L’arte dell’incontro. Intervista a Claudia Castellucci

L’arte dell’incontro. Intervista a Claudia Castellucci

Claudia Castellucci, oltre che autrice e interprete, è una didatta e creatrice di scuole. Nel 1988 fonda la Scuola Teatrica della Discesa presso la Casa del Bello Estremo, nel 2003 Stoa presso il Teatro Comandini di Cesena, nel 2009 Mòra, da cui è nata l’omonima compagnia che debutterà in prima assoluta il 16 ottobre presso il Teatro Piccolo Arsenale con Fisica dell’aspra comunione.

Intervistata in occasione della consegna del Leone d’Argento alla Biennale di Venezia 2020, nei giorni in cui stava concludendo la masterclass con i danzatori diplomandi della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, racconta come si è trasformato il suo lavoro di coreografa e didatta in trent’anni di attività.

Claudia Castellucci
Claudia Castellucci

Hai fatto della didattica un’arte, sganciandola da un concetto di causa-effetto standardizzato ed economicistico e perseguendo piuttosto una messa in discussione costante, attraverso il rapporto dialogico e lo stupore. Come sono cambiate le tue scuole negli anni?

Hai descritto sinteticamente il motivo che genera la scuola: un incontro tra persone in cui l’insegnante è una figura asimmetrica, che si mette continuamente in gioco nella dialettica con gli scolari. Ecco perché non è una scuola di tipo istituzionale: le persone stesse imprimono una fisionomia alla scuola. Ha le caratteristiche dell’arte perché ha le caratteristiche del fare. Di conseguenza, come le opere, le scuole si formano e poi finiscono.

La durata media è di cinque anni, al termine dei quali sento l’esigenza di concludere, quindi passano uno o due anni di letargo, dopodiché risorge la necessità da parte mia di dar vita ad altri incontri. Queste scuole sono molto lunghe ma distese nel tempo, ci siamo sempre incontrati un giorno alla settimana per tutti gli anni. L’incontro stesso è un ritmo che cadenza le abitudini che ognuno di noi ha. La prima è stata la Scuola Teatrica della Discesa in cui, oltre al movimento, c’era anche il canto, e vi partecipavano persone dalle provenienze più disparate: fornai, studenti, artigiani, tutti molto giovani.

Nella scuola successiva, Stoa, i partecipanti erano ancora più giovani, liceali o ai primissimi anni dell’università. Man mano che si andava avanti, le persone aumentavano. All’inizio eravamo in 8, alla fine in 33. Con loro mi sono avventurata a esplorare il ritmo e ho iniziato a capire quanto fosse importante avere un musicista all’interno della scuola, perché la musica è talmente connaturata al movimento che, a un certo punto, la si cuce su misura del ballo e viceversa. Dopo un altro periodo di letargo è sorta un’altra scuola, Calla, durata poco, due anni, perché il numero era scarso e facevo fatica, ma ha prodotto comunque dei balli.

Infine la scuola Mòra, l’ultima, durata cinque anni. Mòra ha determinato un cambio notevole nella cronologia della mia esperienza scolastica perché si è verificata una sorta di tradimento delle premesse, che ha creato una crisi in me e negli scolari stessi: io non ho mai selezionato, ha sempre funzionato l’autoselezione, ma un certo punto ho sentito la necessità di approfondire la tecnica e quindi ho dovuto chiedere a delle persone di continuare e ad altre di salutarci, perché non avrebbero potuto seguire questo tipo di approfondimento. A questo punto, non bastava più una giornata settimanale, dovevamo incontrarci più spesso incaricando le persone di prepararsi, di conseguenza è sorta la necessità di passare dalla scuola alla compagnia e quindi ad un rapporto remunerato.

Questo cambia moltissimo le cose, tant’è che ci è venuta subito la nostalgia del rapporto di studio puro, senza finalità: stiamo dunque organizzando dei seminari liberi rivolti a chiunque, per tornare al modo scolastico.

La verità è che io non riesco a creare coreografie al di fuori di questa prolungata e decantata preparazione che ho assieme agli scolari danzatori. Non riesco a formulare una coreografia a tavolino, astratta dalla relazione. La coreografia sorge dopo un lungo processo di studi liberi, dopo molto tempo trascorso insieme a provare. Dopodichè si cominciano a isolare le parti più interessanti, alcune si aggregano, altre si escludono, poi inizia il lavoro vero e proprio di coreografia.

