Per la 60° Stagione al Teatro Greco debutta a Siracusa con Lisistrata di Aristofane la regista Serena Sinigaglia,con Lella Costa nel ruolo di protagonista e un ricco cast composto da Marta Pizzigallo, Cristina Parku, Simone Pietro Causa, Marco Brinzi, Francesco Migliaccio, Stefano Orlandi, Pilar Perez Aspa, Giorgia Senesi, Irene Serini, Aldo Ottobrino, Salvatore Alfano, Didi Garbaccio Bogin, Beatrice Verzotti, Alessandro Lussiana, Stefano Carenza e le giovani attrici e i giovani attori dell’Accademia della Fondazione INDA.
La scena firmata da Maria Spazzi è dominata da un grande telaio i cui bandoli rossi si dipanano per tutto il palco suggerendo l’idea di una matassa incontrollabile. Lo spettatore intento a scoprire il significato di quell’immagine è presto accontentato dalle parole della stessa Lisistrata: si tratta dei fili del governo, della politica che persegue l’interesse del più forte e dimentica il bene e il giusto. L’esito della peggiore politica è noto, è la guerra. In questa trama lacera e intricata, con abiti altrettanto lisi si muove smarrito il personaggio della Pace – non presente da testo e voluto da Sinigaglia, interpretato dalla danzatrice Giulia Quacqueri.
Il testo e la regia pongono così fin da subito la questione: chi è che paga la scelta di pochissimi di andare in guerra? In questa gerarchia di sconfitti, emergono le donne; madri, mogli, sorelle di uomini mandati a morire da altri uomini che, incapaci di fare politica per la città finiscono per farla contro la città. Aristofane intercetta in questo senso una delle chiavi di lettura più feroci e squallide del maschile, vale a dire il bisogno di violenza declinato su due livelli: le relazioni pubbliche e quelle private. Per entrare nel vivo del concetto ne abbiamo parlato con la regista.
Nella costruzione di un nuovo spettacolo lei talvolta parte da “l’impulso informe”, vale a dire un’urgenza comunicativa primaria a partire da cui articolare il lavoro. Nella messa in scena di Lisistrata qual è stato l’impulso che ha seguito?
SerenaSinigaglia: Il mio impulso informe, – termine che ho rubato a un grande maestro del teatro del Novecento che è stato Peter Brook – leggendo e lasciando risuonare le parole di Aristofane, si muoveva su due piani. Il primo è stato: qui si parla di qualcosa di profondamente tragico, di profondamente serio, si ride ma si ride di qualcosa che è serissimo, cioè la guerra, e questo testo è un’operazione sana e feroce di satira contro i malgoverni che ci portano alla guerra. Aristofane da autore enorme quale era riesce a declinare un discorso politico, cioè il malgoverno genera la guerra e la guerra genera la fine della civiltà, anche nel rapporto tra i sessi, che è forse la parte più famosa del testo. Ma in realtà queste due parti a mio avviso sono parimenti importanti perché sono lo stesso concetto declinato uno su una visione pubblica e l’altro su una visione privata, cioè se le relazioni tra gli esseri umani si fondano sulla violenza e sul possesso non possono fare altro che creare distruzione; se le relazioni umane si rivolgono all’amore, alla cura, alla comprensione, all’ascolto, invece, creano.
Questa polarità tra due modi di costruire e decostruire i rapporti è enfatizzata in scena dall’opposizione donna-uomo. Lo spettacolo si articola in un susseguirsi di quadri, arricchiti dai movimenti di Alessio Maria Romano e dai canti della coppia Francesca Della Monica, Ernani Maletta, in cui la fedeltà al giuramento di castità prestata dalle donne – ora nei panni della cerchia politica di Lisistrata, ora nella terna delle vecchie o ancora nel coro delle giovani – ha la meglio sull’inconsistenza delle ragioni degli uomini. Lo scontro tra i due sessi apre a due visioni del mondo antitetiche, ben sintetizzate dallo strumento del telaio: da un lato la pazienza e la cura del femminile, dall’altro l’irruenza e l’irascibilità del maschile. Qual è in questo contesto la funzione dell’espediente centrale dello sciopero del sesso?
S.S.: Qui arriviamo al secondo forte impulso che ho sentito di dover seguire: il sesso è solo una metafora, un pretesto per parlare della qualità di relazione nei rapporti. È una metafora fortissima perché l’istinto sessuale è identico nella relazione tra due individui ma sta alla base anche dell’impulso di guerra, le armi stesse sembrano delle protuberanze simili a quel maschile che Aristofane irride. Sentivo il bisogno che in questo quadro ci fosse anche eleganza, grazia, che non ci fosse mai scontatezza, che non si cadesse mai nella parodia, che si tenesse sempre presente questa luce della disperata ricerca di pace senza l’illusione di trovarla ma con l’intenzione di non smettere di cercarla. E che quella rivoluzione è una rivoluzione anche nella qualità di relazione tra gli individui, questo è stato l’impulso che mi ha guidata alla messa in scena.
