Teatro, tra discriminazione e denuncia. Intervista ai Corps Citoyen

Teatro, tra discriminazione e denuncia. Intervista ai Corps Citoyen

Tra i primi spettacoli presentati a Santarcangelo festival 2050 – II movimento, Gli altri dei Corps Citoyen ha colpito per la capacità di mostrare in maniera cristallina la stereotipizzazione che la società occidentale applica costantemente a chi proviene da fuori, in questo caso un Paese arabo. Il nucleo della compagnia è composto da Anna Serlenga, regista e Rabii Brahim, attore. Vivono a Milano, dopo aver lavorato per anni in Tunisia, Paese di provenienza di Brahim. La rappresentazione è fortemente radicata nelle esperienze reali del gruppo, infatti l’angolo visuale è proprio quello del lavoro attoriale, nello specifico della violenza delle richieste nei casting e nella ristrettezza dei ruoli che vengono «permessi» ad un interprete arabo. 

Brahim incarna il continuo e frustrato tentativo di presentarsi per ciò che è e non per un prodotto subculturale precostituito. Sulla scena anche Marko Bukaqeja e Anja Dimitrijevic che, manovrando la telecamera, rendono possibile la riuscita interazione con il video, utilizzato per interpellare la cattiva coscienza degli spettatori e renderli parte del sadico gioco discriminante. 

Abbiamo parlato con la compagnia, fautrice anche di diversi lavori partecipativi sul territorio per abbattere le barriere colonialiste, al di qua e al di là del Mediterraneo.

Lo spettacolo trasmette molto dolore, perché di fatto parla di una violenza legata all’immaginario collettivo che però si scatena sempre su un singolo. Come avete maneggiato questa emozione nel costruire il lavoro?

Rabii Brahim: Abbiamo usato l’ironia, perché fa piuttosto ridere che ancora oggi parliamo di razzismo ed esclusione, per giunta nell’ambito della produzione culturale. Alcuni ci hanno detto che è sbagliato che lo spettacolo sia divertente, ma secondo noi era il modo giusto per affrontare queste tematica. 

Succede questo ancora oggi: quando vado a fare dei provini, i ruoli che mi propongono sono spacciatore, rider…in qualche modo siamo anche noi attori e attrici afrodiscendenti ad alimentare questa macchina tritatutto, perché non ci siamo mai rifiutati in massa di accettare queste proposte, trattandosi di lavoro. Personalmente però ho detto di no alcune volte. Ci siamo chiesti come denunciare la situazione che viviamo e il risultato è stato quello di fare lo spettacolo, non è stato il presupposto.

Anna Serlenga: Molti provini che Rabii ha vissuto poi sono confluiti nello spettacolo, tutto ciò che si vede proviene da esperienze reali. Questo lavoro ha avuto una gestazione molto lunga, innanzitutto perché siamo una compagnia indipendente senza nessun supporto produttivo. Questo progetto è stato possibile grazie a tante persone che ci hanno aiutato e ad alcune residenze, abbiamo provato anche in spazi occupati come il Conchetta a Milano. Poi c’è stata la pandemia, i materiali video presenti li abbiamo raccolti nel periodo delle chiusure, non potendo lavorare abbiamo pensato di lanciare questo finto casting a «gli altri», che poi sono amici e colleghe che vivono in giro per l’Europa. 

Volevamo partire dal nostro mondo, dalle nostre storie personali e dal contesto del lavoro teatrale, ma è un modo per raccontare la società intera. Lo stesso dispositivo di potere ed esclusione si replica ai colloqui di lavoro, alle poste, al bar. L’ultima residenza l’abbiamo fatta allo spazio indipendente Tatwerk di Berlino, promotore di un attento lavoro di cura e supporto delle compagnie. L’esito di quelle giornate è stato un esperimento su un canale digitale live, che ci ha permesso di far vedere lo spettacolo anche a tante persone che abitano in altri Paesi e che ci si sono ritrovate.

Dei tanti stereotipi che vengono evocati, colpiscono quello della ricerca insistente dell’attrice e dell’attore completo e la richiesta di aderire al folklore dei Paesi di provenienza, facendone un utilizzo umiliante.

R.B: Nei casting ci sono sempre delle richieste sottili non dichiarate. Noi le abbiamo esplicitate: pretendono che tu sappia cantare, ballare, suonare contemporaneamente, sostanzialmente devi fare la scimmia davanti a chi seleziona e poi chissà se ti prenderanno o meno. 

A.S: È il concetto di integrazione subalterna. A chi viene da fuori viene richiesto di integrarsi, ma per riuscirci deve fare moltissime cose che a noi italiani nativi non vengono richieste: conoscere tutta la costituzione, fare un giuramento eccetera. Loro devono essere «completi» e competenti, saper fare tutto, poi qualcuno deciderà cosa possono fare o meno. Amleto non gli verrà mai affidato come ruolo, se va bene Otello, mentre per lo spacciatore non ci sono problemi. Con Viviana Gravano, un’esperta di post-coloniale, abbiamo fatto un ragionamento molto interessante: quando ci rapportiamo alla cultura altrui, la consideriamo come immobile. Gli altri non sono nella linea del progresso o della storia, quindi dell’Africa ci si fa l’immagine del gonnellino di paglia o simili, se sei africano sicuramente saprai suonare il tamburo e avrai il ritmo nel sangue. 

