Stiamo lavorando per voi (ci scusiamo per il disagio), il cantiere performativo di Claudio Larena

Stiamo lavorando per voi (ci scusiamo per il disagio), il cantiere performativo di Claudio Larena

Ad arricchire la programmazione del Romaeuropa Festival torna anche quest’anno la rassegna dedicata alla scena teatrale emergente Anni Luce, sotto la direzione di Maura Teofili. Per l’occasione abbiamo intervistato Claudio Larena, autore e performer dello spettacolo Stiamo lavorando per voi (ci scusiamo per il disagio) in cartellone il 3 e il 4 ottobre presso gli spazi del Mattatoio.

Lo spettacolo prende le mosse dalla visione abituale del cantiere stradale come ingombro, cercando di rileggerlo come luogo quotidiano del nostro spazio urbano: da cosa è scaturita l’esigenza di decostruirlo dalla sua funzione originaria e, anche attraverso lo spazio del teatro, volerlo raccontare in una maniera differente?

L’esigenza che sta alla base di questo testo è nata quasi per caso, da un pensiero che è nato ormai forse due o tre anni fa. Avevo montato questa struttura abusiva, clandestinamente, nella piazza d’ingresso del Mattatoio, che è questo enorme spazio a Roma dove ci sono diverse istituzioni culturali. La cosa che mi aveva più colpito è il fatto che questa struttura, che era una teca in legno con delle sculture all’interno, non era stata vandalizzata. Eppure era una scultura che non aveva nessuna motivazione, nessuna giustificazione per stare lì, non c’era nulla che dicesse che cosa o di chi fosse. Spesso incontravo delle persone che la commentavano dicendo “chissà da chi ha ricevuto i permessi questa struttura per essere qua”, e credo che pensassero che fosse della Facoltà di Architettura o del Mattatoio, o ancora del MACRO. La cosa in realtà più eclatante è stata quando un’amica che lavorava al MACRO, e quindi partecipava alle riunioni organizzative, mi ha raccontato che durante una riunione del MACRO il direttore diceva di voler togliere la struttura per organizzare un evento nella piazza ma pur avendo chiamato la Polizia Municipale, il Comune, nessuno paradossalmente poteva rimuovere la struttura dato che “era a norma”.

Questa situazione è stata un po’ per me l’inizio del pensiero di Stiamo lavorando per voi (ci scusiamo per il disagio) che nasce proprio come pensiero sull’occupazione legittima di suolo pubblico, e l’occupazione legittima di suolo pubblico la ottieni se ti appropri di un’estetica legale, che in questo caso è quella della cantieristica, un’estetica che è istituzionalizzata, nel senso che è riconosciuta. Se tu ti appropri di quell’estetica e la vai ad applicare in uno spazio pubblico probabilmente non succederà niente, tant’è che infatti tutti i primi esperimenti sono stati esperimenti di occupazione di suolo pubblico, occupazione che era l’occupazione preventiva di un cantiere. 

All’interno del cantiere accadevano delle cose che andavano a creare in qualche modo un cortocircuito, perché non era effettivamente un cantiere ma accadeva dell’altro, eppure non veniva notato, quel luogo poteva stare là, noi eravamo legittimati ad occupare una porzione di spazio pubblico, illegalmente, però consentita dato che ci stavamo appropriando di un’estetica legale e normalizzata. Da lì è nato anche un discorso sull’osservazione, sull’osservazione del circostante, su ciò che notiamo, ciò che non notiamo, e il cantiere di base è sempre un potenziale spazio immaginifico dove non sappiamo quello che sta succedendo. È sempre lì e lo diamo per scontato perché diamo per ovvia la funzione di contenitore, cioè ciò che contiene i lavori in corso e finiamo per basarci solo su quello.

Quindi partendo da questo avete provato a trasformare la funzione standard del cantiere come fucina, come luogo di creazione anche di altro. Lo spettacolo poi presenta due differenti versioni, è stato concepito in un primo momento per lo spazio pubblico e solo dopo all’interno di un teatro. Com’è avvenuto questo passaggio?

Sì esatto, il progetto è nato nel e per lo spazio pubblico, e chiaramente ci siamo accorti che alcune cose, che lì funzionavano, nello spazio teatrale avevano un risultato diverso. In un teatro la finzione la diamo per assodata, quindi nella scrittura della versione teatrale ci siamo soffermati sulla superficialità, intesa non come essere superficiali ma come ciò che sta in superficie. Un cantiere, anche se non accade nulla all’interno, è effettivamente un luogo esposto, quindi ciò che avviene per forza di cose non può nascondersi perché è in superficie; la versione teatrale è andata un po’ verso questa direzione ed è diventata quasi un manifesto della superficialità. Ovviamente il messaggio che vogliamo lanciare non ha niente a che fare con lo stare in superficie e non agire, non fare nulla, ma al contrario rendersi conto di quanta complessità ci sia già in superficie, e soprattutto di quanto già la superficie porti con sé la profondità. La profondità non è un pensiero che apre una ricerca che bisogna fare su ciò che necessariamente non conosciamo, ma su ciò che è già qui: il cantiere nella scrittura teatrale è diventato metafora di questo pensiero.

Nella performance questo discorso è portato avanti giocando anche sulla questione dello sguardo: il cantiere è un luogo da cui ciascuno passando cerca di rubare con lo sguardo qualcosa di nascosto, infatti, sono luoghi un po’ proibiti anche se pubblici, e nella vita reale come nello spettacolo arriva il solito anziano con le mani raccolte dietro la schiena a cercare di scoprire qualcosa.

Sì, diciamo che è come se il cantiere rappresentasse un luogo di lancio di una serie di possibilità, di pensieri che sono però immediatamente rivolti ad un ipotetico pubblico che è un pubblico di passanti, un pubblico di persone che incontrano il cantiere. I cantieri li incontriamo sempre, quindi è un po’ come se anche volendo idealizzare al massimo questo pensiero volessimo proporre il cantiere come luogo di dibattito, come luogo di confronto e come luogo di esposizione di una serie di pensieri e di proposte che magari a volte rimangono chiuse. In questo modo invece ci siamo sforzati di pensare ad un luogo in cui qualsiasi cosa fai puoi essere vista, perché sei in superficie. Poi ovviamente nel lavoro cerchiamo anche di contraddire questa cosa e quindi di fare in modo tale che il cantiere (proprio dal punto di vista fisico nello spettacolo) si apra oppure si chiuda, permettendo ad alcuni discorsi di essere trasparenti al pubblico e ad altri di rimanere nascosti.

Questo aprire e chiudere è ben rappresentato nel vostro lavoro grazie al gioco continuo delle quattro pareti, in questo caso delle grate che vengono continuamente riassemblate per creare immaginari coinvolgenti o esclusivi per il pubblico. Questo effetto è amplificato dal ruolo della parola: che spazio ha avuto nella costruzione dello spettacolo?

