TEATRALMENTE #7 – Facciamofintaungioco?

TEATRALMENTE #7 – Facciamofintaungioco?

Il Teatro è un gioco.
Mi sentirete battere spesso su questo tema.
Che tu, caro lettore, sia un attore professionista o un appassionato, un amatore o un semplicissimo curioso, devi ricordare che non si può “fare teatro” dimenticando la principale funzione che esso ha per l’uomo: dar corpo e voce all’immaginazione, che sia dell’autore, dell’attore o dello spettatore.
Un imbroglio, il teatro è un imbroglio. Un patto non scritto tra attore e spettatore in cui il secondo si accomoda su una sedia (una morbida poltrona, nella più fortunata delle ipotesi) col preciso intento di “farsi imbrogliare”, di fingere di credere che quel signore sulla scena (magari il figlio o il vicino di casa) sia Amleto. Un gioco di condivisa immaginazione tra le parti.

Un signore di nome Ulric Neisser, arguto psicologo statunitense di origine tedesca, ci aiuterà a definire questa capacità umana che è l’immaginazione.
Il suo primo volume, Cognitive psychology, pietra miliare nella storia del cognitivismo moderno, fornisce la prima ipotesi esplicita di come nei processi attenzionali siano implicati quelli di riconoscimento figurale. Più in generale, l’idea che vi sia coerenza tra i vari processi cognitivi che avvengono nelle diverse fasi di elaborazione delle informazioni permette a Neisser di sottolineare la presenza di un continuum tra processi quali la percezione, l’immaginazione e i processi mnestici.

Neisser si soffermò su un fenomeno che sarà sicuramente capitato ad ognuno di noi.
Se io immagino che la persona che ho di fronte sia, per esempio, un ladro o uno scippatore, sulla base di questa mia rappresentazione mentale la mia attenzione si focalizzerà sui segnali da lui prodotti che potrebbero confermare la mia ipotesi.
Incaponitosi su questo argomento tirò furi la sua tesi: ogni uomo possiede schemi mentali che usa come modulatori dei processi cognitivi (percezione, immaginazione, simbolizzazione, formazione di concetti, soluzione di problemi) grazie ai quali l’uomo acquisisce informazioni sull’ambiente e le elabora in funzione del proprio comportamento.
Tornando al nostro esempio si traduce nel fatto che la mia percezione (c’è un uomo di fronte a me) crea un’ipotesi immaginativa (quest’uomo è un ladro) la quale inevitabilmente modula e influenza le mie risposte (dunque vuole derubarmi) e quindi il mio comportamento (scappo).
Dunque l’attività reale è assolutamente modulata dall’immaginazione.
Ed ecco la realtà.

Quando Amleto ha affondato la spada nell’arazzo urlando “un topo, un topo” ha solo immaginato che lì dietro si nascondesse il Re, l’uomo che voleva realmente ammazzare, eppure la sua immaginazione ha guidato la sua azione. Non è andata molto bene per il caro Polonio, ma l’esempio rende bene l’idea di Neisser.
Ed ecco il teatro.

Ognuno individuo possiede questa fantastica capacità di creare rappresentazioni mentali interne. Immaginiamo sempre, continuamente, per fortuna!
Immaginate se non fosse così.

Ma perchè è così importante? Perché è così importante persino per un attore?
Perché alle rappresentazioni immaginative interne sono strettamente collegati gli schemi espressivi di cui ogni individuo è portatore. Se voglio esprimere qualcosa che non mi è ben chiara in testa non posso rappresentarla. Se non posso rappresentare qualcosa non posso farla comprendere a chi ho di fronte.
L’attore in questo senso è il mezzo di cui un autore si serve per rendere vivo, reale e visibile al pubblico il personaggio e tutto quello che quest’ultimo pensa e immagina. Ed ecco che le piccole cose invisibili rendono reali quelle visibili come la postura, la mimica e i movimenti di quel personaggio, l’atteggiamento corporeo, la voce.

L’attore sa che dietro l’arazzo non c’è il Re, bensì Polonio, ma Amleto non lo sa.
L’attore che interpreta Amleto deve immaginare come Amleto, deve convincersi che sta per uccidere lo zio e che vendetta sarà fatta. Deve crederci, con gli occhi di Amleto.