Questo bisogno di grazia, eleganza, fuggendo il rischio di cadere nella banalità così come nel registro comico-grottesco di Aristofane, è perfettamente rappresentato dalla figura di Lisistrata. Da un punto di vista registico cosa ottiene in questo modo il suo personaggio?
S.S.: In primo luogo, ottiene il fatto di essere super partes e questo aiuta il meccanismo comico, perché diventa così l’unica figura raziocinante in un mondo in preda agli istinti dionisiaci; questo suo essere assennata crea di per sé un contrasto comico che credo Aristofane avrebbe apprezzato. Francamente io penso che anche Aristofane la vedesse così perché questo aspetto sacerdotale, serio, le è proprio, anche se poi di fatti è semplice razionalità. Lisistrata è una persona intelligente che usa la sua intelligenza per cercare di portare buonsenso intorno a sé, ma se intorno a sé c’è il circo e il delirio, questo oltre a ricordarci come siamo ridicoli e pericolosi quando silenziamo la ragione, mi permetteva di potenziare anche la dinamica comica. In questo va poi sottolineata la bravura di Lella Costa, l’attrice perfetta per fare questo ruolo perché ha intelligenza, eleganza, grazia ed è dotata di un’ironia sottile e credo che poi all’atto pratico il pubblico abbia compreso e apprezzato questa scelta.
Nel corso delle repliche ho visto che ridono moltissimo, poi si commuovono e restano, giustamente turbati dalla serietà della materia. D’altronde il meccanismo di questa commedia è quasi perfetto, quasi tutta la commedia successiva ha imparato su Aristofane e Lisistrata è uno dei testi su cui più si impara, non mi serviva neanche capire come far ridere perché a questo ci aveva già pensato lui. Ho pensato che il mio dovere fosse far emergere tutta la profondità del discorso, tutta la rivoluzione politica, tutta la grazia e perfino la forma ironica di sguardo verso un’umanità che sembra proprio non essere all’altezza della situazione.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.
Nella cornice del Teatro della Cooperativa di Milano, impegnato dal 2001 nella riqualificazione culturale del quartiere Niguarda, è andato in scena dal 6 all’11 maggio un reading fra teatro e musica dal vivo su L’avversario di Emmanuel Carrère. A dare voce al romanzo dello scrittore francese, Arianna Scommegna e Mattia Fabris, accompagnati dalla chitarra di Massimo Betti e prodotti da A.T.I.R.
Come si conviene ad un reading teatrale, ad emergere dalle voci degli interpreti non può che essere il testo di Carrère. La trama de L’avversario ruota attorno un fatto realmente accaduto che forse non potrebbe essere annoverato con facilità neanche nella categoria di cronaca nera, tanto singolare e sconvolgente è la storia che racchiude.
Nel 1993 tale Jean Claude Romand – con cui Carrère entrò realmente in contatto dopo la cattura, seguendone il processo – uccise sua moglie, i due figli, i suoi genitori e la sua amante Corinne. Il movente, che gli procurò l’ergastolo, era l’impossibilità di portare oltre una menzogna che teneva insieme i pezzi della sua vita da quasi vent’anni.
Un percorso universitario presso la facoltà di medicina di Lione, interrotto dopo appena due anni, diede il via alla creazione di una realtà parallela in cui far confluire ogni sforzo affinché fosse creduta vera. La laurea, la conseguente assunzione come ricercatore all’OMS, i continui viaggi di lavoro, un linfoma insopportabile, fecero da impalcatura alla seconda vita di Romand, trascorsa in realtà nascosto tra i parcheggi degli autogrill e i boschi della Giura. Naturalmente niente di tutto ciò era vero, tranne gli onerosissimi prestiti che per ragioni di lavoro, o più semplicemente per curarsi, andava accumulando.
Scommegna e Fabris, incalzati da Betti, restituiscono con grande precisione l’intelaiatura fittissima delle pagine di Carrère, cercando di districare i bandoli della matassa di una mente che eleva la menzogna a tal punto darenderla una ragion d’essere, una condizione di sopravvivenza. Non a caso, l’architetto Romand progetta e dirige bene i lavori finché non realizza l’impossibilità di insistere nel falso: tutti avrebbero scoperto i suoi enormi debiti e questo avrebbe significato sostenere il peso della verità che viene a galla.
