«Perché non cercare di dare visibilità a chi ha dei testi nel cassetto, o che non sa come diffonderli?». Da questa domanda è nato il progetto Pubblicazionia cura di Teatro i, una chiamata pubblica che ha generato una nutrita biblioteca virtuale di testi, consultabile sul sito dello spazio indipendente milanese. Un esperimento che ha avuto il suo impulso dalle chiusure causate dalla pandemia e quindi dall’invenzione di modalità alternative di pensare il teatro. Coronato da grande successo e partecipazione – a dimostrazione di quanto ci sia necessità di questo genere di spazi – il progetto vivrà una nuova stagione, con una seconda chiamata che verrà diffusa a breve.
Francesca Garolla, autrice, dramaturg e parte della direzione artistica di Teatro i insieme a Renzo Martinelli e Federica Fracassi, ci ha raccontato le varie fasi di Pubblicazioni nel quadro più ampio del lavoro di scouting che lo spazio porta avanti da diverso tempo. Bisogna poi sottolineare che l’interesse e la ricerca sulla drammaturgia non esclude, ma anzi integra, lo sforzo profuso nella fase di realizzazione, infatti due dei testi inseriti nella biblioteca sono poi diventati spettacoli della stagione di Teatro i, primaL’ultimo animale di Caterina Filograno e poi, in scena fino all’8 maggio, Questa lettera sul pagliaccio morto di Davide Pascarella.
Pubblicazioni è nato durante la pandemia, quali riflessioni vi hanno spinto a realizzare questo progetto?
Quando ci sono state le riaperture frammentate della primavera del 2021, come Teatro i siamo rimasti chiusi perché per il contingentamento avremmo potuto accogliere solo 25 spettatori. Allora abbiamo pensato di mettere in campo dei progetti collaterali. Negli ultimi anni abbiamo fatto un buon lavoro a livello di scouting, producendo registi e attori emergenti, quindi ci siamo detti che in un periodo in cui attori e registi facevano fatica a lavorare sarebbe stato il caso di pensare anche agli autori, che già normalmente non hanno un percorso chiaro da seguire. In Italia ci sono infatti alcuni rari percorsi di formazione come la Paolo Grassi, ma tolte queste poche opportunità un drammaturgo o una drammaturga che ha scritto un testo non sa a chi rivolgersi, infatti accade spesso che si crea una sua compagnia per mettere in scena i propri testi. In seguito a queste riflessioni è nata la proposta di questa call aperta a tutti, senza limiti di età. L’unica condizione che abbiamo posto è che il testo non avesse avuto ottenuto già una produzione istituzionale.
Avete ricevuto quasi 200 testi. Ve lo aspettavate?
All’inizio non avevamo il polso di quanta sarebbe stata la partecipazione, considerate le possibilità che avevano i canali del Teatro i per promuovere la chiamata. Quindi sì, è stata una sorpresa e siamo stati molto felici di questa adesione, ma allo stesso tempo ci siamo anche chiesti: quanta gente c’è che non sa cosa fare di quello che scrive? Dal punto di vista della selezione abbiamo valutato di farne una piuttosto ampia, nel senso che i testi che abbiamo escluso li abbiamo ritenuti ancora fragili. Lo abbiamo fatto anche per tutelare gli autori, perché esporre un testo che non è finito, che non è ancora al meglio, non fa gioco a nessuno. E per le selezioni abbiamo creato due comitati: un comitato di esperti, quindi autori, registi, teatranti; e un comitato, invece, di spettatori/lettori, quindi un comitato di non operatori. E l’altra cosa che è andata effettivamente al di là delle nostre aspettative è stata l’adesione a questo secondo comitato.
Come avete coinvolto questi spettatori?
Abbiamo lanciato una call che diceva che il comitato di esperti aveva già fatto una preselezione e che il comitato di spettatori/lettori sarebbe intervenuto per selezionare 5 tra quei testi per farli diventare dei podcast, la fase successiva di questo progetto, ovvero la realizzazione di materiali audio in quel periodo in cui eravamo chiusi.
Hanno aderito circa 100 persone, e allora ho pensato che forse tendiamo ad avere uno sguardo troppo pessimista perché trovare un numero tale di spettatori che abbia voglia di leggere dei testi di drammaturgia contemporanea di autori che ovviamente non conoscevano, è stata una grande soddisfazione devo dire. L’esito finale di Pubblicazioni è infine la biblioteca online che si trova sul sito di Teatro i, con schede per tutti gli autori selezionati, la sinossi e un estratto del testo, per poi fare richiesta per avere il testo completo.
Stanno arrivando alcune richieste per i testi integrali?
Sì, sono arrivate soprattutto in una prima fase, tramite il passaparola. In realtà adesso c’è di nuovo una crescita delle richieste, probabilmente determinata dal fatto che dei primi tre spettacoli del 2022 della stagione del Teatro i due sono realizzati da autori/registi usciti dalla biblioteca online. Credo che questo sviluppo abbia ulteriormente incuriosito. Infatti l’idea non è solo di scoprire qualcuno e poi di lasciarlo lì, ma di costruire qualcosa sul medio-lungo periodo.
