Per una domestica della violenza: Medea’s children di Milo Rau

Per una domestica della violenza: Medea’s children di Milo Rau

Di Mila di Giulio
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.

Quando un giorno avrò dei bambini, li lascerò crescere come le erbacce del nostro giardino. Nessuno se ne occupa e crescono alte e fitte così, le rose, invece, attaccate ai loro sostegni nelle aiuole, fioriscono ogni estate più striminzite.
F. Wedekind, Risveglio di primavera

Medea’s Children di Milo Rau, debuttato alla Biennale Teatro di Venezia 2024, presenta un meccanismo drammaturgico ormai distintivo del regista belga: l’intreccio tra la tragedia classica e una vicenda contemporanea nota e riconoscibile per il pubblico, creando un sistema di comprensione progressiva dell’urgenza contemporanea dei nodi tragici. La storia è quella di Geneviève Lhermitte, che nel 2007 uccise i suoi cinque figli durante un viaggio di lavoro del marito.
Come in Five Easy Pieces e Family, protagonisti dello spettacolo sono attori bambini che portano in scena una violenza radicale, stridente con l’infanzia, ma che trova la sua ragion d’essere proprio grazie al veicolo specifico dei suoi interpreti.

Il centro tematico dello spettacolo ruota attorno all’educazione alla presenza: come dare spazio a chi nella tragedia non c’era? E come far entrare la violenza, assente e negata, nella vita di un bambino? Lo spettacolo inizia con la discussione post-spettacolo. Peter Seynaeve, unico attore adulto sulla scena, guida la conversazione tra gli interpreti, che raccontano non solo il processo di costruzione dei loro personaggi, ma anche la loro personale visione estetica della storia e le loro idee su come inscenare un omicidio. Sebbene le voci siano tante, la linea comune è chiara: la violenza deve essere mostrata per essere capita.

Il cortocircuito dello spettacolo inizia con la messa in scena, divisa in capitoli. La storia segue la vicenda di Armandine Moreau (pseudonimo scelto per Geneviève Lhermitte), drammatizzata dai bambini, che interpretano e scardinano le gerarchie tra carnefici e vittime, fino al culmine dell’omicidio. Bernice Van Walleghem, l’attrice che interpreta Armandine, convoca uno dopo l’altro i figli dentro casa e il pubblico assiste all’omicidio dei bambini attraverso uno schermo che proietta l’atto senza censure, con un montaggio tra finzione e vera presa diretta, ricostruendo le morti con rigore realistico.

Nel 2014 il regista austriaco Ulrich Seidl realizzò il documentario Im Keller (Nello scantinato), incentrato sulla gestione del tempo libero nella cultura austriaca e sul rapporto perturbante con ciò che avviene nel proprio scantinato. Seidl riconosce questo luogo come spazio dell’identità reale, contatto con se stessi. Un meccanismo simile è stato messo in atto da Fabiana Iacozzilli ne Il grande vuoto: una telecamera segue la protagonista negli spazi della propria casa, che noi non vediamo in scena, dando l’impressione di un’invasione del privato, che diventa perturbante e trasforma la percezione dello spazio.
Gli attori, in un tempo che appare dilatato, entrano bambini ed escono corpi dalla loro casa. Il capitolo emblematicamente intitolato Killing Time apre un quesito estetico sulla violenza nella scena contemporanea: come una manifesta violenza fittizia arriva a perturbare lo spettatore? E quale è il ruolo del contesto domestico in questo processo?

Mark Fisher, in The Weird and the Eerie (Lo strano e linquietante nel mondo contemporaneo), fa riferimento alla sfera semantica della casa per definire l’Unheimlich freudiano, che, nonostante venga tradotto come perturbante, trova una collocazione migliore in unhomely (non domestico). Fisher sottolinea che ciò che perturba del domestico è un pericolo che viene dall’interno: lo strano allinterno del familiare, lo stranamente familiare, il familiare come strano. La protagonista della Medea di Milo Rau racconta una versione della storia in cui Geneviève Lhermitte arriva all’atto estremo di uccidere i suoi figli per proteggerli da una potenziale violenza da parte dell’uomo che ha abusato di suo marito da bambino. All’origine dell’omicidio c’è quindi una riscrittura unheimlich dell’amore materno, che tuttavia non destituisce la protagonista dal suo ruolo di madre. In questa impasse si situa l’inquietudine: Amandine Moreau rimane madre nonostante la violenza estrema. Nelle varie sfaccettature del familiare si annida anche la potenzialità del violento e dello strano.

Amandine, come sottolinea una delle attrici bambine, è un personaggio di cui è possibile condividere lo stato d’animo, in quanto donna che cerca di tenere insieme i pezzi della sua storia, rendendoli inamovibili. Così la violenza materna assume le tinte della malinconia cannibalica di cui parla Agamben in Stanze, la parola e il fantasma nella cultura occidentale: Cronos-Saturno che inghiotte i suoi figli per incorporarli a sé e renderli invulnerabili rispetto al futuro, cristallizzandoli in una dimensione inviolata di protezione violenta. In Vita Activa, Hannah Arendt parla del domestico in età classica come luogo del controllo, che preserva dalle insidie della vita pubblica e permette agli individui relegati all’interno di sviluppare una propria identità, ma al contempo riduce lo spazio politico. Milo Rau dedica il suo spettacolo al silenzio dei figli della Colchide, restituendo loro lo spazio politico negato dal gesto della madre.

Nell’ultimo capitolo, quasi un atto aggiunto alla tragedia, il regista compare sullo schermo nei panni di un drago colorato, che le vittime dell’omicidio appena avvenuto si apprestano a combattere, asciugandosi il sangue e entrando in azione per una programmatica uccisione del regista, riscrivendo la loro definizione di violenza.
La costruzione a ritroso dello spettacolo, iniziata con la discussione aftershow, evidenzia la natura processuale della messinscena: un percorso di conoscenza e apprendimento del significato della violenza e del ruolo che ha nella vita quotidiana, domestica, come unheimlich che nasce da dentro e non arriva da lontano.

Se l’uomo nero e il mostro sotto il letto rappresentano ciò che è fuori posto, che introduce nel familiare qualcosa che normalmente si trova fuori, Milo Rau con Medea’s Children libera l’educazione infantile dai feticci prototipici di una violenza esterna che arriva da lontano e mette in campo i fantasmi interiori, lo strano all’interno del familiare, come condizione congenita all’esistenza.

Contattare l’altrove. Deflorian racconta La vegetariana

Contattare l’altrove. Deflorian racconta La vegetariana

Nelle scienze umane si parla molto, e da molto tempo, di “rappresentazione”: un successo dovuto senza dubbio all’ambiguità del termine. Da un lato, la “rappresentazione” sta per la realtà rappresentata, e quindi evoca l’assenza; dall’altro, rende visibile la realtà rappresentata, e quindi suggerisce la presenza.

C. Ginzburg

Cosa succede quando l’ambiguità e l’ambivalenza di cui parla Ginzburg vengono vanificate? Quando la corrispondenza tra una rappresentazione/presenza esteriore imprigiona un’identità interna che insiste e spinge verso la sottrazione alla presenza? È questo cortocircuito a muovere Yeong-Hye, la protagonista de La vegetariana di Han Kang: un processo che, nell’adattamento scenico di Daria Deflorian, diventa serpeggiante. Così, in scena, la protagonista non muta, ma rinasce da un’altra parte, diventando una presenza mutevole e complessa, rendendo la sua sparizione e metamorfosi impossibili e enigmatiche, incomprensibili fino alla fine. Abbiamo discusso di nascondimenti, sottrazione e qualità di presenza con la regista Daria Deflorian.

Al centro del romanzo e dello spettacolo c’è una donna che si svuota progressivamente, e in scena assistiamo a questa sottrazione. Nonostante il personaggio rimanga sempre in scena, il suo percorso e processo di mutazione creano uno spazio di interesse intorno a sé. Come ha lavorato sulla sparizione?