Ed è proprio davanti a quest’incombenza che Romand persegue disperatamente sé stesso: si nega, negando la vita dei suoi cari e tentando di arrischiare la propria. Attraverso le voci degli interpreti, che cambiando registro si alternano con mestiere nel dare corpo ai personaggi, seguiamo da vicino il paradosso della menzogna che non si libera di sé stessa.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.
Per la 60° Stagione al Teatro Greco di Siracusa torna in scena Edipo a Colono con la regia di Robert Carsen, secondo atto della Saga dei Labdacidi a cura del regista canadese che, dopo l’Edipo re del 2022 tornerà in scena nuovamente il prossimo anno con l’Antigone. Ad indossare le vesti lacere, da supplice di Edipo è anche questa volta Giuseppe Sartori, protagonista di un’interpretazione di rara sensibilità artistica. Lo abbiamo intervistato per conoscere da vicino la sfida di portare in scena un personaggio che non smette di emozionare.
È molto raro che al Teatro Greco di Siracusa un attore abbia la possibilità di interpretare lo stesso personaggio in due tragedie diverse in un lasso di tempo così breve, tanto più che abbia la possibilità di farlo condividendo l’esperienza con lo stesso regista. Com’è stato riprendere quello che avevi messo in pausa appena tre anni fa?
Mi sento da questo punto di vista molto fortunato, anche perché l’intera squadra tecnica era la stessa di tre anni fa, quindi si partiva, oltre che dalla regia ovviamente, anche degli stessi reparti di costumi, musica, luci e movimenti. Si è trattato di riprendere in mano un alfabeto che già avevamo cominciato a condividere, però con tutte le differenze del caso date dalla drammaturgia. In questo senso è stata una fortuna perché anche se in questo testo sono passati anni dagli avvenimenti dell’ultima tragedia, Edipo è un personaggio in cui il passato è sempre presente, e anche se rimane incapsulato, il dolore di allora è qualcosa che viene fuori costantemente.
Durante la prima avevo dei flashback della messa in scena di tre anni fa, e in questo senso è stata una doppia fortuna avere dei riferimenti molto concreti, vivi, di quello stesso palcoscenico. Ogni volta che devo nominare mia madre, non posso non pensare alla mia collega Maddalena Crippa e alle scene che facevamo insieme, non posso non pensare a come abbiamo messo in scena il momento in cui Edipo scopre tutto. Ogni volta che in Edipo Colono viene riproposto il ricordo di ciò che fu, non posso non rifarmi ai ricordi della nostra messa in scena di tre anni fa. Così come nelle due scene tra me e Creonte – e qua parlo a nome mio ma credo anche a nome di Paolo Mazzarelli che interpreta il personaggio di Creonte – ci portiamo un vissuto reale che da colleghi abbiamo condiviso tre anni fa e ora riproponiamo con gli stessi personaggi che hanno subito l’intervento del tempo. In qualche modo la serialità è sempre stata presente nei grandi cicli dell’antichità e quindi la fortuna di poter portare avanti lo stesso personaggio porta anche a questo vantaggio: in qualche modo adesso è diventato una piccola storia anche all’interno del percorso di un personaggio immaginario.
Relativamente al personaggio di Edipo, porti sul palco la caratteristica che da un punto di vista fisico lo contraddistingue, cioè la cecità. In questo caso qual è stato il lavoro preparatorio sull’assenza della vista e com’è stato poi andare in scena senza di essa?
Il discorso spaziale è qualcosa che da subito si riesce a superare, nel senso l’imbarazzo spaziale che la cecità provoca. Potrei fare come esempio quello di ognuno di noi a casa propria, che anche senza luci si sa muovere perché ricorda la posizione degli oggetti: in qualche modo anche in quello che poi diventa il palcoscenico il corpo memorizza lo spazio, quindi, in quel senso la cecità non diventa qualcosa di necessariamente invalidante. La vera sfida di recitare senza l’ausilio della vista è per me nella relazione con i colleghi e in quello che poi diventa tempo scenico perché non hai l’ausilio di ciò che primariamente veicola l’aspetto comunicativo, cioè lo sguardo.
Mentre dal punto di vista spaziale interviene la sapienza del corpo, invece dall’altro il vero lavoro è stato sul rapporto con l’altro che veniva a mancare, o meglio, veniva a mancare il modo che mi era conosciuto per instaurarlo. Anche a livello ritmico, di tempo, senza l’ausilio della vista un piccolo silenzio sembra un’enormità, qualcosa che normalmente tu riempi con lo sguardo o con l’intenzione che puoi far passare attraverso lo sguardo, ecco devi trovare un altro modo per farlo. Ho capito alla fine che non basta solo il ritmo, non basta solo il corpo, deve esserci sempre una mescolanza di tutti i vari fattori che fanno significare l’essere in scena.
E in questa stessa questione il riferimento al pubblico è stata una tematica che hai vissuto?