Il punto è la cancellazione dell’individuo, dei suoi gusti e preferenze, perché viene ricondotto sempre ad uno stereotipo.

A.S: Esatto, infatti quando nello spettacolo viene chiesto a Rabii di raccontare la propria vita, le sue parole vengono stravolte per ricondurle al discorso desiderato. La biografia del singolo deve ricalcare una storia che è già scritta a prescindere. Perché la migrazione viene trattata come una questione di ordine pubblico, di sicurezza, di ingresso illegale in Italia. Quindi si sta già comunicando che è sotteso un pericolo e si crea un tipo di immaginario.

Si è concluso il primo anno di Milano Mediterranea, il progetto a cui avete dato vita nel quartiere Giambellino per intersecare lavoro sul territorio e ricerca artistica con un approccio post-coloniale. Andrà avanti anche il prossimo anno?

A.S: Sì, andrà avanti perché siamo riusciti a vincere un bando per finanziarlo. Faremo alcuni aggiustamenti ma il cuore del lavoro territoriale con le diverse anime che abitano il quartiere rimarrà. Stiamo ragionando sull’opportunità di dotarci o meno di uno spazio, la modalità nomade ci ha spinto a parlare con gli altri, abbiamo creato tante sinergie con realtà come Colorificio, Base, Marea Culturale. È un processo ancora in divenire.

Performare la rete. Voci e pensieri da Feminist Futures

Performare la rete. Voci e pensieri da Feminist Futures

Trovare la grammatica, le parole, le modalità per un confronto aperto e profondo tra teatri, luoghi di creazione, festival, artisti e artiste. Dall’1 al 3 luglio si è svolto il primo incontro del nuovo corso di apap_advancing performing art project, a cui ha fatto da corollario un festival aperto al pubblico con una programmazione internazionale curata da Barbara Boninsegna e Filippo Andreatta

Qui a Centrale Fies lo sanno bene: essere decentrati rispetto ai grandi centri di attenzione regala la possibilità di riflettere, studiare, approfondire e stringere legami, attività molto più complesse se trasportate in contesti sovraesposti, dove alla semplicità dello scambio si frappongono fin troppi schermi, concreti e metaforici.
Gli interrogativi sollevati dalla rete in questo confronto interno durato tre giorni sono, peraltro, non di poco conto e potrebbero riassumersi nella seguente domanda: come può un’istituzione artistica essere realmente inclusiva, senza eludere le difficoltà e le contraddizioni? 

Una questione non semplice alla quale apap proverà a rispondere nel corso di quattro anni nel progetto chiamato Feminist Futures — un nome che sta ad indicare la prospettiva adottata dalla rete, che corre forse il rischio di essere un po’ specifico rispetto alla varietà dei temi in gioco — con appuntamenti che si svolgeranno in modalità itinerante tra i diversi centri partner, che vale la pena elencare: BIT Teatergarasjen (Bergen, Norvegia), InSzPer Performing Arts Institute (Varsavia, Polonia), Maison de la Culture Amiens (Francia), Reykjavík Dance Festival (Islanda), SZENE Salzburg (Austria), Tanzfabrik Berlin (Germania), Station (Serbia), Teatro Nacional D. Maria II (Lisbona, Portogallo), Theaterfestival Boulevard (Hertogenbosch, Olanda), Kunstencentrum BUDA (Belgio), oltre, naturalmente, a Centrale Fies.

Nelle tre mattinate si sono dunque svolti incontri, workshop e lectures raggruppati sotto il nome di Feminist School, con il coordinamento della ricercatrice universitaria Mariella Popolla che ragiona sul lavoro svolto: «Bisogna tenere presente che questa non è una scuola di teorici, ma di un network che mette insieme istituzioni e artist_. La grande sfida è fare propri i temi di cui si è parlato in questi giorni, ognuno nei propri contesti organizzativi e nelle pratiche lavorative. Di sicuro tutti i partecipanti, in sintonia con un approccio tipico del femminismo, sono partiti da sé: hanno portato la propria esperienza singolare e situata e l’hanno condivisa con tutto il gruppo». 

Secondo Popolla inoltre il travaso con la pratica artistica è una grande opportunità: «Nel momento in cui un’organizzazione rende i suoi processi produttivi e le sue pratiche lavorative eque, inclusive, intersezionali, gli immaginari che verranno veicolati emergeranno in modo quasi naturale. Adottare questa prospettiva dal punto di vista artistico permette poi di uscire dalla dinamica della didascalia».