Prima di tutto ci lavora il romanzo. Noi siamo rimasti sempre molto in contatto con il testo originale, anche dopo la versione preparata con Francesca Marciano (autrice dell’adattamento del romanzo insieme a Daria Deflorian, ndr.), che ci ha fatto da spina dorsale. Siamo tornati tante volte, con tutto il gruppo di lavoro, al romanzo: ci sono delle parti che non sono inserite nello spettacolo ma che esistono nel lavoro, delle zone del romanzo che abbiamo aperto per comprendere meglio.

Trovandoci di fronte a un romanzo molto denso e complesso, è stato necessario fare delle scelte, dei salti. Sicuramente la vicenda permette di riflettere e di vivere, proprio in termini esperienziali, questo rinascere da un’altra parte, questo rapporto con un sogno che di fatto apre alla vita, al vivere. In qualche modo, questo effettivamente la rende visibile agli altri, ma non è fatto per gli altri; non è uno spettacolo, non è un’esibizione: è qualcosa che lei vive per sentirsi. Questo è stato possibile grazie a un lavoro attoriale di Monica Piseddu, suo, segreto, che non è una forma di regia ma una qualità di presenza.

© Andrea Pizzalis

Una fonte risuonata spesso durante l’ideazione de La Vegetariana è stato Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Luca Ronconi. Effettivamente si nota un’affinità con quel lavoro, per quanto riguarda il movimento dei personaggi in scena e il loro modo di incastrarsi. È molto interessante che in questo spettacolo questo disegno dei personaggi sia dato dai colori attribuiti a ciascuno. In che modo ha lavorato alla costruzione di questi personaggi?

Quello che mi aveva colpito allora era il fatto che la letteratura non era stata alterata dal teatro pur trovandosi di fronte a uno spettacolo vero e proprio. Questa cosa mi aveva molto segnato, proprio come spettatrice. Abbiamo avuto la fortuna di avere un mese a luglio, senza lavorare già direttamente sulla costruzione di nulla: abbiamo passato tre settimane molto libere, ricche di conoscenza nostra e di conoscenza di queste figure, senza darci nessun obbligo di costruirle. Ho osservato molto, ci siamo divertiti, facendo lavoro fisico e usando pochissimo la parola. Credo, a posteriori, che questo abbia creato delle fondamenta solide.

Anche se poi la costruzione è stata abbastanza lineare, abbiamo cominciato dall’inizio e abbiamo proseguito fino a svolgere le scene che avevamo scelto di portare in scena. Ma per un mese, nel nostro codice interno, abbiamo chiamato questo periodo di free jazz ci permetteva di non pensare alla rappresentazione, ed è stato molto bello. Poi ho potuto lavorare con tre grandi figure del teatro contemporaneo. La fortuna è stata che la regia si è configurata più come una regia drammaturgica, di composizione di tutte le questioni che dovevano armonizzarsi con gli ingredienti che avevamo messo in campo. C’è poi una sorta di auto-regia attoriale in cui ognuno ha portato un proprio sapere.

© Andrea Pizzalis

Credo sia interessante riflettere sullo spazio, in relazione allo spazio del femminile nell’economia dello spettacolo, che non è mai uno spazio neutro. Secondo alcune visioni urbanistiche di stampo femminista, nella costruzione degli spazi contemporanei, la prevalenza dello spazio dato agli uomini non è dovuta al fatto che le donne siano state annullate, ma perché sono state nascoste. Le due donne protagoniste in scena sembrano combattere costantemente con questo stato di nascondimento e svelamento. Come è stato lavorare su questa ambivalenza da regista e da attrice?

Sicuramente la questione dei luoghi nascosti è presente. Per me, in particolare, il bagno e la vasca da bagno sono stati tra le prime cose che ho costruito mentalmente, perché per me il bagno è proprio il luogo del vero io. Anche in questo lavoro, quindi, anche in questo spettacolo, i momenti di contatto con l’altrove, con il senso e con il non senso avvengono in bagno. Inoltre, sicuramente volevo uno spazio che fosse uno spazio di “finta convivenza”, cioè una convivenza relazionale matrimoniale, ma che in realtà permettesse di vedere la distanza: ci si parla con una persona che non c’è, vedi sempre uno dei due. Certo, c’è il letto, un altro luogo fondante, arrivato fin dall’inizio.

Sapevo che di tutto questo non c’era ancora una struttura architettonica di questa casa; per me era una casa già abbandonata, come se fosse già una casa dove tutto è finito. Come quei luoghi dove, dopo un po’ di anni, cominciano a entrare le piante, perché questo è il destino di certi luoghi abbandonati. Però il letto e la vasca da bagno erano fondamentali, perché credo che siano luoghi segreti, luoghi dove ci possono essere dei segreti. Mi interessava che i sogni di Yeong-Hye fossero sempre raccontati a un marito sotto la doccia, o a un marito che si addormenta, o a un marito che guarda la televisione: quindi, questo rapporto di distrazione rispetto all’esperienza dell’altro.

© Andrea Pizzalis

La vegetariana è sicuramente uno spettacolo e un testo in cui le autorialità messe in gioco sono distinte e riconoscibili, formando un quadro omogeneo ma distinguibile nelle sue parti…

La regia di questo spettacolo non è solo attoriale, ma è visiva, grazie all’apporto di Andrea Pizzalis per tutta la parte visiva e, chiaramente, anche per quanto riguarda lo spazio. C’è una drammaturgia della luce e una drammaturgia del suono che non sono nate al servizio di un’idea precostituita. Nel momento in cui le progettualità attoriali, drammaturgiche, registiche, spaziali di luce e di suono sono riuscite a non affastellarsi, c’è sempre stato qualcosa che ha fatto un passo indietro. Poter provare al Teatro Vascello per tre settimane è stata una grandissima fortuna; non avremmo potuto fare il lavoro in altre condizioni.

La vegetariana
scene dal romanzo di Han Kang
adattamento del testo Daria Deflorian e Francesca Marciano
co-creazione e interpretazione Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
regia Daria Deflorian
aiuto regia Andrea Pizzalis
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
costumi Metella Raboni
consulenza artistica nella realizzazione delle scene Lisetta Buccellato
collaborazione al progetto Attilio Scarpellini
consulenza alla drammaturgia Eric Vautrin
direzione tecnica Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli
stagista Blu Silla
aiuto regia Andrea Pizzalis
regia Daria Deflorian

per INDEX Valentina Bertolino, Elena de Pascale, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani

«Non voglio essere riconosciuto, voglio servire»: Walser a due di Fabio Condemi e Francesco Fiorentino

«Non voglio essere riconosciuto, voglio servire»: Walser a due di Fabio Condemi e Francesco Fiorentino

Nel saggio Misura smemorata, Ginevra Bompiani dice di Robert Walser che, scegliendo di assumere l’identità del servo nei suoi scritti, decide di incarnare l’identità per eccellenza «Poiché ogni identità è, in fondo, una presa di servizio». Personaggi servitori iniziano a comparire nella produzione di Walser già da Simon Tanner fino al protagonista de L’assistente; tuttavia, è in Jakob von Gunten che assistiamo al processo di formazione del servitore ideale, il Bildungsroman di uno zero, un processo di liberazione totalizzante che secondo Walser non può che passare per l’annullamento. Dal fascino per questo personaggio nasce l’adattamento di Jakob von Gunten di Fabio Condemi, presentato nel 2017 in forma di studio con il titolo Il sonno del calligrafo alla sezione College della Biennale Teatro di Venezia, che successivamente è diventato uno spettacolo debuttato nel 2018 con il titolo Jakob Von Gunten alla stessa Biennale Teatro di Venezia. C’è qualcosa in questa presa di servizio che ha molto a che fare con l’arte scenica: l’attore che messo di fronte all’obbligo di una presa di servizio annullante può liberare una spinta identitaria pura, fuori dall’egemonia della caratterizzazione. Ne abbiamo discusso con il regista Fabio Condemi e Francesco Fiorentino, docente di Letteratura Tedesca presso l’Università Roma Tre, autori di Walser a due, un dialogo pubblicato da Edizioni Volatili all’interno della collana intitolata Isola e Isole, curata da Giorgiomaria Cornelio e Giuditta Chiaraluce, quest’ultima autrice dei disegni contenuti nel libro che diventano una vera e propria partitura visiva.

