Sahara: il deserto come condizione umana

Sahara: il deserto come condizione umana

Parte della programmazione del festival FOG Performing Arts 2025 di Triennale Milano, Sahara è l’ultimo lavoro dell’artista Claudia Castellucci. In scena la Compagnia Mòra, insieme stabile di danzatori nato dall’esperienza dell’omonima scuola (2015-2019), composta da Sissj Bassani, Silvia Ciancimo, Guglielmo de Cabanyes, René Ramos, Francesca Siracusa, Pier Paolo Zimmerman

Lo spettacolo, come in tante rappresentazioni teatrali, si apre in un’atmosfera sospesa. Ma qui la sospensione è perenne: Sahara lavora sulla costruzione e sulla percezione sensoriale di un ambiente, quello del deserto, inteso non solo come luogo ma anche come condizione esistenziale: i danzatori in scena, sguardi vitrei e vaporose capigliature, vestiti con tenui colori terreni — grigio, sabbia, beige, marrone —  sembrano abitare uno spazio arido, ostile, all’interno del quale si aggirano scomposti ed impenetrabili. Il complesso ambiente musicale, ideato da Stefano Bartolini, riflette la loro presenza: rumori discontinui, sussurri di parole ermetiche, suoni che richiamano al livello percettivo l’immaginario di una terra asciutta, sterile. 

Il primo danzatore ad entrare in scena illumina il palco, immerso nel buio, con una piccola torcia, che dopo poco svela un’altra danzatrice inginocchiata. È coperta fino alla testa dalla sua lunga giacca che, nella quasi oscurità, appare come un velo. Questa prima visione evoca un immaginario sacro che rimane però indefinito, non esplicito, così come evocativo e al tempo stesso indefinito è l’intero spettacolo, che richiama ma non racconta, suggerisce ma non rivela, provocando nello spettatore una sensazione di costante spaesamento.

Quando anche gli altri danzatori appaiono, la figura coperta nel suo manto si solleva in piedi e, soffiando in un oggetto simile ad una pipa, comincia a creare una densa nuvola di fumo che attira tutti come un prodigio. Il fumo assorbirà poi tutta la scena teatrale e, continuando a essere generato, diventerà elemento scenico onnipresente, intrecciandosi con il ricco disegno di luci di Andrea Sanson: attraverso tonalità calde e strategici giochi di ombre, anche la luce contribuisce alla costruzione di un ambiente suggestivo, rarefatto, all’apparenza spoglio ma in realtà molto denso nella sua semplicità. 

sahara
© Nicolò Gialain

Quella della Compagnia Mòra è una danza gestuale che, però, non ha nulla di minimalista. Al contrario, gesti ripetuti sembrano alludere a profondi significati che rimangono indecifrabili, come a comporre un linguaggio altro, comprensibile solo ai suoi esecutori: ora indicano in alto con l’indice, ora portano con forza il pugno al cielo, ora camminano afferrandosi i polsi dietro la schiena e in tale posizione talvolta si dimenano, come volessero liberarsi da qualcosa che li trattiene. 

Ermetico è anche il significato degli oggetti che si susseguono sulla scena: una voluminosa corda tesa nel proscenio sulla quale i danzatori si appoggiano, ora dando le spalle al pubblico, ora scrutandolo senza davvero guardarlo, un copricapo che ricorda quello dei beduini del deserto, indossato da un danzatore trasportato in spalla e seguito dal gruppo, una solenne processione, un bicchiere di vetro, pieno d’acqua usato all’inizio da una danzatrice per bagnare come in una benedizione gli altri due danzatori. Il bicchiere riappare in una scena emblematica in cui la stessa danzatrice, questa volta sola sul palco, lo tiene in equilibrio sul gomito, facendo traballare l’acqua al suo interno per qualche secondo, per poi lasciare che si frantumi a terra.

Sahara mette in scena una danza dell’opposto, che gioca sulla concretezza dell’ambientazione del deserto ottenuta da suoni, luci, scelte cromatiche e oggetti di scena e sull’astrattezza dei significati esistenziali ricercati in esso, messi in scena attraverso i corpi e i gesti degli interpreti. I danzatori si toccano di rado e quando lo fanno sembrano non vedere l’altro ma attraversarlo, quasi fossero imprigionati in uno stato di isolamento mentale: l’unico “altro” con cui si interfacciano, sembra essere il loro io, materializzato nelle loro ombre, visibili solo in alcuni momenti. È questo dialogo interiore e misterico ad essere il vero protagonista della scena e ad accompagnare lo spettatore fino alla fine dello spettacolo, che arriva senza fare rumore, nel silenzio attonito del pubblico.