Restando proprio sul versante artistico, sono tanti i gruppi che si sono esibiti in questi giorni a Centrale Fies. I Sotterraneo hanno portato il nuovo lavoro, Atlante linguistico della Pangea, un’interessante riflessione sul tema delle parole intraducibili che si muove tra la malinconia dei mondi che si perdono irrimediabilmente e lo spiccato senso del comico insito nel linguaggio. Chiara Bersani con The Whale Song / Il Canto delle Balene propone la fruizione di due universi paralleli, uno quotidiano ed uno lontanissimo per noi seppur co-esistente, con la figura di Matteo Ramponi che fluttua in maniera indecidibile tra le due dimensioni. 

Harun Morrison presenta un toccante lavoro di scrittura, Nothing Special, dove vengono elencati 365 piccole increspature che ci capita di vivere tutti i giorni, ed interessante era notare quando ci si impersonava in pieno in quella piccola gioia o in quel banale fastidio e quando ciò non accadeva. Il coreografo giapponese Michikazu Matsune ha portato sul palco una delicata e ben strutturata performance chiamata All together sulle persone conosciute nel passato e nel presente, assenti e non. E ancora si sono esibite Kate Mcintosh, Anne Lise Le Gac, OHT, Tatiana Julien

Eva Geatti, performer del gruppo Cosmesi, ha curato la regia e presentato per la prima volta L’uomo che accarezzava i pensieri contropelo ispirato a Renè Daumal, che introduce così: «Ho letto Il Monte Analogo molti anni fa, è un romanzo bellissimo, pieno di stranezze. Daumal è un autore eclettico che si è sempre occupato dell’ambito spirituale: è una figura marginale che ha toccato tutti quei margini che a me interessano, era vicino al surrealismo e alle avanguardie ma non le ha mai abbracciate in pieno. Il romanzo è l’unico che termina con una virgola, la leggenda racconta che mentre stava scrivendo si alzò per andare ad accogliere un ospite alla porta e poi non è mai più tornato a quel foglio, perché è morto poco dopo. 

Il primo capitolo, la parte su cui mi sono concentrata, è l’incontro di persone completamente differenti che credono però che esista questo Monte Analogo. Così si uniscono per la missione di scalarlo. Il lavoro consiste proprio in questo accordo: i performer lavorano ognuno per sé fino a trovarne uno. Non hanno una partitura scritta e anche la durata della composizione è variabile. Hanno uno standard su cui si muovono ma poi c’è un costante lavoro di invenzione, molto legato al situarsi nello spazio». 

Anche la musica, eseguita live, è una parte importante della performance e si intreccia con il percorso di Geatti in più modi: proprio in questi giorni è uscito Donna Circo, «un disco femminista che è stato scritto e inciso nel ’74 ma poi non è mai stato distribuito, quindi caduto nell’oblio. I testi sono stati composti da Paola Pallottino, una paroliera di Bologna molto importante, lo abbiamo arrangiato nuovamente e cantato in quindici artiste del territorio. Paragona la condizione della donna a quella di un circo: la banda, gli elefanti, la trapezista, ognuno ha un ruolo con delle dinamiche ancora molto attuali». Un modo per chiudere il cerchio di queste giornate: tra il circo del passato e del presente, invochiamo le performance del futuro.

Il potere dei ventenni. Maura Teofili  racconta Powered by REf

Il potere dei ventenni. Maura Teofili racconta Powered by REf

Powered by REf

Inserirsi in quell’età di passaggio che va dai venti ai trent’anni fornendo strumenti e conoscenze per affrontare le complesse dinamiche del palcoscenico. È questo lo spirito di Powered by REf, l’opportunità messa in campo dal Romaeuropa Festival per la seconda volta nell’ambito della sezione Anni Luce dedicata alle giovani generazioni. 

Una proposta che risponde a diverse mancanze: sicuramente quella di un budget produttivo per chi è ancora agli esordi ma anche di percorsi formativi che permettano di orientarsi in un mondo complesso, non solo dal punto di vista artistico ma anche tecnico e organizzativo. Insomma una finestra per affacciarsi sul mondo dei professionisti grazie alla collaborazione di numerose realtà radicate sul territorio: Carrozzerie_n.o.t, 369gradi, ATCL – Circuito Multidisciplinare del Lazio, Spazio Rossellini, Periferie Artistiche – Centro di Residenza Multidisciplinare Regione Lazio e Teatro Biblioteca Quarticciolo

La curatrice della sezione Anni Luce e coordinatrice del progetto è Maura Teofili, una figura importante per la scena artistica romana in particolare per quanto riguarda la formazione e il sostegno alla creazione. È infatti co-direttrice di Carrozzerie_n.o.t, spazio indipendente che, dopo numerose difficoltà, sembra poter finalmente riprendere le attività. 

Nel frattempo abbiamo chiesto a Maura Teofili di illustrarci meglio quest’opportunità offerta dallo storico festival internazionale di arti performative – la call scade il 20 luglio.

Quali sono le novità rispetto all’edizione dello scorso anno?

