15 anni di Mandala Dance Company: 3 giorni di spettacoli presso Spazio Rossellini di Roma

15 anni di Mandala Dance Company: 3 giorni di spettacoli presso Spazio Rossellini di Roma

Per celebrare il 15esimo anniversario della nascita della compagnia internazionale, ATCL dedica allo Spazio Rossellini di Roma, polo culturale multidisciplinare della Regione Lazio gestito da ATCL, una retrospettiva di tre giorni in cui verranno presentate cinque, tra le più importanti produzioni firmate dalla coreografa e regista Paola Sorressa e quattro lavori dei/lle coreografi/e under 35 associati.

Con un costante lavoro di rinnovamento dei linguaggi e delle estetiche della danza contemporanea, in quindici anni di attività, la compagnia internazionale Mandala Dance Company, si è accreditata come una delle eccellenze del panorama coreutico nazionale,  abbracciando il linguaggio di Paola Sorressa, danzatrice e coreografa, con una personale poetica e una ricerca in continua evoluzione, basate su un lavoro di destrutturazione corporea unito al floor work, flying low, contact e improvvisazione; un’incessante produzione artistica che ha portato la compagnia a calcare le scene di numerosi teatri italiani,  a prendere parte a importanti festival e rassegne nazionali ed internazionali, oltre a essere impegnata in diverse tournée all’estero (USA, Algeria, Thailandia, Tunisia, Messico, Polonia, Spagna) grazie anche alla collaborazione con diversi Istituti Italiani di Cultura.

Per il 15esimo anniversario dalla nascita della compagnia, dal 13 al 15 dicembre presso lo Spazio Rossellini di Roma, polo culturale multidisciplinare della Regione Lazio gestito da ATCL, una personale dedicata a Mandala Dance Company, in cui si alterneranno sul palco il 13 e 14 dicembre alcuni degli ultimi lavori firmati dalla coreografa e regista Paola Sorressa e il 15 dicembre le produzioni dei coreografi/e under 35 associati, vincitori delle tre edizioni di NVED_Nuovi Vettori Evolutivi Danza (2022-2024) e una produzione al debutto assoluto, creata da Mandala Dance Company per l’occasione.

La retrospettiva si apre, il 13 dicembre alle ore 21, con la presentazione dello spettacolo RITI DI PASSAGGIO, dedicato a Lucien Bruchon, che si ispira alla sacralità di tutti quei momenti che segnano il passaggio alle diverse fasi esistenziali o scandiscono l’evoluzione stessa dell’individuo in questa Vita terrena fino al passaggio a nuove dimensioni. Una sacra autorizzazione che permette di rovesciare l’esperienza individuale in quella collettiva e che accompagna ad una nuova condizione di equilibrio e quindi di rinascita. 

Si continua il giorno seguente con TRILOGIA 15TH ANNIVERSARY, in cui verranno presentate tre delle ultime produzioni firmate da Paola Sorressa: Insieme, Balancier, Essence (estratto). Un percorso di visione che accompagna il pubblico a scoprire le differenti tensioni artistiche e politiche che convivono nei lavori della coreografa romana (Premio Anfiteatro d’Oro per l’Arte della Danza, Premio Internazionale per la Danza Willy Dal Canto 2018, Premio NAPOLI DANZA per la coreografia). Indagini antropologiche a partire dalla relazione dei corpi di uomini e donne uniti nel vincolo dell’amore come in Insieme; o visioni creative che si innervano in Balancier, nello studio degli equilibri statici o dinamici e delle oscillazioni dei corpi e degli oggetti, con la presenza per la prima volta in scena dell’opera d’arte realizzata dallo scultore Fiorenzo Zaffina; ma anche riflessioni politiche, nell’era del virtuale e delle guerre, delle pandemie e dell’emergenza climatica, del consumismo e del capitalismo presenti in Essence, produzione che affronta la delicata questione di cosa nonostante le apparenti diversità ci lega indissolubilmente gli uni agli altri a brevi e lunghe distanze temporali e territoriali.

La retrospettiva dedicata a Mandala Dance Company termina il 15 dicembre con la SERATA COREOGRAFI NVED, con la presentazione delle produzioni dei coreografi/e vincitori del progetto NVED_Nuovi Vettori Evolutivi Danza: Angelo Egarese con 5_PM, Elena Copelli con Morphing, Gianluca Possidente con Una favola antica e Lucas Delfino con Erosione. Quattro creazioni originali, aventi come oggetto uno o più aspetti tematiche legate alla transizioni umane, ecologiche, vibrazionali in linea con gli obiettivi e i 5 principi fondamentali dell’Agenda 2030 (le 5 P in inglese: people, planet, prosperity, peace, partnership), prodotti nell’ambito di NVED, progetto a sostegno della crescita di nuovi talenti coreografici a cura di Mandala Dance Company, che dal 2022 al 2024, ha permesso ai coreografi prodotti e associati di accedere a un’importante opportunità di sostegno produttivo. Al termine delle quattro performance, segue Layers, la creazione originale di Paola Sorressa per MATRIX PRO 2024, il dance training program di Mandala Dance Company, che esplora il concetto di stratificazioni, unicità e connessioni umane.

Adriano Bolognino, uno sguardo alla partitura ritmica

Adriano Bolognino, uno sguardo alla partitura ritmica

A cura di Sara Raia

Adriano Bolognino, giovane coreografo napoletano, è ormai ben noto nel panorama artistico italiano. Attualmente impegnato in una nuova creazione che debutterà nel mese di dicembre, abbiamo incontrato Adriano Bolognino in occasione di SKRIK, coreografia ideata per la MM Contemporary Dance Company, andata in scena il 29 Ottobre al Teatro Nuovo di Napoli, inserita all’interno della rassegna organizzata da Korper.

Verso che direzione si orienta la tua ricerca artistica?