Il 16 ottobre, presso il Teatro Piccolo Arsenale, andrà in scena in prima assoluta Fisica dell’aspra comunione, creato con la Compagnia Mòra, nata dalla omonima Scuola di movimento ritmico che si è tenuta a Cesena tra il 2016 e il 2019. Come sei approdata alla scelta del Catalogue d’Oisaux di Olivier Messiaen – una composizione per pianoforte che traduce in note il canto degli uccelli – come ispirazione musicale? Rispecchia la tua idea di danza come arte che unisce realtà e mimesi?

Negli studi per pianoforte di Messiaen, il silenzio è una sostanza musicale di primissimo piano e non di sfondo. Noi, che stavamo studiando la pausa e il rapporto che c’è tra una figura in primo piano, sostanziosa, marcata, e un’altra, quell’intercapedine vuota volevamo approfondirla e sondarla. È la prima volta che adottiamo un’opera di un musicista noto. Questa volta, non abbiamo fatto ricorso a un musicista integrato nel gruppo, a parte un fastigio sonoro finale composto dal nostro musicista Stefano Bartolini. In Messiaen ritrovo effettivamente la caratteristica che mi affascina della danza: questa partizione precisa tra finzione e realtà. La finzione è uno schema – nel caso di Messiaen, il canto degli uccelli – trascritto, copiato, imitato. Poi c’è una trasfigurazione, una metabolizzazione del suo ritmo. Non si tratta quindi di mera imitazione, ma di una trasfigurazione. La stessa cosa deve avvenire, secondo me, per i danzatori: da una parte la finzione, che è lo schema coreografico e la sua assunzione, dall’altra le decisioni reali che devono essere prese in quel momento per far sì che quello schema sia vivo, impugnato realmente, in maniera flagrante.

In questo periodo, durante la masterclass con i danzatori diplomandi della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, stai lavorando sul tempo e sul ritmo, approfondendo in particolare concetti come pausa, intervallo e psicologia della durata. Il blocco dovuto alla pandemia ha in qualche modo influenzato la tua percezione del tempo?

Noi, che alla Paolo Grassi ci siamo visti e abbiamo fatto un lavoro fisico, questo discorso ce lo siamo lasciato alle spalle. Paradossalmente trovo che il tempo dell’isolamento sia stato molto chiassoso. Il recupero della fisicità ci ha portato ad apprezzare molto di più il silenzio e la pausa.

In un’intervista rilasciata nel 2009 a Klpteatro, dichiari che la tua non è una scuola di formazione, ma di ricerca e in Setta sostieni che il maestro è il vero principiante, perché è quello che comincia per primo una cosa. Citando Roland Barthes: «Vi è un’età in cui s’insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un’altra in cui s’insegna ciò che non si sa: questo si chiama cercare». Cosa stai cercando in questa fase del tuo percorso artistico?

In questa fase sto cercando una coralità che passi attraverso la solitudine, quindi una scelta paradossale di unità che si compia attraverso la consapevolezza di essere individui e di essere soli. Sarà questo l’argomento dei miei prossimi seminari. La scuola, più che fugare la solitudine, la rivela.

Nello statuto della Socìetas Raffaello Sanzio si legge “L’Associazione si propone come scopo primario di svolgere un lavoro di riflessione, elaborazione dell’arte del teatro in diretto riferimento al contesto sociale nel quale essa è inserita”: in quale contesto è nata la Socìetas, nel 1981? Cosa credi occorra all’arte in questo particolare momento storico?

Noi siamo immersi nella storia e nella cronaca, tuttavia il nostro lavoro non è né storiografico né cronachistico: la relazione con la società è di tipo consecutivo e automatico, non è propositivo. Il discorso politico diventa tale, nel nostro caso, tanto più ci si riferisce alla specificità del linguaggio teatrale, anziché direttamente alla cronaca. Altri si dirigono frontalmente verso i problemi contemporanei e non dico che questo non vada bene, dico solo che nel nostro caso la relazione con la società, con la politica e con l’etica passa sempre attraverso l’estetica.

La scuola da te teorizzata non è uno spazio di libertà fittizia. Eviti l’approssimazione e lo spontaneismo attraverso gli esercizi, passaggi parametrici immediatamente analizzabili, che obbligano alla precisione. Nelle motivazioni per la consegna del Leone d’Argento alla Biennale di Venezia 2020 vieni definita una “coreografa sobria, seria, minimalista ed esigente, che lavora con sacralità alla sua arte”. Che significato dai alla sobrietà?

