coinvolgere anche mia figlia, non potrei rinunciare a lei.

La danza oltre i limiti del corpo umano di Frantics Dance Company

La danza oltre i limiti del corpo umano di Frantics Dance Company

Carlos Aller, Marco Di Nardo, Diego de la Rosa e Juan Tirado danno vita e formano, dal 2013, la compagnia chiamata Frantics Dance Company. Un progetto con un respiro internazionale che unisce l’Italia con la Spagna e ha come quartier generale Berlino. Il loro stile, la loro impronta è decisamente fisica, energica ed emotiva. I loro spettacoli armonizzano tra loro diversi codici di danza e movimento, sia urbani che contemporanei, teatro di parola e fisico. Tutto questo viene arricchito con influenze che provengono dal mondo della letteratura e di alcuni saggi filosofici.

I co-fondatori, Carlos, Marco, Diego e Juan, creano composizioni per spazi teatrali tradizionali, ma anche per luoghi specifici e all’aperto, volte a comunicare con un pubblico versatile e con spettatori diversi.
Con la loro compagnia si sono esibiti in tutto il mondo: Germania, Svizzera, Spagna, Italia, Irlanda, Francia, Olanda, Grecia, Israele, Taiwan e altro ancora. Qualunque superficie viene da loro abitata e trasformata magicamente in un set cinematografico o un ring dove i limiti vengono esplorati, disegnando linee e forme in movimento. Trasmettendo in modo chiaro e forte messaggi, idee, emozioni. La domanda che sembra scuotere l’attenzione dello spettatore è: fino a che punto è possibile spingere il corpo umano oltre i suoi limiti?

Ne abbiamo parlato con Marco Di Nardo, a seguito della visione di Dystopian della Frantics Dance Company al Teatro Biblioteca Quarticciolo, nell’ambito del festival Fuoriprogramma.

Qual è l’idea principale che muove la vostra compagnia e il vostro progetto artistico?

L’idea principale che muove la nostra compagnia è cercare di rinnovare l’ambito della scena contemporanea, apportando una nuova visione artistica che proviene dall’urban dance, che è il background della nostra compagnia, cercando di fonderlo con altri stili ed idee.

Voi unite il linguaggio della danza urbana, la street dance, con la danza contemporanea. In che modo bilanciate l’old style, il classico con il contemporaneo?

Il nostro linguaggio di danza urbana è sempre presente, e lo sarà sempre, poiché portiamo con noi non solo lo stile di danza urbana, ma anche la mentalità di una cultura come l’hip hop, che è aperta all’innovazione e trova sempre il modo di evolvere ed essere accessibile a tutti. Diciamo che il nostro obiettivo è sempre stato quello di creare un ibrido tra ciò che può essere il contemporaneo e il mondo urban, cercando di creare uno stile personalizzato, che possa essere riconoscibile, un marchio tutto nostro. Questa è una ricerca che è ancora in corso e che si arricchisce, anno dopo anno.

Come e quando hai iniziato a danzare? Cosa ti ha portato a ballare?

La danza per tutti noi è sempre stato un hobby coltivato in età adolescenziale e la Breakdance, in quel momento, era una disciplina che univa in sé lo spirito di ribellione con la voglia di appartenenza a un gruppo, con il quale si facevano le battle. Ad un adolescente come me è riuscita a farmi scoprire il valore della disciplina, la voglia di scoprire ed essere riconosciuto in gruppo. Ed è proprio per questo che abbiamo iniziato a ballare breaking e questa forte passione ci ha portati ad incontrarci a Berlino e a creare la nostra compagnia.

Cosa c’è nella tua playlist e cosa leggi mentre sei in viaggio?

Purtroppo nella maggior parte dei casi nella mia playlist ci sono email da leggere o applicazioni ministeriali da mandare, ma quando ho tempo mi piace ascoltare interviste di attori o registi.

Seguire un tipo di processo particolare oppure vi lasciate ispirare in modo libero e spontaneo?

All’inizio sì, ci piaceva essere ispirati dal momento e creare strada facendo, ma con gli anni abbiamo dovuto cambiare un po’ strategia poiché la modalità spontanea funziona quando in sala siamo solo noi quattro. Quando si lavora con un gruppo più grande di collaboratori bisogna essere organizzati. Tra di noi riusciamo a dividerci i compiti di chi si occupa di cosa, in modo da gestire il tutto in sintonia, anche se si lascia sempre una percentuale di spontaneità.