 

L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l’immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l’evoluzione. [Albert Einstein]

 

Riferimenti bibliografici:

NEISSER U., Conoscenza e realtà, Bologna, Il Mulino, 1981.

RUGGIERI V., On the hypothesized correspondence between perceptual and imagery processes, Perceptual and Motor skills, 73, 827-830, 1991.

RUGGIERI V., Immaginazione e Percezione si incontrano nello sguardo, Realtà e Prospettive in

Psicofisiologia, n. 5-6, 119-131, 1993.

http://www.filosofico.net/
http://www.treccani.it/

TEATRALMENTE #6 – Prossemica e modelli di comunicazione

TEATRALMENTE #6 – Prossemica e modelli di comunicazione

Quando ho frequentato il primo laboratorio di teatro, tempo fa, ero giovane e avevo aderito a quel corso perché lo frequentava anche il ragazzo che mi piaceva. Non conoscevo niente di quel mondo, solo qualcosina: non dare le spalle al pubblico, usare bene la voce, non dondolare mentre parli, la tenda solitamente rossa che si apre e si chiude si chiama sipario. Insomma cose così. Pian piano ho scoperto che non solo la tenda aveva un nome, e che stavo poggiando i piedi su un legno chiamato palco, ma che il gioco del teatro ha delle regole che hanno dei nomi.

La Zattera. Sappiamo cos’è una zattera. A teatro la zattera diventa una sorta di metafora. Mi auguro che nessuno si sia mai trovato in occasione di dover usare una zattera oggigiorno, ma è di facile intuizione il fatto che se ci si siede tutti a destra o tutti a sinistra su di un pezzo di legno galleggiante le probabilità di finire in acqua sono molto alte. Quello che non ho mai capito è se “zattera” fosse un termine usato solo da quell’insegnante o se rientrava in un linguaggio universale per dire “distribuitevi nello spazio in maniera equidistante senza lasciare buchi sulla scena”.
Poi ho scoperto che alcuni dicevano prossemica per indicare una regola simile. In realtà la parola prossemica , esclamata con vigore e a volte velata impazienza, suonava quasi come un’aggressione se qualcuno stava impallando (altro termine tecnico teatrale usato spesso per dire “mi stai coprendo, così non mi vede nessuno”) il compagno o pestandogli i piedi… allora al richiamo prossemica ci si riposizionava in maniera equidistante nello spazio.

Col tempo ho scoperto che la prossemica è una vera e propria disciplina, una scienza che studia l’uso che fanno le persone della distanza. La prossemica è quella branca della psicologia che studia i comportamenti spaziali, ovvero il modo in cui ci collochiamo nello spazio e regoliamo le nostre distanze rispetto agli altri e all’ambiente.
Il primo studioso a fare ricerche estensive in questo ambito è stato l’antropologo E.T. Hall il quale, al termine della seconda guerra mondiale, venne incaricato di studiare come riavvicinare le culture “nemiche” tedesca e giapponese a quella degli Stati Uniti, così che la successiva cooperazione per la ricostruzione procedesse con maggiore collaborazione e senza incomprensioni.
Come tipicamente avviene in qualsiasi comportamento non verbale, nella grande maggioranza dei casi noi non scegliamo consapevolmente a che distanza stare dagli altri, o in che punto metterci in un gruppo. Tutto avviene in modo inconsapevole, spontaneo, veloce e fluido.
“Fra le tante cose che parlano di noi c’è anche il modo in cui ci collochiamo nello spazio e regoliamo le nostre distanze rispetto agli altri e all’ambiente. Queste distanze non hanno solo la funzione di proteggerci, ma ci permettono anche di comunicare. Il nostro spazio personale rivela infatti la nostra posizione sociale, il nostro sesso, la nostra personalità, il tipo di relazione che stiamo intrattenendo o desideriamo intrattenere, il nostro grado di soddisfazione, insoddisfazione, disagio”