Per me la sobrietà è semplicità, laddove la semplicità non è un carattere, la descrizione psicologica di uno stato d’animo, ma è uno sforzo, uno scopo da raggiungere, per quanto riguarda un’essenzialità del gesto, o dello stare, o del movimento. Abbiamo scoperto nella scuola la potenza negativa: tirare fuori la massima potenza dal minimo gesto o dalla sottrazione. La danza tiene in massimo conto il volto, ma proprio per questo, proprio perché il volto, lo sguardo, è apicale, non va assolutamente caricato. Non spetta a noi. A noi spettano le direzioni, spettano i movimenti essenziali, sintetici, decantati. Perché è da lì che passa la commozione, non da altri carichi, né tantomeno dalla parola. Noi ci siamo liberati della parola. Anche queste interviste le vivo un po’ come una contraddizione. È chiaro che la parola, quando ci incontriamo, è necessaria, ma è necessaria per liberarcene, per poterne fare a meno. Perché la danza è un pensiero reale e non verbale.

Danzare tra mutevoli panorami. Intervista a Rezza-Mastrella

Danzare tra mutevoli panorami. Intervista a Rezza-Mastrella

Da trent’anni Antonio Rezza e Flavia Mastrella calcano palchi nazionali e internazionali portando in scena performance acute e sregolate. Il loro nuovo spettacolo è stato bloccato, in fase di costruzione, dal lockdown imposto dall’emergenza Covid-19. Una condizione, questa, comune a molti lavoratori e lavoratrici dello spettacolo. Questo tempo di restrizioni che ripercussioni ha avuto sulla creatività di due artisti che hanno fatto del contatto uno degli elementi cardine del proprio lavoro? In questa intervista, Antonio Rezza e Flavia Mastrella tracciano il profilo della loro storia artistica, riflettendo sulla ripresa dello spettacolo dal vivo in Italia senza esclusione di colpi.

Da quale suggestione siete partiti per la costruzione del vostro nuovo spettacolo e quale direzione sta prendendo?

Flavia Mastrella: Eravamo partiti, nel 2017, da una riflessione sulla chiusura, su uno strumento che apre e chiude sul nulla.

Antonio Rezza: I calciatori hanno ripreso a giocare, gli ombrelloni sono posizionati alla solita distanza, i ristoranti sono giustamente ripartiti, gli attori possono baciarsi sui set cinematografici dopo aver fatto il tampone. Noi, invece, siamo fermi da cinque mesi perché le prove non si possono fare, gli attori devono mantenere le distanze. Il teatro è ritenuto miserabile e questa è già una dichiarazione di sottomissione che non mi piace, perché se uno è più povero non è che debba essere destinato a soccombere. Non riceviamo sovvenzionamenti statali, quindi saremo noi a decidere se lo spettacolo potrà andare in scena o no, perché non dobbiamo necessariamente sbrigarci per ricevere quell’elemosina che lo Stato fa a chi si accontenta. La malattia c’è stata e nessuno lo nega, ora però è necessario tornare a quello che eravamo. Sembra che certi possano farlo e altri no.

Che rapporto avete con le restrizioni imposte da questa nostra nuova quotidianità, come farete i conti con elementi come il plexiglass o le mascherine? Potrebbero influenzare il vostro lavoro sugli habitat?

AR: Assolutamente no, l’artista è artista e fa il suo lavoro. Lo Stato non può essere Ronconi, non può stabilire le regole della messa in scena, scegliere i materiali. Diventa anche scenografo, adesso, lo Stato? So che la miseria umana può raggiungere picchi inenarrabili e che in molti avranno la tentazione di speculare sul sentimento profondo che ha lasciato questa sciagura, però mi auguro che non si abbattano sul teatro spettacoli sul virus. Siamo stati schiacciati dalle notizie dei telegiornali per quattro mesi: non serve che anche il teatro, la letteratura, il cinema, la musica si sporchino le mani con qualcosa che non fa parte dell’arte. Se uno per avere un’idea deve aspettare che muoiano migliaia di persone, vuol dire che non ha idee, che è inutile per l’arte. Invito chi scrive per il teatro a non parlare del virus: ne parla già la morte di chi è morto, lo stato d’animo di chi ha visto morire. Sarebbe un ennesimo atto di accattonaggio.

FM: La restrizione non è mai uno stimolo creativo, secondo me. Io mi manifesto nella vitalità, non nel dolore. Il plexiglas è estremamente inquinante, non si sa poi come andrà smaltito. L’habitat del nuovo spettacolo è fatto di frammenti di cose, non c’è più una unitarietà nella forma: ho perso completamente il riferimento strutturale, ci sono oggetti che volano nel nero.