Una cosa che è emersa e su cui poi abbiamo avuto modo di lavorare stando in sala, durante una fase di ricerca, va in parallelo con il pensiero del cantiere come luogo che viene dispercepito, dato per scontato; questo discorso ci ha un po’ permesso di associare la figura del cantiere alla figura della persona. Da lì la questione del come veniamo percepiti: il cantiere viene percepito come luogo di cui non ci chiediamo che cos’altro potrebbe essere, noi sappiamo che un cantiere è un cantiere, che lì ci sono dei lavori in corso, sappiamo che un cantiere di base si apre e si chiude e che quando si chiude teoricamente dovrebbe portarci soddisfazione. Allo stesso tempo alimentiamo tutta una serie di desideri o di aspettative, chiedendoci come migliorerà la città, oppure al contrario di lamentele perché dovrebbe essere un luogo all’interno del quale si trasforma il contesto urbano e quindi se poi quel contesto urbano non si trasforma in meglio io mi lamento. Tutte queste riflessioni che si fanno attorno a un cantiere, che sono le stesse riflessioni che poi si pongono effettivamente gli umarelli, che sono gli anziani che guardano il cantiere, sono riflessioni che abbiamo trasposto su una sfera più personale, individuale.

Io che costruisco la mia vita ogni volta che compio un gesto, mi chiedo, quel gesto rimane nella percezione dell’altro? Come faccio ad essere costantemente novità, come faccio, dicendo oggi voglio essere questa persona, voglio cambiare questi comportamenti, questi caratteri, a non essere intrappolato nella percezione che gli altri hanno di me? La questione è come io mi comporto o come l’altro mi percepisce? Dov’è che si crea l’impasse per il quale effettivamente la novità poi non la vediamo, non la percepiamo, non ci sembra che ci sia tanto nel cambiamento della persona quanto nelle cose che ci stanno intorno? È per una questione di percezione personale oppure è perché effettivamente quella cosa non sta cambiando e sta rimanendo tale? Quindi il lavoro in fase di scrittura ha un po’ attraversato queste riflessioni e in questo modo è stato anche possibile spostarsi su una sfera che era più individuale e personale.

Ilva football club, storie di città sacrificate

Ilva football club, storie di città sacrificate

Per Hystrio Festival è andato in scena all’Elfo Puccini di Milano Ilva football club, spettacolo nato dalla collaborazione tra la compagnia Usine Baug e i Fratelli Maniglio con Fabio Maniglio, Luca Maniglio, Ermanno Pingitore, Stefano Rocco e Claudia Russo. Liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Fulvio Colucci e Lorenzo D’Alò, Ilva football club accompagna per mano lo spettatore, con la forza didascalica di una fiaba, in una delle pagine più nere della storia italiana contemporanea.

 «Questa è una storia vera» continuano a ripetere gli attori in scena, quasi a voler dare forza e veridicità ad un fatto qualsiasi. Ma che questa in particolare sia una storia vera conta poco. Perché quella a cui assistiamo si erge a simbolo di una delle migliaia di storie dell’Ilva di Taranto, come della raffineria Saras di Cagliari, del petrolchimico di Siracusa o ancora degli stabilimenti di Termini Imerese. È la storia di una lingua di terra sacrificata in nome della promessa di modernità e lavoro che, nei primi anni Sessanta, ha segnato il destino infame di molte città del Sud Italia.
È la storia privata e inevitabilmente pubblica di una di quelle famiglie che i fumi delle ciminiere li ha esalatati per tutta la vita, che all’ombra di quei cumuli grigi, per la concretezza di un posto fisso, ha rinunciato, senza esserne al corrente, al diritto alla salute.

La complessità della materia, affrontata durante tutto l’arco della pièce con l’importanza e il rispetto che merita, è mitigata in scena attraverso il filtro del racconto. In un passato sfumato, collocato all’incirca ai tempi dell’apertura dello stabilimento, una coppia di genitori racconta al figlio (sul letto di ospedale a causa di una non casuale malformazione genetica) le vicende quasi leggendarie della squadra di calcio dell’Ilva, la “Sidercalcio”. Sul campo di terra battuta del quartiere di Tamburi, che sorge proprio di fianco all’acciaieria, si consumavano le imprese degli operai-calciatori che, in un’annata indimenticabile, arrivarono a sfidare l’Inter nella semifinale della Coppa Italia.

La favola della buonanotte prende così le sembianze di un’improbabile telecronaca sportiva, e come istantanee di ricordi che riaffiorano, le cronache dello spogliatoio si traducono sulla scena in immagini. La narrazione si fa corale e i protagonisti in scena si moltiplicano nel tentativo di dare corpo e movimento agli operai, ai calciatori, ai tifosi. Luci tenui e cinque grossi ventilatori evocano, ora con l’aiuto di teli dorati, le fiamme delle ciminiere, ora con coriandoli di sacchi neri dell’immondizia, l’aria pesante e irrespirabile che avvolgeva la fabbrica, il campo, la città tutta – quell’aria che i padroni dell’acciaieria erano soliti dire che avrebbe rinforzato l’apparato respiratorio degli operai, e che invece corrispondeva in un turno di otto ore a circa seimila sigarette.  

Ma il racconto di scarpini impolverati, tifosi sfegatati e goal all’ultimo minuto si offre in realtà a pretesto per lasciar entrare lo spettatore tra le mura di casa di una famiglia operaia. Sono tre fratelli (tra di loro il padre del bambino) a portare in scena i propri ricordi: il padre e la raccomandazione per un posto in fabbrica, la madre e i pranzi domenicali, il quartiere, il campo di terra battuta, la Sidercalcio, il lavoro, i morti sul lavoro, il desiderio di partire, di nuove famiglie, di figli.

L’Ilva c’è, sempre. Scandisce ogni fase e affiora nei racconti, sullo sfondo o come protagonista, radicata nella memoria come nel presente, si erge a centro nevralgico a partire da cui si innervano i vissuti singoli e collettivi. Ogni qual volta le storie dei fratelli sembrano lascarsi alle spalle lo spettro dell’acciaieria, questa riemerge, li inchioda, li costringe ad un confronto e si ricolloca al centro delle loro vite.

L’Ilva c’è anche nel profondo messaggio di accusa che questo spettacolo rappresenta. Tra i ricordi dei fratelli riaffiorano anche i sintomi dei primi operai avvelenati, i dubbi sulle condizioni lavorative, i numeri, le certezze e l’insabbiamento della verità. Gli scioperi e le minacce, una città in subbuglio. La storia delle fabbriche di morte si somigliano tutte. Sul finire della pièce, su un televisore scorrono alcuni dati, tra questi la notizia che lo scorso 13 settembre la Corte d’Assise di Appello leccese ha annullato la sentenza della Corte d’assise di Taranto che condannava gli ex vertici dello stabilimento e dell’amministrazione pubblica per il disastro ambientale che l’Ilva rappresenta – sentenza annullata perché i magistrati d’ufficio erano di origine tarantina, e quindi troppo emotivamente coinvolti nel caso.

Lo spettacolo si conclude dunque sulle note amare di una realtà desolante, sul filo di un senso di impotenza davanti all’ennesima ingiustizia perpetrata verso chi ha meno possibilità di difendersi. Ma va dato grande merito ad Ilva football club di aver portato nel giovanissimo panorama teatrale italiano un atto di denuncia radicale vestito da fiaba per tutti.