È stato molto strano non avere coscienza di chi avessi davanti; in un certo senso se ne ha comunque coscienza perché il pubblico lo senti, lo percepisci anche senza vederlo, però pensavo mi mancasse di più l’apertura verso la grandezza dello spazio. In qualche modo ne ho dovuto fare meno e mi sono limitato ad ascoltarlo.
A proposito di un’altra caratteristica centrale di questo secondo atto, Robert Carson ha parlato di una forma di santità legata al personaggio di Edipo che ormai ha fatto tesoro del dolore che sta vivendo e ha vissuto, e l’ha talmente accettato da esser pronto ad una sorta di ricongiungimento con la natura e con la morte. In che modo avete lavorato su questa caratteristica?
Questo è il lato più ancora attivo del lavoro, qualcosa che costantemente cercherò e che la direzione del mio lavoro deve cercare di avere, anche se a volte il testo va contro questa idea. Questo testo viene letto da tutti, dalla critica, da chi lo studia, proprio come questo atto, un uomo che lascia andare ogni attaccamento terreno e si libera dal fardello della vita terrena e viene assunto in un’altra dimensione, in qualche modo travalica una dimensione conosciuta. Eppure il testo a volte ti porta da tutt’altra parte perché sembra che non faccia altro che rimestare su vecchi dolori, riportarli a galla, sembra che a volte il personaggio rischi di ritornare preda dell’ira, dell’hybris che lo condannò. Il lavoro invece, con dei tagli e con una serie di accortezze, è quello di far sì, nel rispetto dell’andamento generale dello spettacolo, di provare a portare sul palco un personaggio che scena dopo scena si libera di una questione, come se la dovesse digerire e lasciare andare, come se ogni scena diventasse un gradino di questa famosa scala che lo porti a liberarsi dalle catene terrene.
Il testo a volte ripeteva molti concetti e quindi questo percorso veniva oscurato dalle tantissime ripetizioni che noi sappiamo che in antichità erano propedeutiche a ricordare costantemente allo spettatore non attento cosa fosse successo. In età moderna dobbiamo invece a volte sacrificare certe ripetizioni per far venire fuori l’azione. L’obiettivo finale è quello di essere fedeli alla linea di un personaggio che arriva in questo luogo, che capisce essere il luogo finale, la destinazione finale della sua esistenza e in cui, momento dopo momento, tutti i personaggi arrivano da lui. Non sarebbe peregrino immaginare che in qualche modo è la sua volontà a evocarli per risolvere con ognuno una questione e liberarsene. Arriva Ismene, arriva Creonte, arriva Polinice, arriva Teseo da cui ottiene l’ospitalità e di essere accolto come supplice. In qualche modo ha bisogno di risolvere con tutti, soprattutto con i membri della sua famiglia, tutte le questioni in sospeso e finalmente dire addio e andarsene.
E questo è un dato oggettivo, il personaggio principale essendo cieco limita la sua possibilità di movimento e quindi per forza di cose dovrà essere lui la forza che chiama gli altri. Vediamo un personaggio le cui battute talvolta sfiorano il confine della profezia e della conoscenza di qualcosa tramite intervento divino. È quindi un personaggio che già a volte si presenta, per quanto noi lo vogliamo mantenere molto terreno e concreto rispetto al suo percorso, con le sfumature che già appaiono appartenere a qualcosa d’altro, privato della vista ma che vede altro. D’altronde è un luogo tipico della letteratura greca, questo equilibrio tra privazione della vista e aumento di conoscenza.
Tornando alle intenzioni del testo, cosa credi che abbia da dire oggi una tragedia lontana sotto molti punti di vista dal tipo di cose che siamo abituati a vedere e dal tipo di concetti su cui siamo portati a riflettere? Cosa credi che uno spettatore porti a casa?
Non so se sono in grado di rispondere a questa domanda, però credo che in profondità questo testo è come se in qualche modo, passami il termine, insegnasse a morire. Corro il rischio di esagerare, ma in genere abbiamo sempre bisogno di vedere in scena un gladiatore che muoia al posto nostro e che provi a gettare luce su quello che aspetta e spaventa tutti noi. In qualche modo si vede qui questa esemplificazione del dolore umano, perché se qualcuno sa chi è Edipo, archetipicamente si trova di fronte all’emblema del martire, vittima di sé stesso e del destino, e che nonostante tutto ha sopportato, è riuscito a venire a patti con quello che è successo e che non si rassegna, trovando ulteriore significato con l’ultimo passo che deve compiere, che è quello della morte. Questo aspetto della morte è assolutamente presente e credo che sia questo a parlare ancora; di sicuro in questo c’erano le riflessioni di un Sofocle quasi novantenne intento anche lui a pacificarsi con la morte.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.