Vorrei iniziare parlando del saggio di Roberto Calasso, Il sonno del calligrafo, in cui uno dei grandi temi affrontati è la spiritualità. Si menziona la Sura della caverna, contenuta nel Corano, che narra dei sette dormienti di Efeso, collegati idealmente da Calasso a Jakob von Gunten in quanto tutti  descritti come dormienti incorrotti. In questo contesto, il sonno diventa una sospensione del tempo. 
In Walser a due, si parla di una teologia negativa che traspare in Jakob von Gunten. Vorrei capire cosa si intende per teologia negativa e quale ruolo ha la religione sia in Walser che nella costruzione di questo spettacolo

Fabio Condemi: All’inizio lo spettacolo di Jakob von Gunten era uno studio di venti minuti che si chiamava Il sonno del calligrafo, proprio come il saggio di Roberto Calasso sul romanzo di Walser in cui questo discorso del sonno, più religioso di ogni religione per cui soltanto chi dorme è vicino a Dio, e la fascinazione per la Sura della caverna e i sette dormienti, era molto più visibile.  C’era una parte intitolata proprio I sette dormienti,  avevamo messo questo titolo prima che Jakob parlasse con i professori addormentati, trasfigurati nei pesci dell’acquario.

Lo dico perché questo tema mi aveva molto affascinato, è un fatto però che poi nella versione definitiva ho scelto di lasciare il tema più sospeso, proprio perché mi sono reso conto che, rispetto al saggio di Calasso, volevo andare in una direzione – secondo me – ancora più valseriana, di ambiguità: da una parte c’è il sonno mistico, quasi nella vicinanza della religione, dall’altra volevo rendere lasciare più ambigue le figure dei professori dormienti, lasciare più aperta questa questione e allontanarmi dal saggio di Calasso, facendo uno scarto anche più ironico. 

Quando ho lavorato su  Jakob von Gunten mi sono reso conto che da una parte il saggio di Calasso mi aveva molto nutrito e dall’altra l’interpretazione così forte, e non dico univoca, nella direzione mistica-religiosa non aveva più molto a che fare col mio Walser. Volevo lasciare più aperta la questione e invece mi interessava molto di più, diciamo, lo scritto di Walter Benjamin su Walser.

Il nucleo iniziale di Jakob von Gunten però, la prima cosa che noi abbiamo provato è stato proprio questo mondo sommerso nell’acqua, nel sonno, nell’acquario, scelta che veniva proprio da Calasso e dal riferimento che fa ai Sette dormienti, qualcosa che ha sicuramente spinto la drammaturgia nella fase iniziale.

Francesco Fiorentino: La cosa che subito colpisce del Jakob von Gunten di Fabio Condemi è che fin dall’inizio inserisca questa ripetitività che potremmo definire senza senso, senza significato. 
Verso la fine del romanzo Jakob dice  «Via adesso non voglio proprio più pensare a nulla. Neanche a Dio? No! Dio sarà al mio fianco, che bisogno ho di pensare a lui?». Parlando di teologia negativa era questo che si intendeva: Dio è presente là dove avviene una sottrazione; dove si toglie, dove non si può dire che cos’è; in cui si può togliere tutto il resto per vedere quello che c’è. 

Sempre  verso la fine del romanzo Walser scrive «Mi devono gettare nudo sulla strada, e allora forse mi figurerò di essere  il signore Iddio che tutto abbraccia»: mi ha fatto venire in mente un libretto recente di Giorgio Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita. Io non penso che Walser conoscesse la leggenda dei sette dormienti, anche Calasso lo evidenzia. Questa però richiama strutture mitiche che tornano anche nella riflessione di Agamben sul monachesimo in cui parla del legame tra forma e vita nel monachesimo che mi pare molto abbia a che fare con Jakob von Gunten e con Walser in generale. Questo rapporto lui non lo concepisce come opposizione, ma sottolinea come in realtà derivi dalla capacità di pensare la vita come qualcosa che è dato, non come possesso, ma come in uso. Una cosa che riguarda molto questo cancellarsi, non avere niente, essere uno zero e poter usare il proprio corpo, la propria vita, per fare ciò che lui chiama servire.

Credo sia questo senso di spersonalizzazione che ci rende affascinante Walser, perché non ce lo fa apparire angoscioso. È la sua cifra ed è anche in parte la cifra dello spettacolo di Fabio: tutte queste azioni molto ripetitive che dovrebbero essere angosciose, gli attori presi in dei movimenti da cui non possono liberarsi, ma tutto è al tempo stesso molto divertente, giocoso, restituisce quasi un senso di grazia. La grazia è questo: essere presenti a se stessi, dimenticandosi di sé. La scelta di far mangiare un limone a un attore è angosciosa e violenta, ma diverte insieme noi che guardiamo e, penso, anche l’attore. Non possedersi, non avere il controllo su se stessi invece diventa quasi liberatorio, senza però diventare una cosa leggera, mantenendo questo aspetto un po’ sacro. Il sacro allora è l’orrore e il piacere che si incontrano. Un perdersi che angoscioso e liberatorio. 

Fabio Condemi: Nel realizzare quelle scene abbiamo seguito questa doppia sensazione: sentirsi al tempo stesso liberati da qualcosa, considerando anche l’immagine angosciosa che dava l’annullarsi. Dopo una lunga sequenza di ripetizioni di azioni che ci siamo detti dover essere precisissime, ma non avere scopo, una delle prime battute è di Jakob: «Io sono contento che in questo posto mi fanno indossare un uniforme perché nella vita non ho mai saputo che cosa indossare.» Riflettendoci, questa battuta, che tra l’altro suscita ilarità nel pubblico pronunciata in un periodo storico come quello di Walser, in cui sarebbero poi arrivate delle uniformi in tutta Europa, ha una doppia valenza.

Francesco Fiorentino: Peraltro Il tema dell’uniforme torna all’inizio della trilogia di Broch I Sonnambuli dove il protagonista si mette l’uniforme perché questo lo compatta.
La questione dell’uniforme è molto interessante perché permette di sottrarsi alla tendenza: i gusti di vestiario sembrano una delle scelte più individualistiche e personali che esistano. Sono però determinati dalla moda, che è quanto di più capitalistico ci sia; l’uniforme non è l’uniforme del soldato, ma del servitore, di chi rinuncia a dominare e perciò diventa sovrano. Questo desiderio di annullarsi è il grande sogno di Walser: sottrarsi all’ansia di riconoscimento. Nelle conversazioni con Carl Selig parla continuamente di successo mancato; è un suo problema ricorrente. Il caso Walser è indicativo perché è uno dei primi tentativi di sottrarsi al narcisismo che la nostra società costruisce per farci essere conformi ad essa. Walser fa questa grande rivoluzione per cui fa dire a Jakob von Gunten «Non voglio essere riconosciuto, voglio servire».

Gianni Celati, che era un grande lettore di Walser, in un saggio dal titolo Leggere e scrivere, parla di Walser come uno di quegli autori che sfuggono all’interiorità, aderendo piuttosto all’estetica del contingente, una categoria che molto ha a che fare con il teatro. Questa categoria ha a che fare con Walser e con Jakob von Gunten?