Spazi condivisi. L’XI edizione di Direction Under 30, al Teatro Sociale di Gualtieri

Spazi condivisi. L’XI edizione di Direction Under 30, al Teatro Sociale di Gualtieri

Tra il 12 e il 14 luglio è andata in scena al Teatro Sociale di Gualtieri la fase finale dell’XI edizione di Direction Under30, il festival che ogni anno riunisce e accoglie compagnie e pubblico di giovani da tutto il territorio nazionale. Sei spettacoli interamente ideati, rappresentati e prodotti da sei giovani esperienze teatrali hanno colorato il cartellone del festival, dando prova di un’emergente scena italiana di indubbio valore artistico. Ad aggiudicarsi i due premi messi in palio, anch’essi assegnati da giurie di under 30, sono stati, rispettivamente, A.L.D.E. di Giovanni Onorato, vincitore del premio in denaro della Giuria, e The Old Man del collettivo Nanouk, insignito del premio della Critica che varrà la partecipazione al Festival Apertodi Reggio Emilia. In scena anche Capelli – M. si desta un mattino da sogni inquieti del collettivo Sante di Lana, Memori di Nicola Lorusso e Giulio Macrì, Baccanti – Fare schifo con gloria di Giulio Santolini e Muà di Noemi Piva.

La cornice del Teatro Sociale di Gualtieri, nel circondarsi ogni anno di giovani appassionati appartenenti ai più disparati settori dello spettacolo teatrale, ritrova ben più che l’occasione di un festival. Nel contatto con le nuove generazioni, questo luogo si significa e racconta la sua stessa storia. È d’altro canto a un gruppo di giovani, confluiti nel 2009 nell’Associazione Teatro Sociale di Gualtieri, che si deve la straordinaria operazione che a partire dal 2005 ha reso possibile la riapertura del teatro, caduto in rovina per più di trent’anni.

Dall’intransigenza di questi ragazzi, accomunati dalla laica sacralità di quello spazio, ha preso forma l’idea della restituzione del teatro alla sua cittadinanza. Un esperimento senza garanzie di successo, fatto di progetti e valori, ma anche di notti in teatro tra gli interventi di manovalanza, pulizia e muratura, fino al dialogo fatto di alti e bassi con l’amministrazione comunale. Nel 2008 si raggiunge l’accordo: un impianto elettrico a norma e la verifica dell’agibilità in cambio di una rassegna teatrale in grado di non gravare sul bilancio comunale. Tra le corse e i rischi di insuccesso, il teatro riapre i battenti il 6 giugno del 2009; l’esito di quella nuova prima volta è facilmente intuibile.

Frequentare il teatro di Gualtieri per i tre giorni del festival, nell’incontro con giovani artisti, attrici, drammaturghi, scenografe, sound designer, giornaliste e organizzatori, significa dunque porsi in una linea di continuità con il lavoro di quel gruppo di ragazze e ragazzi (oggi Associazione Teatro Sociale di Gualtieri), esperirne l’importanza e la bellezza, aggiungere un capitolo alla storia viva di questo spazio.

Appare così evidente come l’idea di un festival dedicato interamente ad un pubblico di under 30, in cui compagnie e critici ricevono ospitalità per tutta la durata del festival, non sia un’operazione accidentale. Intercetta piuttosto, da un lato, l’essenza più autentica di questo teatro, e dall’altro, la volontà ferma degli organizzatori di offrire a chi è venuto dopo, uno spazio di condiviso in cui esprimersi.
Insieme alle due giurie riunite, i sei spettacoli in gara hanno dato prova di voler far proprio questo spazio di espressione e di riempirlo con l’originalità delle proprie proposte.

Il progetto A.L.D.E., scritto e rappresentato da Giovanni Onorato e vincitore del premio della Giuria, esprime in modo intimo e deciso il bisogno di uno spazio di espressione, quasi che l’esigenza comunicativa che ne sta alla base, da semplice pretesto, si faccia binario su cui veicolare un messaggio. L’espediente messo in scena per ottenere una finestra d’attenzione, d’altronde, dà ragione di ciò; il testo prende le mosse dal racconto di un presunto amico morto suicida, Arduino Luca Degli Esposti, di cui verranno lette le poesie, di cui verrà raccontata, tra ricordi e digressioni, la vita e il pensiero.

In uno stile contemporaneo e dinamico, la musicazione (presente sul palco e curata da Mario Russo) si fonde con il testo ogni qual volta la parola sembra non bastare, dischiudendo atmosfere in un crescendo di picchi emotivi. Ma d’un tratto, un’interazione tra i due esecutori in scena rivela il fatto che Arduino non esiste, altro non era che un disperato pretesto per ottenere uno spazio d’ascolto. Ma l’incanto non è rotto: il disvelamento dell’inganno lascia emergere ora con maggiore evidenza il senso dello spettacolo, senza più filtri, senza possibilità di proiettare altrove il senso di inadeguatezza, le stranezze, le paure, l’incertezza nel vestire ogni giorno i propri stessi panni tipico di molti di questa generazione.

Questo stesso senso di incertezza, sospeso tra lo scivolare nella nostalgia di ciò che è stato, o meglio, che poteva essere e non è stato, e il bisogno di rimanere aggrappati al tempo presente, è portato alle estreme conseguenze nel lavoro del collettivo Nanouk, The Old Man, premiato dalla Critica. L’esasperazione di questo processo è messa in pratica nella disgregazione dell’old man in tre componenti, le cui caratteristiche sono affidate ai corpi significativamente differenti l’uno dall’altro dei tre performer in scena (Linda Pasquini, Marianna Basso e Daniel Tosseghini). Nello spiraglio aperto ad una possibile risoluzione delle tre parti, The Old Man comunica senza la parola, agito nei suoi continui snodi, da una notevole forza narrativa del gesto.

In altri termini, colpisce ancora una volta la solidità delle proposte portate in scena, e non si sbaglia a pensare che il guanto di sfida lanciato ogni anno dal Teatro Sociale di Gualtieri alla nuova scena teatrale italiana, sia, anche in questa edizione, raccolto da artisti concretamente pronti a mettersi in gioco. E il pubblico ringrazia.

La bellezza ha sé stessa come argomento. Intervista ad Alejandro Tantanian, autore dell’adattamento di “Ho paura torero”

La bellezza ha sé stessa come argomento. Intervista ad Alejandro Tantanian, autore dell’adattamento di “Ho paura torero”

Il Piccolo Teatro di Milano ha inaugurato il 2024 con Ho paura torero al Teatro Grassi, prima regia firmata da Claudio Longhi nelle vesti di nuovo direttore artistico del teatro. Longhi sceglie di adattare l’omonimo romanzo del poeta cileno Pedro Lemebel, trasposto per la messa in scena da Alejandro Tantanian e Lino Guanciale nel ruolo di attore e drammaturgo. Ambientato durante il fallito attentato del 1986 contro il governo militare di Pinochet, lo spettacolo esplora l’intreccio amoroso tra un anziano travestito e un giovane appartenente al Fronte di Liberazione Manuel Rodriguez. Per discutere ulteriormente di questo lavoro, parleremo con l’autore, regista e drammaturgo argentino Alejandro Tantanian.

Prima di addentrarsi nel lavoro di trasposizione del testo di Lemebel che ti ha visto protagonista, vorrei chiederti, com’è nata la collaborazione con Claudio Longhi, Lino Guanciale e il Piccolo teatro di Milano?