Tornando alla questione dell’invisibilità, quali sono secondo te le cause principali? Una mancanza di curiosità oppure un problema di risorse che non permette di mettere in scena questi testi?
Oltre alla difficoltà da parte di chi scrive nel capire a chi rivolgersi, dall’altra parte c’è chi ha una mancanza di curiosità nel cercare degli autori che non siano già stati riconosciuti. Spesso ci si accontenta di riconoscere il conosciuto, che non è scouting, non è un lavoro sull’emersione ma sull’emerso, che va benissimo nel momento in cui diventa la costruzione di un percorso, ma quando invece è semplicemente una continua estemporaneità, si blocca un po’ il sistema. Questo lo possiamo applicare a tante cose, non solo agli autori ma anche a compagnie, teatri o al problema della distribuzione.
Visto che anche tu sei un’autrice e hai una lunga esperienza, tra i testi che avete ricevuto hai colto delle tendenze, delle caratteristiche?
La mia impressione è che negli ultimi dieci anni la drammaturgia contemporanea è diventata più libera nei temi e nelle forme, mentre fino a qualche anno fa sembrava che uno dei focus principali in Italia fosse spesso il microcosmo familiare, con delle forme che andavano in una direzione dialogica tradizionale. Invece nei testi che ci sono arrivati ho visto tanta varietà; una varietà di linguaggio, nel senso che c’è un tentativo di cercare forme nuove, più astratte e meno collegate ai magari, con un’intenzione immaginifica; ma anche una varietà di situazioni, tendendo verso un’approccio surreale o immaginano mondi che vanno al di là del nostro microcosmo, si allargano ad una visione più ampia della realtà.
Ho anche pensato che fosse uno sviluppo determinato dalla pandemia, nel senso che è stata la vera globalizzazione degli ultimi anni, ha riguardato tutti trasversalmente. Nessuno dei testi affronta direttamente quanto accaduto dal 2020 ma ho avuto la sensazione che abbia portato gli autori a guardare ad un mondo più ampio di cui si era necessariamente parte.
Quest’anno lancerete una nuova call, il percorso sarà strutturato allo stesso modo?
In realtà ne lanceremo due, per quanto riguarda quella dei drammaturghi stiamo pensando ad invertire la successione, cioè far fare prima la selezione al comitato di spettatori e poi al comitato degli esperti. Vorremmo poi portare avanti alcuni testi come abbiamo fatto quest’anno con le due piccoli produzioni che ci sono ora. Ci stiamo anche interrogando su come costruire il comitato di esperti, magari coinvolgendo registi, direttori di teatro, persone che effettivamente potrebbero realizzare quei testi forse riusciremmo anche minimamente a sbloccare il meccanismo di cui parlavamo prima.
Parallelamente abbiamo lanciato una call per registi, in scadenza il 2 maggio. In questo caso c’è il limite di età, cerchiamo registi e registe under 30 perché faremo delle mise en espace su tre testi di autori «strutturati», che hanno già una loro tradizione. Nello specifico saranno Valentina Diana, Angela Demattè e Fabrizio Sinisi. Vorremmo che questa chiamata permetta a tre giovani registi di mettersi a confronto con un testo di drammaturgia consolidato ma comunque contemporaneo. Un’altra mancanza che abbiamo identificato infatti è che i gruppi più giovani difficilmente mettono in scena questo tipo di testi, ma lavorano piuttosto su proprie scritture. Quindi ci è venuta voglia di fare questo esperimento.
Qual è la ragione di questa mancanza secondo te?
Forse la drammaturgia contemporanea non ha «storicità», cioè non ha esperienze di palcoscenico e non è stabilizzata da una storia di rappresentazioni. Se, facciamo un esempio, affronto Beckett ho un testo solido con cui confrontarmi, con una sua tradizione, mentre un testo di drammaturgia contemporanea è per sua natura liquido, prevede una lettura di certi meccanismi che non sono già stati compresi da qualcun altro. Infatti penso sempre alla mia esperienza, quando i miei testi vengono realizzati c’è sempre il regista o l’attore che chiede: Cosa intendi qui, con questa cosa che hai scritto? domanda che ovviamente non si pone agli autori morti. Può darsi quindi che un giovane fatichi a mettersi in relazione con queste difficoltà, oltre all’esigenza di dire qualcosa di proprio e di originale nelle scritture di scena. Credo sia per queste ragioni, o forse semplicemente non è una prassi, e quindi faremo è un piccolo tentativo per avviarla.
Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.