Nella descrizione del workshop da voi condotto alla Biennale di Venezia 2018 scrivevate: “affronteremo il bacio nel suo attuale significato”. Che effetto fa ripensare oggi a un’esperienza basata sul contatto con passanti in transito, su effusioni tra sconosciuti?

AR: Da un po’ di tempo, se incontro una persona e vedo la sicurezza nei suoi occhi, io stringo la mano e bacio. Mi vogliono fare la multa? Me la facessero. Nello spettacolo Fratto_X, io e Ivan Bellavista entriamo in contatto. Se qualcuno ci contesta questo, gli diciamo che ci accoppiamo dopo lo spettacolo. Voglio vedere se lo Stato entra anche nella sfera della sessualità individuale. Facciamo l’amore dopo lo spettacolo, nessuno ce lo può impedire. Se noi abbiamo rapporti sessuali possiamo stare sul palco vicini, questo mi sembra di aver capito. La libertà vale più di ogni orientamento sessuale.

Quali convinzioni avete abbandonato lungo il percorso e come si è evoluto negli anni il vostro rapporto? 

FM: Non abbiamo abbandonato le nostre idee primarie, ovvero la libertà di espressione e l’anarchia relazionale: non c’è un capo tra di noi. Il nostro rapporto è cresciuto spontaneamente. Non avendo obblighi, né regole precise – dato che tutte le volte noi riscriviamo anche le regole formali – è cambiato con il tempo. Forse siamo tra i pochi che sono riusciti a raccontare l’attualità mentre accadeva.

Col passare del tempo tutto si sintetizza in sinossi sempre più stringate. Se tra un secolo si dovesse ricordare il lavoro di REZZA-MASTRELLA in un pensiero veloce, quale sarebbe?

FM: In una frase veloce il nostro lavoro di tutta una vita? È difficile, ma direi che abbiamo danzato tra mutevoli panorami.

AR: Mi dispiace non vivere tra un secolo per ammirare ciò che abbiamo fatto.

In un’intervista rilasciata nel 2018 ad Artribune affermate: «La nostra inevitabilmente è una parabola discendente, perché non abbiamo vent’anni; ma è solo biologicamente discendente. Siamo ascendenti per la padronanza che abbiamo dell’incoscienza». Come si acquista padronanza dell’incoscienza?

FM: Essendo liberi dai pregiudizi e dai condizionamenti delle logiche produttive. Ma, come potrai notare, la libertà va sempre più riducendosi.

AR: C’è un aneddoto su Picasso, che fece un disegno in un ristorante per pagare il conto. “Ma come, ci hai messo due minuti e paghi il conto così?”. “Non ci ho messo due minuti, ci ho messo settant’anni e due minuti. Avrei potuto farlo più grande, ma tu mi hai chiesto di pagare il conto con un disegno. Se te lo faccio più grande, mi devi dare il ristorante”. L’esperienza, che è sempre corruttrice, ti rende più veloce. La nostra è una parabola discendente perché abbiamo meno tempo per fare le cose. Inevitabilmente, anche se siamo in piena forma, perché che ne sappiamo noi di come cambierà il corpo tra cinque o dieci anni? Che ne sappiamo dei crolli improvvisi? A vent’anni non ti poni il problema, ma non sei così bravo. C’è da essere allegri e disperati nello stesso momento.

In una video intervista con Fede, Martin e Luiz per Muschio Selvaggio, a maggio, avete dichiarato: “Tutto è stato inventato è la scusa della retroguardia”. Di cosa credete abbia bisogno l’arte, in particolare quella teatrale, oggi?

AR: Ti posso dire di cosa non ha bisogno. Non ha bisogno di chi dice che tutto è stato inventato, perché significherebbe accettare il fatto, totalmente inverosimile, che per i prossimi cinque milioni di anni l’umanità vivrà senza idee. La musica, la parola, hanno combinazioni interne infinite. Non si può dare la possibilità di inventare cose nuove solo alla scienza. Nessuno si azzarderebbe a dire che il progresso tecnologico è arrivato alla fine. “Tutto è già stato inventato” è la scusa di chi non ha idee e affossa le capacità sovversive dei giovani.