Debutta al Teatro Franco Parenti di Milano Schegge di memoria disordinata a inchiostro policromo, lo spettacolo, scritto da Gianni Forte e diretto da Fausto Cabra, che affonda le radici nel caso giudiziario Billy Milligan. Nella seconda metà degli anni Settanta un ragazzo appena ventiduenne venne accusato di aver rapinato e violentato tre studentesse della Ohio State University. La condanna a suo carico, all’apparenza inevitabile, non fu però mai emessa perché Billy venne giudicato non colpevole a causa di infermità mentale. Si trattò del primo caso di personalità multiple riconosciuto dalla giustizia americana: nel corso dei mesi che seguirono l’arresto, a fronte del lavoro di un team psichiatrico, emersero ben ventiquattro personalità distinte presenti in Milligan, ciascuna con uno specifico modo d’essere, d’agire, di relazionarsi.
Nell’uso biografico che della materia fanno Forte e Cabra, scrittura, scene e suono entrano ed escono in continuazione dal piano narrativo principale del caso giudiziario per indagare le ragioni profonde di quello che altrimenti si configura come un semplice fatto storico. La sfida dello spettacolo, posta l’infermità per disturbo di personalità multiple dell’accusato, è di cogliere il rapporto tra unità e frammentazione e il modo migliore di restituirlo in scena. Ne risulta un uso spezzato, discontinuo degli strumenti scenici, come a voler riprodurre la struttura episodica di una mente incapace di coerenza. La macchina teatrale eleva la segmentazione della psiche da elemento distintivo dell’episodio di cronaca a dispositivo narrativo.
Lasciamo così, almeno per qualche tempo, la ricostruzione del caso per entrare tra le pieghe dei ricordi e delle pulsioni di Billy Milligan. Seguendo l’andamento di questa narrazione singhiozzata, il pubblico viene messo a tu per tu con le varie personalità che dimorano dentro il corpo del ragazzo: emergono quelle fragili, quelle manipolatrici, quelle disposte a collaborare e quelle affamate di caos, tutte interpretate con uno sforzo attoriale di alto livello da Raffaele Esposito. Anna Gualdo ed Elena Gigliotti si alternano nei ruoli di madre, psicologa, agente di polizia, studentessa.
Gli oggetti presenti in scena e il tappeto di suoni proposti rendono percepibile a livello sensoriale la frammentazione dell’identità del protagonista, insistendo sul confine labile tra realtà e immaginazione pura: elementi come un tavolo o una televisione possono all’occorrenza, in base al Billy che abbiamo di fronte, mutarsi in altro o richiamare una delle tante schegge di memoria del protagonista. La funzione della materia come occasione di ricordo assume un ruolo ancora più rilevante sul finire della pièce, quando il contatto con la terra riporterà alla luce il passato di traumi subiti da Billy: il suicidio del padre, gli abusi sessuali e le violenze da parte del nuovo patrigno su di sé e sulla madre.
In questa continua oscillazione tra ciò che esiste per lo spettatore e ciò che invece è reale solo per una delle tante personalità, il testo di Forte si ritrova a trattare temi universali a teatro e nella vita umana: il confine tra realtà e auto-menzogna si presenta come la pietra angolare dell’intero spettacolo, impedendo al pubblico di propendere verso uno dei due opposti e riproponendo la domanda millenaria di Pilato: “cos’è verità?”. La questione qui può non essere risolta e rimangono perciò intatti molti dubbi: come giudicare i crimini di un soggetto alla luce di un simile quadro clinico? Che tipo di coinvolgimento empatico suscita un profilo del genere? È possibile tracciare una linea di demarcazione tra verità e illusione? Mentre usciamo da teatro, sospesi e sballottati da queste domande, capisco che siamo già intenti a farci i conti.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.
Debutta al Piccolo Teatro di Milano Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III, il nuovo spettacolo del regista uruguaiano di fama internazionale Gabriel Calderòn con Francesco Montanari, attore unico di un monologo potente. L’ambizione di Riccardo per il trono d’Inghilterra si mescola fino a fondersi del tutto con quella di un attore di mezza età cui si spalanca per la prima volta l’opportunità di un ruolo da protagonista. Calderòn e Montanari danno luogo ad un’indagine senza spazi di riflessione sulla natura umana posta a tu per tu con l’occasione di una vita, ne abbiamo parlato con il regista.
Nel titolo dello spettacolo dai le prime informazioni allo spettatore, si tratterà della storia di un cinghiale. Perché il riferimento a questo animale? Cosa rappresenta nella tua drammaturgia?