«L’amore è più freddo della morte» si intitola il primo lungometraggio di Rainer Werner Fassbinder datato 1969, per una visione della relazione amorosa come veicolo di soverchianti rapporti di potere, pronti a rovesciarsi nel loro opposto seguendo lo schema della dialettica hegeliana servo-padrone. È questo anche il nucleo de Le lacrime amare di Petra von Kant, drammaturgia per il teatro presto trasposta al cinema, nel 1972. La riporta sul palcoscenico la compagnia Nerval Teatro, con la regia di Maurizio Lupinelli e in scena le attrici Barbara Caviglia, Aura Ghezzi, Elisa Pol, Miriam Russo, Laura Serena, Annamaria Troisi.
Dopo il debutto dello scorso anno a Torino, e un percorso accidentato a causa della pandemia, lo spettacolo arriva al Teatro Palladium di Roma il 4 e 5 marzo e al Teatro Alighieri di Ravenna il 17 marzo. Abbiamo posto al regista alcune domande per approfondire le scelte artistiche che sottostanno alla messa in scena e ripercorrere l’attività della compagnia negli ultimi anni, tra il premio Ubu per la danza e l’attività con attori e attrici con disabilità nell’ambito del Laboratorio permanente.
Avete definito questo testo come di natura «anfibia», pensato per il teatro ma poi tramutato presto in film, in quella che è la sua forma più conosciuta. Come vi siete mossi tra queste due traduzioni?
A differenza di altre volte ho scelto un gruppo di persone con cui fare un percorso, attraverso cui arrivare poi alla produzione. Mi sono preso un tempo lungo, anche perché quello per i testi di Fassbinder è un amore che parte da lontano. Le lacrime amare di Petra von Kant è bellissimo, sia come drammaturgia che come sceneggiatura, ma contiene alcune problematicità. Già Fassbinder stesso citava i melodrammi del regista Douglas Sirk, in cui i rapporti d’amore sono spesso rapporti di potere…con le attrici abbiamo svolto quindi un lavoro lungo, abbiamo rivisto tutta l’opera di Fassbinder e ci siamo interrogati su come interpretare oggi questa dinamica, perché è dietro l’angolo il rischio di cadere nel dramma, nell’esagerazione, nella provocazione. Alcune messe in scena in Italia in passato hanno toccato quei livelli. I primi a portarlo da noi furono Teatro dell’Elfo, mi ricordo di averlo visto intorno all’89.
Ho chiesto quindi alle attrici di essere come dei fantasmi, delle semplici figure nello spazio, perché le parole sono così dense e forti che non bisogna sovraccaricare l’interpretazione. C’è stato tutto un lavoro sulla misura, sulle diagonali, sugli sguardi, tenendo in considerazione l’aspetto cinematografico, infatti non c’è mai un realismo vero e proprio. Il film è ambientato in questa stanza molto piccola, ma basta un movimento di macchina per farla sprofondare. Abbiamo lavorato su qualcosa di simile anche noi, la scena ricorda un set e le attrici non sono praticamente mai in quarta parete, è come un balletto continuo. Una forma cara a Fassbinder, che contiene l’artificio, il gioco e il dramma. Nella pellicola ci sono dei manichini ma qui invece è come se i manichini fossero le figure in scena, c’è un distanziamento che genera ancor di più il drammatico.
Che visione hai sul complesso rapporto tra cinema e teatro?
Amo molto la drammaturgia tedesca, ho lavorato su tanti autori in passato: Peter Weiss, Werner Schwab, Georg Büchner, Herbert Achternbusch. Quest’ultimo era uno sceneggiatore – ha sceneggiato Cuore di pietra di Herzog. Alcune di queste figure, come Herzog, Fassbinder, Wenders, hanno avuto a che fare con un linguaggio che andava oltre la scena teatrale. Per me è stato quindi naturale, in qualche modo, ma sono molto distante dalle operazioni che prevedono telecamere o proiezioni all’interno dello spettacolo. Per me il punto è come si lavora con gli attori, col movimento e con le luci all’interno dello spazio scenico. Ragionando in questo modo credo che si sia più fedeli al cinema.
In questo caso il film ci ha sicuramente aiutato, infatti a differenza della pièce i personaggi sono sempre tutti in scena, Marlene poi è una figura importantissima, è come un faro, un perno o una telecamera, è tutto sotto il suo controllo. C’è da dire poi che il tedesco è una lingua bellissima ma che quando viene tradotta in italiano può suonare macchinosa, per cui abbiamo cercato una via di mezzo prendendo spunto anche dai sottotitoli italiani del film, realizzati evidentemente da qualcuno che conosceva molto bene la lingua e l’opera di Fassbinder.
Il vostro percorso come compagnia è stratificato, operate in più ambiti come testimonia l’Ubu per la danza vinto nel 2021 per lo spettacolo Doppelgänger. Come è nato quel lavoro?