Quest’anno la proposta è più strutturata, tutti i partner coinvolti si sono impegnati per fornire risorse importanti. Riusciremo ad assicurare quindici giorni di residenza retribuita ai progetti vincitori grazie al Centro di residenza della Regione Lazio, con un intero teatro a disposizione e più tempo per lavorare sulla proposta. Ci sarà un percorso di affiancamento con un tutor tecnico che permetterà di affrontare il palcoscenico a cui si aggiungeranno degli incontri per spiegare le basi della contabilità a cura di 369gradi. Abbiamo previsto poi delle fasi di feedback artistico con la partecipazione di tutti i partner, affinché i gruppi possano elaborare e rendere accessibili agli altri le loro idee. 

Lo scorso anno questo tipo di confronto è avvenuto al margine di quanto previsto dalla call, stavolta lo abbiamo reso parte integrante dell’opportunità. Gli spettacoli dei gruppi vincitori saranno presentati al Romaeuropa ma quello non sarà il momento finale, sarà solo un passaggio nel percorso di messa in scena. Quell’esperienza permetterà un confronto a partire dal quale i progetti si consolideranno poi nella seconda fase di residenza, a cui seguirà la presentazione finale. 

Credi che il mondo delle arti performative sia attualmente accessibile alle giovani compagnie?

Le occasioni per accedere al settore sono limitate, bisogna implementarle per sfondare quella «soglia». Romaeuropa accoglie artisti molto importanti, ma proporre un’opportunità come Powered by REf serve a dimostrare che è fondamentale creare possibilità di incontro e relazione per ascoltare le voci delle giovani generazioni. In generale la sezione Anni Luce sta diventando un laboratorio, l’intenzione del direttore artistico Fabrizio Grifasi è di andare a cercare il potenziale che c’è tra i giovani, con la possibilità di intercettare anche quelle che sono delle primissime volte. È importante ascoltare quello che i ragazzi e le ragazze hanno da dire, anche se è ancora acerbo bisogna coglierne le possibilità di sviluppo e aiutarli a realizzarle.

Sei soddisfatta del percorso che hanno svolto i progetti vincitori dello scorso anno?

Sì, siamo molto contenti di come si sono sviluppati i progetti, quello di Secteur in.Verso — una compagnia italo-francese composta da tre ragazze — sarà ospitato nella prossima edizione di Anni Luce. È uno spettacolo che mette a fuoco il rapporto tra essere umano e ambiente in chiave ecologica, con una grande preparazione teorica alle spalle. Le ragazze state molto mature nel trovare autonomamente altri partner che le sostenessero, sia in Francia che in Italia. Anche gli altri progetti però non sono stati abbandonati, continua un’attenzione e un dialogo per aiutarli ad individuare occasioni di crescita e formazione che sono importanti affinché capiscano anche cosa non vogliono dire, cosa non vogliono fare, quali sono i linguaggi che non li riguardano. 

Cosa vorresti vedere da parte degli artisti che si presenteranno quest’anno?

Io mi accingo all’attesa dei progetti con uno spavento entusiasta, ho grande fiducia e spero sempre di trovare una proposta che mi inchiodi alla sedia e che non mi lasci alternative. In questo momento però credo che dobbiamo renderci conto che un anno e mezzo lontani dalle scene, con l’impossibilità di vedere teatro e di alimentarsi, avrà un effetto sui giovanissimi. Spero di essere presa in contropiede dalle richieste, di trovare qualcosa di inatteso. Abbiamo l’occasione di dialogare nuovamente con il pubblico in una modalità che non è più neutra, la situazione ha sviluppato un’attenzione maggiore anche sui contenuti. La tempesta è appena passata, forse stiamo vivendo gli strascichi. 

Ci ritroviamo in una terra molto fertile a livello di tematiche, ma il tempo di elaborazione è ancora da venire. In questo spazio lo sguardo degli artisti — e non parlo solo dei giovani naturalmente — può inserirsi in maniera imprevedibile. Forse non riusciremo ancora quest’anno a vedere spettacoli che si interrogano su questi temi, ma mi aspetto che tutto ciò agirà nei progetti presentati, anche se parleranno di argomenti che non hanno connessioni specifiche, perché saranno portate e vissute dagli spettatori. È un contesto che rende il dialogo molto concreto e contemporaneo e sarà importante per i linguaggi futuri, perché ci sarà un grande bisogno di aiuto per rielaborare tutto quello che è accaduto.

Breviario di relazioni possibili e ibridazioni fantastiche. Intervista ai Motus

Breviario di relazioni possibili e ibridazioni fantastiche. Intervista ai Motus

Una festa lunga due anni: il cinquantesimo anniversario del Festival di Santarcangelo terminerà con la prossima edizione, l’ultima della direzione artistica dei Motus. Dall’8 al 18 luglio ci si riunirà ancora per immaginare un «futuro fantastico» che sia sempre più inclusivo, alle frontiere della sperimentazione non solo nel teatro ma anche nel pensiero e nelle relazioni.