Ho incontrato Claudio nel 2016 in Europa, a Caen, introdotto da un collega, Manu Ansaldo. Mi aveva parlato di Claudio dicendo che sarebbe stato bello incontrarci perché saremmo diventati buoni amici. Claudio in quegli anni stava per essere nominato direttore artistico di ERT Emilia Romagna Teatro, mentre io, nel 2017, iniziavo la mia esperienza di direzione del Teatro Cervantes – Teatro Nacional Argentino.

Cercavamo di sviluppare alcuni progetti ma alla fine non riuscivamo ad andare avanti. Però ci siamo tenuti in contatto, così nel 2018 lui mi ha invitato al congresso Teatri abitatori di città a Bologna, organizzato da ERT; lì ho presentato un progetto del Teatro Cervantes, un lavoro molto intenso sul teatro latino-americano.

In quell’occasione ho incontrato Lino Guanciale, ma di lì a poco è arrivato il Covid mentre Claudio stava cercando di sviluppare uno spettacolo basato su due storie brevi di Alfred Döblin per cui mi aveva chiesto di collaborare. Così abbiamo iniziato a lavorare insieme; ne è venuto fuori uno spettacolo dal titolo Il peso del mondo delle cose, performance poi diretta da Claudio e messa in scena dopo la prima apertura. 

In quella fase questo lavoro fu molto importante, avevamo paura che il teatro non ripartisse più per davvero. Io ero qui in Argentina, loro erano lì in Italia, ma avevamo costruito una sorta di famiglia, perché io scrivevo le parole che loro stavano mettendo in scena, mi mandavano alcuni video, e tutto era molto emozionante, molto affascinante, specie in un momento così delicato per il teatro.

Dopo ciò Claudio mi ha invitato nel 2021 per organizzare un laboratorio, così ho realizzato un workshop per tre mesi (a distanza), e questa è stata la mia prima esperienza con Claudio al Piccolo. Discutevamo sul fare qualcosa insieme, così all’improvviso mi ha raccontato, credo fosse all’inizio di marzo o aprile dell’anno scorso, che stavano preparando con Lino Guanciale una versione teatrale di Ho paura torero di Pedro Lemebel, che è un autore che conosco bene e amo moltissimo. 

Alejandro Tantanian

Com’è stato lavorare su questo testo e quali scelte ti sei trovato a dover fare per restituire in azione scenica la parola scritta del romanzo? In che modo avete organizzato il lavoro con Lino Guanciale? 

Abbiamo sviluppato il lavoro in due o tre mesi partendo da una prima versione a cui si è aggiunta una seconda e ancora una terza, per arrivare poi alla versione “finale” che, ovviamente, è stata rimaneggiata durante il periodo di prove. Lino, naturalmente, come drammaturgo, ha fatto molte modifiche sul testo, mentre io mi sono occupato della trasposizione teatrale del romanzo. 
L’idea è stata di costruire un testo che rispettasse al 100% il romanzo, senza aggiungere una sola parola che non fosse già presente in Lemebel. Lavoravo con due versioni, la versione cilena e, ovviamente, la traduzione italiana nella versione di Giuseppe Mainolfi.

Cercavamo di mantenere tutto il possibile e rimanere fedeli al testo, perché in Ho paura torero, a parte la storia che è molto affascinante, lo stile e la lingua sono elementi molto forti.
Mi convinceva molto l’idea di mantenere le parole del romanzo per la versione teatrale, e non di ricostruire i dialoghi. In questo senso abbiamo lavorato ispirandoci a Frank Castorf, o anche a Luca Ronconi nel lavoro fatto sul Pasticciaccio di Gadda

Quindi alla base c’è stata la forte intenzione di mantenere i pensieri, il modo di pensare, il modo di raccontare di Lemebel. 

Sì, per esempio anche l’uso nel romanzo della prima piuttosto che della terza persona è davvero molto interessante, perché a teatro dà, attraverso l’attore, un punto di vista ora soggettivo, ora oggettivo, come uno sguardo che cambia punto d’osservazione.
Posso essere parte della cosa, e posso anche vedere la cosa da fuori. E non è solo un esercizio per gli attori, ma è anche un esercizio per il pubblico. 

Michele Dell’Utri ha sottolineato come ognuno degli attori non stesse mettendo in scena solo il personaggio, ma anche la città di Santiago, come se ci fosse una strana connessione tra ogni personaggio e la città. È presente questo tipo di operazione nel testo di Lemebel? 

Santiago è chiaramente uno dei principali personaggi del romanzo. Ci sono la Fata dell’angolo, Carlos, Pinochet e sua moglie, e poi c’è la città di Santiago, che è un personaggio molto presente. Tutto ciò che i personaggi guardano attraverso le finestre delle loro case, del bus, è la città.
La decisione stessa di mantenere il testo com’era, è anche quella di mantenere Santiago come ulteriore personaggio; ciò è molto difficile da rappresentare nello spazio teatrale, costruire una città in scena non è lo stesso di dare vita ad un corpo. Ma attraverso il testo penso che Lemebel sia riuscito a tenere la città lì con te. 

Anche quando i personaggi accendono la radio e ascoltano le notizie, come ad esempio nella sequenza in cui è descritto il luogo dell’attentato, il pubblico acquista la capacità di muoversi e di partecipare attivamente allo spettacolo reimmaginando la città

La radio d’altronde è anch’essa un altro personaggio specifico, non è solo un oggetto. Ha questa strana funzione intermedia tra la storia privata di Carlos e della Fata e gli eventi che si svolgono all’esterno, in città, come un nesso che tiene insieme le due sfere del pubblico e del privato. 

Ciò si spiega a partire dal fatto che è lo stesso romanzo ad alimentare il nesso tra privato e pubblico. La possibilità dell’incontro tra la Fata dell’angolo e Carlos è di per sé una relazione privata, è qualcosa che succede all’interno di una casa, ma questa relazione provocherà un determinato tipo di riflessione e di cambiamento nella realtà, nella vita pubblica della città. 
Questo vale anche in riferimento alla scena finale in spiaggia, che è uno spazio molto privato e pubblico allo stesso tempo. Carlos e la Fata sono insieme in un momento molto intimo ma di contro la scena si consuma in uno spazio aperto. Questa capacità di mescolare il pubblico e il privato è un elemento molto importante anche in Lemebel. 

Il romanzo di Lemebel, così come l’adattamento, intrattiene una forte relazione non solo con la città di Santiago, ma anche con il clima del golpe fallito del 1986. Quali sono le difficoltà nel mettere in scena un testo così strettamente collegato con l’atmosfera politica e sociale di quel momento? Quali sono le opportunità di portare questo testo in Italia, che ha vissuto una storia di dittatura, e in una città come Milano, che ha svolto un ruolo importante nella Resistenza. 

La storia di ogni paese, almeno nella società occidentali presenta qualche somiglianza. Voi oggi avete un governo di estrema destra in Italia, e anche noi siamo governati da un’ala piuttosto bizzarra di estrema destra qui in Argentina, che ha la stessa linea politica che c’era durante gli anni del governo militare (in Argentina), naturalmente in altri modi, ma da un punto di vista economico e sociale stanno di fatto portando avanti la stessa linea.
Ovviamente non stanno uccidendo le persone – fino ad ora – e non fanno scomparire le persone come hanno fatto allora. 