Parallelamente alle nostre produzioni, dal 2006 portiamo avanti un percorso con un gruppo di 20-25 attori e attrici con disabilità, lo abbiamo chiamato «Laboratorio permanente» e si svolge ad Armunia, a Castiglioncello, dove Nerval Teatro è residente. A volte i due segmenti di attività si incontrano, già in Appassionatamente, uno spettacolo del 2010, c’erano in scena attori con e senza disabilità. Realizziamo dei progetti quando ci sentiamo pronti, ad esempio abbiamo lavorato per anni su Beckett e abbiamo poi messo in scena Sinfonia Beckettiana. Da tre anni stiamo lavorando invece sul Pinocchio.
Il gruppo ha la fortuna di poter incontrare e imparare dagli altri artisti residenti a Castiglioncello, noi li abbiamo chiamati «attraversamenti»: tra gli altri hanno lavorato con Silvia Gribaudi, Roberto Latini, Paola Bianchi, Sotterraneo, a breve con Chiara Bersani. In questo contesto abbiamo notato che uno dei partecipanti al laboratorio, Francesco Mastrocinque, aveva il dono del movimento. Io conoscevo da tempo Abbondanza/Bertoni e gli ho chiesto quindi se avessero voglia di realizzare un lavoro insieme. A questo punto è iniziato un percorso che è durato un anno fino alla messa in scena Doppelgänger, in cui è protagonista un danzatore professionista, Filippo Porro, insieme a Francesco Mastrocinque.
Rispetto al laboratorio quest’anno c’è una novità, lo abbiamo portiamo anche a Ravenna, anche perché è vero che la compagnia è toscana ma io ed Elisa Pol viviamo a Ravenna. Ci stanno poi seguendo due studiosi, Marco Menin e Gerardo Guccini, per tenere un memorandum che racconterà fase per fase sia le attività a Castiglioncello che quelle a Ravenna. Qui stiamo pensando, per l’anno prossimo, di realizzare un Marat-Sade di Peter Weiss coinvolgendo sia i partecipanti al Laboratorio permanente sia venti allievi della Non-scuola del Teatro delle Albe. Lo dico un po’ a bassa voce, ma è come tornare a casa.
Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.
Un po’ giocosamente riprendiamo il titolo del celebre spettacolo del Living Theatre per questa intervista a Chiara Bersani e Giulia Traversi, in occasione della nuova avventura come direttrici artistiche di Spazio Kor. D’altronde il tentativo di realizzare un’utopia «qui e ora» accomuna quanto vagheggiato un tempo dal Living e il percorso intrapreso da Bersani e Traversi ad Asti, caratterizzato per l’appunto dalla parola «Paradise». Kor sarà infatti uno spazio accessibile per le persone e gli/le artisti/e con disabilità, dove sarà possibile alle relazioni intessersi e ai desideri esprimersi, dove potere potrà forse significare poter fare e non discriminare, tagliare fuori.
Un luogo dove, nella co-esistenza di corpi, si troveranno nuovi modi di stare insieme, oltre i limiti imposti dalla normatività conformista. Un passo importante per una scena che si vuole aperta ed inclusiva, affinché ciò non avvenga solamente a parole ma nei fatti, a partire dalla condivisione della direzione, con la confluenza del percorso artistico di Bersani e quello manageriale di Traversi. Da sottolineare la collaborazione con ALDiQuaArtists, organizzazione tramite la quale i/le professionist/e con disabilità del mondo delle arti performative stanno prendendo la parola, abbattendo barriere materiali e non.
Quali ragioni vi hanno spinto a chiamare questa vostra prima stagione da direttrici artistiche di Spazio Kor «Paradise»? Quali immagini collegate a questa parola così grande, importante, utopica? Come declinarla in uno spazio artistico e di relazioni?
Paradise è una parola anglofona che sentiamo ricca di possibilità. Noi non crediamo nel paradiso, sia esso metafisico o geografico. Non pensiamo sia un luogo che si può meritare con una condotta considerata idonea o che si può acquistare con un volo aereo e uno sguardo coloniale. Noi crediamo nella possibilità di creare spazi là dove il tempo ha generato strappi.
Spazio Kor è un luogo che per sua natura è stato riscritto molteplici volte, ora è il nostro turno e nel farlo non vogliamo essere in solitudine. Paradise è una parola immediatamente evocativa per ogni persona e noi ambiamo ad unire diversi immaginari di benessere e cura per provare collettivamente a risignificare quel vuoto lasciato da questi due anni di silenzio. Paradise per noi è la possibilità di stare bene insieme, di incontrarci tra esseri umani dopo questo tempo di solitudini. È uno spazio in cui riconquistare la fiducia, dilatare il tempo, fare ogni cosa con calma, provando a non lasciare indietro nessuno/a.
Quali sfide vi lancia la natura dello spazio? Sia per quanto riguarda l’accessibilità fisica che l’ordine simbolico di un’architettura ecclesiastica.