Il simbolo del cinghiale torna nel dramma di Riccardo III perché in primo luogo richiama lo stemma della famiglia York. Per di più si tratta di un cinghiale bianco, che è una singolarità in natura, e mi colpiva come mi potrebbe colpire un cigno nero. Ma se il cigno nero è qualcosa di non particolarmente raro in natura, non capita invece di incontrare un cinghiale bianco, anche se perfettamente naturale. Cosa intendo dire? Che è qualcosa di raro, ma di insito in ognuno di noi, qualcosa che cerchiamo di contenere, proprio come l’ambizione di Riccardo. Questa era l’immagine iniziale: l’ambizione di Riccardo, la deformità di Riccardo, non erano qualcosa di raro, ma tutto il contrario, erano comuni.
Il cinghiale non è un animale strano, o particolarmente interessante, né tantomeno gradevole da vedere, se ne possiedo uno non vado certo ad esibirlo. Allora mi sembrava che lì ci fosse l’anima dello spettacolo: una cosa rara ma naturale e che non siamo orgogliosi di avere. Il Riccardo su cui io volevo lavorare poteva essere quel tipo di attore, un attore che tutti sappiamo esistere, però che raramente si vede nelle foto, con cui non ci congratuliamo, di cui non parliamo. Inoltre, al di là di questo, il cinghiale è un animale selvaggio, brutale, disgustoso, forte, è anche molto pericoloso e le metafore animali sono sempre molto presenti in Shakespeare.
Il tuo Riccardo, che è interpretato da un attore con caratteristiche fisiche molto lontane da quelle del personaggio di Shakespeare, sembra avere un aspetto molto più umano, perché hai scelto di fare questa inversione e qual era l’obiettivo?
L’intenzione era inizialmente quella di allontanarci un po’ dai preconcetti, ossia, quando uno va a vedere Riccardo III si aspetta una deformità, si aspetta un cattivo, e diciamo, per me questo era già presente perché, se è nella mente dello spettatore, noi non abbiamo bisogno né di confermarlo, né di sottolinearlo. La cosa interessante è iniziare a lavorare sull’idea preconcetta dello spettatore con alcune altre immagini, con qualche altra possibilità; in questo caso l’idea di avere un attore molto più, tra virgolette, normale, più vicino a noi, in cui deformità e cattiveria vengono da ciò che pensa, non dalla figura. In Shakespeare anche questo è molto comune, il deforme è una metafora, sebbene Riccardo lo fosse, però la deformità è una metafora del dramma, non una deformità reale. Si rappresenta sempre un Riccardo deforme, infastidito, arrabbiato, però forse in questi tempi di politicamente corretto, uno dovrebbe iniziare ad avere molta più empatia con quel Riccardo, no? Con quella persona con scoliosi, dall’aspetto sgradevole, che tutti allontanano, non scelgono. Allora, sarebbe interessante una versione di Riccardo dove lui è la vittima e non il carnefice. E questo è ciò che abbiamo provato a mettere in scena. Di per sé non c’è niente di originale, ma l’originalità viene dalla lettura di un’epoca. E nella lettura che propongo si tratta più di normalizzare o naturalizzare la deformità di Riccardo, la sua cattiveria, e cercare di trovarla in un territorio che conosco molto bene, o che conosco molto più del territorio dei re, cioè il territorio degli attori e del teatro.
Nel tuo spettacolo la drammaturgia ha un andamento molto denso, rapido, senza esitazioni. Che funzione ha la parola in un monologo con un ritmo così serrato?
La prima ragione è molto semplice, ed è perché a me piace così. Cercando di capire perché mi piacesse, mi sono risposto che credo che nella velocità si comprendano le cose in modo diverso che nella lentezza. Non c’è una cosa peggiore dell’altra, non è meglio andare più veloce, sì tratta di capire cosa ti piace della velocità. Per esempio, quando l’attore sta creando il suo personaggio ha bisogno di andare lento per comprendere via via. Invece io dico sempre, no, andiamo veloce e prendi quello che puoi. Non importa prendere tutto, importa quello che tu riesci ad afferrare. Se io ti dico, esci veloce da casa tua, fai in fretta e prendi quello che puoi, dopo quando saremo lontani da casa possiamo metterci a pensare perché hai preso quelle due o tre cose, e questo dice qualcosa di te.
Dopo c’è un’altra cosa, il ruolo della parola, cioè in questo caso non lasciarle tempo per spiegarsi da sola. Se io chiedo di dire “ti odio”, un attore generalmente cerca di motivare quell’odio. E se io vado a dire, dopo il “ti odio”, “ti amo”, l’attore deve fare un grande lavoro perché deve sostenere prima un odio e dopo un amore. Allora, il lavoro dell’attore diventa molto faticoso perché deve capire logicamente perché pronuncia quelle parole. Ma quando il lavoro è in velocità non c’è tempo e così non serve sistemare il corpo, impostare una reazione prima. In un certo senso, questo succede anche allo spettatore. E a questa velocità la parola diventa fondatrice del dramma e non conseguenza del dramma. Allora, la parola diventa promotrice di azione.