La mia ricerca coreografica si basa prevalentemente su un uso ritmico. Ciò che mi interessa esplorare è proprio il ritmo. Ho visto che, creazione dopo creazione, era proprio su questo che volevo impostare i miei lavori: sia per il movimento che per la drammaturgia, ho sempre ricercato qualcosa che fosse il più possibile istintivo e portato a termine tramite una partitura ritmica costante, nonostante il mutamento di ispirazioni da scegliere, insieme alle tematiche da affrontare. A livello di spunti, sicuramente mi piace variegare: mi piace ispirarmi a momenti storici, quotidiani. Mi impegno per portare avanti anche lavori sul sociale affinché possano lasciare un messaggio e apportare un contributo rispetto a ciò che accade attorno. Mi piace ispirarmi e creare in maniera astratta. Essendo ancora giovane e avendo solo 5-6 anni di carriera coreografica alle spalle, cerco di non mettermi paletti e di rispondere a ciò che voglio, soprattutto se si tratta di creazioni a cui posso lavorare personalmente; quando mi vengono commissionate è diverso: le tematiche sono precise e a quel punto cerco di portarle il più possibile nel mio mondo. Ad esempio, mi è capitato di creare su figure storiche/ artistiche oppure, a Malta, ho creato una coreografia ispirata alla tradizione natalizia del posto.

Come cambia il tuo approccio coreografico nel lavorare con un ensamble o con un solo performer?

Non nego che ad oggi preferisco lavorare con più persone. All’inizio lavoravo con una performer o con duetti, anche perché economicamente non era possibile avere grandi organici. Tutt’ora, se si tratta di mie creazioni da freelance, il massimo è stato scegliere un sestetto, come nel caso di SAMIA. Preferisco lavorare con più soggetti per avere stimoli maggiori e per sfruttare al meglio gli spazi e le geometrie: più persone hai e più possibilità d’ispirazione ci sono. A me fa sicuramente più piacere lavorare con gli ensemble, per distribuire al meglio i ruoli. Cerco sempre di sfruttare queste occasioni al massimo delle mie possibilità. Pensiamo ad un sincro: fatto da 2-3 persone è diverso se fatto da 7-8, cambia anche l’effetto scenico. Avere una compagnia più numerosa per me è vantaggioso, com’è accaduto con SKRIK per la MM Contemporary Dance Company.

© Federica Musella

Quale potrebbe essere il filo che lega le tue performance?

Dipende, penso sia l’istinto. A parte questo, non c’è un vero fil rouge, almeno a livello tematico. In ogni mia creazione, però, c’è una costante: una grande ricerca sulla figura femminile, sulle particolarità e le sfaccettature della donna per un’analisi a tutto tondo: società, arte, ricerca del movimento. Prediligo sempre danzatrici donne. Solo quest’anno, per la prima volta, al fine di creare una coreografia ispirata al musicista Chopin, ho volutamente scelto anche un uomo. Ovviamente vi sono presenze maschili anche in altre occasioni, quando ad esempio creo per le compagnie, com’è capitato con la MMCDC. Inoltre, non mi piace etichettare l’uomo come uomo e la donna come donna: preferisco sempre un po’ trattare anche la tematica del gender, come avviene con Gli Amanti. Ad oggi mi viene detto che ciò che mi contraddistingue è la mia chiara cifra stilistica che si perfeziona negli anni. Per ogni lavoro vi è sicuramente un intento diverso, immaginari e costumi differenti. Sono molto legato anche alla moda e all’estetica e mi fa piacere che, in ogni performance, questo traspaia sempre.

Qual è la difficoltà nel tradurre in danza i temi che scegli di rappresentare?

La difficoltà risiede nel trasportare in danza tutte le storie e le ispirazioni attraverso il movimento. È complesso mantenere la propria cifra stilistica nell’intento di rappresentare ciò che ci si prefissa nell’atto compositivo, quando si immagina come dev’essere il progetto. Bisogna rimanere incentrati su questo e rendere il tutto più umano possibile, per farlo arrivare al pubblico tramite l’emotività che poi è la chiave attraverso cui si percepisce l’essenza di un lavoro

Come nasce SKRIK?

Io sono un amante di Munch. Ho da sempre pensato di ispirarmi ai suoi lavori, non sapevo se ad un’opera precisa o alla sua poetica. Mi sono soffermato su L’urlo perché è un quadro iconico e mi ha sempre affascinato. Tutto è nato da una prova d’autore ad Ater Balletto in cui, in tre giorni, ci fu la possibilità di scegliere una tematica con i danzatori di Agora Coaching Project (corso di perfezionamento diretto da Michele Merola). L’esperienza piacque e dopo ebbi l’opportunità d’essere associato alla compagnia di M. Merola, anche se io e Michele avevamo già in mente di iniziare una collaborazione. SKRIK nasce quindi dalla mia volontà di lavorare sul quadro di Munch. Ho visto l’opera dal vivo e mi sono molto ritrovato nel malessere e nell’inquietudine, perché fanno anche un po’ parte della mia personalità. La poetica dell’artista e la questione linguistica attorno alla terminologia originale sono molto suggestive per me. Sento una connessione anche con il paesaggio nordico, essendo un amante dell’inverno. Ho voluto approfondire la tematica naturale, l’impossibilità che ha l’uomo rispetto alla grandezza della natura che allo stesso tempo spaventa e affascina. La qualità coreografica che presento in SKRIK è ispirata al quadro: in secondo piano vi sono due amici che dialogano tra loro, come nella coreografia si alternano pause più rilassate ad altri momenti veloci, precisi, tecnici. Prendo spunto dall’opera anche per i costumi dei performer, pur se devo ammettere che il rosso è un colore che amo, quindi non vedevo l’ora di utilizzarlo. Qui associo il rosso ad un’esplosione, una lava, una potenza. Questo colore è comunque legato sempre a tante emozioni, soprattutto quelle forti, e Munch racconta di rumore e bagliore, dunque ho voluto rappresentare una forte passionalità, l’idea di fuoco che arde. Ho pensato ad uno squarcio, una visione profonda e netta che nessun altro colore, per me, avrebbe potuto rappresentare con altrettanta prepotenza. I danzatori, inoltre, hanno una forza incredibile- penso sia la compagnia migliore d’Italia insieme ad Ater Balletto- che il rosso ben riesce a rappresentare: la loro energia è emersa nel lavoro di creazione di soli 5 giorni.

