Tra il 24 e il 26 gennaio presso il Teatro Carcano di Milano è andata in scena la prima nazionale de L’empireo, il nuovo spettacolo firmato dalla regista Serena Sinigaglia, già direttrice artistica del teatro. Dal testo The Welkin della scrittrice inglese Lucy Kirkwood, la traduzione di Monica Capuani e Francesco Bianchi per Sinigaglia racconta la storia di dodici figure femminili convocate a pronunciarsi sulla presunta gravidanza di una giovane donna condannata alla pena di morte nell’anno del passaggio della cometa di Halley. Si tratta di una restituzione corale, femminile, dirompente, capace di oscillare tra il comico e il tragico e di offrire occasioni di riflessione senza orpelli sulla natura del potere.
Come è nata l’idea di lavorare con questo testo e quali sono state le modalità attraverso cui è entrata in contatto con l’opera di Lucy Kirkwood?
Tutto parte dal lavoro instancabile e appassionato di Monica Capuani, scopritrice di testi internazionali e in particolare inglesi. È tutta la vita che si divide tra Londra e l’Italia portando avanti quel difficilissimo lavoro di individuare testi di drammaturgia contemporanea meritevoli, tradurli e cercare di favorirne le produzioni. Mi ha sottoposto questo testo – ci conosciamo da più di vent’anni con Monica – perché sa che amo il teatro corale e quello di derivazione shakespeariana e quindi ha pensato che potesse essere un testo che faceva al caso mio. Dico shakespeariano perché Kirkwood ha questa capacità che gli inglesi hanno e cha ha la cultura anglosassone in generale di saper unire, a teatro come nella vita, l’alto e il basso, il sacro e il profano, il puro divertimento — chiamiamolo pure, senza paura, intrattenimento— con la potenza del teatro classico. A fianco di queste ragioni c’era poi la questione della coralità che fa sì che tutti i personaggi, da quelli principali a quelli minori, siano tratteggiati a 360 gradi. Mi sono fin da subito resa conto che sarebbe stato difficilissimo riuscire a portarlo in scena in Italia: oggi il mercato italiano è saturo di spettacoli con quattordici attori perché è difficile venderli, portarli in giro e perchè costano troppo
Così in un primo momento abbiamo provato a farne dei reading. Grazie alla collaborazione con le associazioni Amleta e Atir siamo riusciti ad organizzare un secondo reading in Calabria, con la partecipazione della compagnia teatrale Scena Nuda. Studiando e lavorando sul testo in queste occasioni laboratoriali mi rendevo conto che potevo farlo senza il vestimento, anzi, che proprio la natura cinematografica – altra caratteristica della drammaturgia inglese, vale a dire una minore distanza tra il realismo cinematografico e la scrittura teatrale – mi permetteva di omaggiare il teatro nel senso di poter creare un rito civile, una sorta di orazione: io l’ho chiamata un’orazione civile. Mi interessava che, a partire dalla descrizione delle azioni fatta da Kirkwood, ogni spettatore avrebbe ricreato il suo film attraverso l’uso dell’immaginazione, e questo è il teatro. Il grande scarto tra il cinema e il teatro è che il primo, essendo legato al linguaggio fotografico, ti mostra la realtà mentreil secondo la evoca. Allora lì ho fatto click, ho pensato “devo fare di tutto per riuscire a metterlo in scena”, dato che i temi mi stavano a cuore, la scrittura era divertente, entusiasmante, piena di colpi di scena, con un ritmo molto contemporaneo e al tempo stesso profonda, corale, e al femminile. Nel giro dell’arco di tre anni siamo riusciti a coinvolgere oltre al Carcano, che era già disponibile dato che lo dirigo con Lella Costa, il Tetro LAC di Lugano, il Teatro Stabile di Genova, il Teatro Stabile di Bolzano e il Bellini di Napoli.
Mi ricollego al fatto che il lavoro sia partito da dei readings dato che, durante lo spettacolo, assistiamo inizialmente ad una lettura con copione alla mano che da neutra diventa espressiva, fino ad arrivare, con l’abbandono del copione, ad una recitazione piena. Da un punto di vista registico qual è la funzione di questo passaggio e qual era l’intento dietro questa scelta?
Così come anche il giro dei fogli all’unisono da parte delle interpreti, ho fatto queste scelte dal punto di vista interpretativo, perché ritengo questo testo una sorta di manifesto di alcuni temi portanti che ci riguardano da vicino: la relazione tra i generi, la violenza sulla donna e sul corpo della donna, discorsi di democrazia mancata. Volevo dare l’idea che questo copione fosse quasi un libro di preghiere in un rito laico. La stessa postura delle attrici, così concertata, era pensata proprio per dare un valore sacro al testo e portare lo spettatore a poco a poco, con dolcezza, nel gioco evocativo del teatro. Le interpreti riprendono poi il copione alla fine dello spettacolo e l’ultima pagina viene letta, ma è ovvio che le attrici sanno tutto a memoria; la lettura qui non ha niente di concreto, è qualcosa che vuole portare più significati. Inoltre è un omaggio alla parola, alla sua forza, alla sua potenza emotiva ed evocativa: in certi testi teatrali le parole giuste al momento giusto sono sacre. Vedere le persone che piangevano, ridevano, partecipavano e che non si rendevano conto che in scena non c’era niente – non c’era il camino, non c’era la stanza, le attrici non si muovevano – che c’erano soltanto le parole, mi è sembrato il miracolo del teatro.