Possiamo dire che, in generale, le distanze si accorciano fra persone che si somigliano, per un aspetto o per un altro. Per esempio, le distanze fra individui di età simile sono minori di quelle che si stabiliscono fra individui di età diverse. Lo stesso avviene fra persone che hanno lo stesso status sociale, economico, culturale, ecc.
Non tutti, comunque, manteniamo le stesse distanze a parità d’età e di sesso. Le ricerche hanno dimostrato che anche i fattori di personalità giocano un ruolo importante. Individui ansiosi o introversi, ad esempio, mantengono distanze personali maggiori rispetto ad individui non ansiosi o estroversi. Coloro che hanno un’alta autostima, tendono a rapportarsi con gli altri a minore distanza rispetto a persone che hanno una bassa autostima.
Un discorso a parte, però, merita il livello di attrazione reciproca. Se fra una femminuccia e un maschietto c’è una reciproca attrazione, e i due interagiscono, di solito, piano piano e progressivamente, le distanze…si accorciano. In alcune ricerche si è voluto vedere se questo sia dovuto prevalentemente alla femmina, al maschio, oppure ad entrambi. Questi studi suggeriscono che in casi del genere l’avvicinamento è da attribuire ad una strategia messa in atto principalmente, indovinate un po’ (rullo di tamburi), dalla femmina.

Ebbene si. Dobbiamo sempre fare tutto noi, si sa!

Si potrebbe continuare a fare miliardi di esempi su quanto si possa capire di una persona in base al suo modo di rapportarsi con lo spazio, ma chiunque abbia l’abitudine di osservare attentamente il mondo che ci circonda, avrà già avuto modo di sperimentare quanto detto. È divertente, provateci.

Quindi osservare è un buon inizio per provare a capire le persone e come relazionarsi agli altri. Persone e personaggi.
E in un attimo torniamo a teatro e rianimiamo questo termine: prossemica. Entrare in un personaggio timido, introverso, quasi timoroso di ciò che lo circonda, significherà non solo modificare la voce rendendola tremante e flebile, porterà a tenere le braccia chiuse a proteggersi e quasi a nascondersi, abbastanza lontano da ciò di cui si ha timore ma non abbastanza da attirare l’attenzione.

Prendiamo ad esempio un autore che faceva largo uso di didascalie nelle sue opere: Pirandello e precisamente i cari Sei Personaggi in cerca d’autore. Quando entrano in scena e il nostro meticoloso Luigi li descrive non lascia nulla di intentato. Per esempio, la Madre, e cito: “sarà come atterrita e schiacciata da un peso intollerabile di vergogna e d’avvilimento. Velata da un fitto crespo vedovile […] mostrerà un viso non patito, ma come di cera, e terrà sempre gli occhi bassi..”
Ora sappiamo tutti di che personaggio stiamo parlando, e un attore che interpreterà la Madre saprà come vestirne i panni anche grazie alla prossemica suggerita dall’autore.

Lo so che alla fine dell’articolo viene da pensare “vabbè, ma dai si sa”, e in effetti è giusto. Continui ad avere la sensazione di non aver imparato niente di nuovo, che hai solo dato un nome ad una cosa che sapevi già, che hai solo scoperto che si fanno studi su cose “ovvie”. In effetti è giusto. La psicologia ti fa sentire un po’ come quando scopri che qualcuno ha brevettato “Tergicristalli per occhiali da vista pratici e leggeri” prima di te. Qualcuno lo ha pensato prima di te, qualcuno l’ha scritto, e tu no! Per questo motivo molti dicono che la psicologia sia finzione, esattamente come il teatro!

TEATRALMENTE #5 – Perché siamo attratti dalle storie?

TEATRALMENTE #5 – Perché siamo attratti dalle storie?

Esiste negli esseri umani una irresistibile attrazione per le storie.
Siamo sedotti dalla narrazione.
Dalle favole di bambini, ai libri sul comodino.
Andiamo al cinema e a teatro per sentire delle storie. Ed anche per altre motivazioni, certo, ma alla fine sono storie. Ci piace ascoltarle, ci piace raccontarle. È capitato senz’altro ad ognuno di noi di osservare le persone per strada e giocare ad indovinare chi fossero, quale fosse il loro mestiere, la loro età, come potesse essere il suono della loro voce, inventare la loro giornata. Creare una storia, appunto.
Se non vi è mai capitato, sono pazza perché io lo faccio spesso!