Fabio Condemi: Nei miei lavori il rapporto con il contingente si manifesta in modo indiretto, quasi obliquo, e raramente è affrontato frontalmente. Tuttavia, durante le prove di Jakob von Gunten (ma anche nella restituzione pubblica, in particolare alla Biennale di Venezia dove si carica inevitabilmente di forte aspettativa) certe azioni risuonavano fortemente rispetto al contemporaneo, e poi agli spettatori. In Walser, il contingente è sempre presente in modo indiretto: dal punto di vista scenico, la scelta concettuale di creare uno spettacolo sul non essere liberi, con l’introduzione di ostacoli alla libertà dell’attore anziché di improvvisazioni, ha avuto un forte impatto.  Quello che ne veniva fuori era molto forte: un continuo stridere con il contemporaneo e con le frasi fatte sul liberarsi o sull’essere se stessi che si dicono generalmente in teatro. Quello che noi abbiamo cercato di fare è di mettere in moto una drammaturgia e un marchingegno scenico che creasse degli impedimenti, come quello del limone: mangiarlo è un’azione reale che non può essere recitata; un’azione che costringe l’attore a confrontarsi con un movimento autentico che lo modifica. 

Francesco Fiorentino: Il tema del contingente, sia in Walser che nel teatro di Fabio Condemi, ha diversi livelli. Prima di tutto c’è il livello creativo, dove nonostante si parta con un’idea precisa già strutturata dello spettacolo, ci sono momenti imprevedibili o casuali che influenzano la creazione stessa, come ad esempio la scena in cui gli attori apparecchiano il tavolo con dei caschi che li costringono a muoversi insieme. Questa scena, come mi ha raccontato Fabio, nasce da un sogno fatto durante le prove. L’elemento contingente così entra nel processo creativo, ma viene poi sistematizzato. 

C’è poi il contingente che non vediamo, come nella scelta di far mangiare dei limoni agli attori, che viene incorporato nello spettacolo. Io penso che in questo Fabio compia una scelta che corrisponde molto a Walser: come una flânerie molto apparentemente scanzonata, la possiamo leggere al tempo stesso come un tentativo di esorcizzare il contingente. Tutto viene preso in questa rete di parole della passeggiata, del continuo dire senza che ci sia un evento che possa causare qualcosa di irreparabile. Walser lo prende dal sistema di ripetitività e ripetizione; Fabio costruisce uno spettacolo allo stesso modo. È interessante perché creando degli ostacoli per gli attori, questi si sentono più liberi, reagendo e ribellandosi all’imposizione del copione. In questo senso risulta più superficiale la libertà performativa che sembra aperta al contingente ma che in realtà poi lo cancella, si pensa di essere liberi, ma si finisce per ripetere sempre le stesse azioni: se siamo veramente liberi, ci annoiamo perché non accade nulla di nuovo. Al contrario, Fabio attraverso questa imposizione sceglie un ostacolo molto struttrato alla libertà dell’attore, che sente la propria libertà molto più palpabile,  perché la percepisce come costretta e impedita. Più grande è l’ostacolo, più cresce il desiderio di superarlo. Una poetica dunque che, secondo me, non si affida direttamente al contingente, ma che lo tiene presente quando si struttura in questo modo ripetitivo e rituale.

Il romanzo I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy si apre citando Walser, descritto attraverso il paesaggio dell’Appenzell vicino a Herisau, il manicomio dove l’autore ha trascorso gli ultimi anni della sua vita. Jaeggy descrive Walser attraverso il paesaggio innevato, definendolo «Un’arcadia della malattia, dove sembra regnare pace e un idillio di morte». Negli spettacoli di Fabio Condemi, sia in Jakob von Gunten ma anche Nottuari, lo spazio è sempre attivante, ideale, ma aperto anche allo straniamento, inquietante e distorto. Vorrei sapere se nel lavoro sullo spazio scenico c’è una ricerca di questa ambivalenza.

Fabio Condemi: Si, sicuramente c’è. In Jakob von Gunten, avevo ragionato in questo modo con Fabio Cherstich [autore della drammaturgia dell’immagine, scene e costumi ndr.]: cosa fare in questo spazio dell’Istituto Benjamenta, riprodurre l’architettura di un istituto reale? Non era questa la nostra intenzione. L’Istituto Benjamenta è una rete di tensioni che si crea  tra la presenza di Jacob il suo raccontare questo spazio: il lettore conosce questo spazio soltanto attraverso il racconto di Jakob nel romanzo. 

L’altro punto da cui sono partito è il sottotitolo di Jakob von Gunten ovvero Un Diario; un diario in cui non è segnato il tempo, dove non ci sono giorni, mesi, in cui si ha la sensazione  che potrebbero essere passati anni fra una pagina e la successiva. Jakob inizia dicendo:«Da quando mi trovo qui all’Istituto Benjamenta sono riuscito a diventare un enigma per me stesso». Non sappiamo da quanto tempo Jakob si trovi lì. Questo porta già in una dimensione di incertezza, a cui si aggiunge la descrizione degli altri allievi, che Walser dice «si preparano alla vita»: i loro esercizi sono come un’anticamera per la vita, come se si preparassero a uscire, senza che venga specificato verso cosa si preparino ad andare. La domanda allora sarà: che cos’è l’Istituto Benjamenta? L’adolescenza? Una fase della vita? Un momento in cui sono insieme la beatitudine il castigo? La grazia e il servire? 

A evocare questo spazio c’è anche il direttore dell’istituto, il signor Benjamenta, che nella mia riduzione non appare, ma soltanto nominato, evocato da un quadro appesa al contrario, che è il ritratto dello stesso Walser. Invece la figlia del direttore, Lisa Benjamenta, ad un certo punto diventa la guida per Jakob, di questo ne parla anche Calasso, verso gli appartamenti interni, descritti a tratti come una discesa allucinata agli inferi o come la grande scoperta della vita. Qualche pagina dopo, quegli stessi appartamenti interni sono descritti come delle stanze in cui c’è solo una vasca con dei pesci che gli studenti devono pulire.

Il tentativo mio e di Fabio Cherstich è stato quindi quello di tenere, anche nello spazio, un discorso di tensioni e sottomissione a un potere che non si vede mai, insieme a un continuo passaggio tra sonno-sogno-veglia. Non serviva avere una vera chiusura o delle pareti, c’era bisogno però avere delle tensioni tra i personaggi. Il ritratto appeso al contrario che non viene mai spiegato durante lo spettacolo, rimane come elemento di scenografia e può essere letto diversamente ogni volta, in base anche ai diversi punti dello spettacolo. L’acquario in scena diventa, ad un certo punto, un paesaggio ulteriore in cui Jakob si perde. 

Il suono anche diventa una drammaturgia: lo spazio viene abitato da suoni e passi, echi e metronomi e microfoni, restituendo la mia fascinazione verso il romanzo. La costruzione dello spazio coincide con il tentativo di capire quali sono le tensioni dentro il romanzo e restituirle, Sicuramente questa cosa ha influenzato anche dei miei lavori successivi: per Nottuari viene costruita  una sorta di macchina che segue la scrittura di Ligotti, una scrittura in cui si perdono le coordinate tra presente e passato e le storie si mescolano. 

Francesco Fiorentino: Gli spazi del Jakob von Gunten di Walser hanno qualcosa di intimo rimanendo però estranei, a me viene da dire come gli spazi dei sogni che sono spazi nostri, interiori, che mantengono però al tempo stesso una dimensione di estraneità e alterità, che io noto come una cifra anche del teatro di Fabio: i suoi sono spazi che hanno un ordine e una pulizia particolare. Il lavoro di Fabio Cherstich sul teatro di Condemi è essenziale, tutto è molto pulito, seppur ambiguo, lo spazio sembra intimo, però allo stesso tempo angosciante e strano, straniante. Nel finale di Jakob von Gunten questo spazio si sporca, diventa disordinato: c’è la neve, c’è un’accumulazione che rappresenta l’uscita verso un fuori che è il deserto,  l’apertura totale, il deserto è  il luogo che supera tutti i luoghi, il più disorientante che esiste: più del labirinto, perché ha indicazioni. 