© Francesco Aurisicchio

Qual è la direzione della danza contemporanea oggi e che obiettivo ti poni per le tue prossime creazioni?

La danza contemporanea è molto vasta, oggi c’è maggiore possibilità rispetto a quando ho iniziato. Anni fa mi veniva criticato il troppo utilizzo di passi e di tecnica, si diceva che facevo balletto. Io ho preferito insistere e continuare per la mia strada e perseverando sono dove sono ora. Devo dire che oggi c’è spazio per tutto: danza più sperimentale, danza in rapporto con la tecnologia, danza urbana, site-specific, danza con reference al balletto. Tutto dà modo di vedere più colori e io spero che questo avvenga sempre di più, in modo da dare la possibilità ad ognuno di trovare la propria strada, anche ai danzatori che poi devono decidere con chi lavorare. Sarebbe bello avere più compagnie, maggiori possibilità in Italia così come in Europa, per aprire frontiere ai giovani: sia coreografi che danzatori, per creare uno scambio maggiore. Per le mie coreografie, sicuramente in questi anni ho creato tanto. Il 7 Dicembre debutterà a Padova il mio ultimo lavoro: LA DUSE. Insieme a Rosaria Di Maro (danzatrice AB Dance) ho vinto un bando in collaborazione con l’Opus Ballet aperto alle compagnie italiane per celebrare i 100 anni dalla morte di Eleonora Duse. Dopo questo lavoro vorrei fermarmi un attimo. Ho molto idee ma ho deciso di aspettare per proporre qualcosa di più grande, con una calendarizzazione maggiore e sento di dover ricaricare la mia creatività. Mi piacerebbe far girare SAMIA, RUA DE SAUDEDE, Gli Amanti, Your body is a battleground. C’è anche un lavoro che è andato in scena poche volte, debuttato a Trieste: Bruciare—into us/Chopin, attraverso il quale mi ispiro al musicista e ogni capitolo è dedicato ad un autore differente. Questo è il mio obiettivo: far girare i miei lavori fuori Italia. Vorrei creare connessioni estere (con l’Olanda o la Germania) portando il mio nome anche un po’ più fuori dai confini italiani.

Per ribadire l’essenziale. C.Re.S.Co. e I nostri giorni felici

Per ribadire l’essenziale. C.Re.S.Co. e I nostri giorni felici

Articolo a cura di Alessandro Toppi

Due giorni

L’1 e 2 ottobre C.Re.S.Co., Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea (238 promotori di cui 159 enti e 79 soggetti singoli, 100 del Nord, 59 del Centro e 79 del Sud, 19 regioni su 20 rappresentate) si è riunito a Prato per un’assemblea annuale, intitolata I nostri giorni felici, che si è rivelata un tentativo di sincronizzazione sentimentale tra il settore teatrale e il mondo del lavoro extra-scenico, un tempo interno dedicato all’auto-narrazione di bisogni e aspirazioni e un’occasione per riavvicinarsi in presenza dopo aver collaborato tanto a distanza: finalmente siamo a un metro, vieni qui, «come stai?». Nei due giorni chi c’era ha ascoltato scrittrici, attiviste, ricercatori universitari e sindacalisti, compartecipato al delineamento teorico del festival ideale cui da un anno Risonanze Network si sta dedicando e partecipato a tavoli che mutavano assetto e argomento col ritmo con cui cambiano le ore di studio in un giorno di scuola. Basterebbe la volatilità degli assetti fisici e organizzativi (il fondo scuro del Metastasio, col drappo di lato e le sedie disposte frontalmente; il semicerchio compiuto attorno a un cartellone appeso ad un telo; le riunioni collocate tra primo e secondo piano del Magnolfi) per dire la voglia di fare, l’energia concentrata. Che di questo si tratta, m’è parso: più che il mezzo per raggiungere lo scopo dichiarato ufficialmente (produrre «un documento programmatico collettivo che contribuisca a rimettere al centro i processi creativi e artistici», da presentare al Direttore Generale del MiC Antonio Parente) l’assemblea ha funzionato come un aggiornamento propulsivo delle proprie necessità primarie per cui, in questi due giorni, diciamoci cosa sta alla base di quel che facciamo nel resto dell’anno in quanto membri d’un soggetto diventato interlocutore stabile, e controparte politica, del Ministero.

E d’altro canto: per capire il ruolo assunto da C.Re.S.Co. non serviva di certo stare a Prato ad ottobre; lo racconta bene invece il sito: la sezione “Notizie”, in cui leggi le considerazioni sulla distribuzione del Fondo Nazionale dello Spettacolo dal Vivo (Abbiamo un problema politico), la lettera aperta contro la censura subita in RAI da Scurati, i rimandi ai webinar gratuiti sul Terzo Settore e il Contratto Collettivo Nazionale; le proposte per il D.M. 2024, gli spunti sulle Residenze, l’approfondimento del welfare nella sezione “Risorse” e la mappatura dell’ex-FUS, le proposte dei Tavoli animati dai promotori, lo Stato dell’Arte (in 6 anni 16 luoghi, 17 incontri e 64 teatranti messi in dialogo sui processi ideativi). Insomma, la sostanza appartiene all’andamento regolare dei giorni mentre le quarantott’ore di Prato sono state importanti soprattutto per le due forme che hanno assunto dubbi e propositi, questioni e principi.