Sul modo di nutrire e caratterizzare i personaggi in scena, l’autrice Lucy Kirkwood, in un’intervista con il regista James MacDonald in occasione della prima del National Theatre, diceva di essersi informata, nonostante la storia sia ambientata nel 1759, su un sito molto popolare nel Regno Unito che si chiama Mumsnet, una specie di piattaforma in cui futuri e attuali genitori si scambiano pareri sulle proprie esperienze. Nel vostro caso come avete lavorato per cucire in modo così preciso i ruoli addosso alle attrici in scena?
Siamo partiti nel più classico dei modi, tramite un casting in cui ho scelto attrici che ritenevo in qualche modo simili per carattere e fisionomia all’idea che avevo dei personaggi. Sottolineo che un grosso numero di queste attrici le conosco da più di vent’anni; alcune avevano già collaborato con me all’interno di Atir e in un modo o nell’altro siamo cresciute insieme. Attraverso i laboratori iniziali ho avuto modo poi di testarle e il criterio che ho utilizzato per la selezione è stato proprio quello di percepire un’aderenza emotiva e fisica al personaggio, o quantomeno alla caratteristica fondamentale del personaggio. Va detto però che quando il testo è scritto così bene è molto più facile, perché è proprio un coro tridimensionale all’interno del quale tutti i personaggi potrebbero andarsene in giro da soli. Direbbe Pirandello che quando un personaggio funziona, funziona talmente tanto che lo puoi togliere dal contesto in cui è stato scritto e può andarsene in giro per fatti suoi.
Entrando nel vivo di questa vicenda, ambientata durante il passaggio della cometa di Halley, risulta centrale nell’opera il fenomeno storico della cosiddetta “jury of matrons”, una sorta di giuria popolare femminile di dodici membri che si doveva occupare di stabilire se una donna fosse o meno incinta in caso di controversie legali a suo carico. Come avete lavorato sulla forte contraddizione di un progresso scientifico che è in grado di studiare e calcolare fenomeni come il passaggio di una cometa ma che nel 1759 (le juries of matrons vengono abolite solo nel 1931) non conosce nulla o quasi del corpo della donna e relega questo sapere alla cultura esperienziale delle levatrici?
È un tema molto complesso e Kirkwood ambienta la vicenda in quell’epoca anche perché proprio in quegli anni comincia la Rivoluzione industriale che esaspera il contrasto tra la sapienza femminile sul proprio corpo, quindi le levatrici, e l’irrompere del sistema scientifico maschile e patriarcale. Si vede anche nel personaggio del medico che alla fine arriva alle stesse conclusioni a cui era arrivata la levatrice, anche se la levatrice portava un senso che è tipicamente femminile. Specifico che quando dico “tipicamente femminile” non intendo necessariamente “che appartiene alla donna”, perchè sia l’uomo che la donna siano fatti di una parte femminile e di una parte maschile. Parlando di quella parte femminile è interessante rilevare che Elisabeth, la levatrice, indipendentemente dal fatto che Sally Poppy sia o meno incinta, è contraria alla pena di morte. Ecco il distacco della scienza: la scienza ti dice se sei incinta o no, ma non prende parola sul dilemma sostanziale cioè, in questo caso, la pena di morte. Questo fa capire come la logica sia riduttiva e paradossalmente deresponsabilizzante.
Mi sembra interessante poi che le donne stesse non sappiano nulla del proprio corpo, perché l’universo femminile è un universo che contiene in sé un mistero di cui l’uomo, l’essere umano, spesso ha paura. Questo è un concetto davvero molto contemporaneo. La battuta di Kirkwood(«È proprio strano che conosciamo il movimento di una cometa lontana migliaia di chilometri più di come funzioni il corpo di un donna») potrebbe essere benissimo tradotta in “è proprio strano che conosciamo gli algoritmi dell’intelligenza artificiale ma non abbiamo ancora capito veramente perché un essere umano ammazza un altro essere umano a coltellate solo perché lo vuole lasciare”. Sto parlando dei femminicidi, chiaramente. Questo mistero riguarda tutti, ma le donne hanno la possibilità di fare esperienza del parto e questo dà loro una sapienza concreta di questo mistero. Questo ha sempre fatto molta paura al potere perché si traduce in una mancanza di controllosu di loro.
La nascita era e rimane di fatti un mistero, basti pensare che ci sono coppie non sterili, sane, che non hanno nessun impedimento genetico e che non riescono ad avere figli, e nessun medico, nessuna scienza è in grado di spiegarlo. La religione dice di accettare il tuo destino perché il Signore ha voluto per te questa sofferenza, la scienza risponde “no, io continuerò a indagare le ragioni oggettive”, mentre magari gli anziani suggeriscono di provare a non pensarci e distrarsi. Ciò che voglio dire è che il discorso è molto più ampio e che, per quanto possiamo progredire nella ricerca scientifica e tecnica, la nascita rimane un ambito in cui appunto scienza, religione e saggezza popolare hanno tre chiavi di lettura diverse e i piani si moltiplicano. Il problema si pone quando uno di questi piani pretende di avere il primato, cioè di diventare normativo. Il piano femminile non è mai diventato normativo il che è paradossale perché, se proprio volessimo introdurre delle regole, dovremmo chiedere alle levatrici. Al contrario la loro sapienza è stata spazzata via dalla società industriale e ancora una volta lo scopo è controllo e di sopruso.