Un altro elemento significativo di Fabio è che la sua è  scenografia fatta di tanti spazi che si aprono. Mi fa pensare a certe cose di Kafka, in cui non si sa mai cosa c’è dietro ogni porta, in Nottuari è così, proprio come negli spazi degli incubi. 
E poi c’è l’elemento dell’ascolto. In Walser Fabio lavora su una drammaturgia sonora molto strutturata, dal metronomo e tutta una serie di suoni che strutturano lo spettacolo. A proposito del suono è interessante notare che in Walser la fantasia è associata, evocata dal suono, dove si parla dello spazio che trascende, dell’oltre, del fuori. Questo è legato al suono, all’ascolto. 
Qualcuno ha detto che Walser gioca contro l’egemonia del visuale della cultura moderna, perché il visuale dà una cornice. Il tentativo è dunque quello di superare la cornice. Come diceva Derrida, l’orecchio è l’organo più vulnerabile; è sempre aperto, non si può chiudere come gli occhi, ma si può solo tappare. Ma non è la stessa cosa. 

condemi
Courtesy of La Biennale di Venezia – Ph A. Avezzù

Walser è un autore che, nonostante non sia primariamente legato al teatro, molto vi ha a che fare sia per quanto riguarda gli adattamenti: basti pensare al lavoro della Casa d’argilla sempre su Jakob von Gunten o all’Etang di Giselle Vienne, o ancora Brentano di Romeo Castellucci, ma anche perché spesso nei suoi racconti descrive il teatro che, dice, nasce dalla “mancanza di ciò che avrebbe dovuto essere”, Jaques Bondy  dice di lui che nel raccontare sembrava sempre stesse costruendo una recita. In cosa consiste dunque la specificità che avvicina Walser al teatro? 

Fabio Condemi: In un racconto che si chiama Un incendio a teatro, ad un certo punto della narrazione un teatro brucia c’è una sorta di strano disastro, è un racconto che ho letto spesso durante le prove, perchè come alcune pagine di Jakob von Gunten prende una deriva inaspettata. C’è un momento del romanzo in cui Jakob immagina di essere un soldato sotto Napoleone e la narrazione subisce un cambiamento radicale di stile, ci troviamo improvvisamente nelle distese innevate. 
Anche in questo racconto sul teatro, c’è un punto in cui si apre questa scena di incendio, provocando un cambiamento improvviso. 

Io personalmente credo che il rapporto di Walser con il teatro si situi in quello che diceva Francesco Fiorentino: paradossalmente ti porta ad andare contro una dittatura del visuale, perché le immagini che dice Walser non si visualizzano, entrano nella  testa.  In Jakob von Gunten la figurazione così enigmatica di un luogo in cui le persone imparano a servire, è potentemente teatrale,  genera immaginazione, fa girare la testa, le orecchie, ti cambia. Oltre a tutto questo c’è da considerare anche che Walser sfugge sempre,  e questo porta a cercare il vuoto tra questa immagine che colpisce così potentemente e il fatto di volerla concretizzare,  parla, ma non è mai descritta in modo definito e definibile. Un’altro nucleo, per tornare al saggio di Calasso, che a me aveva colpito moltissimo e che è tornato spesso nel modo lavorare sul testo, è quando lui parla di ironia ininterrotta di Walser, in cui anche prendersi sul serio il creare delle immagini dello spettacolo viene messo in discussione. Tutte le immagini che c’erano nello spettacolo dovevano in qualche modo svanire l’una nell’altra senza prendersi troppo sul serio e senza cercare di dare un’importanza specifica a una in modo da guidare troppo lo spettatore. La forza di Walser è che, alla fine di una sezione come la descrizione degli appartamenti interni, in cui sembra descrivere una discesa negli inferi, lui dice «Oggi poi ho pulito le posate» È come se non fosse successo niente.

Francesco Fiorentino: Per quanto riguarda il rapporto di Walser con il teatro di Walser ci sarebbe da ragionare sulla figura dell’attore, lui parla sempre di se stesso, anche in prosa ha scritto tantissimo, parlando quasi solo di se stesso, senza però dire niente di intimo. È come se parlasse di se stesso senza avere un’interiorità, rappresentandosi come senza interiorità.

È veramente un attore in questo senso, nel senso che sembra veramente, nel mezzo di una parte, che non creda a quello che dica e che stia recitando quello che dica, però non si sa bene poi a che cosa creda veramente. Questo è un altro modo per definire quell’ironia ininterrotta: non si sa mai quando è serio, non si sa mai quando è lui. In questo risiede il suo essere  teatrale: è un attore che non smette mai di essere attore per tutta la vita. Anche quando dorme, è qualcosa di angoscioso, perché è un attore che non torna mai ad essere lui.
Questa è la cosa più teatrale: fa finta, è cerimonioso, è troppo esagerato, è sempre Fritz Kocher. Questo penso che sia una natura essenzialmente teatrale, perché a teatro non si sa mai se si deve credere o meno.

No man’s land – Confondere i piani gerarchici per trovare se stessi

No man’s land – Confondere i piani gerarchici per trovare se stessi

In questa no man’s land, dove l’uomo vive nella libertà e nel mistero, possono accadere strane cose, si possono incontrare altri esseri simili, si può leggere e capire un libro con particolare intensità, o ascoltare musica in modo anch’esso inconsueto, oppure nel silenzio e nella solitudine può nascere il pensiero che in seguito ti cambierà la vita, che porterà alla rovina o alla salvezza

Nina Berberova

Se in italiano espressione No man’s land viene spesso tradotta come terra di nessuno, il rischio che si corre è quello di perdere la dimensione soprannaturale, quasi esoterica della parola. La no man’s land è infatti una terra non fatta per gli uomini, come dice la poetessa Nina Berberova si tratta di uno spazio di libertà, in cui riscrivere i propri processi conoscitivi. Da questo desiderio di riscrittura di se nasce il percorso di formazione ideato dall’Argot Studio di Roma, che si rinconferma come realtà capace di creare un terreno neutro ospitante, come disse a proposito dell’Argot Rodolfo Di Gianmarco nel lontano 2005.

Le parole di quasi vent’anni fa continuano però ad animare le attività del teatro trasteverino che ha realizzato il progetto di Alta formazione teatrale No man’s land attraverso un programma diversificato e intenso volto a sostenere giovani attori professionisti nel gettare le fondamenta di un’identità attoriale. Il percorso è culminato in una restituzione, attraverso un adattamento de Le tre sorelle di Checov, che ha permesso al pubblico presente di cogliere il lavoro svolto sul rispetto delle personalità recitative degli allievi coinvolti, che nello spettacolo si cimentano in un meccanismo di riflettenza e riflessione costante, per loro stessi e per il pubblico.

Argot decide di improntare il suo lavoro su quello che si può definire uno dei pochi gradi 0 possibili del teatro, ovvero il dialogo: a essere coinvolti come docenti sono stati l’autore e regista Filippo Gili e gli attori Massimiliano Benvenuto e Arcangelo Iannace, che hanno provato, come dice Gili, a sconvolgere i piani alla ricerca delle scritture sceniche dei singoli interpreti e destrutturando le gerarchie.

Ad affiancare questo percorso, un gruppo di giovani tra i 16 e i 25 anni che, all’interno del progetto Dominio Pubblico, hanno incontrato gli attori partecipanti alla stagione di Teatro Argot come Eleonora Danco, Elena Arvigo, Tommaso Ragno, Anna Foglietta e Monica Nappo, gli incontri hanno permesso al giovane pubblico di approfondire quella che è la missione profonda di Dominio Pubblico e del Teatro Argot, ovvero la rottura delle barriere fra un palcoscenico, vissuto troppo spesso come distante, e un pubblico giovane, come quello di Dominio Pubblico che inizia a conoscere e a riscrivere le proprie regole della fruizione teatrale.