FM: L’arte teatrale si deve avvicinare di più alla gente. Non si può vivere di mera rappresentazione, né di soli classici. Perché la cultura sia viva è necessario avere autori contemporanei, magari di vent’anni, diciassette. Non importa l’età, ma che siano giovani e sentano il momento. Il teatro è stato affossato dai finanziamenti pubblici che obbligavano i teatri stabili a fare almeno uno spettacolo all’anno. Un autore è sottoposto a uno stress creativo che poi va ad esaurirsi. Viene spremuto per cinque o sei anni, finché non si consuma.

Citando il finale di Fratto_X: “Non capisce niente, lo spettatore. È l’anello debole della catena, lo spettatore. Tutto crolla di fronte allo spettatore.” Cosa vorreste dallo spettatore?

FM: Niente. Noi vogliamo solo comunicare con lo spettatore. Il nostro lavoro è in gran parte visivo, quindi forse più comprensibile. La parola non è l’unico mezzo, certe sfumature passano attraverso le immagini. La comunicazione attraverso i colori e la forma è qualcosa di atavico, che ti risveglia delle sensazioni. Però deve essere schietta, sincera, non è che tu vai col manuale di psicoanalisi o di semiotica sul palco. Devi tirarla fuori a modo tuo capacità di comunicare, senza manipolare nessuno, nemmeno te stesso. Quello di Fratto_X è un pre-finale, che anticipa il condizionamento agghiacciante dove Antonio, con uno specchio, prende le persone e dà loro un ruolo preciso, che è completamente contrario a quello che loro sono nella vita, probabilmente.

Il blocco causato dalla pandemia ha slatentizzato problemi pregressi nel settore dello spettacolo dal vivo. Come vi state ponendo in merito alle proteste di questi mesi?

FM: Già da prima della pandemia ero entrata in crisi, perché mi sembrava che il teatro avesse bisogno di un rinnovamento, di un cambio di tendenza. Questo virus per me ha solo precipitato le cose. Sono molto favorevole alle proteste, sono andata alla prima manifestazione che c’è stata a Roma quando tutto era ancora chiuso. La contestazione è sempre positiva e mai perfetta, non so dove ci porterà, ma l’importante è avere una reazione. Hanno fatto finta che fosse tutto come prima, la gente crede che i teatri siano aperti, invece così non è. Il Teatro Vascello di Roma, per esempio, è chiuso, ed è uno dei pochi posti a Roma dove si fa sperimentazione. L’ideale sarebbe, secondo me e Antonio, finanziare lo spazio e aprirlo a tutti.

AR: I problemi economici sono importanti, perché se non hai i soldi sei costretto a dipendere da qualcuno. Ci sono problemi contingenti che riguardano le bollette, gli affitti, la vita, il mangiare. Ma qui si parla solo di soldi. Lo Stato ha fatto una prova tecnica di sottomissione, la prossima volta si mancherà ancora più di rispetto alla cultura. Uno Stato che vive sul turismo, dove le opere dei morti mantengono in vita l’economia di una nazione, non può mancare così tanto di rispetto ai vivi, che saranno i morti di domani e che producono arte oggi. Non che tutti producano arte, ci mancherebbe, ma siccome io mi sento un vivo che produce arte esigo rispetto da uno Stato che non riconosco.

Le Bermuda della compagnia Mk. Intervista a Biagio Caravano

Le Bermuda della compagnia Mk. Intervista a Biagio Caravano

Il gruppo Mk si occupa di coreografia e performance dal 1999 e ruota intorno ad un nucleo originario di artisti costantemente in dialogo con altri performer e progettualità trasversali.

Con Bermudas il gruppo ha vinto il Premio Ubu 2019 per il “Miglior spettacolo di danza dell’anno. La performance è pensata per un numero variabile di interpreti (da tre a tredici), intercambiabili tra loro. La coreografia di Michele Di Stefano si propone di dare vita a una danza che permetta di costruire uno spazio sempre accessibile a qualunque nuovo ingresso. Al centro di questo sistema di movimento sono le caratteristiche singolari dei danzatori, le cui individualità sono chiamate a originare incontri e mediazioni – un campo energetico molto intenso (a cui il nome ‘Bermudas’ ironicamente fa riferimento), un rituale collettivo che gestisce e assorbe tendenze divergenti e malintesi.

Intervistiamo Biagio Caravano, uno dei fondatori del gruppo Mk nonché uno dei danzatori dello spettacolo Bermudas:

Bermudas, ispirato dalle teorie del caos, è “un organismo di movimento basato su regole semplici e rigorose che producono un moto perpetuo”, per il quale avete richiesto la consulenza matematica di Damiano Folli. Come è nato?