Il cimento dell’armonia e dell’inventione: il genio coreografico che aderisce alla vita

Il cimento dell’armonia e dell’inventione: il genio coreografico che aderisce alla vita

Parte della programmazione del festival FOG Performing Arts 2O25 di Triennale Milano, Il cimento dell’armonia e dell’inventione è il nuovo lavoro firmato dalla coreografa belga Anne Teresa De Keersmaeker e dal coreografo marocchino Radouan Mirziga.  

Il titolo fa riferimento alla raccolta di 12 concerti composti da Antonio Vivaldi tra il 1724 e il 1725; tra questi, i primi quattro (La primavera, L’estate, L’autunno, L’inverno) hanno poi costituito la celeberrima raccolta Le quattro stagioni, intramontabile classico musicale. La versione utilizzata per lo spettacolo corrisponde ad una registrazione realizzata dalla violinista e storica collaboratrice di De Keersmaeker, Amandine Beyer, insieme al suo ensemble Gli Incogniti
Il lavoro coreografico di De Keersmaeker e Mirziga sembra voler tradurre, in danza, la vibrante complessità dell’opera vivaldiana, in uno spettacolo di 90 minuti privo di momenti calanti o di piattume ritmico, visivamente sorprendente ed emotivamente denso. 

Prima ancora che le luci di sala si spengano, l’occhio cade sull’imponente  e al contempo minimale scenografia, composta da numerosi led disposti simmetricamente in scale verticali che circondano la scena. Quando il buio assorbe il teatro, il led più centrale tra tutti inizia ad accendersi e spegnersi ripetutamente, come in una sorta di misterioso codice Morse. Tutti i led seguono quello centrale, creando un gioco di luci fredde accecante e ipnotico: quando entra in scena Boštjan Antončič, interprete della compagnia Rosas, l’atmosfera è sospesa. Pantaloncini da training, una morbida maglia di velo trasparente e sneakers nere, il danzatore inizia a muoversi nell’assoluto silenzio, alternando e ripetendo, in una danza che si fa anche musica, rumori corporei, pose e gestualità incisive, movenze animalesche, ariosi virtuosismi.

Alcuni suoni simili al verso degli uccelli raggiungono Antončič: gli altri tre interpreti, Nassim Baddag, Lav Crnčević e José Paulo dos Santos, abitano la scena lateralmente e osservano seduti il danzatore in azione. Su un telo bianco arrotolato ai piedi della scenografia appare la parola “AUTUNNO”. Antončič danza ora sull’opera di Vivaldi, e la musicalità della sua danza si inserisce perfettamente nell’eclettica composizione vivaldiana, come ne avesse annunciato l’arrivo. 
Quando, di nuovo nel silenzio, gli altri tre danzatori raggiungono Antončič, tutti partecipano ad un intricato disegno coreografico nel quale ognuno ripete una sua personale partitura, intrecciandola spazialmente a quelle degli altri.  

Nell’alternanza tra silenzio e musica, si susseguono così le quattro stagioni, sempre preannunciate dal loro nome proiettato (ora luminoso, ora affievolito, ora sul drappo bianco arrotolato, ora sul fondale), mentre i quattro danzatori rigenerano continuamente lo spazio attraverso brevi assoli, duetti, quartetti, restando sempre in comunicazione con gli altri ma senza mai perdere la propria cifra individuale: Antončič alterna pose statiche a dinamici virtuosismi, Baddag si perde in vorticose figure di break-dance, dos Santos riempie tutto lo spazio saltando come un cervo, Crnčević rotea leggiadro come un derviscio. Pur nella loro astrazione, le danze multiformi in scena sembrano esprimere fedelmente la visione vivaldiana della natura: ora pulsante ed energica, ora turbolenta e violenta, sempre e irriducibilmente viva. 