Raccontaci com’è una giornata tipo in sala prove.

La nostra giornata tipo in sala è molto differente in base a diverse situazioni. Se siamo in creazione per un nuovo pezzo, iniziamo con un warmup e poi seguono varie task di creazione le quali possono essere improvvisazioni teatrali o di danza oppure semplicemente scrivere idee. Solitamente verso la fine della giornata si cerca di fare un resoconto e di filmare il tutto così da poter poi vedere il video e fare delle correzioni il giorno dopo. Nel caso in cui non siamo in creazione, la sala prova è molto più aperta a sperimentazioni e a provare cose nuove; a volte invitiamo ospiti per tenere workshop in altre discipline, così da imparare sempre qualcosa di nuovo.

Com’è nato, cosa c’è dentro e qual è stato il processo evolutivo di Dystopian?

Dystopian è nato con l’idea di creare qualcosa che rispecchiasse un po’ il nostro rapporto come amici/colleghi, dove sono presenti un po’ tutte le sfaccettature di questo tipo di relazione e su come le affrontiamo giornalmente. Il pezzo è ancora in stato di rifinitura poiché prima aveva una durata di 15 min ed ora di 31 min, e siamo ancora in fase di ricerca per migliorarlo e farlo crescere.

La Germania, Berlino (la vostra sede) in particolare, produce tanto nel campo della danza ed è un polo culturale notevole, ma se potessi vivere e lavorare un anno in qualsiasi altra parte del mondo, dove andresti?

Sì, Berlino è la nostra sede e la nostra città di residenza da 12 anni. Anche se viviamo lì, in realtà quasi mai lavoriamo a Berlino, tutte le produzioni e creazioni sono sempre in altre città, in Germania o in altri paesi. Un po’ per caso, un po’ è voluto perché quando siamo a casa siamo lì per riposarci! Scegliere un’altra città è difficile perché con Berlino c’è sempre una relazione di odio e amore, poiché ci sono cose che ci sono solo lì ed altre no, ma se dovessi scegliere un posto in particolare direi Taiwan, perché è un paese che mi ha dato tanto dal punto di vista artistico ed è sempre stato un piacere tornare lì.

Qual è il rischio più grande che hai corso finora e quale soddisfazione ha regalato quell’azzardo?  

Io direi che il rischio più azzardato per me come per gli altri è stato quello di voler creare una compagnia di danza. Poiché nessuno di noi ha veramente studiato danza, tutti noi abbiamo studiato tutt’altro e lavoravamo in altri settori prima di conoscerci. Quindi l’idea di creare dal nulla, senza nessun tipo di esperienza, e di portare avanti una compagnia è l’azzardo più rischioso ad oggi.

Se potessi collaborare con un danzatore/compagnia e/o coreografo, vivo o morto, chi sceglieresti e perché?

Mi piacerebbe collaborare con Tom Visser, uno dei più grandi light designer oggigiorno, e Lloyd Newson, direttore della compagnia di teatro fisico DV8.

 In che modo la tecnologia, l’intelligenza artificiale e i social media influenzano ladanza urbana e contemporanea e quali sono i vantaggi e gli svantaggi che si possono ricevere?

La tecnologia ormai ha invaso tutti i campi e settori, ed all’inizio c’è sempre un po’ il timore di essa, ma poi si impara a capirla ed utilizzarla, e poi dopo ci si rende conto che tante cose sarebbero state impossibili da fare senza di essa. Oggi giorno penso sia una componente importante per qualsiasi lavoro, sia coreografico che non, ci aiuta a semplificare ricerche o compiti che prima ci sarebbe voluto molto più tempo, quindi ci dà un vantaggio sotto il punto di vista della produttività, e uno svantaggio dal punto di vista delle ore che si passano davanti al pc e alla sua dipendenza.

Vi sarete esibiti in tanti posti diversi e incredibili. Qual è la cosa più strana che vi è capitata?

Sicuramente quella di esibirsi nelle scalinate del palazzo San Felice a Napoli, dove due minuti prima di cominciare lo spettacolo la polizia venne ad arrestare due ragazzi che vivevano nel palazzo.