Il punto è: perché?
Gottschall nel suo libro “L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani “ esplora l’intuizione che l’attività umana di significazione possa aprire un ambiente virtuale dentro l’ambiente fisico, definendo la narrazione come un vero e proprio habitat, una biosfera aumentata che costituisce una nicchia ecologica ideale per lo sviluppo della specie umana”. Parole difficilissime ma andando avanti diventa tutto più chiaro: “la capacità di inventare e raccontare storie ha rappresentato per la specie umana un vantaggio evolutivo decisivo, uno dei tratti che l’hanno definita rispetto agli altri esseri viventi”.

Le storie anche quelle che produciamo nei sogni – allucinazioni notturne che il cervello si racconta – sono un allenamento mentale, il laboratorio di costruzione dell’intelligenza emozionale e relazionale, simulatori dell’esistenza che permettono di esercitarci a vivere. E la mente è il dispositivo programmato per processare storie e consentire alle stesse storie di modellarlo.

Esiste una spiegazione fisiologica.
Quando raccontiamo, facciamo affidamento su un’estesa rete di aree cerebrali situate in tutti e due gli emisferi. Molte di queste aree, inoltre, sono le stesse deputate alla comprensione del linguaggio.
Sapete cos’è la capacità di rispecchiamento neuronale?
I neuroni specchio sono neuroni che si attivano rispettivamente sia quando compiamo un’azione sia quando osserviamo qualcuno compierla. La conoscenza del loro funzionamento può suggerire che il momento in cui si ascolta un racconto crea il desiderio di raccontare in maniera quasi contagiosa: le storie agiscono su chi le ascolta inducendo una partecipazione corporea e mentale, che riproduce tutti gli effetti fisici e psichici impliciti nella situazione narrata.
Inoltre il nostro cervello funziona da grande risolutore di problemi. È quindi umano trovare una spiegazione, unire i puntini. Ogni input deve avere il suo svolgimento, il motivo di esistere e l’obiettivo finale e tutto deve essere dotato di senso, e a volte (come ad esempio quando raccontiamo ciò che ricordiamo di un sogno fatto) inventiamo delle storie per far si che i simboli coesistano e abbiano un senso.

Questo aspetto è strettamente collegato anche alle nostra creatività. Come la definiva Poincaré, la creatività è la capacità di unire elementi preesistenti in combinazioni nuove, che siano utili; il criterio intuitivo per riconoscere l’utilità della combinazione nuova è “che sia bella”. Ovviamente non in senso strettamente estetico, ma riferito all’eleganza, così come la intendono i matematici: armonia, economia dei segni, rispondenza funzionale allo scopo. E infatti, ancora, citando quel simpaticone di Einstein “imagination is more important than knowledge”: la fantasia, l’immaginazione, sono processi creativi della mente che trasportano il nostro pensiero al di là della razionalità e del conosciuto. Come si potrebbe scoprire qualcosa di nuovo se non si avesse la possibilità di andare oltre ciò che è già noto? Come si potrebbe allargare la conoscenza se non si avesse il coraggio di “osare” verso l’irrazionale? Nessuna scoperta sarebbe stata fatta senza lo stimolo dato dall’emozione dell’ignoto.

TEATRAL MENTE #4 – Creativa e intelligente, Mente

TEATRAL MENTE #4 – Creativa e intelligente, Mente

Cari lettori, mi ero ripromessa che il prossimo articolo sarebbe stato talmente interessante da riuscire nel tentativo di ricevere il Vostro clementissimo perdono. Ma non preoccupatevi, ci sto lavorando! Si, questo vuol dire che l’articolo che state per leggere non vi cambierà la vita.

Però alcune ricerche che sto conducendo per la scuola di specializzazione mi hanno fatto pensare a cosa sia per noi la creatività, e quanto essa sia connessa allintelligenza. Vorrei proporvi la mia risposta, magari questa darà il via alle vostre personalissime ricerche a rigaurdo e la prossima volta che trasformerete un tovagliolo in una barchetta, magari, penserete anche a questo articolo.