Di solito i lavori di MK sono il fraintendimento degli spettacoli già avvenuti. Bermudas arriva da un processo che abbiamo sviluppato in uno spettacolo precedente, Robinson, in cui c’era una parte centrale formata da nove segni che andavano a loop. Da lì è nata l’idea di Bermudas, ispirato dalla generazione di insiemi complessi a partire da condizioni elementari. Quattro gesti questa volta, ripetuti nel tempo, per costruire complessità nella relazione con gli altri corpi. È importante spostare l’oggetto dalla centralità del corpo ai confini del mondo, il più lontano possibile, e creare uno spazio dove la danza è possibile solo nel momento in cui permette ad un’altra danza di esistere al proprio fianco.

Ci sono più versioni di Bermudas: come muta in base all’interazione nello spazio?

Bermudas è fatto da 13 danzatori, non tutti contemporaneamente in scena, massimo 7, 8 persone alla volta. La cosa secondo me interessante è che non ha più bisogno di prove: noi diamo appuntamento ai danzatori in scena il giorno stesso, perché abbiamo stabilito a priori un processo basato sull’incontro e sulla mediazione. Bermudas è fatto da più persone, anche di diversa età, perché lavora proprio sull’idea della relazione, sul fatto che il tuo stare genera uno spazio sempre accessibile ad un nuovo ingresso, per cui il sistema cambia di volta in volta a seconda di chi c’è accanto a te, nonostante la produzione di segni resti immutata. I quattro segni elementari restano invariati, ma il rapporto che stabilisci col tempo, con lo spazio e con il ritmo dipende dal corpo che ti ritrovi davanti, perché immetti punti di vista differenti e quindi il modo in cui percepisci l’attività di danza.

Quindi, siccome i corpi cambiano, cambia in continuazione il sentimento di questo processo. Nasci come musicista. Che musica ti ispira?

Io e Michele di Stefano veniamo dal punk. Siamo ex musicisti, ci siamo formati a Salerno negli anni Ottanta. Penso al corpo come a una sostanza sonora, per cui la musica è sempre in continua relazione con quello che faccio. Pensiamo sempre a uno spettacolo come a una sorta di LP, di disco musicale. 

Fai parte del corpo docenti della Paolo Grassi e dell’Accademia Nazionale di Danza di Roma. Cosa hai imparato insegnando?

È sempre complicato mettere in parola quello che produci con il corpo. Perché le parole sono sempre fraintendibili, il corpo è sempre risolutore. Il corpo, messo davanti alla parola, produce sempre una chiarezza nel pensiero. E quindi la pratica di insegnare, di trasmettere informazioni in un corpo altro, produce chiarezza in noi stessi.

Quali doti dovrebbe avere un danzatore/una danzatrice?

Io lavoro sul disfacimento del concetto di soggetto. Deporre la volontà per non esistere. Essere nell’abbandono. Meno porti te stesso nel movimento, nella danza, più quella cosa in realtà ti appartiene. Più ti allontani e più ti appartiene. Si tratta di costruire uno stato che ti permetta di interfacciarti al mondo esterno. La parola che meglio esprime questo stato è resa, arrendevolezza. Quando ti arrendi davanti all’evidenza, sei pronto a guardare quella cosa e a spostarti completamente da un’altra parte. Coabitare nella diversità, uno spazio ambiguo pieno di complessità, di strategie di avvicinamento, di possibili malintesi tra i corpi.

Cosa significa per te questo UBU vinto con Bermudas, dopo il Leone d’Argento alla Biennale 2014?

Non sono uno a cui interessano i premi, ma per me significa che la strada che stiamo percorrendo in qualche maniera ha senso, ovvero un ritorno all’esterno. Questo mi interessa.

Perché hai scelto proprio la danza?

Perché la danza è il muscolo della vita, la danza mi dà delle possibilità.

Situazione Drammatica. Intervista a Tindaro Granata, Carlo Guasconi e Ugo Fiore

Situazione Drammatica. Intervista a Tindaro Granata, Carlo Guasconi e Ugo Fiore

Il Copione è una rassegna di sei incontri dedicati alla conoscenza e alla lettura di testi di giovani autori italiani contemporanei organizzata allo Spazio Banterle di Milano dall’11 novembre 2019 al 6 aprile 2020 dall’Associazione Situazione Drammatica di Tindaro Granata, Carlo Guasconi e Ugo Fiore, in collaborazione con il Teatro de Gli Incamminati

Con il costo di ingresso lo spettatore non acquista un biglietto, bensì il copione che verrà letto quella sera, ad una cifra promozionale e non commerciale.