A proposito della dimensione del sopruso, nel testo l’espediente in potenza positivo della partecipazione politica al femminile della jury of matrons finisce per essere ribaltato da un potere di stampo patriarcale, un potere senza volto ma con degli interessi particolari. Che eco di risonanza può avere mettere in scena, davanti ad un pubblico del 2025, un modello di coinvolgimento delle donne nella vita politica della città il cui verdetto è, di contro, ignorato e soppiantato da un potere patriarcale molto più profondo e pervasivo?
Il finale ci riporta a mio avviso – e questo voleva Kirkwood – al problema che in fin dei conti affligge l’umanità da sempre, in maniera del tutto antiretorica. Ci sta dicendo due cose: che la giustizia che dovrebbe essere la vera cartina al tornasole di una democrazia – lo vediamo proprio in questi giorni con quello che sta succedendo con il governo, con la magistratura – lascia posto alla sete di vendetta – perché è questo che Mrs. Wax vuole, vendetta – e che questa vendetta è resa possibile dalla corruzione del denaro. I nostri tentativi di trovare égalité, fraternité e liberté si infrangono sempre davanti ai motori ancestrali dell’agire umano come la vendetta e, con essa, la possibilità di alcuni di corrompere col denaro o sfruttando il proprio potere potere. A me in questo caso vengono in mente Borsellino e Falcone che continuavano a dire che la mafia altro non era che un sistema economico formidabile di corruzione.
Questa è la riflessione che chiude tutto, è come se Kirkwood dicesse “tutto quello che avete visto fino a qui sono sottotemi; la questione di genere, la questione dell’immigrazione, la questione delle ingiustizie che la donna subisce, sono tutti problemi veri che sappiamo esserci, ma il problema più grande su cui purtroppo la società patriarcale si è fondata è che le pulsioni primarie di ciascuno di noi vengono veicolate da un sistema corruttivo“. Il finale è molto, molto amaro. Mr. Coombs, come esecutore materiale della volontà di Mrs. Wax, in quel momento assurge a una figura tragica, come Oreste che ammazza Clitennestra, come nei grandi miti classici. Al tempo stesso è però la figura di un disgraziato, da sempre considerato un po’ lo zimbello del paese, deriso dalle donne, abbandonato dalla moglie, un poveraccio, un ignorante con pochi strumenti. E cosa deve fare di fronte all’insistenza del potere che ti dice “ti do i soldi, ti do una casa, ti do una posizione. Fai quello che ti dico io, perché tu sei uno schiavo“?. Credo che sia la chiusa a mettere in crisi gli ideali con un avvenimento amarissimo, come se Kirkwood ammettesse di non avere molta speranza che la società si possa organizzare in modo diverso da così.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.
Il nuovo spettacolo del collettivo bolognese arriva anche a Milano, presso i locali del Teatro La Cucina. Il contesto è quello del progetto Olinda, nato nel 1996 nell’ambito della chiusura e riconversione dell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini. Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi, membri del collettivo Ateliersi e ideatori dello spettacolo, portano in scena l’esperimento di un altro futuro possibile. In un presente attraversato da crisi radicali, We did it! affida, contro ogni previsione,l’ultima speranza all’arma gentile dell’immaginazione.
Il titolo recita “Ce l’abbiamo fatta!”; ma chi è che ce l’ha fatta e soprattutto cos’è che siamo riusciti a fare? In un futuro non troppo lontano, precisamente nel 2054, un uomo (Andrea Mochi Sismondi) siede al centro di uno spazio delimitato da sedie disposte a cerchio. Scruta dritto negli occhi, uno per uno, i membri del pubblico, racconta nei minimi dettagli piccole storie di cui all’inizio lo spettatore fatica a comprendere il senso generale.
Recuperare l’immaginazione
Questi aneddoti hanno per lo più a che fare con il mondo naturale e, più che il grado di accuratezza del racconto, a sorprendere è la prospettiva spesso non umana — ora vegetale, ora animale o, ancora, inorganica — a partire da cui vengono narrati gli episodi. A poco a poco si viene a scoprire che il performer in scena appartiene ad una cerchia di individui accomunati dalla curiosa pratica di fare dell’immaginazione uno strumento di resistenza politica e sociale.
Nel momento storico che abitiamo il bombardamento di simboli, figure, icone corrode quotidianamente la nostra capacità di immaginare, che, al pari di qualsiasi altra facoltà, ha natura “muscolare” e, senza allenamento, si atrofizza. Coscienti di questo rischio, il performer e i suoi seguaci si sfidano in esposizioni sempre più dettagliate di qualsiasi fatto o ambito del reale, noto o meno che sia. L’utilizzo dello strumento immaginativo non ha però un fine semplicemente ludico: il suo recupero ne permette l’applicazione in termini di soluzioni delle crisi (ecologiche, umanitarie, sociali…) che attraversano il presente.
Il diritto all’immaginazione: ri-pensare il futuro
Dietro le sembianze di un esperimento teatrale, Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi intercettano uno dei filoni più innovativi e audaci della sociologia contemporanea. Da un decennio a questa parte, studiosi come Riel Miller e Arjun Appadurai concentrano le proprie ricerche su quelli che vengono definiti “studi di futuro”. Punto di partenza di questi studi è la difficoltà, trasversalmente diffusa nel pensiero contemporaneo (con un picco tra i più giovani), di guardare al futuro con ottimismo. Le conseguenze di questo assunto sono semplici quanto tragiche: se il futuro non rappresenta uno stimolo e non è visto con fiducia e speranza, come e soprattutto perché intervenire nel presente per migliorarlo?