Spazio Kor è un luogo incredibile! Nella sua architettura è scritta una storia lunga, complessa, fatta di abbandoni, chiusure e riaperture. Cambi d’identità e di visioni. Eppure quelle pareti il cui originale richiamo è fortemente leggibile, si sono mostrate negli anni capaci di un’enorme accoglienza. Ne è un esempio, per noi diventato immediatamente fulcro centrale della nostra curatela, l’accessibilità strutturale ai corpi con disabilità. Spazio Kor è infatti abitabile con semplicità sia dal pubblico che da addetti/e ai lavori con disabilità motoria e questo duplice livello di accoglienza in un edificio nato come chiesa e solo in un secondo momento diventato teatro, è qualcosa di molto raro.
Quando ci siamo entrate/i per la prima volta ne abbiamo immediatamente respirato il potenziale e quando dalla direzione dello spazio è arrivata la proposta di una curatela abbiamo pensato che era il luogo perfetto per provare a spingere questa accessibilità oltre il pensiero architettonico. Che cosa significhi e che tempi chieda un progetto di tale portata lo stiamo ancora capendo e per farlo ci siamo avvalse/i della collaborazione del collettivo di artisti con disabilità Al.Di.Qua.Artists che ci accompagnerà durante i nostri anni di permanenza qui. Per quanto riguarda il suo passato religioso lo amiamo molto. Crediamo nei luoghi con una storia densa, in particolare quando ricca di contraddizioni. Sappiamo che il passato di un luogo rimane al suo interno e dialoga con il presente in modo molto forte. Adoriamo il cortocircuito in ogni sua forma e sappiamo che quello tra sacro e profano è uno dei più incendiari.
L’inclusività e l’accessibilità saranno due cardini delle vostre azioni, in questo senso la vostra direzione artistica si inserisce in un panorama in cui finalmente gli artisti/e e le professioniste/i con disabilità stanno trovando alcuni spazi nella scena delle arti performative. Che significato ha riuscire ad approdare ad un ruolo decisionale? Anche nel vostro testo di presentazione fate un’interessante riflessione sulla parola potere…
Questa è una domanda importantissima perché la riflessione sul “potere” è arrivata nel momento stesso in cui abbiamo iniziato ad interrogarci sulla possibilità di accettare o meno questo incarico che ci veniva proposto. La nostra prima reciproca domanda è stata «cosa vuol dire per te occupare una posizione di potere»? E la risposta, immediatamente, è stata «smontarla».
Non ci interessa il potere accentratore, non crediamo sia più il tempo per la sostituzione delle figure nei ruoli decisionali ma quello per la riscrittura di queste posture. Noi vogliamo condividere, collettivizzare. E nel farlo scegliamo di essere non una persona ma due e da due a molteplici (condividiamo inizialmente la curatela con Viola Lo Moro e ALDiQuaArtists ma per il futuro ci sono altri possibili immaginari aggiuntivi), vogliamo con noi persone di cui amiamo l’esperienza ma anche altre persone che raramente vengono immaginate come possibili attivatori di azioni collettive (vd artiste/i con disabilità). Durante la serata della conferenza stampa abbiamo chiesto alle persone presenti di dirci quale fosse la loro idea di paradiso. Ecco, quello appena descritto è il Paradise che vorremmo noi.
Come avete scelto le proposte da inserire in cartellone? Emergono numerosi workshop – indirizzati soprattutto ai/alle giovani – quindi pratiche più aperte e processuali rispetto alla fruizione di uno spettacolo. Guardando poi ai prossimi anni, avete scelto degli/delle artisti/e associati/e: Enrico Malatesta, Attila Faravelli, Eva Geatti e Viola lo Moro. Che percorso intraprenderete con loro?
Ad eccezione di EDEN di MK, opera che abbiamo esplicitamente chiesto per la sua genesi, il suo andamento e la sua meraviglia, e che possiamo presentare grazie al sostegno di Piemonte dal vivo, per il resto della stagione abbiamo provato a lavorare su una condivisione di potere con l’artista che desideravamo coinvolgere. Siamo partite/i dall’individuare artiste/i che amiamo per il pensiero, le pratiche, le poetiche e le relazione e abbiamo detto loro «abbiamo questo spazio e vorremmo condividerlo con te. Tu come desideri abitarlo?»
Siamo artista e manager, conosciamo bene la relazione che si instaura quando si vende una data e sappiamo le pressioni e il disturbo che si possono subire in certe situazioni, quando tutto corre ed è imposto. Quando si desidera essere sostenute/i in lavori nuovi o molto vecchi e si fatica a trovare spazi in cui presentarli. Vogliamo provare a conoscere queste/i artiste/i cercando un nostro agio in questa nuova posizione. Desideriamo con loro un tempo lento.
Con Geatti, Faravelli e Malatesta, per esempio, è accaduto che alla domanda «cosa desideri» sono emerse molte cose, tante che in un anno non avremmo mai potuto contenere, alcune che nel loro stesso desiderio avevano bisogno di maturare ancora, e così ci siamo dette/i «Spazio Kor avrà artisti associati e da qui vediamo cosa accade». Vogliamo provare ad ascoltare e desiderare insieme.