Prima forma. Le domande

In Competenze indisciplinate. E commoventi (contenuto in Lavoro culturale e occupazione, a cura di Antonio Taormina, Franco Angeli, 2021) scrive Renato Quaglia che «la Comunità Europea riconosce i lavoratori culturali come salariati atipici» e che «il 40% sono in qualche modo imprenditori di se stessi». Salariati «ma autonomi» aggiunge: «Costituiscono infatti compagnie, orchestre, associazioni, cooperative, hanno partita iva o regime forfettario, sono lavoratori occasionali. Cercano finanziamenti per la propria produzione, tengono contabilità e stilano bilanci della propria attività imprenditoriale» e «sono l’origine del proprio impiego». La loro è dunque la condizione de «i piccoli imprenditori artigiani e della piccola impresa manifatturiera italiana» – il teatro che somiglia alla bottega, la cultura non in quanto bene di consumo ma come prodotto unico, certosino e irreplicabile – e spesso tuttavia, a differenza degli imprenditori artigiani e della piccola impresa manifatturiera, coloro che si dedicano all’arte e al teatro «non calcolano nei loro bilanci il tempo totalizzante che dedicano al lavoro, le ore spese per ideare, provare, realizzare, sperimentare e (cercare di) distribuire o vendere la loro produzione creativa». Le settimane passate a fare memoria, le due ore strappate alla notte per scrivere i comunicati stampa da inviare domattina, il tempo in sala o in biblioteca a studiare, le telefonate a vuoto fatte al Circuito o allo Stabile, i giorni che servono per approfondire e poi scrivere quest’articolo.

Si tratta, per intenderci, di quel «lavoro impegnativo per loro e prezioso per la crescita individuale e collettiva del Paese e per il benessere personale di una larga parte della popolazione, ossia quella che apprezza le arti dello spettacolo e ne forma il pubblico» di cui parla l’Indagine conoscitiva della VII e XI Commissione Parlamentare, riunitesi nel 2021, verso cui – per dirla ancora con le istituzioni – c’è «scarsa attenzione», «poca conoscenza» e «un riconoscimento quasi nullo». A fronte di «tutele rare sul piano normativo» e di «fragilità costanti» – gli impieghi sono «intermittenti», i contratti «precari», i lavori sottopagati, a nero e irregolari «diffusi» –  queste donne e questi uomini infatti sono dediti a un impegno continuo, che spesso diventa burnout: multiple job holding lo chiamano elegantemente le Commissioni (è «la gestione, da parte della stessa persona, di più occupazioni contemporanee»), «lavoro non definitivo né totalizzante» scrive Renato Quaglia invece, che avverte: «Dovremo gestire più incarichi, ognuno di questi non sufficiente a impegnare la giornata/lavoro né ad assicurare il reddito atteso. Cureremo due o tre carriere non lineari, saremo impegnati in più lavori e frequenteremo diversi ambienti professionali, di persona o in remoto (con la moltiplicazione, per ognuno di questi, dei loro coté: colleghi, conflitti interni, fornitori, posizioni contributive, straniamenti e sovraesposizioni allo schermo)». E «amplieremo la platea di committenti, lo scenario di criticità, il range di obiettivi da raggiungere, la complessità di relazioni da governare».

La riunione su Zoom, la stesura del progetto, la chiusura del bando, le ore di insegnamento, il pomeriggio in sala prove, un passaggio in Comune per sapere quando ci daranno quel che ci devono e il dopo cena di nuovo su Zoom o su Meet per fare riunione a distanza, sentire il tecnico o l’ufficio stampa, discutere del premio che organizzo o nel quale sono in giuria. Un’immagine-simbolo, la restituzione in concreto? I pc accesi in platea al Metastasio, mentre sul palco avviene la prima parte de I nostri giorni felici: con le orecchie ti ascolto, con le dita e con gli occhi intanto rileggo le bozze, contatto l’assessore, correggo il comunicato, rispondo alla mail o provo a fare (inutilmente) recupero crediti. È (anche) per questo dunque – lì dove non c’è fine turno e nessuna serranda mi separa dal lavoro che svolgo io continuo a coincidere con la mia attività: anche mentre cammino per strada, anche di sera, anche di domenica, al mare o durante le feste – che a Prato innanzitutto sono volate domande in cui la professione è confusa alla vita: «Come cambia l’ambiente di lavoro quand’è sotto-stress?», «quanto la vostra crescita si sta traducendo davvero in un aumento della retribuzione economica?», «voi come stabilite le priorità, decidendo nel contempo ciò che va lasciato perdere?»; «da chi dipendono veramente le condizioni in cui opero?», «cosa vuol dire lavorare in una grande città o in un territorio periferico?», «riuscite a coniugare il bisogno di formazione con la fretta che ci impongono bandi e scadenze?» e «stai provando a realizzare un passaggio di consegne?», «come lavorare bene in gruppo?», «cosa mi servirebbe per stare meglio?», «come ti senti? Come stai? Adesso in che momento ti trovi?» e «quanto le (non) politiche condannano lavoratrici e lavoratori?» e «possiamo chiamarle “politiche”?», «che valore in denaro diamo al nostro tempo?» «come facciamo ad andare avanti in una regione in cui a ottobre ancora non sappiamo se verremo finanziati e con quanto?» e «a te il Ministero ha risposto? Sai qualcosa del D.M.? Cosa credi accadrà?».

I quesiti s’accumulano in maniera formale e informale – in gruppo durante l’assemblea, pulsanti di volta in volta attorno ai tavoli, in maniera pulviscolare mentre si fuma una sigaretta, si pranza o si beve un caffè – restando inevitabilmente senza soluzione. Hanno infatti e soprattutto una funzione condivisoria, servono cioè da strumento relazionale e da mezzo con cui avviene il rispecchiamento nell’altro – anche tu come me, dunque – e tuttavia nel loro moltiplicarsi e diffondersi segnalano questioni croniche (o incancrenite, se preferite) che non sono più rinviabili: l’insufficienza del tempo ideativo, l’inadeguatezza degli spazi di prova o spettacolo, l’induzione a una quantità fine a se stessa; l’incertezza finanziaria e la distonia tra i ritmi della burocrazia e le necessità del teatro messo in pratica; la retorica sul ricambio e l’immobilismo sclerotizzante del sistema; l’inadeguatezza delle norme generiche rispetto alla complessità e varietà del panorama esistente; il divario interno e in crescita tra tutelati e figure prive invece di stabilità e di sicurezze economiche, l’autosfruttamento (e lo sfruttamento necessario e reciproco, senza il quale «molti di noi non andrebbero in scena o non programmerebbero nulla»), la rinuncia consapevole e quotidiana a una parte delle proprie aspettative, delle proprie richieste e dei propri diritti. Così stiamo dunque, tanto vale dirselo apertamente.