Per contrastare questa tendenza è necessaria una alfabetizzazione al futuro, vale a dire la costruzione di un rapporto propositivo, di fiducia nel futuro. Nel testo Il futuro come fatto culturale, Arjun Appadurai introduce la triade dei diritti del cittadino moderno: diritto ad immaginare, diritto ad aspirare, diritto alla speranza. Come accade in We did it!, l’introduzione di questi diritti all’apparenza scontati rappresenta la condizione necessaria per immaginare scenari e soluzioni alternative.Per costruire un futuro migliore occorre prima essere capaci di immaginarselo.
Recuperando questa facoltà il performer in scena racconta un 2054 in cui l’asprezza delle tensioni militari ha ceduto il passo ad una risoluzione pacifica dei conflitti, in cui l’indifferenza della parte ricca del mondo e dei governi ha abdicato davanti ai rischi concreti della crisi climatica, in cui le disparità e le ingiustizie economiche, politiche e sociali non sono più tollerate. In questo modo cerca di costruire degli anticorpi alla tempesta di immagini di cui siamo al tempo stesso vittime e artefici, perché non sapere immaginare significa non saper pensare scenari diversi da quelli già noti. A seguito di un furgone elettrico e alla ricerca di un pubblico quanto più eterogeneo, il collettivo Ateliersi porta in giro per l’Italia dei teatri non istituzionali una riflessione profonda sull’essere cittadini oggi.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.
Dopo il successo riscosso al Festival Internazionale del Teatro MESS, il nuovo lavoro firmato da Alessandro Serra,Tragùdia. Il canto di Edipo, con Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini, Felice Montervino, inaugura la tournée italiana.
La pièce si presenta come una riscrittura del mito di Edipo, in un intervallo narrativo che abbraccia Edipo Re e Edipo a Colono, per richiamare sullo sfondo i fatti de i Sette contro Tebe e dell’Antigone. Ma per restituire un’idea dello straordinario lavoro che è Tragùdia, occorre fare un passo indietro sulle intenzioni che ne innervano la struttura. Non di rado le note di un regista consegnate al pubblico fungono da semplice ornamento di uno spettacolo. Per Il canto di Edipo le cose stanno diversamente e vale la pena soffermarsi su di esse.
«Macerie. In un’epoca di macerie non c’è altra possibilità che lavorare su ciò che resta, soffiare sulle ceneri per riattivare il fuoco. Ciò che resta della tragedia: parole senza suono. Ciò che resta della polis: una società di estranei. Ciò che resta del rito: una drammaturgia spenta. Ciò che resta di un mito: una storiella venuta a noia. Ciò che resta di un eroe: un personaggio fuori fuoco. Il canto di Edipo si edifica sulle macerie».
Ricostruire il senso della tragedia
Alla luce degli interrogativi che pone, l’operazione che Alessandro Serra mette in scena nel riscrivere il suo Edipo è “arcaica” nel senso etimologico del termine, vale a dire di ricerca di un principio (archè) e di un sentimento originario della tragedia. Ma come recuperare questa distanza? Un ateniese del V secolo ha ben noto il mito di Edipo, respira il senso del sacro che avvolge le feste delle Grandi Dionisie, partecipa del rito collettivo della polis che si ri-conosce a teatro. Oggi, naturalmente, nessuna nozione scolastica su chi sia Sofocle e cosa abbia scritto potrebbe sostituire la pluralità di elementi in gioco nell’esperienza teatrale che ne avevano i Greci. Allora si comprende la questione che anima il lavoro di Serra: «Come rendere Sofocle accessibile a tutti? Come elaborare il lutto per la perdita della polis e del sacro?»- La risposta di Tragùdia è radicale e pone una questione profonda sul come fare teatro oggi con il modello della tragedia. Se della tragedia restano unicamente le parole, e se della tragedia mancano anzitutto suoni, movimenti, il rito e il senso del sacro, per mettere in scena Edipo serve edificare su ciò che manca.
Ritorno alle origini: il rito sacro, il suono, il coro, il canto
Non appena entrato in sala, lo spettatore è avvolto da un profumo di incenso tanto invadente da risultare una semplice trovata scenografica. È, in realtà, uno di quei pochi elementi capaci oggi di richiamare alla mente il contesto di una chiesa e, con essa, un assopito senso di sacro. La laicità della città continua a esistere là fuori e ci attende a fine spettacolo, ma adesso siamo a teatro in un rito collettivo. E la tragedia ha bisogno del sacro.
Al recupero della dimensione religiosa si accompagna la ricerca del suono al di sopra della parola. Non è allora un caso la scelta di far parlare i personaggi in lingua grecanica (dialetto neogreco oggi diffuso principalmente in alcune zone della Calabria e della Puglia). Il grecanico, di cui durante la pièce leggiamo la traduzione su uno schermo, ostacola lo spettatore nel suo bisogno di comprensione della parola, di significato dei fatti, costringendolo piuttosto a porre l’attenzione sulla musicalità del verso. È così che, più o meno nota che sia la trama di ciò che ci passa sotto gli occhi, veniamo inghiottiti dalle sonorità di una lingua antica, vicina al greco di Sofocle ma ancora vibrante perché viva e parlata, straordinariamente capace di rispondere ai vari livelli ritmici ed emotivi che il canto e la recitazione richiedono. Salvino Nucera, che ha curato la traduzione della riscrittura di Serra, ha d’altronde insistito sulle alternative ritmiche e musicali che il grecanico proponeva verso per verso.