Come racconteresti l’esperienza di fusione, di melting pot culturale tra Italia, Spagna e Germania?

È un milkshake di informazioni che ogni giorno si arricchisce di nuove emozioni. Lavorare e vivere circondati da una realtà multiculturale ti aiuta ad abbattere pregiudizi e ti arricchisce sempre di qualcosa di nuovo. Per me è un aspetto molto importante il fatto di essere a contatto sempre con culture differenti ed è qualcosa che mi ha sempre affascinato, ed è forse stata proprio questa voglia di conoscere che mi ha spinto a lasciare l’Italia.

Per concludere l’intervista, con quali parole definiresti il progetto e lo stile di Frantics Dance Company?

Innovativa, frenetica, multidisciplinare.

Ci vuole un pizzico di fatica per essere felici, ritratto di Alfonso De Vreese

Ci vuole un pizzico di fatica per essere felici, ritratto di Alfonso De Vreese

È uno dei tre finalisti dei Premi Ubu 2023, insieme ad Alessandro Bandini e Alberto Malanchino, nella categoria Miglior Attore under 35. Tra di loro non sembra esserci rivalità e competizione ma una sincera amicizia. Si è fatto notare e ha lavorato, tra i tanti, con registi diversi per influenza come Carmelo Rifici, Leonardo Lidi e Leo Muscato. Modenese di nascita, nonostante l’origine fiamminga del suo cognome, stiamo parlando di Alfonso De Vreese, giovane attore dai modi gentili, con i capelli biondi e gli occhi chiari. Si definisce “casalingo, ma nomade per necessità”.
Fa parte di una promettente compagine di attori teatrali di nuova generazione di cui sentiremo parlare a lungo e, per questo, abbiamo avuto il piacere di intervistarlo e di conoscerlo un po’ più da vicino.

La prima domanda è rivolta per conto di tutte quelle persone che non ti conoscono o che non ti conoscono abbastanza: chi è Alfonso De Vreese oggi e che rapporto hai con la persona che sei stata fino a ieri?

Sono un ragazzo di trent’anni, che si affaccia alla vita adulta, felice di alzarmi ogni giorno e di fare quello che faccio. Però ho un sacco di paure e di insicurezze, che nel profondo mi rendono diffidente e pessimista. Cerco quindi ogni giorno di vivere sorridendo e giocando. La storia del bicchiere mezzo-pieno-mezzo-vuoto mi ricorda tutti i giorni che ci vuole un briciolo di fatica in più per essere felici.
Ho un rapporto abbastanza pacifico con il passato. Per questo però non tornerei mai indietro, non perché ci siano stati dolori, ma perché penso che più vado avanti, più sono contento della vita che sto facendo. E mi auguro che sia sempre così.

Da bambino giocavi con i Pokemon? Quali erano i tuoi giochi preferiti?

Non giocavo con i Pokemon, purtroppo. Né carte, né Gameboy; ma guardavo i Digimon in tv e volevo tutti i Lego del mondo. Ma i giochi più belli erano con mia sorella e i cugini sulla terrazza della nonna.

Una riflessione personale su ognuna di queste sezioni: dedicarsi alle proprie passioni, vivere la vita al massimo, costruirsi la propria vita con fatica e scoprire di più di sé stesso…

Dedicarsi alle proprie passioni: Ogni tanto le passioni coincidono con il proprio lavoro, ogni tanto no. Io credo che debbano sempre essere coltivate; anzi è fondamentale. Altrimenti arrivi a un certo punto nella vita e realizzi di aver perso tempo.
Vivere la vita al massimo: vivere costantemente al massimo penso che porti solo stress. La vita segue dei ritmi più naturali, a volte intensi, a volte quasi immobili.
Costruirsi la propria vita con fatica e scoprire di più di sé stesso: Mi piace molto quando a un mio amico napoletano scappa “faticare” al posto di “lavorare”. Credo che la fatica incida molto sul carattere e la vita di ognuno. Dipende tutto se si sceglie di connotare il faticare in modo positivo e da come si affrontano i NO o gli errori che viviamo.

Quali sono i consigli professionali che hai accettato e condiviso nella tua carriera e quali sono quelli che invece hai rifiutato?