Penso però che politicamente il romanzo di Lemebel non parli solo attraverso Pinochet e la dittatura, né racconti unicamente il fallito golpe del 1986, ma credo tratti in primo luogo di un amore molto “strano” – strano naturalmente secondo l’idea di giusto, di sbagliato e di strano che hanno quei governi. 
Ho avuto la possibilità di assistere all’ultima replica di Ho paura torero lo scorso 11 febbraio ed è stato davvero emozionante, prima di tutto essere al Piccolo – perché non ero mai stato al Piccolo a vedere uno spettacolo e nella mia educazione Strehler era quasi un dio.

Quando avevo 18 o 17 anni cercavo le VHS per guardare La tempesta o Re Lear con Tino Carraro e avevo un libro con tutte le interviste di Strehler, quindi entrare in quel teatro per me è stato uno dei momenti più affascinanti, quasi un momento sacro, perché so com’era quel posto prima del lavoro di Grassi e Strehler e come hanno trasformato quel luogo pieno di terrore in un luogo di resistenza e di costruzione di ricordi per le persone, e penso che con Claudio sia tornata quella energia, perché il Piccolo è lì per questo, per mantenere la fiamma della libertà, del pensiero libero, per un’idea di teatro del popolo. 

Ed è stato davvero affascinante vedere tutto il pubblico in lacrime per questo specifico strano amore. Vedere un pubblico borghese capire e piangere per l’amore che lega un vecchio travestito ad un ragazzo giovane: è ciò che ti fa dire di poter ancora credere nella forza dell’arte, almeno per dieci secondi.
Poi magari usciranno da lì e ricominceranno a dire “a morte i froci”, ma in quei dieci secondi si apre la possibilità di aprire le menti e costruire una coscienza, e penso che per me questo sia il modo più affascinante di fare Lemebel. Perché al di là delle rivendicazioni politiche questo testo è una specie di canzone per la libertà, per una libertà che stiamo perdendo giorno dopo giorno. 

Quindi storie come quella di Lemebel danno al pubblico la possibilità di un orizzonte, danno alle persone la possibilità di speranza e la possibilità di redenzione, e questo è qualcosa che oltrepassa qualunque confine. Oltre l’essere cileno, argentino, italiano, è piuttosto l’essere umani in questo mondo, in questi giorni.
Per me questa è la cosa più commovente, e nella produzione di Claudio Longhi e Lino Guanciale, e di tutti gli artisti che sono stati coinvolti, questo è fortemente presente. Lo spettacolo è felice, è pieno di vita, è una pièce vitale, piena di libertà, di umanità, di sensibilità sociale, qualcosa che stiamo perdendo. 

Ho paura torero
© Masiar Pasquali

Il personaggio della Fata si fa carico di questa vitalità. È un personaggio che sa comprendere e perdonare, anche quando viene usato. In altri momenti capisce quando deve dire no o combattere, ma in tutti questi momenti c’è un forte senso di amore per l’altro e per sé stesso. 

Alla fine dello spettacolo tutti noi pensavamo che avrebbe accettato l’invito di Carlos e sarebbe fuggito a Cuba con lui. Ma quando nel leggere il testo scopri che rinuncia a partire capisci che era esattamente così che doveva finire, perché sta dimostrando un’altra volta cosa significhi amare. La Fata dell’angolo sa di dovere lasciare Carlos libero e lo fa. E questa è la più grande forma di amore. 

Tutti piangevano anche a teatro durante quella scena, e per me è sempre un momento toccante anche il modo in cui è affrontato il tema della bellezza. Ciò che la Fata amava in Carlos era la giovinezza, e lei sta diventando vecchia, e la giovinezza è una forma di paradiso per lei, anche nella sola possibilità di stare lì ad ammirarla. 

È lo stesso ne La morte a Venezia di Thomas Mann quando Aschenbach è in riva al mare, pieno di trucco e fa molto caldo, e il trucco cola giù mentre lui sta guardando Tadzio nel mare, e puntando al sole con lo sguardo, muore, continuando a guardare. La bellezza ha sé stessa come argomento. Se puoi toccarla è perfetta, ma se puoi condividerla è ancora più perfetta.
Ma anche il solo vederla è fondamentale: quando la Fata si lancia in quelle descrizioni su come appaiono il corpo, la faccia, il sesso di Carlos, c’è sempre e solo bellezza, non è mai osceno né sgradevole. 

E per me quella scena in spiaggia in cui la Fata dice no, è come Aschenbach che, morendo, lascia la bellezza libera per gli altri. E anche un modo di capire il limite, di capire il miracolo, perché in un primo momento si ha l’impressione che Carlos si stia approfittando della Fata, ma poi anche lui se ne innamora, non di un amore propriamente fisico.
Nel romanzo anche questo confine tra passione e amore è meravigliosamente descritto: il momento in cui la passione è amore, il momento in cui l’amore non ha passione, e quindi si carica di un altro senso di umanità. 

E penso che Lemebel non abbia avuto bisogno di scrivere altri romanzi perché ha scritto sì un testo molto breve ma al tempo stesso davvero incredibile, così chiaro, così facile, così comprensibile per tutti, e questa emozione, tutte queste emozioni, sono presenti nel lavoro di Claudio Longhi, anche perché Lino Guanciale ha fatto un lavoro straordinario.
È stata davvero un’ottima decisione che quel personaggio (la Fata dell’angolo) fosse interpretato da Lino, che è un attore molto popolare, bellissimo, che tutti amano, ma è anche molto intelligente nel catturare l’essenza del personaggio, ha colto tutti gli aspetti ed è diventato Fata dell’angolo restituendo al pubblico un personaggio con un cuore aperto, e questo non è così comune da vedere. 

Per queste ragioni lo spettacolo è davvero toccante, e hanno fatto qualcosa di molto buono nella maniera in cui hanno preparato il pubblico attraverso tutto un ciclo di letture, conversazioni con la troupe, conferenze; penso che ogni teatro dovrebbe organizzare eventi in tutta la città, non solo nel centro, ma soprattutto nelle periferie, per portare la notizia e chiamare le persone, e se non vengono, io, noi dobbiamo andare. E lo hanno fatto mettendo in scena uno spettacolo accessibile a tutti ma di alto livello, che richiedeva intelligenza e sensibilità, e questo non è comune, perché è una performance molto esigente nei confronti del pubblico. 
Pensare per altro che Lemebel parlava di travestiti e omosessuali, durante gli anni di Pinochet, fa capire quanto fosse coraggioso e forte. C’è un bellissimo documentario di Joanna Reposi Garibaldi (Lemebel, 2019) sugli ultimi dieci anni di vita di Lemebel, lo consiglio sempre perché è davvero stupendo. 

Abitare gli spazi: Teatro dei Colori nella sua nuova programmazione estiva

Abitare gli spazi: Teatro dei Colori nella sua nuova programmazione estiva

Dal 2 luglio si inaugura la nuova stagione estiva del Teatro dei Colori, che si protrarrà fino al 27 di agosto. Fondato nell’87 da Gabriele Ciaccia, il Teatro dei Colori rappresenta una straordinaria istituzione culturale del nostro paese: perenne rinnovamento interno, identità artistica imperniata sulle forme del teatro di figura, recupero delle periferie e una presenza capillare sul territorio in ben 15 regioni, sono gli elementi cardine di una compagnia che da quasi 40 anni scrive un capitolo fondamentale del panorama teatrale italiano. A raccontarci le novità e la storia della compagnia è Valentina Ciaccia, regista, drammaturga, artista e tutto tondo e ormai da molti anni figura centrale del Teatro dei Colori.