Abbiamo intervistato Tindaro Granata, Carlo Guasconi e Ugo Fiore:

Per quale target avete concepito questa iniziativa e che tipo di pubblico avete incontrato nei primi due appuntamenti?

Ugo: Situazione Drammatica vorrebbe far avvicinare alla scrittura teatrale chi non è abituato ad avere a che fare con il teatro perché in un mondo utopico la Parola teatrale dovrebbe riguardare tutte e tutti. Promuovere la drammaturgia contemporanea e organizzare incontri per parlare con questi giovani drammaturghi parte dalla voglia di cancellare la distanza tra chi sta sul paco e chi sta in platea. Nel corso dei primi appuntamenti siamo stati sorpresi di vedere che, a poco a poco, quest’obbiettivo si avvicina. L’altra sorpresa è stata che quasi la metà del pubblico avesse meno di venticinque anni.

Carlo: Non è stata concepita per un target particolare, si rivolge agli amanti del teatro e della letteratura, non per forza addetti ai lavori. Il pubblico incontrato fino ad ora si è infatti rivelato molto eterogeneo, sia in termini di età che di conoscenze della materia drammaturgica. La cosa molto bella è che è stato un pubblico attivo, molto partecipe, appassionato e curioso.

Tindaro: Volevamo fare in modo che la lettura di un testo teatrale fosse fruibile a tutti quelli che fossero interessati al processo di messa in scena, nascosto, che ogni testo ha. Ovviamente noi presentiamo una minima parte di quel processo, perché le prove di un testo che diventa spettacolo sono ben diverse e molto più complesse, ma avere l’autore che si racconta e seguire la lettura dal copione, vedendo gli attori che trasformano la scrittura in parole, è davvero emozionante. Finora abbiamo avuto il tutto esaurito per tutte le repliche.

Come avete selezionato i testi e cosa hanno in comune dal punto di vista formale e contenutistico?

Tidnaro: Per prima cosa abbiamo scelto gli autori. È la loro festa, il loro matrimonio, il loro Natale, sono loro stessi i principi della nostra rassegna. Quindi i testi sono arrivati con loro e spesso abbiamo chiesto agli autori stessi di proporci una delle loro opere. 

Carlo: Hanno in comune che ci piacciono i loro autori, siano essi più o meno conosciuti. Rispetto alle strutture, invece, fortunatamente ogni testo è un universo a sé e ciò è un gran pregio, perché ogni incontro è un’esperienza diversa.

Ugo: Abbiamo tentato, al di là del nostro imprescindibile gusto personale, di proporre dei testi che fossero eterogenei nel modo di approcciare la scrittura.

Ogni incontro si apre con una presentazione dei testi da parte degli autori: essi stessi fanno da mediatori tra il pubblico e l’opera. La critica è ancora in grado di assolvere questo compito di mediazione?

Tindaro: Oh, difficile questa domanda. Il lavoro del critico è una professione come quella dell’attore e del drammaturgo: dietro alla professione c’è un essere umano, con la sua complessità e capacità. Mi verrebbe da dire che in generale la critica di oggi, alla quale sono state tolte le pagine scritte e che ha subito centinaia e centinaia di affiancamenti con anonimi opinionisti online, non riesce ad essere un tramite di conoscenza e di approfondimento per le opere teatrali, ma spesso si limita a descrivere la trama. La critica assume valore in base alla persona che scrive: se chi scrive è una persona con talenti, cultura e sensibilità, la critica assolverà il suo compito di analizzare un’opera teatrale, altrimenti sarà solo un riassunto di quello che va in scena.   

Ugo: Se per mediazione s’intende un modo di decodificare un’opera, sicuramente dovrebbe essere un compito della critica. Tuttavia, la presentazione dei testi fatta dagli autori stessi non è un’operazione di decodifica, che richiederebbe un’impossibile obiettività. È piuttosto un modo per avvicinare il pubblico a un testo.

Carlo: Credo che a volte ne sia perfettamente in grado ed accade quando chi fa il critico ha gli strumenti e la capacità di comprendere e sublimare in un articolo quello che sta vedendo. Tantissime altre volte invece no, mi capita di leggere recensioni che si perdono in loro stesse e fanno perdere tempo a chi le legge; non per forza sono negative rispetto ad uno spettacolo, sono solamente fatte molto male.

L’evento si svolge presso lo Spazio Banterle, nel cuore di Milano, che nel vostro programma definite “una città sulla soglia di una nuova, grande trasformazione, che ha bisogno di essere continuamente ri-fondata”: che progetti avete in mente e quali collaborazioni state avviando con le realtà culturali milanesi?