Con Viola lo Moro il dialogo invece è stato differente. È stata chiamata come co-curatrice di un percorso letterario parallelo ed intrecciato alla stagione e vorremmo che questa trama diventasse sempre più fitta nei prossimi anni. Ma Viola, oltre che curatrice e fine intellettuale, è anche Poeta, autrice dell’opera prima Cuore Allegro e anche di questo suo lato vorremmo parlare. Diciamo che è una stagione che prova a tenere aperte le finestre, a far passare la corrente e lasciare che l’aria e modifichi e crei come magari noi non avevamo immaginato.
Come collaborerete tra voi? In che modo può essere gestita una co-direzione?
In modo totalmente paritario e orizzontale, crediamo che il dialogo e lo scambio d’idee sia la cosa più preziosa che abbiamo. Decidiamo tutto insieme, parlando e andando a fondo su ogni cosa. Diciamo che dopo anni di tournée, di condivisione di sala prove e creazioni, abbiamo oramai un rapporto piuttosto collaudato.
Quali sono i vostri desideri più grandi per questa nuova avventura?
Stare bene e far stare bene tutte le persone che saranno a Spazio Kor, vorremmo che fosse un luogo magico, di piacere, di gioia, ma non vorremmo fosse un’isola, piuttosto un continente pronto a tutto per tutti e tutte.
Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.
Raccontare nella sua totalità l’edizione appena conclusa di Short Theatre 2021 non è semplice per la molteplicità di traiettorie che l’hanno caratterizzata. Ci sono stati i numerosi interventi nello spazio pubblico, le affissioni che hanno modificato l’ambiente interno della Pelanda e i muri della città, oppure la performance di Amanda Piña che si è svolta in Piazza Testaccio. Ci sono state le presentazioni di libri e le sonorizzazioni, l’inaugurazione di un nuovo palco per i dj set e i concerti, la formula Cratere per abitare WeGil, le proiezioni, i laboratori partecipativi e naturalmente gli spettacoli, tra cui l’attesissimo debutto dei Motus con Tutto Brucia.
Volendo scegliere un filo per sorvolare le giornate trascorse crediamo però di non tradire lo spirito del festival dando risalto alla forte presenza di artiste africane e afrodiscendenti che ha caratterizzato questa edizione. Performer che teniamo insieme più che per la semplice origine geografica per la condivisione di un problema, di un ostacolo, di un’ingiustizia ereditata. Short Theatre negli ultimi anni si è andato caratterizzando per l’attenzione e il coinvolgimento verso quel brulicare di istanze emancipative entrate in rotta di collisione con le arti performative, ospitando gruppi, progetti e persone che se ne sono fatte portatrici. Riprendendo quindi il titolo di questa edizione ovvero «The voice this time» e le parole della co-direttrice Piersandra Di Matteo — che nella nostra intervista affermava l’importanza di garantire uno spazio di ascolto — ci concentriamo sulle loro voci stavolta, che urlano spesso un’accusa nei confronti della cattiva coscienza occidentale.
L’accensione al festival l’ha data Sofia Jernberg, con un’operazione dal significato potente. L’edificio WeGil, situato tra Trastevere e Testaccio, è un lascito del fascismo i cui segni parlano in maniera fin troppo esplicita delle aspirazioni imperialiste della dittatura made in Italy. Ebbene, sotto la scritta «Necessario vincere, più necessario combattere» Jernberg si è affacciata dal balcone — le sue origini etiopi rendono l’atto ancora più pregnante — dando un assaggio del suo percorso di ricerca sulla vocalità, sotto il titoloChasing Phantoms. Un momento toccante tutto all’insegna del détorunement: del bel canto, della tradizione canora africana, della pesante eredità coloniale fascista; non possiamo far finta che i fantasmi non esistono, ma la loro evocazione deve servire a scacciarli, a depotenziarne il lascito.
Muna Mussie è una performer bolognese con origini eritree. Questa doppia identità è alla base del lavoro Curva Cieca, un viaggio alla riscoperta della lingua materna tigrina con la guida della voce di Filmon Yemane, ragazzo non vedente anch’egli eritreo. Gli excursus di Yemane per spiegare i termini sono estremamente affascinanti, rimandando all’inevitabile intraducibilità e allo stesso tempo al terreno comune tra le lingue, mentre Mussie in scena invita a riflettere sui confini con movimenti minimali ed enigmatici. Indossa una maschera, come a simboleggiare l’involucro che ogni cultura costituisce, quando poi la maschera si fa doppia è evidente il richiamo alle due identità di cui si parlava sopra, ma anche un riferimento a Giano, dio delle soglie e dei passaggi, non sarebbe fuori contesto.