La vostra storia è tenuta insieme da un filo rosso che in qualche modo accompagna tutta la vostra produzione, tutta la vostra esperienza come compagnia, ed è la complementarità di centro e periferie. Da un lato la vostra idea di teatro esprime un’esigenza culturale e sociale molto forte, che è quella del recupero degli spazi anti-istituzionali del teatro, delle periferie, dei centri meno abitati, e dall’altro, rivendicate il ruolo istituzionale che rivestite, portando il vostro lavoro nelle piazze più prestigiose, nei capoluoghi, recuperando quello che è il mestiere del teatrante come compagnia di girovaghi. In che modo, in questi ormai 37 anni di esperienza sul campo siete riusciti a tenere insieme questi due aspetti?

Questa domanda è alla base del discorso problematico che si fa in questo momento tra le compagnie e i centri di produzione di teatro per ragazzi e di teatro di figura, che sono appunto quelli che si occupano di un teatro molto vero, molto vicino alle persone, perché arriva ovunque, in tutta Italia. Il discorso verte proprio sul capire come risultare efficaci per erogare quello che è un servizio culturale dedicato alle fasce di popolazione che sono quelle meno abbienti, quindi più bisognose di avere un supporto culturale, riuscendo al tempo stesso a mantenere un elevato grado di ricerca artistica e di preparazione culturale.

Il Teatro dei Colori in questo senso ha sempre avuto l’obiettivo di mantenere altissimo il livello di ricerca artistica e di preparazione interna della compagnia, facendo la scelta di portare avanti spettacoli di ricerca anche per i bambini, nelle varie forme del teatro di figura, pur arrivando veramente ovunque. Questo perché, essendo abruzzesi, siamo abituati a scavallare le montagne; chi invece ha fatto la scelta di andare verso prodotti di consumo e di cassetta, purtroppo si sta vedendo sconfitto davanti ai grandi blockbuster americani dei musical. Di conseguenza, se non hai una tua autenticità artistica, un tuo linguaggio, una tua tecnica specifica (come, per esempio, per noi la tecnica del Teatro su Nero), non sei riconoscibile e quindi hai poco da offrire.

Il Teatro dei Colori come porta avanti questo discorso? Sicuramente con un grande rinnovamento interno, nel senso che è una compagnia che arriva ai 37 anni di età avendo avuto all’interno generazioni di artisti che vanno, vengono, ritornano, fanno altre esperienze, in una grande libertà creativa. E soprattutto ha sempre dato spazio ai giovani, senza proclamare retoricamente questo principio, ma rendendolo un discorso anche di formazione professionale, sia per quanto riguarda il cast artistico che per quanto riguarda il cast tecnico. Insomma, siamo abbastanza ligi in questo senso e continuiamo ad insistere tanto sui territori, soprattutto abruzzesi, prova ne è la longevità delle nostre rassegne artistiche e anche dei nostri festival.

Dal 2 Luglio inizierà il Festival Fiabe al Parco a Pineto in provincia di Teramo, che quest’anno compie 20 anni e che non posso esimermi dal ringraziare per questa straordinaria e longeva esperienza progetto di coprogettazione artistica del festival. Ci tengo poi a definirlo festival, perché alcuni pensano che i festival siano solamente quegli eventi di tre giorni stracolmi di cose e che poi così come iniziano, finiscono in fretta. Un festival invece, secondo noi, si deve declinare anche in base alle necessità del territorio; in questo caso noi abbiamo ascoltato le necessità della città di Pineto che ci ha ospitati, e negli anni abbiamo deciso di allargare le maglie del festival proprio perché attorno a noi, e anche grazie a noi, sono nate altre iniziative.

Credo che questo sia molto importante perché ci deve essere un humus culturale in cui tutti gli operatori riescono a collaborare: questo discorso della competizione infinita nel settore dello spettacolo deve finire, non serve a niente, l’abbiamo visto e sappiamo che, al contrario, è più intelligente creare un’offerta culturale variegata e dilazionata nel tempo, sulla base delle esigenze di un determinato territorio. Non viviamo tutti a Milano e quindi se io sto in Abruzzo, quello che Milano ha inteso come festival, in Abruzzo lo intendiamo in un altro modo. Il rischio insito in queste definizioni è l’imposizione di canoni e format che non sono poi coerenti con la necessità dei territori e del pubblico.
Perché poi ci sono anche spettacoli non solo per i bambini, quelli che sono gli spettacoli di teatro di figura noi li intendiamo, di fatti, come dedicati al bambino che c’è ancora dentro ognuno di noi, nel senso che è un altro tipo di arte, un altro tipo di linguaggio: sono dedicati alla nostra parte creativa e poetica, ecco.

A tal proposito, infatti, nella tipologia di strumenti e di riferimenti che mettete in campo, è evidente – come anche voi stessi rivendicate pubblicamente – il richiamo ad alcuni degli elementi e delle geometrie tipiche del futurismo e della Bauhaus. Ecco, mi chiedevo, un teatro che è pervaso da questa intenzione pedagogica, che ha un pubblico tendenzialmente molto giovane, che tipo di risposta ha dall’utilizzo in scena di questo tipo di elementi che possiamo definire “colti”, seppur riletti e ridimensionati per lo spettacolo dal vivo. Qual è il feedback che ottenete?

Ti voglio raccontare un piccolo aneddoto. Questa tecnica è nata nell’87 con il primo spettacolo del Teatro dei Colori che si chiamava Colori, immaginare l’immagine, del mio papà Gabriele Ciaccia, che vinse il primo premio attribuito dall’Osservatorio Critico dell’ E.T.I. Quando venne rappresentato a Milano, presso la Sala Fontana, c’era ancora il grande Bruno Munari che venne a vedere lo spettacolo. Ecco, in quell’occasione (ovviamente avevo quattro anni, quindi questo è un ricordo che ti riporto da mio papà) – era una matinée per le scuole – Munari venne a vedere lo spettacolo, e tra il pubblico c’era un bimbo che oggi definiremmo nello spettro autistico. Ebbene, questo bimbo ebbe una reazione eccezionalmente gioiosa alla visione dello spettacolo, che un po’ stupì anche le maestre, e Munari, molto semplicemente invece disse: “questo è quello che si deve fare con i bambini”. Certe volte noi adulti ci facciamo troppi problemi, mentalizziamo, quando invece l’intelligenza infantile in qualsiasi modo la si voglia declinare è estremamente duttile. I bambini sono molto reattivi e posso assicurare che questa tecnica funziona più con i bimbi che con gli adulti, perché i bambini sono più rapidi a capire le trasformazioni delle immagini rispetto agli adulti – d’altra parte, loro passano attraverso il linguaggio prefigurativo. Quando un bambino inizia a disegnare, le prime cose che proietta sul foglio sono linee, punti, cerchi, quadrati. Passa per la geometria.