Un programma con molteplici centri di interesse dove perdersi è forse il giusto approccio, perché l’artista affermato di casa nostra e la nuova proposta da un continente straniero possono dialogare alla pari in un contesto dove i valori tradizionali della scena vengono depotenziati in favore di sguardi nuovi. Il fulcro della ricerca sarà infatti nella relazione con ciò che è abitualmente più distante, affinché il contatto possa generare cortocircuiti e mutazioni: shapeshifter o mutaforma è la figura sotto cui l’egida prenderà vita il festival. Un’elaborazione che deriva dall’approfondimento dei temi già emersi lo scorso anno, il superamento dei generi diviene infatti messa in questione delle barriere tra umano e non umano.

Una costellazione di questioni che verrà affrontata collettivamente non solo attraverso i numerosi spettacoli e incontri ma anche con un esperimento ad hoc: l’accampamento How To Be Together. Un gruppo di persone selezionate tramite call (con scadenza il 23 maggio) passerà l’intero periodo del festival immaginando nuove forme di convivenza, sia nell’atto concreto del dimorare insieme che negli specifici percorsi di studio e ricerca.

Il rapporto con l’alterità non poteva non prevedere incursioni nei territori di mondi artistici affini, quest’anno il programma dei concerti sarà curato da Christopher Angiolini del Bronson e non mancheranno numerosi appuntamenti con il cinema. Arrivando alle performance e al teatro, possono essere individuati tre grandi nuclei: la partecipazione internazionale, quasi impossibile lo scorso anno, stavolta sarà rappresentata soprattutto da artiste provenienti da Paesi extraeuropei; la sezione dedicata ai «nuovi inizi» ospiterà i gruppi che avrebbero dovuto esibirsi nella finestra invernale Winter Is Coming; infine, i numerosi ritorni delle compagnie del cuore: Ermanna Montanari, Romeo Castellucci, Fanny&Alexander, Zapruder e molti altri, spesso impegnati in progetti collaborativi o creati appositamente per il festival.

Delle difficoltà incontrate nel realizzare queste edizioni, ma anche della peculiare idea curatoriale che ha guidato le scelte e del rapporto con le giovani generazioni, abbiamo parlato con i direttori artistici Daniela Nicolò e Enrico Casagrande.

Che tipo di esperienza è stata organizzare questo cinquantennale in tempi pandemici?

Daniela Nicolò: Sentivamo molto la responsabilità di questo appuntamento, considerato che abbiamo presentato al festival ventisei spettacoli nel corso di ventidue edizioni a cui abbiamo partecipato. Il lavoro di preparazione era già iniziato da diverso tempo quando ha fatto irruzione la pandemia. È stato, come per tutti, un evento inaspettato che era però in consonanza con i nostri interessi per i film e la letteratura di fantascienza, dove il 2020 era un anno al centro di visioni distopiche. 

La nostra carica a fare il festival però era molto forte, anche con un po’ di incoscienza abbiamo sempre voluto provarci, per cui è iniziato un lavoro di reinvenzione rispetto agli artisti e alle artiste invitate ma anche degli spazi, perché questa impostazione così improntata all’aperto è nuova e forse è stata la più grande rivelazione dal punto di vista organizzativo, scoprire la potenzialità di questi luoghi naturali. 

C’è stata poi la situazione difficile dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo, noi siamo legati a quel movimento e abbiamo supportato le occupazioni dei teatri. Anche in quest’ottica abbiamo cercato di dare lavoro a tutta una serie di maestranze locali e l’équipe del festival si è fortemente coalizzata, potendo portare avanti le attività in un periodo così complesso. La risposta degli abitanti di Santarcangelo poi è stata bellissima, perché nessuno si aspettava in quel momento che potesse accadere qualcosa come l’edizione dello scorso anno.

Come nasce l’esperimento How To Be Together?

Enrico Casagrande: Si tratta di un campo che costruiremo all’interno di un bosco cittadino dove cinquanta individui cercheranno di vivere insieme, con l’aiuto di alcuni «facilitatori», per capire come intrecciare relazioni e come rapportarsi al qui ed ora in una maniera che sia anche utopica. Sarà un prototipo che spero proseguirà con la prossima direzione artistica, per la riappropriazione di uno spazio fisico in un momento in cui è ancora più urgente, dopo il grande utilizzo che abbiamo fatto del digitale. 

L’anno scorso è stato molto difficile, ma allo stesso tempo ci trovavamo in un momento in cui si credeva che il mondo potesse cambiare. Quest’anno sento un po’ più di stanchezza, perché c’è la sensazione che si stia cercando di tornare a tutti i costi alla «normalità» precedente. Il festival di luglio rifletterà su questi argomenti attraverso un approccio antropologico, sociologico, artistico.

D.N: La pandemia ha reso ancora più evidenti le disparità, è il momento di agire per mettere in discussione il modello a cui si vorrebbe tornare. Tutti gli incontri del festival proporranno  delle pratiche possibili, non solamente delle analisi, improntate alla solidarietà e alla comunanza. Altre forme di vivere insieme come «specie compagne», secondo il sottotitolo di questa edizione, per abbattere i confini non solo tra i generi ma anche nella relazione con gli altri esseri viventi, in linea con una matrice antispecista che ci appartiene. 