Scivola così la ridondanza di parole di una storia nota e si dischiude la musica della tragedia. A farsene carico in scena sarebbe improprio dire che siano gli attori: è piuttosto il coro. Tutt’altro che delegato a componente secondaria (come spesso accade nelle messe in scena contemporanee del teatro classico), in Tragùdia la funzione del coro in quanto fulcro della tragedia – vale a dire come attore e spettatore insieme – è centrale. Questo è concepito in scena come organismo compatto da cui si sganciano gli attori per vestire per brevi intervalli le sembianze dei personaggi del mito, per poi fondersi nuovamente nella matrice del coro, in un meccanismo che ricorda il primordiale distacco del satiro.
La centralità del coro si manifesta inoltre nella predominanza del canto sulla recitazione. Le linee vocali curate da Bruno De Franceschi, brillantemente sostenute dalle attrici e dagli attori, accompagnano e all’occorrenza esaltano con puntualità il susseguirsi dei quadri in scena. A connotare questi ultimi concorre un sorprendente utilizzo drammaturgico delle luci e del buio, combinato con la scelta di richiamare i cromatismi dell’arte vascolare attica (nero, rosso, bianco). Ne risulta un susseguirsi di immagini di grande impatto estetico, cui fa da sostegno una scenografia semplice – costituita da tre pannelli di fondo – ma capace di adattarsi all’evoluzione dei fatti in scena.
In buona sostanza, Tragùdia rappresenta uno dei tentativi contemporanei più audaci, radicali e ben riusciti di mettersi in dialogo con la forma teatrale più ricca e influente della tradizione occidentale. Per mettere in scena oggi la tragedia classica occorre intercettare l’esigenza emotiva che stava alla base della sua ricezione, e per questo, una menzione al lavoro di questo cast è assolutamente necessaria.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.
L’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” in sinergia con il Romaeuropa Festival ha istituito il premio «Silvio d’Amico alla regia», giunto quest’anno alla sua seconda edizione. Ad aggiudicarsi il premio, lo spettacoloMine-Haha, ovvero dell’educazione fisica delle fanciulle, in scena presso gli spazi del Mattatoio dal 31 ottobre al 03 novembre. Per l’occasione abbiamo intervistato Marco Corsucci (autore, regista) e Matilde Bernardi (autrice, performer).
Lo spettacolo prende le mosse dall’omonimo romanzo di Frank Wedekind, pubblicato nel 1903. Nel romanzo, all’interno di una struttura senza legami con il mondo esterno, vengono cresciute delle bambine cui sono impartiti insegnamenti che hanno a che fare unicamente con l’uso fisico del corpo. In questo senso il vostro lavoro si presenta come un’indagine del processo di formazione di un corpo. Da un punto di vista scenico, come avete affrontato questo processo?
MarcoCorsucci: Il lavoro scenico nasce da un’intuizione di Matilde di fare del suo corpo l’oggetto di indagine. I primi dieci minuti a cui sto per fare riferimento, che risalgono a quando abbiamo portato il lavoro alla Biennale College del 2022, sono stati un po’ i germi da cui è nato tutto. L’intuizione di Matilde consisteva appunto nel rendere il proprio corpo l’oggetto di indagine attraverso la cornice di una visita guidata. Di questa idea di visita guidata, che abbiamo in parte tradito, rimane oggi la dimensione anzitutto espositiva: abbiamo lavorato quindi sulla sovraesposizione di questa figura e di questo corpo. Il lavoro attualmente si divide in tre parti: la prima consiste in una una sintesi vocale che parla agli spettatori e percorre assieme a noi le tappe fondamentali di crescita di quella che, da un lato rimane la protagonista del romanzo, Helena Engel detta “Hidalla”, e dall’altro è Matilde. Abbiamo quindi cercato di indagare quelli che erano i punti di contatto tra la crescita di quel corpo, l’educazione di quella donna e l’educazione del corpo di Matilde. Questa sintesi ci conduce attraverso le tappe di questo percorso di crescita, tappe che in qualche modo sono segnate da tutti i momenti in cui quel corpo è stato guardato e in un certo senso è stato plasmato dallo sguardo. Abbiamo cercato di creare dei punti di frizione tra chi guarda e chi viene guardato in una narrazione che segue lo stesso percorso di crescita della protagonista del romanzo, cioè che va dai primi anni di infanzia alla prima adolescenza. Volevamo raccontare come la storia di un corpo abbia a che fare con tutti coloro che lo hanno guardato.
Di fatto portate in scena quella che è una necessità insita all’etimologia stessa della parola “teatro”, cioè, l’atto del guardare. In questo senso il processo di formazione è, sia nel romanzo che nella vita reale, un processo mai individuale ma sempre comunitario, pubblico. In questo contesto, che ruolo assume la dimensione dell’altro e quali tipologie di rapporti si instaurano tra l’identità del singolo e lo sguardo altrui?