Prima di cominciare i miei studi la concezione di creatività si limitava alla definizione che leggevo dal vocabolario, ovvero una capacità produttiva della mente, della ragione, o della fantasia in grado di dare vita a qualcosa di nuovo, o rivoluzionare una qualsiasi opera.
Dunque per me i geni creativi erano Leonardo Da Vinci, Jimi Hendrix, William Shakespeare e tanto altri conosciutissimi artisti.

Negli anni ho ampliato questa visione ed ho cominciato ad associare la creatività ad una più ampia sfera di persone, la cui fama non è così mondiale. La creatività è un “dono” a cui tutti noi abbiamo accesso, io credo, semplicemente ognuno di noi ne fa un uso differente, o la sviluppa più tardi, o la applica in piccole cose che “non fanno la storia”. Diventava creativo colui che raccontava una storia con un origami, colui che trasformava un uovo in un pulcino, o un anguria in un fiore, e tutti coloro che mettevano in azione l’immaginazione e con determinazione la facevano diventare reale, per l’appunto, creando qualcosa di unico. La creatività artistica, nello specifico, credo sia quella più palese da notare. Grazie all’espressione della creatività artistica, l’essere umano può plasmare oggetti e dare loro un significato che non avrebbero in natura di per sé. Così l’artista stende colori su una tela o trasforma un blocco di marmo in un «David», allo stesso modo in cui mia zia trasformava una mollica di pane in una rosa.
 

Studiando neuropsicologia ho scoperto che la creatività nasce dalla capacità associativa dell’emisfero destro di coniugare o trasformare i concetti remoti in idee nuove ed utili. Più o meno la stessa cosa che sta scritta sul vocabolario, ma con parole un po’ più difficili. Però ho scoperto anche che oggi le neuroscienze riescono a mettere in luce la propensione creatrice dell’uomo rendendola molto più che un dono, bensì “l’espressione paradigmatica della nostra natura umana”. Risulta quindi abbastanza facile avvicinare la definizione di creatività a quella di intelligenza. Nonostante i molteplici tentativi di formulazione di una definitiva descrizione dell’intelligenza, riusciamo ad indentificarla senz’altro come l’insieme delle facoltà cognitive ed emotive utili a risolvere problemi non ancora affrontati e quindi nuovi.

 

A questo punto mi viene da pensare che l’intelligenza, tra le facoltà come la memoria, il linguaggio, l’attenzione, inglobi anche la creatività, in quanto essa contribuisce in svariati modi alla risoluzione di problemi.  Grazie alla nostra capacità creativa riusciamo ad osservare le cose da una prospettiva più alta. Come se la nostra mente contemplasse, oltre alle strade tradizionali, un’illimitata lista di eccezioni magari più colorite e meno ortodosse che ci conducono alla meta, regalandoci persino il rischio di divertirci!

TEATRALMENTE #1 – Teatro&Psicologia

TEATRALMENTE #1 – Teatro&Psicologia

Definiamo ‘psicologia’ la scienza che studia il comportamento dell’uomo e col termine comportamento riassumiamo tutte le reazioni obiettivamente osservabili, cioè l’insieme dei fenomeni che possono essere osservati in un individuo, i quali  comprendono non solo gesti e parole, ma anche l’espressione delle reazioni individuali e la loro interpretazione.
Attore: interprete di una azione, persona che prende parte attivamente in una vicenda, colui che studia e indossa il personaggio da portare in scena.
Il teatro.. è il mezzo di cui si serve l’attore!

Ci troviamo, dunque, di fronte ad un sillogismo.

Se l’attore è colui che, in teatro, interpreta ed esprime tramite l’azione, e se la psicologia è la scienza che studia il comportamento, si potrebbe concludere che la psicologia studia l’attore.. che studia un personaggio.

“Se il teatro è rappresentazione, è la vita ad essere messa in scena”. 