Quella di Cherish Menzo, artista olandese di origini surinamesi, era forse una delle performance più attese per il suo linguaggio estremamente attuale. Il bersaglio critico di Menzo inJezebelè infatti l’immaginario sessista dell’hip hop e se i codici sono cambiati rispetto a quelli di vent’anni fa, non sono certo pochi i trappers di oggi a ricalcare ancora quegli stereotipi. Nella prima parte dello spettacolo Menzo corre forse il rischio di farsi risucchiare da quello stesso immaginario giocando sul lato provocante e attraente, il twerking però viene spinto all’estremo delle possibilità fisiche così come il testo della canzone cantata rigorosamente in autotune è un’esplicita dichiarazione di sottomissione al maschio alfa gangster rap.
La musica è sicuramente una parte importante della performance, estremamente curata rispecchia questo stare nella contemporaneità pur contestandola; non c’è infatti un’alternativa nello spettacolo di Menzo ma piuttosto una critica interna. L’artista comunque non risparmia le energie sul palco fino alle ultime scene, in cui si trasforma in una enorme bambola gonfiabile dorata.
Nadia Beugré è una coreografa e danzatrice ivoriana che a Short Theatre ha portato una rivisitazione del suo lavoroQuartiers Libres originariamente concepito nel 2012 ma adattato stavolta alla specifica architettura della Pelanda. È una performance che può avere molteplici letture, quella che forse più ci affascina è l’intralcio dell’eredità. Beugré fa il suo ingresso in abito da sera e tacchi a spillo, intonando dei canti tradizionali africani, prima di scoppiare in una fragorosa risata. Il cavo del microfono si confonde con le treccine e diventa presto un legaccio in cui la danzatrice rimane impigliata.
Con rabbia e allegria allo stesso tempo si scaglia contro i politici, cercando il coinvolgimento attivo di un pubblico a dire il vero piuttosto restio. Come elemento di passaggio per la seconda parte, Beugré inserisce tra le labbra e spinge in profondità una busta dell’immondizia. L’eredità che ostruisce così potrebbe essere anche quella dei rifiuti di cui siamo sommersi, poco dopo infatti lei e alcune ragazze e ragazzi che hanno partecipato al suo laboratorio nei giorni precedenti, si ricoprono di bottiglie di plastica mentre intonano «A far l’amore comincia tu». Un’interrogazione stimolante che rimane gioiosa nonostante incorpori momenti di segno opposto.
Tra la fine del festival e il suo inizio c’è un ideale punto di contatto, perché le ultime battute sono riservate ad artiste con radici africane, ma soprattutto perché come in apertura si parla di fantasmi legati alla storia coloniale, seppure di ispirazione diametralmente opposta.
Dopo l’appuntamento conclusivo alla Pelanda, il dj set massimalista di Crystallmess, francese dalle origini guadalupe-ivoriane, è andato in scena il gran finale, l’opera Nehanda di Nora Chipaumire al Teatro Argentina (mostrarla in quel contesto ha senz’altro un valore importante). Un grande progetto diviso in otto capitoli di cui abbiamo visto l’ultimo, incentrato appunto sullo spirito Nehanda venerato nello Zimbabwe in cui chipaumire è nata e cresciuta.
L’opera è fortemente politica perché ad incarnare lo spirito alla fine dell’800 fu una leader rivoluzionaria che lottò contro l’occupazione e lo sfruttamento dei britannici. All’inizio assistiamo ad un concerto con degli abilissimi musicisti e una corista che ripete incessantemente «No justice, no peace», il potente slogan utilizzato da diversi anni nelle proteste degli afroamericani diviene quasi un mantra. Nel frattempo chipaumire al microfono intreccia la storia con pungenti invettive, anche indirizzate specificamente a noi: «L’Italia ha una particolare relazione con l’Etiopia», ricorda. Sul finire va in scena una vera e propria manifestazione di piazza, il cui messaggio e la cui energia arrivano forte e chiaro: lo spirito di Nehanda non si assopirà fin quando giustizia non sarà fatta.
Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.
Giunto alla sedicesima edizione, l’audace festival romano dei linguaggi contemporanei Short Theatre è pronto a un cambio di pelle. Il passaggio del testimone alla direzione artistica si è concretizzato in una curatela condivisa tra la direttrice uscente Francesca Corona e quella futura Piersandra Di Matteo, connotando l’appuntamento come un momento di passaggio ma anche come una summa di quanto proposto negli ultimi anni.
Abbiamo intervistato Di Matteo durante le giornate conclusive del festival per misurare la temperatura di quanto vissuto in questa fine d’estate 2021 e per cogliere qualche intuizione per le stagioni a venire.
Ph. Claudia Pajewski
Ph. Claudia Pajewski
Iniziamo dal titolo di questa prima edizione del festival da lei co-curata con Francesca Corona, «The voice this time». Perché lo avete scelto?
È una frase pronunciata senza un verbo, con una parola che apre a una moltitudine di significati. Lo intendo come un tentativo di spostare l’attenzione sulla dimensione dell’ascolto, un’ecologia della risonanza. Pensiamo al festival come a uno spazio vibrazionale in cui i corpi si rinviano reciprocamente, questo comprende tanto i corpi di chi performa quanto quelli del pubblico, le superfici urbane e gli ambienti che abbiamo attraversato: WeGil, Pelanda, Teatro India.