Un percorso quello di No man’s land votato alla ricerca dell’autenticità espressiva, della consapevolezza di potersi cimentare con i classici e con l’esperienza per tornare a ricercare un’orizzontalità fra professionisti della scena. Ne abbiamo parlato con il regista Filippo Gili.

No man's land

Se dovessi raccontare il percorso di No man’s land da cosa partiresti: quali erano gli obiettivi e quali sono i nuovi requisiti richiesti agli attori per affermarsi nel mondo del lavoro?

Noi lavoriamo moltissimo sull’autenticità espressiva a teatro, come se fosse cinema vivo, come d’altronde è stato sempre dichiarato il nostro teatro, mio e di Francesco Frangipane. Se vogliamo dirla tutta, è anche un’esperienza da un certo punto di vista poco formativa, perché comunque il teatro ufficiale ti richiede poco una dimensione di verità. Noi cerchiamo di dare strumenti agli attori per rapportarsi con il teatro classico, un teatro un po’ difficile, o così apparentemente più difficile e con un grimaldello diciamo così mentale, scardinare i meccanismi che rendono così diversa la recitazione del testo classico dalla recitazione normale. Per noi è tutto normale o è tutto classico, quindi il lavoro che abbiamo fatto è quello semplicemente di abituare questi attori, sulla base specialmente di un testo classico come Le tre sorelle a potersene pensare all’altezza concedendosi anche il lusso di un’autenticità espressiva, che non significa portare il testo classico nella modernità, ma significa fare un viaggio nell’antichità non dimenticandosi i propri bagagli, non diventare un determinato personaggio, ma parlare, o ridere, o scherzare, o avere l’ironia o l’humor, o il patetismo contenuti naturalmente dall’attore.

 Una delle cose che colpisce è un lavoro anche in un certo senso di stravolgimento del ritmo cechoviano. Come avete lavorato proprio per costruire questo spettacolo anche in relazione a questo discorso sul ritmo?

Secondo me il ritmo di Čechov è questo, Un attore grande riesce a camuffare questa ritmica attraverso una serie di linee più verticali, e i ragazzi sono riusciti in questo. La ritmica di Čechov è una ritmica viva, e spesso Čechov è fatto troppo vaudeville. Il ritmo è una cosa importante, chiaro che non è che impari a recitare se fai il ritmo, è anche una partitura.Qui la cosa fondamentale, è data dalla dinamica questo è un testo eccezionale, è un primo atto in particolare eccezionale che abitua proprio l’attore a dover stare all’interno di un percorso, non fraintendendo il proprio mestiere con il fatto di dire le battute. Qui i piani d’ascolto sono più importanti delle battute ed è un primo atto d’ascolto costante, perché sono in nove in scena contemporaneamente. Per un’ora e un quarto l’allenamento che dà questo tipo di situazione è impagabile, è impareggiabile. C’è anche un momento in cui diciamo il recitare è proprio l’ascolto, tanto più perché l’ascolto è dato, non è un ascolto univoco. C’è ascolto il personaggio, ascolta quello che vuole, quel che sa, quel che può: Quando parla Versinin tendenzialmente è talmente interessante e onesto intellettualmente quello che lui dice, è progressivo, non manifestativo. Quando parla Tuzenbach, che è un po’ più ridicolo, un po’ più buffo, c’è chi capisce l’aspetto un po’ grottesco e ci tiene questo tentativo di stare all’altezza di Versinin. La cosa bella è che poi ogni deriva che suscita l’ascolto è una deriva appropriata rispetto ai secondi fini dei singoli personaggi. La meraviglia è che poi come è nella vita, anche chi ottiene ascolto, lo ottiene frammentato dalle derive che il suo senso provoca, che sono diverse da l’uno all’altro

No man's land

Questo discorso sui personaggi si riflette anche in un certo senso su un’autorialità dell’attore ed è interessante che in questo percorso di formazione c’è un discorso sulla dimensione analitica del testo, si parla di scrittura scenica, analisi testuali, la riscrittura dei classici che però come abbiamo detto non è una vera e propria riscrittura. Mi interessava sapere come avevate lavorato sulla materia testuale.

Per me questa è l’acqua calda, anche se ormai sembra essere l’acqua fredda. Non c’è teatro se non c’è lettura del testo approfondita. Adesso lasciamo perdere le varie mitologiche dieci giornate di prova a tavolino che si faceva una volta e io l’ho fatto quel teatro con Ronconi con le sessioni di dieci giorni di prova a tavolino. Però la prova a tavolino o comunque la lettura attenta che debba essere chiaramente a disposizione dell’attore, Se si vuole schiacciare la palla c’è bisogno di qualcuno che la alzi e la lettura del testo la fa chi alza, se no la palla non si può schiacciare. Se la rappresentazione è la palla che deve essere schiacciata, se non c’è chi te la alza muore il teatro. Se facciamo il teatro di testo, la lettura del testo, l’esegesi è veramente il cinquanta per cento, tanto più in uno spettacolo come questo, per un testo come questo che coinvolge dieci attori in scena. 

I professionisti coinvolti nella formazione appartengono a diverse professionalità del mondo del teatro, di cui i ragazzi hanno avuto modo di indagare la storia e il percorso artistico. Qual è stata la reazione degli allievi a questo confronto con una generazione che ha alle spalle un’esperienza scenica importante

Questo nostro laboratorio è virtuoso, amato e spero che potremo replicarlo magari con uno schema leggermente diverso. Per me l’unica grande scuola, a parte tutta la visione romantica e frammentata della scolarità teatrale, è confondere i piani e stare accanto a quelli forti, Ho sempre pensato che sarebbe bello un giorno inventare un laboratorio costante dove cari amici con cui ho condiviso questo corso, hanno a disposizione un tempo per recitare insieme agli altri, non per gli altri, anche senza quasi fare commenti. il talento non è genetica, il talento è imitazione, esperienza e uso e questa a mio avviso sarebbe la via ideale per esercitarlo. È stata una bella esperienza perché abbiamo riscontrato sul campo  un successo da un certo punto di vista, perché vedere poi lo stato finale rispetto alle fatiche la difficoltà di cercare di far arrivare una comunicazione per inquadrare la recitazione in una maniera tanto profonda quanto comunque autentica e non recitata, per noi è stata una grande gioia.

Vedere come molti di loro sono riusciti a entrare, ciascuno al suo livello e con la sua esperienza, nel meccanismo fenomenologico dell’autenticità espressiva. Ciò che abbiamo riscontrato è che questi ragazzi, chi più chi meno ragazzo e chi più, chi meno talentuoso, comunque hanno tutti quanti imbroccato una via dove si sono fidati e hanno sussunto la linea dell’autenticità espressiva e non del media recitativo come stereotipo di differenziazione tra il teatro e il cinema. Questo è stato molto bello.

Segni di identità ed ecologia drammaturgica: intervista a Margherita Laera

Segni di identità ed ecologia drammaturgica: intervista a Margherita Laera

Nel definire gli spazi della cultura Homi K. Bhabha parla di spazi inter-medi che costruiscono il terreno per l’elaborazione di strategie del sé, che danno il via a nuovi segni di identità. Che ruolo ha la drammaturgia nella creazione di questi nuovi segni di identità? Quali sono i ruoli che contribuiscono all’operazione? Ne abbiamo parlato con Margherita Laera, autrice di La drammaturgia contemporanea in Europa – Una mappatura degli ecosistemi e delle pratiche (Franco Angeli, 2023) traduttrice teatrale e docente all’università del Kent. 

Da cosa nasce questa necessità di parlare di drammaturgia contemporanea in Europa?