È importante per noi anche proporre degli eventi gratuiti negli spazi pubblici, una questione su cui c’è grande criticità perché il ministero non contempla spettacoli dove non vengono emessi biglietti, come sarà ad esempio per la performance Grand Bois di Bluemotion e Fanny & Alexander che si svolgerà sui tetti e sui terrazzi del centro storico.

Nello «statement artistico» di questa edizione scrivete che avete provato ad evitare ogni forma di forzatura nell’esposizione delle opere nate in quest’ultimo anno.

E.C: Questo festival si basa molto sulla fiducia negli artisti e nelle artiste che stiamo invitando. Ci siamo astratti da quell’idea curatoriale per cui prima si vede uno spettacolo, lo si valuta e poi lo si sceglie. Il teatro sta diventando un po’ un mercato e volevamo smarcarci da questa visione, concentrandoci su gruppi che propongono un discorso politico ed etico. Penso sia un grande atto di coraggio e di comunione, noi stessi in quanto artisti sentiamo il bisogno di porci in altro modo rispetto alla curatela classica.

D.N: Inoltre quest’estate accoglieremo tutte le compagnie che avrebbero dovuto esibirsi in Winter Is Coming, la sezione invernale che purtroppo si è potuta svolgere solamente online. Ci siamo chiesti molto come un festival possa tutelare questi artisti e artiste per non esporli in maniera brutale, considerato che durante quest’anno hanno avuto poche possibilità per lavorare e consolidare i propri spettacoli. Parliamo di gruppi giovani e poco conosciuti, senza sostegni e spazi adatti per le prove o per le residenze. 

Per loro quindi creeremo un palco apposito, più raccolto ed intimo, perché hanno bisogno di essere protetti. Mi sta molto a cuore perché anche noi veniamo da quel percorso: provavamo in una discoteca abbandonata agli inizi. Oggi ci sono anche molti meno centri sociali disponibili per accogliere le compagnie rispetto agli anni ’90. Mark Fisher l’ha spiegato molto bene: con la gentrificazione è cambiato un mondo e il turbocapitalismo rischia di gettare le giovani generazioni nella depressione se non gli si danno possibilità e strumenti.

Nella programmazione c’è grande spazio per realtà internazionali e al femminile.

E.C: C’è una grande presenza di artiste donne in tutti i ruoli e questo ci fa molto piacere, visto che le programmazioni vedono spesso numerosi registi maschi e bianchi. Abbiamo concentrato poi un’attenzione particolare sul Sud America, con gruppi provenienti dal Brasile, dal Messico, dal Cile. Nonostante la situazione difficile che vivono questi Paesi ci sono delle scene estremamente vive e quindi siamo contenti di condividere questo festival anche con loro.

D.N: Spesso poi queste artiste stavano già lavorando su tematiche affini alle nostre. Amanda Piña, coreografa e regista messicana, è interessata al rapporto con la Terra e al cambiamento climatico. La regista e drammaturga cilena Manuela Infante fa una riscrittura delle metamorfosi di Ovidio in chiave femminista, in sintonia con il concetto di mutaforma centrale per questa edizione. La performer brasiliana Gabriela Carneiro da Cunha è impegnata invece con i popoli dell’Amazzonia e tramite lei speriamo sarà possibile realizzare un sogno: entrare in dialogo con l’antropologo Eduardo Viveiros de Castro.

È tempo di rifare il mondo, perché nemmeno l’arte è un Campo Innocente

È tempo di rifare il mondo, perché nemmeno l’arte è un Campo Innocente

«Remake the globe» è lo slogan che ha accompagnato la temporanea occupazione del Globe Theatre, una mobilitazione della Rete delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo di Roma che si è svolta dal 14 al 18 aprile 2021. Cinque giornate di confronti, elaborazione, dibattito con due richieste principali: l’attivazione di un tavolo interministeriale per avere voce in capitolo nel processo che porterà alla riforma del settore e, con sguardo più ampio, un reddito di base incondizionato che permetta una vita dignitosa a tutto l’universo precario.

Tra le diverse realtà che che compongono la rete «Il campo innocente» si distingue per l’attenzione rivolta alle tematiche della violenza di genere e del sessismo nel mondo dello spettacolo. Questo, almeno, ad una prima lettura; andando più a fondo si potrebbe dire che al gruppo stia a cuore il benessere dei corpi e del loro stare insieme, affinché la compresenza non generi esclusione e discriminazione ma sia, al contrario, foriera di cura. Una prospettiva transfemminista che si interseca con riflessioni sulla disabilità e sul razzismo, declinando poi questi discorsi nel contesto delle arti dal vivo. Un ulteriore livello rappresenta infatti la «messa a nudo» dei meccanismi di sfruttamento e autosfruttamento, delle pratiche consolidate ma nocive che sono fortemente diffuse e tacitamente accettate nell’ecosistema culturale. Una delle mission del Campo innocente sarebbe allora quella di esplicitare i discorsi impliciti, iniziare a parlare, dire che non ci va più bene e che un cambiamento non è più rimandabile. Un percorso su cui c’è ancora molta strada da fare. 