Molte attività creative e artistiche rappresentano per l’uomo sia l’opportunità  di conoscere e comunicare le proprie emozioni permettendone l’ espressione, sia l’ occasione di riprodurre la realtà, o il proprio modo di vederla; consentono di sperimentare aspetti di sé stessi, appagando in molti casi il desiderio comune ad ogni persona  di lasciare un segno, essere ricordato, ma soprattutto essere capito.
Il teatro dunque nasce dalla ricerca di un linguaggio, dalla curiosità di sapere, dal desiderio di “farsi sentire, e far sentire”.
Come può non venire in mente che quanto appena detto sta alla base di quella che ora definiamo la scienza del pensiero, che prima di diventare scienza, consisteva nel primitivo bisogno di porsi domande? 

Si pensi in primo luogo a Grotowski, Brook, Barba, che negli anni ’60 hanno dato vita a nuovi laboratori teatrali intesi, per la prima volta, come “setting di ricerca e sperimentazione” in cui l’attore non lavora più sul prodotto, ma sul processo. Oppure a Stanislavskij che ha suggerito l’importanza del processo d’identificazione, estremamente complesso e necessario nel lavoro di formazione dell’attore, il ‘calarsi totalmente nella parte’, individuare e riprodurre gesti, atti e piccole azioni che insieme delineano le peculiarità del personaggio.

“L’attore non diviene il personaggio che impersona, ma si avvicina con le proprie esperienze interiori alla parte, sperimentando parallelamente la realtà soggettiva e quella oggettiva”. (Valmori Bussi) 

Restando sul tema dell’identificazione va citato Diderot, che ribalta la visione del maestro russo,  sostenendo l’idea di un certo distacco tra l’attore e il suo personaggio con il quale si deve evitare una totale identificazione. Secondo Diderot, l’attore deve essere in grado di restare sufficientemente distante dal personaggio da non farsi sopraffare da emozioni reali che appartengono all’individuo dentro l’attore, e non al personaggio.
Dunque, l’espressione e la comunicazione delle emozioni sono aspetti centrali  a teatro quanto in psicologia, e lo stesso vale anche per l’utilizzo del ruolo. A teatro usiamo questo termine per indicare il personaggio che andrà in scena: la possibilità di vestire i panni di un personaggio rappresenta un immaginario ponte tra l’identità (uno psicologo direbbe “l’IO”) dell’attore e quella della persona in scena. Gli psicologi colgono un’interpretazione del termine ruolo come opportunità di scoperta di aspetti del proprio sé non quotidiani. Vi sono infatti, in ogni individuo, tratti del proprio essere non ancora consapevoli, o rifiutati dalla propria coscienza, che però possono essere scoperti e vissuti  grazie alla maschera imposta dal personaggio, una “dimensione sicura” che consente di mettere da parte la propria linea di condotta, lasciandosi andare alla guida di ‘quello che farebbe il personaggio’.
A questo proposito, quei ruoli che risultano socialmente non accettati, possono rappresentare aspetti della personalità, o tratti nascosti, che probabilmente ognuno di noi possiede e che vengono esteriorizzati, esasperati e portati in scena. In questo modo un attore può sperimentare emozioni nuove, scegliendo in un certo senso quelle più giuste da trattenere nella propria “immagine di sé”.

“Recitare la parte di qualcuno permette di andare oltre i limiti usuali della propria immagine” (Edward De Bono).

 

 