Essenziali e potenti nelle danze, incisivi e catturanti negli sguardi, i quattro interpreti si sfiorano continuamente senza mai scontrarsi: seguendo sofisticati percorsi geometrici, nota cifra stilistica di De Keersmaeker, i danzatori cominciano gradualmente ad influenzarsi vicendevolmente, indossano gesti e movenze degli altri e si incontrano in brevi e imprevedibili momenti di unisono e in improvvise pause e ripartenze collettive. L’effetto è strabiliante: la scrittura coreografica è a tal punto complessa da sembrare a tratti improvvisata, un’impressione continuamente rinnegata dalle gestualità ciclicamente ripetute e dai potenti momenti di insieme che manifestano un sapiente disegno spaziale e ritmico, in cui tutto, anche il movimento più selvaggio, è già stato scritto. È qui il genio: l’apparente caos sotteso da una dettagliatissima struttura coreografica.

Tale struttura, pur nella ciclica ripetizione di schemi e gestualità, non ha nulla di ridondante o superfluo, e ciò accade anche grazie all’acuta integrazione della “rottura” come elemento in grado di partecipare all’equilibrio complessivo, riconoscibile in alcune euforiche azioni dissacranti (come quando Baddag rompe il muro scenico e invade il pubblico correndo), in movenze “pop”  talmente inaspettate da risultare divertenti (Crnčević scuote le spalle come un ballerino di danze latino-americane,  tutti raggiungono il proscenio e fissano intensamente gli spettatori mimando il gesto di un fucile pronto a far fuoco) o in momenti indimenticabili come il duetto di dos Santos e Crnčević, nel quale i due danzatori anticipano La primavera di Vivaldi intonandone la melodia attraverso una strabiliante danza, a metà tra il tip tap e la body percussion del flamenco: il pubblico di Triennale, che non può non riconoscerla, rimane talmente sbalordito da aprirsi in un generoso applauso nel bel mezzo dello spettacolo. 

I danzatori, instancabili, “suonano” il pavimento percuotendolo con le loro sneakers, roteano e spostano l’aria mentre i loro soprabiti si sollevano, come mossi dal vento, ogni tanto si lasciano spazio a vicenda in scena e  raggiungono le sedie laterali, bevono un sorso d’acqua, si cambiano maglietta o soprabito – un gesto che inevitabilmente riecheggia il mutare delle stagioni – e poi rientrano in scena. 

Così, in questo tripudio di note musicali e corporee, anche L’estate passa, e la luce in scena si fa ora più calda e densa, come a suggerire un presagio. I danzatori sembrano per qualche attimo in balia di una qualche forza caotica: Baddag si solleva la maglietta, si stende al pavimento e rimane con il volto completamente coperto, come catturato da se stesso, gli altri si abbassano i pantaloncini fino al ginocchio e si spostano confusamente nello spazio. Ma il ciclo naturale è inarrestabile, gli sconvolgimenti terreni non lo fermano, e così L’autunno ritorna: i danzatori rientrano in azione e attraversano vecchie e nuove sequenze di movimento con ancora più potenza ed espressività, quasi fossero ora invasi da una forza che li pervade e che non lascia tregua. 

Quando L’inverno arriva, i led sullo sfondo riprendono il loro gioco di accensioni e spegnimenti, mentre il drappo bianco arrotolato ai piedi della scenografia si solleva fino a coprire l’intera struttura di luce. L’incomunicabilità iniziale generata dai led sembra ora sostituita da una voce lontana e ovattata di donna – la voce della natura? – che pronuncia parole che suonano come un sofferto e profondo commiato alle immensità terresti. Quando la voce si arresta e le luci si affievoliscono, il pubblico esplode in un lunghissimo e commosso applauso. 

Così il ciclo della natura riparte ma non si conclude, le stagioni da quattro diventano due, e la momentanea morte dell’inverno sembra farsi perenne, coincidendo con la fine dello spettacolo. È qui che il tema ecologico e il memento sulle drammatiche conseguenze delle azioni dell’uomo sulla natura, già implicito, si fa definitivamente manifesto. Il cimento dell’armonia e dell’inventione di De Keersmaeker e Mirziga è uno spettacolo sublime. Come la musica de Le quattro stagioni di Vivaldi, la danza in scena aderisce alla vita nella sua vibrante, talvolta caotica e multiforme verità. Il lavoro dei due coreografi dimostra che anche la ricerca artistica più esteticamente raffinata può non chiudersi in se stessa e distaccarsi dal reale – art for art’s sake – ma rappresentare la contemporaneità senza mai cadere nel didascalico, scuotere le coscienze senza bisogno di mostrare l’orrido, invitare alla riflessione senza imporla. Art for life’s sake.