In un certo senso lo spettatore sta ricevendo e ricevendo, ad un tratto finisce lo spettacolo, deve uscire e dice, beh, adesso devo andare a lavorare con tutto questo perché non mi hanno lasciato tempo per decidere. Questo tipo di spettacolo è quello che a me piace fare. A me piacciono gli spettacoli che mi sfidano nella capacità di immagazzinamento che ho nel mio occhio, nel mio cervello e nel mio cuore. Regista, attori, datemi qualcosa, io dopo decido, non dirmi come gestire questo, come deve cadere questo, quanto è importante questo. Lasciami uno spazio in cui io faccio il lavoro. Quando si allestisce uno spettacolo con questa intensità e a questa velocità è fastidioso molte volte per lo spettatore. Lo spettatore vorrebbe andare un pochino più lento, godersela, però beh, per quello c’è la vita. Per quello il tempo è di tutti, e per tutti diverso: ognuno lo decide.
C’è una frase di Heiner Müller in Tutti gli erroriin cui si dice che bisogna caricare sullo spettatore la maggiore quantità di informazione possibile. Che sia lui a decidere cosa si porterà via e cosa lascerà. È un modo di dare potere alla parola. Se la parola è lì, come proiettile, allora posso usarla per affondare, ossia, per promuovere azione e non per confermarla.
C’è poi un’ulteriore ragione che ho notato osservando i miei figli. Molte volte io arrivo a casa e dico ai miei figli cosa stanno facendo, e loro spesso mi rispondono niente. E io li vedo che stanno disegnando con la tv accesa mentre guardano un tablet lì accanto. Allora, loro mi dicono niente, però stanno facendo tre o quattro cose alla volta. Questo lo vedo tutti i giorni con i miei figli ma succede in tutto il mondo. Tutto il mondo dice, sono annoiato e nel frattempo sono al cellulare a parlare con amici che sono in un altro paese mentre sto comprando un mobile online. Ossia, io credo che il cervello, l’occhio e l’attenzione si siano allenati a ritmi elevati e molte informazioni. Però a volte a teatro è come se entrassimo in un tempio in cui ci diciamo, no, adesso tranquilli, ritorniamo alla lentezza. E io credo che il tempo e la lentezza del processo siano una delle possibilità del teatro, ma non l’unica, e io devo giustificare un’altra velocità, cioè un’altra possibilità a teatro. Ed è un modo per caricare informazioni sul pubblico. Quando questo spettacolo finisce io sento che gli spettatori hanno bisogno di tempo, hanno bisogno del bar. Io poi chiaramente amo il teatro, mi piace moltissimo e mi piace andarci, però chiedo sempre quanto dura l’opera, e se dura più di un’ora e mezza, c’è qualcosa dentro di me che muore. Ora, a me piace il teatro, ma perché voglio starci poco? Mentre io risolvo questo dilemma, so che questo mio cervello è uno dei cervelli dello spettatore. Allora parlare velocemente è anche un modo di arrivare ad uno spettatore come me prima che vada via, prima che perda l’attenzione.
Riccardo III, come molte delle opere di Shakespeare, presenta decine di personaggi, laddove tu hai scelto di mettere in scena un solo attore. Quali sono le sfide di una riduzione così drastica?
Ogni volta che appare qualcosa che non è possibile fare, allora è interessante per il teatro. Se no è semplicemente una ricetta, mi annoia, è già fatto, che lo faccia chiunque. Allora, ogni volta che appare uno spazio di impossibilità, il teatro ha una possibilità. Ha una possibilità di fare teatro, non di essere una buona traduzione. Questo è il primo termine. Il secondo termine, il bello di lavorare con i classici, è che ci sono molte informazioni che sono già nella testa della gente. E se non sono nella testa della gente, è un lavoro, è un debito che loro portano. Venire a vedere un adattamento di un’opera di Shakespeare e non sapere niente, beh, significa che hai grandi possibilità di uscire confuso. L’altra cosa è avere molto da fare, è una buona possibilità per non fare. Sembra una libertà. Se tu hai una cosa da fare, devi farla. Ora, se ne hai 27, beh, andiamo a vedere cosa puoi fare. E questo è l’interessante di essere un attore: farai 39 personaggi, e poi si vedrà, va bene? Allora diciamo che per me vale la regola, quanto più impossibile è l’impresa, quanto più impossibile è il progetto, più possibilità c’è di successo a teatro. Questo sembra un controsenso, però l’obiettivo del teatro non è tradurre, non è spiegare. Il teatro deve, diciamo, teatrare, deve fare teatro.