Non è un caso che stia facendo questo paragone, perché Kandinsky, Klee e gli artisti del Bauhaus hanno studiato queste cose, sono andati ad osservare la creatività infantile, sono tornati indietro, all’origine, e da lì poi hanno sviluppato il concetto di arte non-figurativa, di arte astratta. Questo per dire che, è una cosa immediata per i bambini, e ciò che ci permette di continuare a riproporre questa tecnica è la sua inesauribilità, nel senso che le combinazioni sono infinite, non annoia mai non solo il pubblico ma noi stessi che la facciamo. Anche perché viene poi abbinata a dei movimenti di mimica che nel corso degli anni abbiamo sviluppato con una tecnica estremamente raffinata, così anche con delle basi di danza classica. Questa tecnica è collegata poi a un uso molto sapiente della musica, c’è un grande lavoro dietro con dei compositori che collaborano con noi. Quindi non è solamente pedagogia della scena, ma insisto a dirti che sono spettacoli veramente (questi in particolare del Teatro su Nero) tout public, perché gli stessi spettacoli li posso fare in matinée come in serale senza cambiare una virgola, e ti assicuro che il pubblico serale lo apprezza esattamente come un bambino di 6 anni, non cambia niente.

Questo fatto è estremamente sorprendente perché appunto siamo abituati a pensare che uno spettacolo per un pubblico di bambini debba avere meno contenuto, o comunque una riduzione, e invece ci sono strategie e forme che colpiscono indipendentemente dall’età, anzi, addirittura in certi casi sono colte maggiormente da un pubblico giovanissimo.

Sì, poi la sensibilità ovviamente si modifica e voglio farti un esempio. L’ultimo spettacolo prodotto da noi, dal titolo La Sinfonia dei giocattoli, è dedicato ad una grande artista, Sonia Delaunay che purtroppo si sta dimenticando; io come donna cerco sempre di parlare di storie di donne quando faccio spettacoli di drammaturgia di parola, ma soprattutto di far vedere quelle che sono state le artiste del Bauhaus, del Dada, perché ci sono state tantissime donne in questi movimenti, ed è come se ci fosse una specie di oblio della memoria. Infatti, Sonia Delaunay che appunto si chiama in realtà Sonia Terk, poi ha sposato Robert Delaunay, che era un bravissimo pittore anche lui, ed è stata un po’ messa in secondo piano, è diventata la moglie di -, quando invece no, era un’artista a tutto tondo. Quindi abbiamo voluto dedicare proprio a lei questo spettacolo riprendendo alcune sue forme disegnate appunto per i bozzetti di costumi che noi abbiamo rifatto esattamente in scena con le stesse geometrie, mettendole in movimento.

Lo spettacolo ha debuttato a dicembre dello scorso anno, e ha partecipato anche come spettacolo conclusivo delle manifestazioni a Lecce per la Giornata Mondiale della Marionetta di UNIMA, che quest’anno era organizzata da Teatro Le Giravolte. Eravamo in una chiesa del barocco leccese, quindi è stato il nostro momento dello spirituale nell’arte, come direbbe Kandisky, chiusi in questo luogo meraviglioso con la musica elettronica a palla, con quelle geometrie; è stata un’esperienza pazzesca che a ripensarci mi fa venire i brividi, e c’erano i bambini che magari si emozionavano e ridevano in alcune scene, e gli adulti che si emozionavano in un modo diverso, magari qualcuno addirittura commuovendosi, per un ricordo di infanzia che è dentro di loro. Quindi è bello fare anche spettacoli in cui la stessa immagine la si legge in modi diversi, in base anche a quello che tu sei, quello che è il tuo vissuto, le tue esperienze, ed è uno spettacolo che io chiamo uno spettacolo semplice, perché dopo tutto quello che abbiamo visto negli ultimi anni ho notato che i bambini sono un po’ in ansia e quindi cerco di fare spettacoli che diano stimoli culturali percettivi e che siano meno pesanti, meno didascalici, meno didattici, perché hanno bisogno di essere un po’ accolti questi bimbi, di essere un po’ non solo divertiti, ma stimolati a livello del sogno, della creatività, dell’immaginazione.

Beh, anche lì c’è una missione pedagogica fortissima che accompagna questa intenzione.

Sì, poi adesso siamo anche a lavoro sul nuovo spettacolo che sarà pensato principalmente per un pubblico adulto, dedicato al genio olandese di Maurits Escher e che invito caldamente a venire a vedere. Tornare dopo tanti anni a fare un teatro di figura programmato per gli adulti, con una forte presenza di nuovi strumenti tecnologici, rappresenta una grande sfida in Italia, quando invece in Europa è una cosa normale. Quindi piano piano alcuni fra noi, fra programmatori e produttori di teatro di figura stanno cercando di riportare anche questo livello in Italia, perché il teatro di figura in generale vive un momento di grande rinnovamento, di grande stimolo. Io credo che sia in questo momento il settore del teatro che ha più da dire per quanto riguarda la ricerca, anche per la naturale compromissione con le nuove tecnologie, per esempio con la scenografia in digitale che, per il teatro di figura, è normale e rientra all’interno dell’alveo delle tecniche, non è una cosa posticcia, e quindi torneremo moltissimo anche sulla multimedialità.

Quindi è già in qualche modo, per natura, il teatro più adatto a intercettare tutta una serie di novità dal punto di vista tecnologico.

Assolutamente. Se ci pensi bene forse è la forma più antica che esista di teatro, e mi occorre ricordare in questo momento il grande professore Nicola Savarese, che è venuto a mancare giusto ieri, che è stato mio professore, mio grande mentore, come tanti altri della mia generazione. È stato forse il primo a portare in Italia un insegnamento di certe tecniche importanti dell’Oriente, dalle quali noi ci siamo tutti quanti abbeverati, abbiamo capito tante cose, perché ovviamente anche nella tecnica del Teatro dei Colori c’è tanto di Oriente, c’è Giappone, c’è Kabuki, ci sono tante cose e, secondo me, è una linea lunghissima ininterrotta con l’Oriente. È forse l’unico teatro che può inglobare le nuove tecnologie senza esserne inglobato, senza esserne mangiato vivo, perché ha le spalle larghe, è riuscito a trasformarsi in ogni modo possibile, in ogni momento possibile nel mondo, e quindi può integrare anche le nuove tecnologie senza alcun problema.

Un altro vantaggio è poi quello della lingua, che insomma gioca a suo favore, nel senso che essendo un teatro di immagine più che di parola, ha la possibilità di essere compreso e replicato in ogni modo.

Sì, è universale, io ci tengo molto a creare una differenziazione tra quello che è l’universalità di un gesto artistico e invece fare qualcosa che diventa nazional-popolare, banale, omogenizzato. No, noi siamo universali, non siamo banali, perché c’è questo rischio a volte, per arrivare a più persone si rischia di banalizzare il proprio discorso artistico, invece no, bisogna essere umili, studiare tanto, e arrivare all’universale, spesso proprio sintetizzando, disseccando le modalità, le tecniche, i linguaggi, e allora diventa universale.