Ci è sembrato importante intrecciare questa connessione con la città lavorando per echi, rimandi fantasmatici, sommovimenti tellurici. L’ascolto è uno spazio in cui poter rivendicare qualcosa dal punto di vista politico, perché anche in quella dimensione possono attivarsi forme di agonismo, è un campo elastico e dinamico che può anche interdire e ostruire l’ascolto di altre voci.
C’è qualche aspetto in particolare del suo bagaglio di esperienze che vorrebbe introdurre in questo festival?
Sin da giovanissima ho sentito l’urgenza di essere a contatto con i linguaggi più innovativi attraverso un’attitudine teorica, di studio e di ricerca, ma anche con una conoscenza molto pratica e operativa di cosa significa stare in scena e di che cos’è una drammaturgia. In quest’ultimo caso mi riferisco in particolare alla grande palestra che ha rappresentato per me il lavoro con Romeo Castellucci e il mondo operistico, quindi con grandi macchine di produzione che però permettono di vedere con chiarezza quali sono le necessità.
Le due dimensioni interconnesse, la teoria e la pratica della scena, sono quindi ciò che porto con me in un festival come Short Theatre, che in questi anni è stato un bacino importante per rilanciare i nuovi linguaggi che avrebbero avuto difficoltà ad arrivare in Italia. Inoltre il lavoro curatoriale che ho svolto negli ultimi anni per il Teatro Nazionale ERT ovvero Atlas of transitions biennale, un progetto che metteva in relazione arte, migrazione e cittadinanze, mi ha permesso di approfondire questo nesso importante. Ci siamo messe in contatto con una serie di associazioni diffuse nella città, come Matemù, Lucha y Siesta, Asinitas, Carrozzerie n.o.t, per immaginare insieme ad alcuni artisti internazionali progetti che potessero creare delle forme di meticciato e di incontro indipendenti dagli spettacoli.
Nella programmazione ci sono molte artiste afrodiscendenti ed extraeuropee, dal suo punto di vista cosa stanno immettendo nel campo delle arti performative occidentali?
Sì, ci sono Chipaumire, Beugré, Menzo, Mussie, Piña e altre. Credo che il loro sguardo, la loro concezione del corpo e della presa di parola nello spazio pubblico sia in grado di mettere a problema il sistema collaudato del privilegio e della subalternità, ridisegnando i confini dell’immaginario e proponendo una critica nei confronti della neocolonialità. In particolare poi sono tutte donne che lavorano sulla rappresentazione del corpo femminile nero e su cosa significa portarlo in scena, con delle posture e delle possibilità di manifestazione impreviste.
Roma è considerata una realtà piuttosto difficile per l’azione culturale, com’è andata fin qui e qual è la sua relazione con la città?
Sicuramente è una città complessa e straordinariamente ricca sotto tutti i punti di vista, di informazioni, input e possibilità. È a questa Roma che mi piace rivolgere lo sguardo, ad una metropoli con un immaginario stratificato, che ha delle specificità a seconda dei quartieri in cui la vita urbana si definisce. Bisogna imparare a conoscerla giorno dopo giorno e nei mesi passati ho intensificato la mia conoscenza che pure avevo già. Poi credo comunque che oggi si possa lavorare artisticamente soltanto se si è in molti e se si è insieme, in una collettività.
In questa edizione del festival c’è stato qualche momento che l’ha colpita in particolare?
C’è un continuum di intensità, WeGil convoca delle pulsioni molto chiare per la natura del luogo, abitare quell’edificio in stile fascista richiede ogni volta una strategia. Abbiamo inaugurato la rassegna con l’affacciarsi al balcone di Sofia Jernberg, un’altra artista afrodiscendente con un discorso tutto declinato vocalmente, lei è una cantante sperimentale che mescola il bel canto con la tradizione dell’Etiopia. Mi è sembrata una giusta accensione per questo festival. L’intensità si è andata poi snodando tra quelli che sono i momenti intercapedine ovvero ciò che accade tra le performance, tra gli spettatori, tra uno spettacolo e un talk, in quello spazio vibrazionale che costituisce la relazione.
Sta avendo delle idee per i prossimi anni, qualche elemento su cui agire e rilanciare?
Le idee arrivano in continuazione, ci sono delle linee di tensione che mi animano e questa edizione ne ha alcune tracce come il progetto ReciproCity, che vuole intrecciare un rapporto sempre più stretto tra i linguaggi della performance e la città. Mi interessa anche comprendere il nesso tra teatro e poesia, dopo tanti anni in cui la centralità è stata posta sul teatro di narrazione; infine lavorare su formati aperti, che da un punto di vista organizzativo sono più complessi, ma per me è molto importante creare situazioni in cui le persone siano coinvolte e possano condividere uno spazio e un tempo.
Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.
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