Seconda forma. Il decalogo

I trecentosessantacinque versi con cui Omero elenca nell’Iliade le navi della flotta greca impegnata a Troia, l’ekfrasis dei testi classici che ci descrivono lo scudo di Achille, i pranzi di Trimalchione, gli antichi bestiari, i reliquiari dei santi, gli almanacchi compilati per enumerazione; gli eccessi messi in ordine da Rabelais in Gargantua e Pantagruel; i nulla cosmici (le discipline inesistenti, i saperi inutili) di Bouvard e Pécuchet di Flaubert, i cognomi che Gadda invia a teatro la domenica pomeriggio in un racconto milanese, i modi in cui Melville articola la bianchezza in Moby Dick, L’inventario delle cose perdute di Judith Schalansky o, per andare coi saggi, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura catalogati da Francesco Orlando, i dettagli pittorici colti e indicati da Daniel Arasse, i canoni letterari e poetici di Harold Bloom, le opere-mondo messe una dopo l’altra da Franco Moretti, la vertigine della lista di Umberto Eco. Inventariamo da sempre: per propensione tassonomica, sfizio classificatorio, necessità di pulizia, organizzazione del disordine, mappatura dell’esistente, messa in bilancio di acquisti e sottrazioni. Per dire ciò che abbiamo, per stabilire quel che ci manca.

L’elenco, puntualmente slabbrato, domina anche i giorni di Prato: i dieci punti che rendono un festival ideale (progetto Next Generation di Risonanze, a cura di Sara Carmagnola e Alessandro Balestrieri); i diciassette temi collocati e discussi al Magnolfi incastrando persone, stanze e orari; il documento da far scaturire dalla sequenza dei desideri pronunciati uno dopo l’altro ad alta voce, restituendo il lavoro dei tavoli. Sembrerebbero una cessione alla miseria argomentativa chiesta dall’amministrazione burocratica (evitiamo i discorsi complicati, riducete all’osso, fate in fretta e descrivete tutto in duemila battute): è invece il modo in cui dire ciò che per noi è irrinunciabile, ora e in prospettiva. Smetterla ad esempio con l’uso reiterato (e dunque con l’abuso) di volontari e volontarie, l’attenzione a risorse ed ambiente, l’equilibrio tra sostenibilità finanziaria ed offerta (si fa quel che ci si può permettere veramente) e festival e rassegne intessute d’incontri e attività formative (perché non si riducano a vetrine di spettacoli usa-e-getta), la relazione coi territori (a partire da quelli a basso investimento e ridotta promozione turistica) e con il pubblico (scelte che favoriscano l’accesso, politiche sulla domanda, rinuncia a una referenzialità che si limita soprattutto a critici e colleghi); un coinvolgimento di chi è più giovane non dettato solo dal punteggio ministeriale da ottenere o dai criteri del bando («ascoltateci» ripetono); una comunicazione chiara e inclusiva, il «giusto compenso per gli artisti e le artiste tanto quanto per lo staff» – non si va in scena a perdere, il lavoro gratuito non è lavoro – in quanto «concretizzazione di un rispetto umano e professionale» inderogabile.

Insomma, «una politica è felice se», «siamo felici quando»: il patto tra imprese e lavoratori e l’etica contrattuale; le prospettive di medio termine e la pluriennalità delle politiche; la riappropriazione degli spazi pubblici e l’equilibrio tra produzione e circuitazione; la semplificazione amministrativa, la celerità della liquidazione e la chiarezza nei processi di nomina; il riconoscimento della formazione in termini di possibilità continuativa e in quanto attività professionale, la riduzione delle disparità tra grandi e piccoli centri e tra macro-aree del paese, l’idea che finalmente la passione («il privilegio di fare ciò che amo») non comporti dover rinunciare al rispetto, ai guadagni e ai diritti. E d’altronde sono le Commissioni ad aver messo nero su bianco nel 2021 che «il nostro Paese si è distinto negativamente nel contesto europeo per la costante riduzione degli investimenti pubblici in questo settore e per la scarsa attenzione alle specificità delle dinamiche del lavoro nello spettacolo», che il quadro normativo presente risulta «obsoleto, a tratti contraddittorio e incapace di soddisfare gli interessi dei lavoratori» e che «allo stato attuale manca in Italia una strategia culturale».

E ancora: «l’assente legittimazione sociale e istituzionale del lavoro intellettuale», «lo scarso turnover», «il gender gap», «la mancanza di spazio per la progressione delle carriere», «le disparità tra regioni», «la fatica con cui avviene il cambio generazionale dei quadri dirigenti nelle istituzioni di rilievo», il divario tragico «tra il numero dei giovani che si affacciano al mercato del lavoro e il numero di quelli che ne sono assorbiti» (il tema di una formazione che sia davvero professionalizzante, la scarsa cura per la filiera “formazione-produzione-promozione”, «che è l’unico strumento che garantisce ad artiste e tecnici una prospettiva di lavoro futuro»), «la rarefazione delle occasioni autenticamente qualificanti» e l’incentivo «oltre misura a una produttività» che, in assenza di distribuzione, «influisce negativamente sui rapporti» contrattuali non garantendo continuità di reddito. Ecco, tutto questo sta nei documenti istituzionali più recenti (il Parlamento sa, il Parlamento scrive) e sta nei libri – prendetene uno a caso curato Lucio Argano o Antonio Taormina – e nei contributi delle associazioni di categoria, nelle pagine che accompagnano l’infinita stesura dei decreti attuativi del Codice dello Spettacolo, nelle relazioni annuali di FNSV e FUS (dal 1985: «l’ordinamento denuncia un affanno irreversibile», si procede «per leggi di corto respiro», «non si è risolto alcun problema») tanto quanto sta nei documenti di C.Re.S.Co., negli interventi di C.Re.S.Co. durante incontri e conferenze e nelle parole che C.Re.S.Co. qui si ridice per l’ennesima volta. Già, «ma a che serve?» mi chiede infine qualcuno. Esattamente a quel servono gli elenchi, mi viene da dirgli.
Serve a fare chiarezza, a ristabilire le priorità, a ribadire l’essenziale. 