MatildeBernardi: La questione che Marco ha portato in evidenza e che tu sottolinei è ciò che ci ha spinto a voler lavorare sul romanzo Mine-Haha. Narrativamente e stilisticamente è molto particolare il modo di procedere del testo perché si articola per immagini e impressioni della protagonista e quindi prevalentemente attraverso descrizioni. Descrizioni dei corpi delle altre compagne, dei corpi delle insegnanti, di ciò che accade dentro di lei nell’intuire il tipo di violenza a cui è sottoposta da un lato, in senso metaletterario, nell’essere costantemente sotto la lente del lettore, e dall’altro, in senso interno al testo, del sistema che finanzia la struttura in cui cresce.
Questo strettissimo legame tra sguardo e formazione di un’identità è ciò che ci ha mosso verso il testo e di questo connubio accettiamo il mistero. Tutto è educazione durante il processo di crescita, in particolar modo per quanto concerne un corpo femminile o un corpo che si identifica come tale, e quindi la comunità e lo sguardo di una comunità (in quanto sistema di individui) è tutto ciò che definisce la formazione di un’identità. Nel caso del processo di formazione del femminile, la questione dello sguardo esterno si inserisce nella percezione che si ha del proprio corpo che di fatto modifica fino a plasmarlo. L’obiettivo è che il dispositivo teatrale, in un rapporto di uno sguardo (la performer) contro cento (il pubblico), riesca a parlare di come ogni sguardo di quei cento finisca per determinare quello che poi va ad accadere a quel corpo, alla crescita di quel corpo.
Roberto Calasso, in riferimento al corpo delle protagoniste del racconto, parla di un principio di sostituibilità, di intercambiabilità dei corpi. Nel romanzo queste bambine sono cresciute all’interno della struttura ma, arrivata all’età della pubertà, la più adulta del gruppo viene allontanata e al suo posto subentra una nuova presenza in età infantile. C’è quindi un principio di somma delle parti che prevale sul singolo. Avete trovato delle similarità tra questo modello estremo e il processo di formazione di un corpo nella vita reale?
M.B: Quando abbiamo iniziato a lavorare su questo materiale non ero da sola ma con me c’erano anche Chiara Ferrara e Carolina Ellero. Marco ci ha chiesto di portare una restituzione scenica che raccontasse cosa avevamo provato leggendo quel romanzo. Di fatto ciò che poi abbiamo portato era profondamente diverso, sia esteticamente che come gusto, ma c’era qualcosa che ritornava sempre relativamente a come il nostro corpo si è adattato nel tempo all’impressione che l’esterno ha lasciato su di esso. Questa costante, enfatizzata nei corpi femminili o che si identificano come tali, è ciò che ha sorpreso anche me nella lettura del testo. Lo dico sorridendo perché il testo è datato in un certo senso, è scritto da un uomo all’inizio del Novecento, eppure ci sono dei frammenti che, alla seconda o terza lettura, mi hanno profondamente impressionato, perché ho pensato che li avrei potuto scrivere io rispetto a piccoli momenti che hanno segnato la mia crescita. In questo divario temporale, la lettura marxista che ne fa Calasso – dal punto di vista della mercificazione e reificazione dei corpi delle protagoniste – forse si è addirittura radicata.
M.C: A tal proposito aggiungo che nel testo le bambine sono letteralmente state educate e cresciute ad essere una, un blocco unico, e in un passaggio la protagonista Hidalla afferma di distinguere le compagne solamente per le differenze fisiche: di ognuna ricorda solamente come camminava, di nessuno invece ricorda ad esempio come parlava o che voce avesse. In questo caso forse più che partire da un corpo per raccontarne cento, attraverso il prisma di una difformità (il corpo di Matilde) abbiamo finito per notare tante equivalenze. E questo è molto interessante, cioè il fatto che non pretendiamo di raccontare attraverso un’esperienza tutte le altre esperienze ma, attraverso un’esperienza, proviamo a far vedere che ci sono queste famose costanti di cui parlava prima Matilde.
Nel romanzo, nel momento in cui le bambine negli anni della pubertà escono da questa bolla, da questa dimensione chiusa della struttura, si interrompe la narrazione. Nello spettacolo affrontate la questione del dopo o mantenete l’intenzione del romanzo di lasciare sfumato ciò che avviene a queste ragazze fuori dalla struttura?
M.C: Nello spettacolo anzitutto c’è una cornice che tiene il testo del romanzo molto presente in scena, nel senso che noi iniziamo con alcune battute del prologo, così come anche alla fine chiudiamo con la stessa postilla con cui si chiude il testo. Per cui abbiamo accettato il mistero di questa chiusura-non chiusura. In qualche modo anche il procedere del lavoro segue l’andamento del testo, nel senso che anche noi ci siamo costruiti un nostro parco, c’è poi una zona che corrisponde al teatro così come viene descritto nel testo. A questo proposito, piccola parentesi, proprio lo spazio del teatro è stato anche un po’ il nostro punto di partenza rispetto allo sguardo. Le fanciulle nel teatro possono essere viste ma non possono vedere a loro volta, per cui anche nel percorso dello spettacolo, abbiamo un ribaltamento di questa visione perché avremo invece un corpo nudo e un volto completamente coperto – chiusa parentesi.