Dunque, la necessità nasce da un progetto sviluppato da Fabulamundi – Playwriting Europe: creare una mappatura dei vari contesti nazionali e regionali, approfondendo come gestiscono la drammaturgia contemporanea come la raccontano, come la fanno, quali risorse, quali sistemi ci sono alla base di queste pratiche e culturalmente, quali sono le attitudini. Tempo fa, come scrivo nel libro, mi sono presentata a Claudia Di Giacomo (responsabile del progetto Fabulamundi – Playwriting Europe ndr.) che mi ha parlato della ricerca che è alla base di questo libro, il mio tentativo è stato quello di implementare questo progetto e di renderlo un po’ mio, interpretarlo dal mio punto di vista, secondo quelle che sono le mie ricerche e i miei interessi di ricerca, di certo già molto allineati con la proposta di Fabulamundi.

Il punto di partenza è stato riscrivere le domande attraverso cui far scaturire il lavoro, successivamente abbiamo organizzato insieme come diffonderle, come ottenere i dati necessari. Il processo ha portato alla compilazione di un questionario, che è stato poi diffuso nei paesi europei coinvolti. Il passaggio successivo è stato rendere il questionario rappresentativo, tenendo presente la grande quantità di risposte provenienti dalle diverse realtà prese in esame.

Quindi, dopo un’attenta analisi dei dati per determinare la loro esattezza, ho sviluppato un metodo per garantire l’obiettività dei risultati del questionario. In molti casi, ho scoperto che i dati erano parziali, quindi ho coinvolto una rete di esperti sia dal mio network che da altri paesi. Attraverso interviste mirate, abbiamo ottenuto commenti e revisioni sui dati preliminari, simili a una peer review su un articolo scientifico. Questo processo ha arricchito e affinato ulteriormente il report, grazie alle conversazioni approfondite con gli esperti. Alla fine abbiamo ottenuto una comprensione più completa dei contesti coinvolti e abbiamo riscritto i report di conseguenza, raggiungendo così il risultato desiderato.

La distinzione tra ‘dramaturgy’ e ‘playwright’ che viene menzionata nell’introduzione al libro, può essere applicata anche ad altri contesti teatrali al di fuori dell’Inghilterra? E in che modo questa differenza influenza il ruolo e il lavoro del drammaturgo?

Sì, c’è una differenza sostanziale tra queste due pratiche, anche se vengono talvolta indicate con lo stesso nome. La scrittura drammatica, o playwriting, e la drammaturgia sono due ambiti distinti. La varietà delle lingue e dei loro termini è utile, in quanto consente di attingere a diverse sfumature concettuali da contesti differenti.

In molti paesi, come Germania e Repubblica Ceca, esiste una percezione ben definita di queste due figure e dei rispettivi ruoli. In Italia, ad esempio, non sono così codificate. Dipende da come si vuole organizzare il processo creativo e suddividere i compiti. Se quindi si fa spazio per queste due figure distinte, una si occupa di scrivere da zero, a grandi linee, l’altra si occupa di pensare il mondo, il viaggio dello spettatore rispetto al testo. 

Il ruolo del dramaturg è culturalmente specifico e varia notevolmente da contesto a contesto. Ho recentemente partecipato al lancio di un libro che trattava il ruolo del dramaturg negli anni ’80 in Germania. Si trattava di una figura presente durante le prove teatrali, che stava lì e guardava e diceva a tutti quando sbagliavano, simile a un critico integrato nel processo creativo.

Questo tipo di figura non è molto diffusa nel Regno Unito, ma alcune compagnie teatrali utilizzano ciò che chiamano “embedded critic” o “friendly critic”, il ruolo viene chiamato così,  ma viene anche chiamato drammaturgo e può essere inteso in tanti modi, ci sono tante opportunità. In Italia manca spesso una figura di drammaturgo che possa assistere la direzione artistica nelle scelte di programmazione e sviluppo dei progetti. La mancanza di tempo per leggere, commissionare e sviluppare le idee è spesso evidente e limita la crescita e la diversità del panorama teatrale italiano.

Perché il ruolo del dramaturg fatica ad essere delineato e a trovare spazio in Italia ma anche in altri paesi? 

Penso sia una questione culturale, perché tutte le cose esterne faticano ad essere integrate in un contesto nuovo, ogni cultura funziona all’interno dei suoi codici e delle sue tradizioni e le tradizioni italiane non prevedono questo ruolo fino adesso. Ovviamente i tempi si evolvono, non ha però senso trapiantare o paracadutare una cosa che non è radicata in un contesto, pian piano se alcune realtà riescono a e vogliono fare avanguardia in questo senso, creando il cambiamento, magari potranno creare in questo senso una tendenza che verrà seguita, ma il sistema teatrale italiano non è tradizionalmente predisposto alla presenza di questo ruolo al momento. 

l’Italia per una certa parte è molto esterofila, la figura del dramaturg non funziona però se non c’è un sistema a cui si può attaccare, ci può essere un dramma in un teatro in cui la direzione artistica decide che c’è, questo però non rappresenta una scelta sistematica.Questa è la mia versione di fatti, non è una cosa italiana al momento, in Italia ci sono diversi tipi di tradizioni. Oltre ad una resistenza culturale, c’è da considerare anche l’aspetto economico non essendo il dramaturg un ruolo assolutamente estremamente necessario, nel senso che il tipo di lavoro che fa viene spesso svolto da altri tipi di figure, diventa un lusso in qualche modo. La Germania ha moltissimi investimenti per la cultura e ha una tradizione, ovviamente in queste condizioni non si pone il problema, mentre in Italia bisogna crearla una tradizione, se si vuole coltivare la drammaturgia contemporanea. 

In Inghilterra, questa tradizione è già presente poiché c’è un’attaccamento al testo molto più forte. Anche se, in termini di finanziamenti culturali, ci sono meno investimenti rispetto a Germania e Francia, dve ad esempio esiste un’organizzazione commerciale molto forte e un vasto pubblico, che promuovono scambi culturali. La selezione di testi e il supporto agli autori hanno un ruolo chiave nell’attività culturale di paesi, motivo per il quale il Regno Unito sostiene fruitori della cultura come quei posti come literary managers che non sono scrittori, ma spesso traduttori o editori. Questo sistema, quindi, pari i lavori retributivi e promozionali in modo relativamente equo.

Il sistema britannico sostiene la drammaturgia perchè  c’è tutta una tradizione di commissionare testi e a quel punto molti autori si ritrovano sotto commissione  e possono continuare a fare il lavoro che vogliono. C’è una grandissima attenzione di pubblico una grandissima attenzione di tutti i teatri alla nuova drammaturgia, questo da sempre. Anche lì si tratta di una tradizione. In Italia invece c’è una tradizione che non privilegia tanto il testo necessariamente, ma la presenza di un attore-autore che dirige le sue cose, un artista completo, c’è questa tradizione, che va bene, che però semplicemente  non crea un’ecologia attorno alla drammaturgia.  

Nel corso della tua ricerca sei riuscita ad evidenziare delle tematiche comuni, dei fili rossi che uniscono le drammaturgie europee?

Le tematiche a livello europeo sono tante,  non ti saprei dire così su due piedi quali sono i trend anche perché variano tantissimo come variano le culture e i discorsi in ogni paese per esempio in Inghilterra si parla molto del cambiamento climatico, in Italia ho faticato a trovarne, però a livello europeo sicuramente ce ne sono tanti sul tema. Molti testi approfondiscono la questione dei migranti, della migrazione in generale, tema che viene abbastanza trattato anche in Italia e anche altrove. Ciò che cambia è la voce di chi ne parla, spesso l’accesso alla posizione di drammaturgo e di scrittore teatrale è limitata ai privilegiati quindi le tipologie di discorso sulla questione dei migranti variano molto rispetto da paese a paese. In Inghilterra ad esempio  cambiano tantissimo le prospettive perché si parla di scrittori di background migratorio ma anche di global majority come, dico nel libro. In generale credo sia molto presente il tema degli incontri culturali e interculturali e la vita ai tempi del capitalismo. Altra questione è quella del ruolo della donna, questo è un tema che viene fuori molto. 