Ma chi ascolta?

Negli anni Novanta, sostiene Antonio Panozzo ne Le competenze nelle pubbliche amministrazioni per il governo delle politiche culturali (in Le politiche per lo spettacolo dal vivo tra Stato e Regioni, a cura di Marina Caporale, Daniele Donati, Mimma Gallina, Fabrizio Panozzo; Franco Angeli, 2023) è stato messo in discussione «l’originario e solidissimo legame tra assunzione di ruoli di governo dei beni e delle attività culturali e tipologia di conoscenze necessarie». Si pensava che chi si sarebbe dovuto occupare di cultura dovesse sapere. E invece. Esito, scrive Panozzo, dell’affermazione anche in Italia del New Public Management, modello di riforma della pubblica amministrazione nato in Inghilterra e diffusosi in Europa occidentale: impiego di criteri da azienda privata in ambito pubblico, comunicazione business-style, utilizzo della cultura del risultato nell’azione istituzionale: «La preoccupazione per i costi dell’intervento pubblico, combinata con la difficoltà a coglierne con precisione i risultati ha spinto con particolare incisività nei servizi “immateriali” quale sociale, cultura e salute» all’uso del performance management, «incentrato sull’identificazione di risultati che sapessero rappresentare in maniera convincente i contributi della pubblica amministrazione allo sviluppo economico».

Motivazione di fondo: «il rapporto qualità-prezzo» con cui valutiamo domanda e offerta commerciale, conseguenze: trasformazione in senso manageriale dell’azione istituzionale, adeguamento dei settori interessati alle logiche di mercato, obbligo di una misurazione tangibile (il denaro investito dalla Regione o dal Ministero cosa diventa?) e dunque necessità di sistemi di valutazione prettamente quantitativi: dimostrami, con i soldi che ti do, quanto produci. Gli effetti sono ovunque: il taglio dei presidii medici di prossimità a favore dei consorzi ospedalieri, la trasformazione del percorso universitario in una raccolta-punti, la chiusura delle tratte di trasporto locale meno frequentate e perciò sacrificabili. Vale anche per la cultura (la gran parte della produzione editoriale, che non arriva neanche a scaffale; le mostre di continuo allestite in Italia: quasi una all’ora di media) e vale per il teatro: è secondo le logiche (attempate) del New Public Management che è stata redatta la riforma dei criteri di erogazione e distribuzione del FUS del 2014, è seguendo le sue linee-guida che Comuni e Regioni regolano le proprie politiche attraverso l’utilizzo massiccio dei bandi (il soggetto pubblico che detta tema e regole, la competizione tra soggetti indotti alla partecipazione, gli obblighi numerici da ottemperare, il monitoraggio e la valutazione dei sevizi erogati: quante repliche tra monumenti da valorizzare, quanti spettacoli gratuiti durante le feste di Pasqua o Natale, quante periferie degradate attraversate dalla presenza sporadica di spettacoli, opere e artisti, quanti spettatori partecipanti alla messinscena corale e civile.

È il capitalismo, bellezza, o la cultura nell’età dei consumi per dirla con Bauman che in Per tutti i gusti (Laterza, 2011) spiega il fenomeno: «La mediazione nel portare l’arte al pubblico non è niente di nuovo, nel bene e nel male: era di solito nelle mani del patrocinio statale, con più o meno soddisfazione per gli artisti. Ciò che è nuovo sono i criteri usati in tale mediazione dalla nuova razza di manager» che hanno occupato ruoli e funzioni delle autorità pubbliche. E poiché sono i criteri del mercato dei consumi, continua Bauman, «riguardano questioni come l’immediatezza del consumo, della gratificazione e del profitto» in termini di consenso diretto e indiretto. Per dirla in concreto: riduzione dei tempi creativi (in fretta e con poco denaro, accontentati), messa in vendita a condizioni vantaggiose (i pacchetti a basso costo, le recite a ingresso gratuito o ridotto) e sostituzione istantanea dell’offerta con altra offerta che sarà sostituita a sua volta.

Pensate alle stagioni dei Nazionali, piene di spettacoli morti già in sede; pensate alla proliferazione e all’ingigantimento dei festival, che sono sempre di più e propongono sempre più cose, per la felicità di assessori e politici: visto quanta roba quest’anno? La dinamica, inarrestabile, spiega anche il motivo per cui a occuparsi di cultura (e teatro) sono ministri e assessori senza alcuna consapevolezza specifica o direttamente i presidenti di Regione, che così gestiscono in prima persona (pur capendone poco o nulla) nomine, incidenza sui CdA e flussi di denaro. «Il senso del Ministero della Cultura e degli Assessorati alla cultura regionali e comunali sta nella necessità di offrire agli operatori il sostegno della qualificazione eccellente dei funzionari, della dirigenza preparata e alla quale si riconosce la legittimazione di valutare e della competenza del personale nelle funzioni strategiche» ricorda Antonio Lampis ne Il lavoro culturale pubblico. Peculiarità del settore e delle figure di leadership (in Lavoro culturale e occupazione, 2021).