Abbiamo parlato con Leonardo Delogu e Valerio Sirna dell’esperienza dell’occupazione, di come sta procedendo il confronto per la riforma del settore — dove la nota finale, aggiunta in seguito all’intervista, mette in questione un dialogo che sembrava essere costruttivo — e di quali sono le prospettive future per la lotta.

Cosa sentite di aver costruito nelle giornate di occupazione del Globe Theatre?

Leonardo Delogu: Per me sono molto importanti le relazioni e le alleanze che si sono concretizzate in quei giorni. Erano già nate all’interno del percorso della rete dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo, ma l’esperienza comune è ciò che fa davvero incontrare le persone. Non era scontato perché le sensibilità sono diverse a volte, ma abbiamo avuto la sensazione che il movimento autorganizzato stesse facendo dei veri passi di apertura.

Valerio Sirna: Per il nostro gruppo, Il campo innocente, questa esperienza è stata un banco di prova. Era da un anno e mezzo che ci confrontavamo ma a parte il nostro intervento al festival di Santarcangelo e alcune iniziative che già erano state fatte con la rete ci mancava un passaggio all’azione e all’organizzazione. Ciò che abbiamo proposto noi nei giorni di occupazione, ovvero il tavolo su violenza, sessismo, razzismo, omolesbobitransfobia, abilismo è stato importantissimo. Già da qualche tempo stavamo portando avanti la pratica dell’auto inchiesta, ovvero di chiederci innanzitutto «come stiamo?»: a partire da qui, parlando insieme, emergono tante altre domande che stiamo raccogliendo in una lista sempre più lunga e che potrebbe non terminare mai. Il tavolo è cresciuto di giorno in giorno, da quaranta siamo diventate cento persone.

L.D: C’è stato poi un importante riconoscimento della politica istituzionale, hanno capito che il mondo delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo è variegato e attivo, che le istanze che porta non sono così surreali. Quindi pensiamo sia positivo che Franceschini sia venuto, che sia in corso un tavolo interministeriale e che ci stiano ascoltando per la riforma del settore. È anche importante l’aver organizzato un evento pubblico in un momento in cui ancora non era possibile farlo, ce ne siamo presi la responsabilità e l’abbiamo fatto in sicurezza, i tamponi a 5€ raccontano di come si possano fare delle iniziative anche durante la pandemia senza speculazioni. 

La rete delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo è composta da realtà diverse, siete riusciti e riuscite facilmente a trovare una linea comune?

V.S: Noi come Campo innocente siamo arrivati ad un certo punto, gli altri gruppi come Autorganizzat_ Spettacolo Roma, Presidi Culturali Permanenti, Mujeres nel teatro, Clap e Risp si vedevano già da tempo. Sicuramente le realtà sono molto diverse e non sempre è facile, ma ci siamo ritrovate subito sui temi. Quando abbiamo parlato di Reddito Universale Incondizionato abbiamo trovato un generale accordo e lo stesso vale per l’idea intersezionale, per cui la lotta non deve essere solo di settore ma deve incrociarsi con tutto il mondo della precarietà. Da lì si è costruito presto un’agenda politica e un reale scambio, ad esempio nella rete c’è chi sa occuparsi di contratti collettivi nazionali di lavoro mentre nel nostro gruppo non sempre abbiamo queste conoscenze. 

Noi dal canto nostro però possiamo fornire degli strumenti per queerizzare lo spazio della discussione, de-patriarchizzarlo e renderlo più inclusivo. Per noi è stato importante lanciare una riflessione e una contaminazione sul tema della fragilità, chiedendoci: Si può essere fragili in un contesto politico di lotta? Si può piangere in un’assemblea? Cosa succede se sono una persona che ha difficoltà a prendere parola pubblicamente, vengo invisibilizzata oppure no?

L.D: C’è un tipo di approccio sindacale che punta a fare pressione sulla politica per ottenere diritti e sicuramente sta funzionando. Allo stesso tempo, e qui diventa centrale la visione che si ha sul momento storico in cui viviamo, noi come Campo Innocente leggiamo la società attraverso una prospettiva transfemminista, antiabilista, antirazzista e antisessista per cui sappiamo che questi discorsi sono tutt’altro che acquisiti, è una lotta di corpi che si porta con sé per tutta la vita. A noi come gruppo quindi non interessa tanto il raggiungimento dell’obiettivo minimo ma un’influenza culturale costante da portare avanti.

Alcuni giorni fa la rete ha organizzato una nuova assemblea pubblica, quali prospettive ci sono per la lotta?