Anche nel contesto scientifico si ricorre spesso alla metafora del teatro.
Freud primo fra tutti a parlare di psicoanalisi, si ispira ai miti ed alle tragedie greche. Il Complesso di Edipo, o il complesso  di Electra ne sono un esempio.
Nel campo delle neuroscienze, le due realtà condividono alcuni processi psicofisiologici fondamentali come l’atteggiamento, la personalità, la postura, la voce ed il gesto, la comunicazione e il linguaggio, l’espressione dell’emozione.
In psicologia sociale, il termine ruolo, mutuato dal teatro, riferito all’azione che ci si aspetta da colui che occupa una determinata posizione sociale, ha incoraggiato e stimolato molti psicologi ad indagare su “il sé in un modo sociale”. Il più famoso esperimento condotto a riguardo, è quello effettuato da Zimbardo nell’istituto Carcerario di Stanford, con il quale lo psicologo statunitense voleva dimostrare che “ciò che inizia come la consapevole rappresentazione di un ruolo, nel teatro della vita, viene gradualmente assorbito nella percezione del sè: l’assunzione di un ruolo diventa quindi realtà, l’irreale può insidiosamente trasformarsi in reale”.
Tra i molteplici metodi applicati in Psicoterapia, la Dramma Terapia, nata a cavallo degli anni ’70 e ’80, consiste in un approccio interdisciplinare che ha come obiettivo quello di incoraggiare, potenziare la creatività e le abilità espressive delle persone tramite l’impiego di strutture teatrali e processi drammatici. Viene utilizzata come efficace strumento di comprensione e alleviamento di disagi sociali e psicologici.
Molto simile è il concetto di psicodramma fondato dallo psichiatra Levi Moreno, il quale fondò il “teatro della spontaneità” in cui veniva messa in scena la realtà senza che vi fossero prove precedenti alla rappresentazione; il pubblico era chiamato ad intervenire attivamente. Da questa esperienza nacque lo psicodramma, una forma di “azione terapeutica” che consiste in una terapia di gruppo in cui i partecipanti si esprimono spontaneamente.
Il Role-playing, utilizzato come metodologia di lavoro di gruppo finalizzato a scopi non direttamente terapeutici, prende spunto dallo psicodramma. Infatti si tratta di uno strumento di formazione e preparazione di capacità di tipo professionale che prevede l’assunzione di un ruolo da parte di una o più persone, protagonisti di una vera e propria recita che mira a rappresentare una scena simile a quella che può verificarsi in azienda oppure tra professionista e cliente. Questa tecnica favorisce l’osservazione, l’imitazione, l’empatia e l’analisi, ma soprattutto incoraggia alla consapevolezza dei propri atteggiamenti, palesando sentimenti e vissuti legati alla situazione creata e permettendo agli psicologi di perfezionare le proprie tecniche e le proprie modalità di interazione. 
Ancora si potrebbero citare la tecnica della sedia vuota, che viene utilizzata maggiormente dagli psicologi Gestaltisti; l’antica scienza della fisiognomica, in continua evoluzione da Aristotele ai giorni nostri; il modello psicofisiologico dell’emozione, o le teorie classiche delle emozioni partendo dall’etologia darwiniana ed altri spunti di cui parleremo in questo blog nei prossimi articoli.

Dunque le due entità che abbiamo esaminato non sono poi così lontane, tutt’altro, si influenzano a vicenda.
Teatro e psicologia sono a mio parere due realtà che coesistono nell’attore così come nello spettatore, dopotutto parliamo di mente e corpo, di pensieri ed emozioni,e di tutto ciò che ci permette di sentirci vivi.

 

FONTI E COLLEGAMENTI

Ruggieri, V. “L’esperienza teatrale: inquadramento psicofisiologico.” (1996): 22-29.

Ruggieri, V.  “L’identità tra Psicologia e Teatro.”,( 2007). 

Ruggieri, V.  “Mente Corpo Malattia. Il Pensiero Scientifico”, Roma, (1988).

Valmori Bussi, C. “Drammaterapia e psicodramma” in Artiterapie 2-3, (2003).

De Bono, E.  “Sette cappelli per pensare.”, (1997): 24. 

Diderot, D. “Il paradosso sull’attore.” (trad. A. Moneta), Rizzoli (B.U.R.), Milano,  (1960).

Stanislavskij, S.C.” Il lavoro dell’attore” (trad. E. Povoledo), Laterza, Bari,  (1985).

Caroli, F. “Storia della fisiognomica: arte e psicologia da Leonardo a Freud”. Leonardo, (1995).

Myers D.G., “Psicologia Sociale”, McGraw-Hill, (2008).

Quaglino, G. P., Casagrande S., Castellano, A. “Gruppo di lavoro, lavoro di gruppo.” Raffaello Cortina Editore, Milano (1992).

http://www.sapere.it/sapere/strumenti/studiafacile/psicologia-pedagogia/Psicologia 

http://www.psicologialavoro.it

http://www.psicologico.eu/teatro.html