Tornando alla domanda, non abbiamo voluto neanche immaginare come proseguire, ciò che per noi prosegue al di fuori del testo è Matilde. Lo spettacolo ha una sorta di struttura circolare perché, nella parte finale dello spettacolo, c’è una sintesi vocale che riprende un segmento iniziale in cui è Hidalla il personaggio che vediamo in scena. Il suo personaggio compie un percorso che termina con un nuovo “benvenute e benvenuti” (lo stesso che sentiamo all’inizio dello spettacolo), ma stavolta il personaggio in scena è Matilde stessa. Quindi in un certo senso il dopo a cui facevi riferimento per noi corrisponde con il punto di partenza: abbiamo usato Hidalla per vedere Matilde e Matilde per vedere Hidalla.
M.B: Aggiungo solo che Wedekind compie un atto di cattiveria nei confronti della sua protagonista perché ci abbandona proprio nel momento in cui lei esce dalla struttura, ma nella prefazione ci fa intuire che questa donna ha avuto una vita straordinaria rispetto a ciò che le è accaduto nel corso della narrazione. Di fatto Wedekind ci fa vedere soltanto il risultato di quel corpo che si sottoponeva agli sguardi. Ma nella prefazione ci dice che ad un certo punto della sua vita fugge con un architetto, che le muoiono due figli, che cavalca in Brasile e che quello è stato il momento di maggior felicità: ecco in realtà questo fuori che hai intuito è un grande motore rispetto all’azione in scena. Di fronte a tutto quel congelamento dato dal ruolo di questo sguardo, c’è qualcosa che però pulsa costantemente e che sfuggirà sempre. Quella piccola fiamma, secondo me, rimane quel fuori, quel dopo che Wedekind non ci regala ma che contraddistingue comunque quel corpo.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.
Ad arricchire la programmazione del Romaeuropa Festival torna anche quest’anno la rassegna dedicata alla scena teatrale emergente Anni Luce, sotto la direzione di Maura Teofili. Per l’occasione abbiamo intervistato Claudio Larena, autore e performer dello spettacolo Stiamo lavorando per voi (ci scusiamo per il disagio) in cartellone il 3 e il 4 ottobre presso gli spazi del Mattatoio.
Lo spettacolo prende le mosse dalla visione abituale del cantiere stradale come ingombro, cercando di rileggerlo come luogo quotidiano del nostro spazio urbano: da cosa è scaturita l’esigenza di decostruirlo dalla sua funzione originaria e, anche attraverso lo spazio del teatro, volerlo raccontare in una maniera differente?
L’esigenza che sta alla base di questo testo è nata quasi per caso, da un pensiero che è nato ormai forse due o tre anni fa. Avevo montato questa struttura abusiva, clandestinamente, nella piazza d’ingresso del Mattatoio, che è questo enorme spazio a Roma dove ci sono diverse istituzioni culturali. La cosa che mi aveva più colpito è il fatto che questa struttura, che era una teca in legno con delle sculture all’interno, non era stata vandalizzata. Eppure era una scultura che non aveva nessuna motivazione, nessuna giustificazione per stare lì, non c’era nulla che dicesse che cosa o di chi fosse. Spesso incontravo delle persone che la commentavano dicendo “chissà da chi ha ricevuto i permessi questa struttura per essere qua”, e credo che pensassero che fosse della Facoltà di Architettura o del Mattatoio, o ancora del MACRO. La cosa in realtà più eclatante è stata quando un’amica che lavorava al MACRO, e quindi partecipava alle riunioni organizzative, mi ha raccontato che durante una riunione del MACRO il direttore diceva di voler togliere la struttura per organizzare un evento nella piazza ma pur avendo chiamato la Polizia Municipale, il Comune, nessuno paradossalmente poteva rimuovere la struttura dato che “era a norma”.
Questa situazione è stata un po’ per me l’inizio del pensiero di Stiamo lavorando per voi (ci scusiamo per il disagio) che nasce proprio come pensiero sull’occupazione legittima di suolo pubblico, e l’occupazione legittima di suolo pubblico la ottieni se ti appropri di un’estetica legale, che in questo caso è quella della cantieristica, un’estetica che è istituzionalizzata, nel senso che è riconosciuta. Se tu ti appropri di quell’estetica e la vai ad applicare in uno spazio pubblico probabilmente non succederà niente, tant’è che infatti tutti i primi esperimenti sono stati esperimenti di occupazione di suolo pubblico, occupazione che era l’occupazione preventiva di un cantiere.
All’interno del cantiere accadevano delle cose che andavano a creare in qualche modo un cortocircuito, perché non era effettivamente un cantiere ma accadeva dell’altro, eppure non veniva notato, quel luogo poteva stare là, noi eravamo legittimati ad occupare una porzione di spazio pubblico, illegalmente, però consentita dato che ci stavamo appropriando di un’estetica legale e normalizzata. Da lì è nato anche un discorso sull’osservazione, sull’osservazione del circostante, su ciò che notiamo, ciò che non notiamo, e il cantiere di base è sempre un potenziale spazio immaginifico dove non sappiamo quello che sta succedendo. È sempre lì e lo diamo per scontato perché diamo per ovvia la funzione di contenitore, cioè ciò che contiene i lavori in corso e finiamo per basarci solo su quello.
Quindi partendo da questo avete provato a trasformare la funzione standard del cantiere come fucina, come luogo di creazione anche di altro. Lo spettacolo poi presenta due differenti versioni, è stato concepito in un primo momento per lo spazio pubblico e solo dopo all’interno di un teatro. Com’è avvenuto questo passaggio?