L.D: C’è la questione della riforma del settore, abbiamo una possibilità unica che non si ripresenterà per molti anni. Bisognerà quindi vedere come procederà il tavolo interministeriale e in base a come evolveranno le bozze ci saranno delle mobilitazioni. Credo che la radicalità della lotta, la condivisione dei contenuti e l’orizzontalità saranno dei punti fermi per questa rete. Ci sono poi tanti temi aperti, come l’attuale restrizione dello spazio pubblico, che è connessa al limite temporale dell’occupazione del Globe. Non ci interessava in questo momento occupare per fornire un modello alternativo di gestione, pensiamo che la modalità nomadica delle azioni sia più interessante attualmente anche per non esaurirsi né politicamente né fisicamente come spesso accade con le lotte. 

Anche questo è un punto che abbiamo portato, l’importanza di non esaurire le nostre risorse fisiche e psichiche. Il rischio è di finire nelle dinamiche di auto sfruttamento che critichiamo quando lavoriamo, non vogliamo replicarle quando agiamo politicamente. C’è poi la questione più generale del reddito universale e dell’intersezione con altre battaglie che andrà avanti a prescindere dal tavolo interministeriale.

L’incontro con Franceschini e con Orlando che è seguito all’occupazione è stato positivo? Cosa chiedete per la riforma del settore?

V.S: Da quello che ci ha riportato la delegazione nel tavolo c’è stato ascolto e le nostre richieste erano già in discussione. Dopo l’incontro ci è stato chiesto di produrre un documento scritto che abbiamo inviato dopo averlo discusso in assemblea. Dopodiché l’istituzione ce ne ha mandato un altro, che stiamo studiando e che dovrebbe contenere le nostre istanze.

L.D: Il documento che si sta delineando è una sintesi tra le due proposte di riforma del settore già in campo, quella Orfini e quella Carbonaro, insieme alle nostra. Ci siamo opposti all’autoversamento dei contributi e credo che non verrà riproposto, stiamo spingendo per il reddito di continuità e per l’instaurazione di un regime dell’intermittenza simile a quello francese. Chiediamo poi l’estensione dei bonus a tutto il 2021 e l’internalizzazione di tutte quelle persone che lavorano continuativamente per le istituzioni culturali ma che continuano ad essere precarie, con contratti di prestazione occasionale. 

Il riconoscimento delle figure professionali che orbitano nel settore poi va ampliato molto, è rimasto veramente indietro rispetto a come si è ibridata la produzione culturale. Ad esempio non è riconosciuta la figura del curatore o curatrice, nonostante ce ne siano in gran numero, finiscono per essere inquadrati come responsabili di produzione ma è totalmente un altro lavoro.

Com’è stato il confronto con le altre città? Avete avuto il sostegno che vi aspettavate?

V.S: È stato molto vivo con Napoli e col movimento delle maestranze venete. In una delle agorà pubbliche abbiamo invitato delle giovani studentesse protagoniste dell’occupazione dell’Accademia di Belle Arti di Napoli in cui denunciavano con i loro corpi gli abusi da parte dei professori. Sono state incendiarie! Abbiamo poi avuto collegamenti con Parigi, con Bruxelles e con la Grecia. Il tentativo è senz’altro quello di rafforzare una rete nazionale e internazionale.

L.D: Con chi non c’è stato dialogo, purtroppo, sono i direttori dei teatri. Normalmente c’è conoscenza e prossimità, ma quando poi avviene una battaglia politica in cui dovremmo essere tutte coinvolte, non c’è stato sostegno. Il datore di lavoro dovrebbe essere insieme a noi a chiedere il reddito universale, non fosse altro perché spesso è proprio lui a sottopagare e a lasciarci nella precarietà, per cui un reddito di questo tipo dovrebbe venirgli incontro. Se lo Stato coprisse tutti quei periodi che sono intorno allo spettacolo, quelli della riflessione e dello studio, dell’inoperosità produttiva che riguarda il mondo dell’arte, si calibrerebbe di nuovo la relazione tra datore di lavoro e artiste, lavoratrici, lavoratori. 

Solo un teatro pubblico, il Teatro di Roma, ha firmato il nostro appello perché c’era una dimensione di relazione legata alla città. Mi chiedo dove sono tutti gli altri direttori dei teatri nazionali. Vorremmo sapere poi quanto hanno capitalizzato quegli stessi teatri dalla pandemia, dov’è la redistribuzione delle risorse? In pochissimi hanno messo in campo delle azioni per farlo. Questo è un punto molto importante perché influenza anche le poetiche che propongono questi teatri e la loro azione culturale nella società.

NOTA: Lo stato dell’arte è già cambiato rispetto al momento in cui è stata rilasciata l’intervista, con importanti passi indietro da parte del Ministero della Cultura, che durante l’ultima audizione ha blindato un testo che non ha avuto il tempo di essere discusso e che non accoglie praticamente nulla delle richieste avanzate dalle lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo, ben lontana da essere la riforma strutturale del settore alla base delle mobilitazioni di questo ultimo anno e che anzi rischia di produrre una legge delega addirittura penalizzante.