Ci ritroviamo invece con ministri incompetenti in materia, sottosegretari che non conoscono ciò di cui parlano, assessori che non sanno distinguere una residenza da una rassegna o che hanno deleghe eterogenee (la cultura, insomma, non è che un fiore del bouquet), quando non registriamo addirittura l’assenza di interlocutori a livello locale. Per intenderci: cinque Regioni non hanno l’assessore alla Cultura e quattordici gli assegnano deleghe plurime (cinque di media oltre la Cultura: dal turismo ai flussi migratori, dalla sicurezza alla scuola, dall’antimafia alla pesca). E le Città Metropolitane? Il 35% (cinque su quattordici) non ha nessuno o nessuna che faccia da punto di riferimento per chi opera nel settore o che si assuma la responsabilità delle politiche messe in atto.
Ecco, è mattina. L’assemblea di C.Re.S.Co. è alle spalle, preparo lo zaino per ripartire da Prato. Afferro il quaderno, controllo gli appunti, metto a fuoco le parole-chiave, le proposte e le urgenze. Poi mi fermo e mi chiedo: ma chi le ascolta davvero?

Della felicità o della rabbia, infine

I nostri giorni felici si apre al Metastasio: le poltrone coi tavolini sulla destra, gli stucchi pittati d’oro e di bianco, il sipario arricciato lateralmente, il fondo nero e le sedie da cui parlano relatori e relatrici. Si può essere felici – possiamo parlare di felicità – mentre sappiamo delle bombe in Ucraina, dei massacri in Palestina, delle donne afgane e iraniane? O per starcene a un passo: con la Sicilia e l’Emilia Romagna appena sommerse dal fango, e le persone che si ritrovano di nuovo a spalare. «Verrebbe da chiedere scusa» mormora Francesca D’Ippolito, presidente di C,Re.S.Co, eppure «la felicità può essere un mezzo di critica radicale a un sistema che sembra irriformabile» sostiene Sandra Burchi (ricercatrice e attivista che si occupa di lavoro, precarietà e mobilità), che questa parola, felicità, «così difficile da pronunciare in tempi di naufragi», in passato la usava come password al pc, rendendola così un passaggio ineliminabile per poi darsi da fare.

Cita il femminismo come festa di Carla Lonzi e la gioia intesa come «attimi di radianza» da Sylvia Plath, come «istanti creaturali» da Christa Wolf, come i momenti in cui «il sangue circola alla svelta» parafrasando Rossana Rossanda; ricorda che «una contro-politica fondata soltanto sul rancore ha il respiro corto» ed è quindi inutile se «si vuol far coincidere cambiamento e desideri», ma al tempo stesso evita di infiocchettare l’idea: la felicità non sta nel punto d’arrivo, nell’esito della storia, nella bandiera scippata al nemico ma nell’esperienza dell’opposizione, nel tentativo di proposta e conflitto. E d’altronde ascoltandola mi tornano in mente, in maniera confusa e di seguito, la lettera di un teatrante del Seicento che al tempo stesso maledice il teatro e lo dichiara tuttavia inabbandonabile quanto un destino, Eduardo che non lasciò mai il palco nonostante le offese e le sconfitte subite, una collega che – al netto delle difficoltà – dice ai ragazzi e alle ragazze che ha di fronte che «il teatro è tra le ragioni che mi fanno alzare la mattina» o quel che affermano le analisi di sindacati e Commissioni parlamentari: guardate che questi vivono in condizioni di precarietà, hanno bassi stipendi e incertezze costanti eppure continuano a dichiararsi felici della scelta che compirono un tempo. Che forse un testo di Shakespeare, penso, e l’odore del legno, il retro di un palco, un viaggio in tournée, una pagina di Pavese, l’inchino agli applausi, il gesto di un’attrice o le battute scritte domani da una drammaturga sconosciuta continuano a fregarci tanto quanto ci frega la vista del mare. Dovremmo andare, restiamo.

Ma restiamo a patto che si lotti, testimonia Dario Salvetti, sindacalista della GKN Driveline di Campi Bisenzio, che contava 422 dipendenti che dal 9 luglio 2021 occupano la fabbrica senza mollare d’un metro. Ne avrete saputo anche in teatro se avete visto Il capitale di Kepler. La mail che annuncia il licenziamento, il presidio, il cancello aperto e varcato e l’abitazione di uno stabilimento spettrale, tra striscioni con scritto «Insorgiamo», neon chiari, i pentoloni di sugo al cinghiale, i macchinari nuovi di zecca. E i passaggi di proprietà, le multinazionali che arrivano, spacchettano e vogliono vendere, i compratori non credibili, i piani di rilancio fasulli, le meline di ministri e governi: in attesa che operaie e operai si stanchino, cedano, girino i tacchi e vadano altrove. «Capiamoci: quello che abbiamo fatto sono scelte compiute in un contesto di non-scelte. Non potevamo altrimenti» racconta, gridando frasi che noi che diciamo di fare cultura (nelle condizioni che sappiamo) dovremmo tenere a memoria. Ad esempio: «Si tratta di contrapporre i rapporti di forza materiali ai rapporti di forza formali» e «si deve tornare a parlare apertamente di dignità e di denaro», «la mancanza di tutele porta a lavorare male, punto e basta» e «la bellezza del lavoro sta nei diritti, che il tuo lavoro contiene e che va pagato per ogni minuto in cui viene eseguito».