E allora, fare teatro ha molto più a che vedere con l’impossibilità. Noi non andiamo a teatro a vedere Amleto. Non esiste Amleto. Quello che vogliamo vedere è un attore che ci prova, e vogliamo vedere se gli riesce bene o gli riesce male. E se gli riesce male, cosa molto probabile, abbiamo cose da commentare dopo al bar. Se gli riesce bene, usciamo tutti come sorpresi, non riusciamo a crederci. Questo perché sappiamo che il buon teatro è molto difficile. L’usuale è cattivo teatro. E beh, allora questa è un po’ la ragione che mi motiva a dire che un attore che fa tutti i personaggi è un’impresa impossibile. E allora dai, andiamo a fare questa battaglia, nello stile di Riccardo III. Nel teatro, per me, è molto più importante il tentativo di fare qualcosa che il successo di farlo. E la gente viene a vedere quel tentativo.
Ora, Lagarce ha scritto un’opera che si chiama Le regole del saper vivere nella società moderna. È un monologo prezioso in cui una dama dell’alta società dà le regole per saper vivere da quando si nasce a quando si muore. È impossibile. Dice come nascere, come fare i primi passi, come innamorarsi, come sposarsi. Tutto è regolato. La vita non è così. Però è interessante per il tentativo di Lagarce di regolare tutto: è meraviglioso. Non appena ci si pone un obiettivo così grande, l’impresa diventa interessante, difficile, magari anche fastidiosa. Ma c’è abbastanza soddisfazione pronta all’uso targata Netflix per poter essere anche fastidiosi. Il teatro ha altre emozioni che non hanno a che vedere con la soddisfazione.
A proposito della funzione del teatro, qual è lo stato attuale del teatro in Uruguay? Quali sono le differenze principali che hai notato lavorando in Italia con una realtà come il Piccolo Teatro di Milano?
In Uruguay ci sono molti teatri e siamo un paese con una grande tradizione teatrale, di teatro indipendente. Lo Stato non sovvenziona alla maniera europea. Non ci sono teatri pubblici che producono teatro, bensì programmano gruppi indipendenti e non li pagano. Vivere di teatro è qualcosa che in Uruguay non si può fare, salvo qualche eccezione. Tutti gli artisti che io amo, ammiro, i miei maestri che hanno dedicato la loro vita al teatro, fanno altri lavori, in banca, danno lezioni, in una scuola. Così è come si fa teatro in Uruguay, le prove sono alle 20:00/21:00 perché è quando tutti escono dal lavoro e possono incontrarsi. Questo fa sì che il teatro sia una cosa molto passionale, molto seria. Questo dà molti svantaggi, ma anche alcuni vantaggi. Il primo è che nessuno fa teatro per denaro. Ma questo è anche un grande limite perché in questo modo il teatro diventa qualcosa di molto duro, perché se lavori tutto il giorno, alle 20:00 ti piacerebbe andare dalla tua famiglia, o dal fidanzato, dagli amici. Invece noi andiamo in una sala teatrale e proviamo fino a mezzanotte. Allora il teatro inizia a diventare una cosa per cui se non sei molto convinto, lo abbandoni, perché non ha senso, nessuno ti paga e in più ti toglie le migliori ore del giorno. Quindi posso dire che in Uruguay, come si Argentina e in Cile, si incontrano realtà teatrali piccole, di grande qualità, però non sovvenzionato, né sostenuto, né economicamente redditizio.
L’Uruguay ha attrici e di attori di grande talento, e dato che il sistema è indipendente, un attore medio in Uruguay arriva ai trenta o quaranta anni avendo recitato in venti, trenta spettacoli professionali con pubblico. E questo ti dà una muscolatura molto forte, un attore, un’attrice che ha venti spettacoli professionali alle spalle all’età quarant’anni, si sente, si vede nell’allenamento. La mia situazione è di un certo privilegio, perché io sono riuscito a lavorare fuori. Però a parte questo, l’Uruguay è un paese stabile, è un paese politicamente tranquillo, non ci sono guerre, non ci sono disastri naturali, è lontano dal centro economico del mondo perché siamo a sud, però è un paese con una qualità della vita alta. Per quanto riguarda la possibilità di lavorare al Piccolo, invece, per prima cosa senti la consapevolezza di entrare in uno spazio mitico, un grande teatro europeo. Ho trovato molte, molte persone impegnate a fare teatro, ed è stato un piacere per me stare lì, lavorare nei laboratori, nella sartoria, nella scenografia. Essere un artista dell’Uruguay con un’idea pazza di fare qualcosa e vedere che tutta la macchina si mette in moto per produrre quello spettacolo per me è stato davvero una grande fortuna.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.
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