Durante la mia formazione, ho avuto tanti insegnanti e in verità ho cambiato più volte idea sul perché volevo fare teatro.
Quello che più mi è rimasto è che il lavoro non è mai per sé stessi ma sempre per gli altri. Mi hanno insegnato a concentrarmi sulla generosità, sul fuori da sé, ad abbandonare il pudore e a sacrificare un po’ di sé stessi a favore di chi è di fronte a te in scena e in sala. Insomma che quello che conta è il concetto che siamo insieme: con il pubblico, con i compagni e le compagne di scena, con chi lavora dietro alle quinte e negli uffici.

Di contro non ho ascoltato quelli che mi dicevano che era un mestiere di solitudine e che essendo il mondo competitivo, l’unico modo per “farcela” era essere lo squalo più grande. Non ho mai creduto che da soli non si potesse fare carriera o non si potesse crescere e creare cose belle, ma penso che a intraprendere questa via ci si trovi comunque tristi e rancorosi.

Cinque persone che senti di ringraziare e perché.

Carmelo Rifici, perché è stato il mio maestro, mi ha dato fiducia anche dopo la scuola e mi ha guidato a diventare la persona e l’attore che sono adesso.
Leonardo Lidi, ci siamo conosciuti da poco, è un artista che stimo e un grande amico. Sono certo che continueremo a “cercare” insieme.
Mia nonna, una persona a cui penso di assomigliare tanto.
Mio zio, mancato poco tempo fa e che ha sempre dato un valore immenso al rischiare, al superare i propri limiti, anche in modo scomodo.
La mia ragazza, che mi sta vicino nonostante il mio lavoro spesso ci costringa alla lontananza.

A teatro, come nella vita, l’altro è portatore di pericolo, di minaccia oppure di fiducia?

Entrambe le cose. Penso che il pericolo e la paura siano tratti belli dell’essere umano, anzi è proprio in nome della fiducia reciproca che apriamo cuore e anima, rischiando e facendoci del male. Naturalmente crolla tutto il senso del teatro se si sfocia nel massacro, se ci si concentra sulle sole relazioni tra artisti e operatori, dimenticandoci che siamo qui per lasciare qualcosa agli altri.

Che immagini, che ricordi hai del giorno in cui hai scoperto di essere stato candidato agli Ubu come miglior attore?

In verità stavo andando a dormire, stavo mettendo la sveglia per il giorno dopo e ho cominciato a ricevere messaggi da un sacco di amici, ho visto il post ufficiale dell’Associazione Ubu per Franco Quadri: ero elettrizzato e ci ho messo tantissimo per prendere sonno. Ho subito pensato: “comunque vada, già essere candidati è una soddisfazione incredibile, soprattutto insieme al mio migliore amico, Alessandro Bandini”.

Quali sono gli attori che, nelle precedenti edizioni del premio Ubu, nella tua categoria, ti hanno ispirato o stimi particolarmente?

Christian La Rosa. Lo avevo visto spesso a teatro, ho avuto la fortuna di lavorare con lui e spero l’avrò ancora. Mi ha dimostrato cosa vuol dire essere un attore poliedrico e senza paura, quanto è necessario non accontentarsi del proprio talento ma impegnarsi a esplorare fuori dalle proprie zone di comfort.

Spesso le attrici e gli attori sono sottoposti a grande stress e pressione. Puoi confermarlo? Ricordi qualche momento difficile che vorresti condividere?

La precarietà del nostro mestiere, il fatto che spesso si debba essere lontano dai propri affetti, i periodi ad alta intensità che si alternano a mesi di disoccupazione. Sono tutte cose che mi vengono in mente quando penso allo stress. Il lavoro di ricerca che si fa durante le prove è stressante allo stesso modo, perché ti mette di fronte ai nodi della tua vita e che non sempre sono facili da sciogliere. 

Il viaggio più bello e il tuo viaggio ideale?

Sono stato in Islanda quest’estate. 10 giorni di viaggio in un’auto camperizzata in mezzo alle cascate, alle balene e alle foche. Non lo dimenticherò mai. Pochi esseri umani, tanti vulcani, distese di roccia e di erba.
Sogno di andare in Giappone, ma mi piacerebbe fosse un viaggio lungo, per vivere la vita metropolitana e le zone più naturali. Vorrei però tornare anche nel deserto, sono stato in Tunisia e vorrei esplorare i mondi caldi, con il tè alla menta e il silenzio.