Oltre che un teatro universale, voglio sottolineare un’altra piccola cosa. Quest’anno eravamo presenti con La Sinfonia dei Giocattoli al Festival internazionale dei Burattini e delle Figure -Arrivano dal Mare! a Ravenna, che è un festival storico e importantissimo del teatro di figura che quest’anno ha compiuto 50 anni, organizzato da Teatro del Drago, dedicato appunto alla figura femminile all’interno del teatro di figura, sia per quanto riguarda i temi e le vicende, ma soprattutto per quanto riguarda chi fa teatro, dalle drammaturghe alle animatrici, alle costruttrici di pupazzi. Quindi il nostro spettacolo, dedicato appunto ad un’artista donna, Sonia Delaunay, rientra all’interno di tutto questo discorso. Credo che sia importante anche sottolineare questo, perché il teatro di figura sta diventando sempre di più un teatro al femminile, perché, d’altra parte, ci dobbiamo ricordare anche che è nato in Italia grazie a Maria Signorelli, che è stata la prima iniziatrice in Italia del teatro di figura, quindi noi ci richiamiamo a questa lunga tradizione di “pupazzare”.

D’altra parte, il teatro di figura è sempre stato per alcuni un teatro di serie B, e tutte le cose di serie B sono sempre quelle che fanno le donne, fino a che poi non diventano famose e importanti, come per esempio era la fantascienza, oppure la scrittura cinematografica. Sono quelle cose particolari dove le donne hanno più cura e più amore, perché nel costruire un pupazzo, cucire un costume, realizzare una piccola marionetta, la cura del femminile è molto presente.

A volte si rischia di sovrapporre la figura della donna alla figura dell’artista, o della madre alla figura della donna. Invece è bene che tutti questi ambiti convivano. E la cosa meravigliosa è che Sonia Delaunay, come artista, ci insegna che anche la maternità può diventare un ambito dell’arte, dell’espressione artistica, come qualsiasi altro ambito della vita, e questo credo che sia forse l’unica artista che l’ha dimostrato in un modo così forte fino adesso.

Con il Teatro dei Colori in questi anni avete intrapreso un’altra sfida di grande spessore, vale a dire la concorrenza a Capitale della Cultura con la città di Pescina in Abruzzo. Il cuore del progetto, riassunto dallo slogan “La cultura non spopola” insiste sull’importanza di portare la cultura non solo nei grandi centri, ma soprattutto nelle zone e a quelle fasce di popolazione che spesso hanno meno opportunità.

Abbiamo partecipato a questa corsa incredibile della Capitale della Cultura perché il Teatro dei Colori si trova proprio a casa sua, a proprio agio, nel borgo di Pescina, da tantissimi anni all’interno del Teatro San Francesco, dove c’è il Centro Studi Internazionale Ignazio Silone. Organizziamo spettacoli di prosa dedicati a Ignazio Silone, in collaborazione con il Centro Studi ormai da molti anni, per esempio c’è lo spettacolo Il Segreto, tratto da Il Segreto di Luca (di Ignazio Silone), che è un monologo che recita mio papà, che ormai va avanti da quasi 15 anni. Noi veramente ci spendiamo in ogni modo per i borghi del territorio abruzzese, e abbiamo dei rapporti preferenziali appunto con Pescina, con Celano, con Tagliacozzo, dove ci sono delle comunità meravigliose legate appunto a istituti scolastici che cercano di resistere in ogni modo possibile al problema dello spopolamento della montagna. A tal proposito, abbiamo da poco ricevuto l’approvazione per il progetto Colori d’estate, che, per l’appunto, durante la stagione estiva riempirà le piazze dei centri storici di Avezzano, Celano, Trasacco e della stessa Pescina.

Così nascono progetti culturali veramente coraggiosi, e a Pescina è fondamentale la presenza del Centro Studi Internazionale, perché eleva l’ambito culturale grazie alla presenza di molti studiosi che arrivano e rimangono lì, sul territorio. In questo modo un piccolo borgo è riuscito ad arrivare tra le dieci finaliste, e già per noi quella è stata una vittoria, un traguardo significativo, storico, perché tu competi con città eccezionali: non ci credevamo nemmeno noi, insomma. Siamo felicissimi che adesso sia stata proposta l’Aquila, che è sicuramente una città più grande, che ha tantissime offerte culturali in più rispetto a Pescina da manifestare, da erogare, però ecco, anche Pescina, essendo rimasta tra le dieci, adesso è seguita in modo particolare anche dal Ministero, e avrà la possibilità, con dei fondi appositi come le altre finaliste, di creare comunque delle progettualità importanti, in cui noi siamo protagonisti, e che partiranno dall’autunno in poi.

Nel venire a contatto con la vostra realtà emerge una coerenza di fondo nelle attività che proponete, nel modo in cui lo fate, perché la questione della cultura che non spopola porta con sé l’esigenza di dire non solo a parole che è importante occuparsi di periferia, ma di farlo concretamente, con un gesto politico molto forte, specie nel momento in cui poi si decide di concorrere per un progetto così ambizioso.

Nel fare questo noi rivendichiamo l’importanza del ruolo istituzionale che rappresentiamo. Noi siamo una compagnia riconosciuta dal Ministero, da sempre, dalla fondazione nell’87, e quindi con grande impegno; essere riconosciuti significa per noi avere dei fondi erogati dalle tasse degli italiani che le pagano, motivo per cui sentiamo il dovere di elevare il linguaggio artistico e di erogare un servizio culturale di alto livello. E io rivendico proprio questo, che l’istituzione è stare nei territori, nei territori che sono più difficili, come può essere l’Abruzzo, come può essere la Sicilia, perché l’istituzione non può essere solamente il teatro nazionale, e forse invece proprio noi che siamo sul territorio, piano piano, stiamo dando un’altra veste anche all’immagine istituzionale della cultura.

In linea generale mi sembra di notare che le compagnie, quelle che hanno avuto un percorso simile al nostro, siano riuscite a formare all’interno dei loro ranghi figure professionali e artistiche che lavorano all’interno dell’arte, in tanti settori diversi, dall’arti visive, alla musica elettronica, passando da un imprinting all’interno di una compagnia teatrale. E questo io credo che sia importante, perché è anche una formazione artistica, organizzativa, manageriale, che ti aiuta poi a creare una continuità di generazioni di persone che si preoccupano di questi ambiti. Penso che questo sia anche una cosa che vada riconosciuta un po’ a tutti noi. Noi, per esempio, come Teatro dei Colori lo abbiamo fatto molto, non solo per quelli che sono stati i nostri allievi, che poi adesso sono nel cinema, televisione, eccetera, ma proprio perché c’è una continuità anche di capacità tecniche che si trasmettono, e credo che questo sia importante, è il saper fare.

Per concludere, a maggior ragione per realtà come la nostra, credo che sia fondamentale avere un’identità artistica originale a avere le idee chiare perché, non essendo noi blasonati e non venendo da un settore culturale particolarmente rinomato come quello della prosa, non possiamo permetterci di fare salti nel vuoto o voli pindarici; proprio questo ci ha insegnato però a lavorare con i piedi per terra e quindi a saper resistere un po’ a tutto. Noi non ci spaventiamo della crisi del settore culturale perché noi come settore ci siamo sempre stati in crisi, in un certo senso abitiamo questa crisi. Siamo da sempre un settore sottofinanziato, poco visibile e quindi adesso che la crisi sta diventando purtroppo sistemica, e ovviamente me ne dispiace, il settore del teatro di figura un po’ se la ride perché noi siamo sempre stati in crisi; eppure, siamo sempre sopravvissuti grazie alla forza delle idee e dei progetti che portiamo avanti.