Sì esatto, il progetto è nato nel e per lo spazio pubblico, e chiaramente ci siamo accorti che alcune cose, che lì funzionavano, nello spazio teatrale avevano un risultato diverso. In un teatro la finzione la diamo per assodata, quindi nella scrittura della versione teatrale ci siamo soffermati sulla superficialità, intesa non come essere superficiali ma come ciò che sta in superficie. Un cantiere, anche se non accade nulla all’interno, è effettivamente un luogo esposto, quindi ciò che avviene per forza di cose non può nascondersi perché è in superficie; la versione teatrale è andata un po’ verso questa direzione ed è diventata quasi un manifesto della superficialità. Ovviamente il messaggio che vogliamo lanciare non ha niente a che fare con lo stare in superficie e non agire, non fare nulla, ma al contrario rendersi conto di quanta complessità ci sia già in superficie, e soprattutto di quanto già la superficie porti con sé la profondità. La profondità non è un pensiero che apre una ricerca che bisogna fare su ciò che necessariamente non conosciamo, ma su ciò che è già qui: il cantiere nella scrittura teatrale è diventato metafora di questo pensiero.
Nella performance questo discorso è portato avanti giocando anche sulla questione dello sguardo: il cantiere è un luogo da cui ciascuno passando cerca di rubare con lo sguardo qualcosa di nascosto, infatti, sono luoghi un po’ proibiti anche se pubblici, e nella vita reale come nello spettacolo arriva il solito anziano con le mani raccolte dietro la schiena a cercare di scoprire qualcosa.
Sì, diciamo che è come se il cantiere rappresentasse un luogo di lancio di una serie di possibilità, di pensieri che sono però immediatamente rivolti ad un ipotetico pubblico che è un pubblico di passanti, un pubblico di persone che incontrano il cantiere. I cantieri li incontriamo sempre, quindi è un po’ come se anche volendo idealizzare al massimo questo pensiero volessimo proporre il cantiere come luogo di dibattito, come luogo di confronto e come luogo di esposizione di una serie di pensieri e di proposte che magari a volte rimangono chiuse. In questo modo invece ci siamo sforzati di pensare ad un luogo in cui qualsiasi cosa fai puoi essere vista, perché sei in superficie. Poi ovviamente nel lavoro cerchiamo anche di contraddire questa cosa e quindi di fare in modo tale che il cantiere (proprio dal punto di vista fisico nello spettacolo) si apra oppure si chiuda, permettendo ad alcuni discorsi di essere trasparenti al pubblico e ad altri di rimanere nascosti.
Questo aprire e chiudere è ben rappresentato nel vostro lavoro grazie al gioco continuo delle quattro pareti, in questo caso delle grate che vengono continuamente riassemblate per creare immaginari coinvolgenti o esclusivi per il pubblico. Questo effetto è amplificato dal ruolo della parola: che spazio ha avuto nella costruzione dello spettacolo?
Una cosa che è emersa e su cui poi abbiamo avuto modo di lavorare stando in sala, durante una fase di ricerca, va in parallelo con il pensiero del cantiere come luogo che viene dispercepito, dato per scontato; questo discorso ci ha un po’ permesso di associare la figura del cantiere alla figura della persona. Da lì la questione del come veniamo percepiti: il cantiere viene percepito come luogo di cui non ci chiediamo che cos’altro potrebbe essere, noi sappiamo che un cantiere è un cantiere, che lì ci sono dei lavori in corso, sappiamo che un cantiere di base si apre e si chiude e che quando si chiude teoricamente dovrebbe portarci soddisfazione. Allo stesso tempo alimentiamo tutta una serie di desideri o di aspettative, chiedendoci come migliorerà la città, oppure al contrario di lamentele perché dovrebbe essere un luogo all’interno del quale si trasforma il contesto urbano e quindi se poi quel contesto urbano non si trasforma in meglio io mi lamento. Tutte queste riflessioni che si fanno attorno a un cantiere, che sono le stesse riflessioni che poi si pongono effettivamente gli umarelli, che sono gli anziani che guardano il cantiere, sono riflessioni che abbiamo trasposto su una sfera più personale, individuale.
Io che costruisco la mia vita ogni volta che compio un gesto, mi chiedo, quel gesto rimane nella percezione dell’altro? Come faccio ad essere costantemente novità, come faccio, dicendo oggi voglio essere questa persona, voglio cambiare questi comportamenti, questi caratteri, a non essere intrappolato nella percezione che gli altri hanno di me? La questione è come io mi comporto o come l’altro mi percepisce? Dov’è che si crea l’impasse per il quale effettivamente la novità poi non la vediamo, non la percepiamo, non ci sembra che ci sia tanto nel cambiamento della persona quanto nelle cose che ci stanno intorno? È per una questione di percezione personale oppure è perché effettivamente quella cosa non sta cambiando e sta rimanendo tale? Quindi il lavoro in fase di scrittura ha un po’ attraversato queste riflessioni e in questo modo è stato anche possibile spostarsi su una sfera che era più individuale e personale.
Nato a Siracusa nell’ormai lontano1997. Si laurea in filosofia a Bologna per proseguire gli studi tra Milano e Parigi. La passione per scrivere e raccontare storie apre a collaborazioni con le testate giornalistiche online Frammenti Rivista, Palomar e Theatron 2.0. L’interesse per il teatro e il mondo classico lo deve interamente al meraviglioso teatro greco della sua città.
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