Di tutti i personaggi che hai interpretato qual è quello che ti ha maggiormente entusiasmato e quello che ancora manca all’appello, che vorresti interpretare? E qual è quello che non vorresti mai interpretare?

Parto da Amleto che ancora manca all’appello. Un po’ cliché, ma ammetto che prima o poi sogno di giocare dentro quelle parole.
Jessica in Come nei giorni migliori di Diego Pleuteri, regia di Leonardo Lidi. È un ruolo molto vicino al mio quotidiano. Ma l’infinito che vive nella relazione con Billy (Alessandro Bandini) è per me commovente.
Forse quello che non vorrei interpretare è Romeo, perché ho sempre preferito Giulietta. Ma non si sa mai, magari è solo un mio pregiudizio.

Qual è la tua opera di Shakespeare preferita e perché?

Sogno di una notte di mezza estate. Provo un grande affetto perché è una delle prime che ho conosciuto e una delle ultime che ho fatto e per cui sono stato in tournée.

Quali sono i personaggi più controversi che hai interpretato e cosa hanno lasciato in te? Cosa hai imparato da loro?

Clemm in Uomini e no di Santeramo, diretto da Carmelo Rifici, un capitano nazista crudele e caotico, quasi infantile. O Macbeth, sempre diretto da Carmelo Rifici. Ho una grande passione per i ruoli negativi, non solo penso siano divertenti da esplorare, ma penso abbiano molto da insegnare su quanto è confusa la linea tra il bene e il male, e diventa molto chiaro, sfondata la membrana del pudore e della morale, il principio di relatività. Inoltre gli antagonisti godono di una libertà estrema e ci sono poche cose più soddisfacenti di avere un assaggio di quella potenza sul palco.

Molte, troppe sono questioni fondamentali che destano preoccupazione nel settore del teatro. Secondo te cambierà qualcosa o è già iniziato il cambiamento?

Sì, tutte le cose sono in movimento. Il mio disagio è quando vedo il mondo ostacolare in tutti i modi il cambiamento, oppure, al contrario, spazzare via tutto quello che riguarda il passato, sia le cose buone sia le cose cattive, in nome di un progresso che però rimane senza radici. In entrambi i casi purtroppo c’è sempre una perdita di complessità.

Continua questa frase: se potessi cambiare qualcosa nel teatro, sarebbe…

Il rapporto col pubblico, soprattutto quello giovane. Ma credo sia un problema culturale: il ruolo che il teatro ha nella società e nell’economia di oggi è marginale. Le scuole vengono a teatro solo se uno spettacolo rientra nel programma didattico. Il settore di spettacolo dal vivo ottiene una percentuale minima dei finanziamenti statali. La nostra categoria non è tutelata. Eppure a me capita sempre di sentir dire da chi torna a teatro dopo anni o da chi schiva le sale teatrali da tutta la sua vita: “ma io pensavo di annoiarmi, invece è bellissimo”. 

Come ti senti riguardo a tutta quella mascolinità tossica che continua ad imperversare? Che rapporto hai con il tuo lato femminile?

È un argomento molto vasto e difficile da sintetizzare. La tossicità va sempre condannata, quello che penso è che per una reale risoluzione, per un mondo dove non ci siano differenze, dove tutti abbiano gli stessi diritti e le stesse opportunità ci vorrà molto tempo. Per fortuna ci sono sempre più donne e sempre più uomini che lottano per cambiare il mondo. Il limite più grande sono i confini che abbiamo dentro la testa.

E per quanto riguarda il futuro, provi paura o curiosità? Qual è il futuro di Alfonso De Vreese?

Ammetto di avere un po’ di paura, ma la curiosità vince sempre. Quest’anno continuerò a lavorare a Brescia e a Torino e sono molto contento di ciò. Il lavoro con Leonardo Lidi mi porterà a Spoleto quest’estate e poi in futuro spero di avere altre occasioni nel cinema perché ho avuto una bellissima esperienza con Joe Wright l’anno scorso e ora mi piacerebbe mettermi alla prova anche in quel mondo.