Lo ascolto e penso alle prove forfettarie, alle repliche a perdere, agli infortuni non dichiarati, alla quantità d’impegno che non è professione ma resta soltanto un impegno, in sala quanto in una biblioteca, un museo, all’università o in redazione. Mi tornano in mente i centocinquanta euro lordi che mi hanno offerto per moderare due giorni di convegno, la richiesta di una postfazione («ci teniamo sia tu») in cambio d’una paga ridicola e conto al volo gli articoli scritti gratuitamente quest’anno, sono una trentina: quanti ancora e per quanto? Mi sale la rabbia, forse perché sta parlando Franco Palazzi, assegnista di ricerca in Filosofia all’università di Firenze, che la rabbia la definisce «il no di chi non si presta». Stigmatizzata come irrazionale e impolitica, considerata immatura, «la rabbia contrasta invece il galateo dell’oppressione» (le buone forme con le quali gli agiati abbelliscono l’avvenuta vittoria della lotta di classe, sia chiaro: stanno anche tra noi) spiega Palazzi e «spinge inoltre la rabbia a prendersi cura davvero gli uni degli altri». Niente spontaneismo, nessun urlo fine a se stesso precisa, che di atti infantili ne abbiamo piene manifestazioni ed incontri: «una rigorosa strategia del dissenso» invece, concreta e millimetrica «quant’è la balistica». Che infine – contro la ferocia di cui facciamo esperienza quasi ogni giorno, anche in questo settore – mi sembra non ci resti altra strada che dimostrarci più brave, più resistenti, coerenti e inflessibili. E arrabbiate e arrabbiati, certo. Riusciamo ad esserlo ancora? 

Bando téchne: residenza di formazione tecnica

Bando téchne: residenza di formazione tecnica

È online il bando per una residenza collettiva di formazione per 2 coreografi, coreografe e/o compagnie di danza, che verranno guidati dal light designer Gianni Staropoli in un percorso intensivo dedicato alla drammaturgia della luce e all’esplorazione della dimensione tecnica, tra strumentazione e possibilità, come aspetto fondamentale del processo creativo.   

Il progetto τέχνη – téchne è un percorso di formazione condivisa e collaborativa che si svolgerà in Lavanderia a Vapore dal 20 al 24 gennaio 2025. I partecipanti, a partire da un proprio progetto artistico in divenire, grazie alla guida di Gianni Staropoli avranno modo di scandagliare visioni e nozioni pratiche relative alle componenti di luce e spazio, al fine di leggere e comprendere la luce non come dato tecnico da configurare nella fase conclusiva del prodotto artistico, ma come elemento alfabetico e dimensione significante da pensare in nuce nella fase del processo creativo, come stratificazione della drammaturgia del progetto.   

La residenza offre uno spazio-tempo in cui ogni partecipante potrà partire da un proprio materiale di lavoro ancora in fase di creazione (un frammento di circa 7 minuti) guardando alle connessioni con lo spazio, le luci e la scena. Questo materiale sarà il punto di partenza su cui testare soluzioni tecniche ed esercitare approcci e sguardi drammaturgici.  

Come Partecipare 
Per partecipare alle selezioni è obbligatorio inviare i seguenti allegati:  

  • allegato A: modulo di partecipazione interamente compilato;  
  • allegato Bscheda del progetto interamente compilato;   
  • carta d’identità: fotocopia non autenticata di un documento di identità valido del Legale Rappresentante.  

Il materiale deve essere inviato entro e non oltre le ore 12.00 del giorno 16/12/2024 tramite PEC all’indirizzo lavanderiapdv@pec.it e per conoscenza a Anna Estdahl alla mail estdahl@lavanderiaavapore.eu (ricordiamo che è necessario disporre di un indirizzo PEC valido). Farà fede l’orario di ricezione della PEC.   
Nell’oggetto del messaggio di posta elettronica certificata deve essere indicato il nome coreografo/compagnia, “Titolo del progetto – τέχνη – téchne – Call 2025”. 
L’esito delle selezioni sarà reso pubblico in data 20/12/2024.

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Premio InediTO – Colline di Torino: aperta la call

Premio InediTO – Colline di Torino: aperta la call

Il concorso letterario è dedicato alle opere inedite in lingua italiana e a tema libero, e si rivolge a tutte le forme di scrittura: poesianarrativasaggisticateatrocinema e musica. Il bando scadrà il 31 gennaio 2025

Possono partecipare autori già affermati o esordienti, di ogni età e nazionalità. Migliaia gli iscritti in questi anni da tutta Italia e dall’estero (Europa, Stati Uniti, America centrale, Sud America, Africa, Asia, Australia), centinaia gli autori che il premio ha sostenuto e accompagnato verso il mondo dell’editoria e dello spettacolo senza abbandonarli al loro destino.

Grazie al montepremi di 8.000€ i vincitori delle varie sezioni ricevono un contributo per la pubblicazione, promozione e produzione delle opere. Saranno inoltre assegnati i premi speciali “InediTO RitrovaTO” a un’opera inedita di scrittori non viventi (conferito nelle passate edizioni a Primo Levi, Alfonso Gatto, Italo Svevo, Alessandro Manzoni, ser Piero Da Vinci e Grazia Deledda), “InediTO Young” destinato ad autori minorenni, i nuovi “InediTopic” ispirato alla grafica di questa edizione e “InediTO I.A.” a un’opera realizzata tramite l’utilizzo dell’intelligenza artificiale.

Il concorso è organizzato dall’associazione culturale Il Camaleonte di Chieri (TO) e diretto da vent’anni da Valerio Vigliaturo. Il Comitato di Lettura è presieduto da Riccardo Levi, mentre la Giuria da Margherita Oggero, e ne hanno fatto parte, fra i tanti: Umberto Piersanti, Paola Mastrocola, Luca Bianchini, Andrea Bajani, Daniele Mencarelli, Aurelio Picca, Davide Ferrario, Morgan, Paolo Di Paolo, Cristiano Godano (Marlene Kuntz), Maurizio Cucchi, Maria G. Calandrone, Enrica Tesio, Elisabetta Pozzi, Teresa De Sio, Willie Peyote, Milo De Angelis, Roberto Latini, Inoki, Fausto (Coma Cose), Aldo Nove e Federica Fracassi.

Entro marzo la designazione dei finalisti che riceveranno una scheda di valutazione della Giuria, a maggio la proclamazione dei vincitori al Salone del Libro di Torino e la premiazione che si svolgerà attraverso la consegna dei premi e un reading dedicato alle opere vincitrici.

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