Le grandi differenze però dell’Europa rispetto all’America e devo dire che parlo dell’Europa continentale sono stilistiche, non tematiche: come vengono affrontati certi temi  questa è la vera differenza c’è una più ampia libertà  e più varietà a livello europeo dal punto di vista stilistico di quella che troviamo nel mondo inglese o in America. La mia percezione è che gli scrittori teatrali negli Stati Uniti e anche nel Regno Unito sono più legati alla storia vera e propria, a uno sviluppo drammatico, mentre dal punto di vista dell’Europa continentale c’è molto più grande apertura verso il post drammatico  e quindi un uso del teatro molto più simbolico molto meno psicologico e, consequenzialmente, una più grande distanza tra il teatro, il cinema e la televisione. Mentre negli Stati Uniti e in Inghilterra c’è un allineamento molto più ampio tra quello che si vede in tv e nel cinema e quello che si vede a teatro  tant’è vero che gli scrittori cambiano media e continuano a fare un po’ di uno e un po’ dell’altro, ed è per questo che riescono anche a sopravvivere, questa è un’ecologia che funziona.

Come il tuo lavoro di traduttrice ha influenzato la ricerca? 

La cosa più importante su cui mi fa riflettere la traduzione è la traduzione culturale, per me la parte più interessante è proprio quella. non mi limito a pensare che parola usare in un determinato contesto, ma penso come tradurre una frase in una maniera che renda, che abbia un effetto non equivalente a quello che aveva nell’originale. Come posso comunicare il senso dell’originale a un pubblico nuovo? E come posso reinventare, riposizionare la proposta dell’originale per un pubblico nuovo? E che senso ha? Sono tutte domande registiche, mi metto nei panni della traduttrice come se facessi una drammaturgia per un regista.

E ovvio che poi dopo sono molto rare le occasioni in cui io poi ho la vera opportunità di parlare con un regista che metterà in scena i testi che traduco,mi chiedo però quale sia il valore di ogni battuta in un nuovo contesto. Il centro per me quindi è parlare di contesti culturali, di trasformazione  e dialogo culturale.

Nel libro, menzioni il ruolo del gatekeeper nel contesto teatrale. Durante un recente incontro del progetto Omissis, incentrato sulla drammaturgia, è stato discusso il potenziale di sviluppo del pubblico e di coinvolgimento degli spettatori, soprattutto considerando che la drammaturgia è spesso la parte meno conosciuta dello spettacolo teatrale. Quali sono i modelli esemplari o azioni specifiche che hanno dimostrato di essere particolarmente efficaci nel ruolo del gatekeeper nell’approccio al pubblico?”

Se intendiamo il gatekeeper come direttore artistico, in questo caso, anche lì si tratta tutto di una questione culturale, nel senso che in Italia si tende a privilegiare e a dare visibilità al regista, agli attori, ma agli scrittori no. Questa però  è una tendenza europea, a livello europeo, per la maggior parte delle persone con cui ho dialogato,  in Europa continentale, escludendo l’Inghilterra, la figura che ha più potere è il regista. Da una parte quindi si potrebbe parlare du regista come gatekeeper. Ci sono varie azioni che si possono compiere in questo senso. Bisogna prendere la questione da varie posizioni perché non c’è un singolo tipo di gatekeeper che può cambiare la situazione. Molte azioni, come i premi di drammaturgia, aiutano.  Ovviamente non sono cose nuove,  però creano più opportunità, più, a quel punto c’è più discorso rispetto alla drammaturgia. Altri gatekeeper da tenere conto sono i giornali e i critici.

Per cambiare le cose non basta solo cambiare i discorsi dei teatranti dall’interno, bisogna cambiare la percezione del pubblico. Quindi c’è necessità di pensare non solo alle webzine e agli approfondimenti critici di settore,  ma alla grande istituzione, alla stampa, ai giornali. Cosa vede una persona qualsiasi aprendo il giornale? Cosa scrive il critico? Cosa mette in evidenza il regista, la scrittura? Per esempio in Inghilterra la visione del ruolo del drammaturgo per chi non fa parte del mondo teatrale è molto più sviluppata, perché se ne parla in genere,  non perché se ne parla all’interno dei discorsi dei teatranti. Credo sia importante cercare di evidenziare per il pubblico chi è il drammaturgo. C’è necessità di più premi, più articoli, più discussioni, più insegnamento nelle scuole, su vari livelli bisogna moltiplicare i discorsi, con tutti, con il pubblico, con i bambini, con i critici, con la televisione, con i giornali, con le comunità più marginalizzate, con tutti quelli che possono avere benefici dalla scrittura teatrale.

È essenziale approfondire questa discussione, ma ci sono molte domande importanti da esplorare e non sempre abbiamo risposte definitive. Ad esempio, dobbiamo considerare quale tipo di collaborazione vogliamo instaurare con i registi: desideriamo un modello in cui lo scrittore ha un ruolo predominante, o preferiamo un approccio più equilibrato in cui entrambi sono considerati alla pari?

Non esiste una risposta universale a questa domanda, e non possiamo semplicemente adottare modelli stranieri senza valutarne attentamente le implicazioni. Prendiamo ad esempio il modello del Royal Court, in cui lo scrittore ha un ruolo centrale durante le prove e ha il potere di influenzare ogni singola parola fino all’ultimo momento. Questo approccio potrebbe non essere adatto a tutti i contesti e a tutte le opere.

È importante riflettere su quale direzione vogliamo prendere per lo sviluppo della drammaturgia, sia a livello sistemico che culturale. Al momento, credo che manchi un adeguato dibattito su questi temi e sulla loro rilevanza per il nostro futuro artistico.

drammatugia

Conducendo questo studio, mi sono imbattuta in diversi modi di intendere la pratica teatrale, e semplificati dalle diverse modalità in cui le varie culture linguistiche denominano l’arte di scrivere testi teatrali e concepiscono il ruolo del drammaturgo prima, durante e dopo le prove. L’inglese tra “playwriting” si traduce in “dramaturgie” in tedesco; “dramaturgie” in olandese, cieco e francese; “drammaturgia” in italiano; “dramaturgia” in spagnolo catalano, portoghese, polacco, rumeno, finlandese; e, naturalmente “δραματουργία” in greco. Per confondere ancora di più la situazione, la lingua inglese, presenta anche un altro termine, derivato dalla stessa radice greca, ovvero “dramaturgy”, riferito a un concetto che differisce ampiamente da ciò che la maggior parte dei madrelingua inglesi ora intende con “playwriting“, ma che tuttavia vi si avvicina abbastanza da generare confusione. Nel gergo teatrale inglese odierno i due termini non sono sinonimi, sebbene questa differenza non sia nota a un comune anglofono, a meno che non abbia legami con il teatro. Nel mondo anglofono “playwriting” indica l’arte di scrivere testi teatrali originali, sia che si basano su una vicenda nuova sia che siano adattati a partire da una fonte preesistente, mentre “dramaturgy” è l’arte di organizzare e comporre storie destinata una performance, partendo da testi già esistenti ma anche senza basarsi in alcun modo su un testo. Come sostiene Theresa Lang “dramaturgy” consiste nel “curare un’esperienza destinata un pubblico” (Lang 2017:7)  mentre un “dramatist” fa lo stesso lavoro di un “playwright“, un “dramaturg” (parola presa in prestito dalla lingua e della cultura teatrale tedesche” lavora con i testi per il palcoscenico o con la struttura della narrazione nel corso dello spettacolo, spesso dando consigli un regista, ma non è necessariamente l’autore “originale” del testo messo in scena. Tuttavia ,nella maggior parte delle lingue europee, entrambe le pratiche playwriting e dramaturgy sono coperte dal termine derivato dalla radice composta greca -drama che significa “dramma” e ourgìa “fare/creare/plasmare”.