Carlo: Non te lo dirò mai. Scherzo, per il momento mi sento di mantenere della riservatezza sulla questione.

Tindaro: Siamo ancora molto “giovani” abbiamo molte idee. Per adesso diciamo che stiamo cercando di capire come gestire al meglio questa prima rassegna. C’è da imparare ogni volta e ogni sera per fare meglio la volta successiva. 

Ugo: La nostra volontà sarebbe quella di proporlo in vari luoghi più o meno pubblici e più o meno teatrali della città.

Tra i vostri progetti c’è la realizzazione di una scuola permanente di drammaturgia, in collaborazione con le università milanesi, che coinvolga studenti di tutte le discipline, anche scientifiche, in percorsi di scrittura teatrale legati ai singoli saperi. Di cosa ha bisogno la drammaturgia in Italia in questo momento?

Ugo: Credo che abbia solo bisogno di essere sostenuta. La drammaturgia italiana contemporanea esiste ed è ricca. Ha solo bisogno di sostegno.

Tindaro: Abbiamo il desiderio di fare una compagnia/scuola permanente che si occupi della lettura dei testi e della drammaturgia giovane italiana. La drammaturgia e i drammaturghi hanno bisogno di cura di attenzione di avere più possibilità di essere messi in scena e più possibilità di sperimentare i loro lavori con gli attori e con i registi. C’è bisogno di più lavoro, i talenti non mancano.

Carlo: Credo che più di ogni cosa abbia bisogno di diffusione e di supporto concreto, di fiducia da parte delle istituzioni e del pubblico. Abbiamo ottimi autori in un momento non brillante per l’istituzione teatrale italiana, e questa è un’occasione, creare una “nuova scuola” magari sbagliando, prendendosi dei rischi, senza aver paura. Credo che questi giovani autori siano il terreno su cui far ricrescere il teatro. Continuare a guardare al passato pensando solo a soddisfare gli abbonati con spettacoli triti e ritriti su testi visti un’infinità di volte non mi sembra una risposta migliore di quella che potrebbe dare un cane anziano che ama mordersi il mozzicone di coda che gli rimane in bocca. Bisogna capire che quelli che oggi sono classici una volta erano drammaturgia contemporanea che ha trovato messa in scena.

Mangiafoco di Roberto Latini: intervista ad Elena Bucci, Marco Manchisi, Marco Sgrosso

Dopo Il teatro comico di Goldoni, Roberto Latini affronta il Pinocchio di Carlo Collodi per riflettere sulla figura dell’attore e sul senso del teatro. In scena con lui Elena Bucci, Marco Manchisi, Savino Paparella, Stella Piccioni, Marco Sgrosso e Marco Vergani. Mangiafoco, dopo il debutto in prima assoluta per Matera 2019, sarà in scena al Piccolo Teatro Studio Melato fino al 22 dicembre. Parafrasando l’iniziatico ingresso di Pinocchio nel Gran Teatrino delle Meraviglie di Mangiafoco, gli attori e le attrici protagonisti di questo lavoro, si confrontano con le proprie biografie teatrali, tra memorie e future ambizioni.

Mangiafoco - Roberto Latini. Foto © Masiar Pasquali
Mangiafoco – Roberto Latini. Foto © Masiar Pasquali

Avete alle spalle un percorso condiviso, dall’esperienza con Leo de Berardinis al Teatro Comico, e in questo spettacolo raccontate molto di voi, del vostro percorso attoriale e della nascita della vostra vocazione: come si è formato, inizialmente, questo gruppo e in che modo avete innescato e sviluppato il processo drammaturgico?

Marco Sgrosso: Elena ed io abbiamo un legame solido da lungo tempo, precedente di molti anni alla formazione del gruppo di questo spettacolo. Abbiamo fondato insieme la compagnia Le belle bandiere, che ha più di trent’anni di vita e, ancora prima, dopo esserci incontrati alla Scuola di Teatro di Bologna, avevamo condiviso un lungo periodo nella compagnia di Leo De Berardinis. Marco Manchisi ha condiviso con noi alcuni anni nella compagnia di Leo, con lui esiste da tempo un rapporto di “fratellanza teatrale”.

L’incontro con Roberto e con gli altri attori è avvenuto invece due anni fa con Il Teatro Comico, quindi è molto più recente, ma da subito si è stabilita una grande coesione artistica e umana che certamente ha aiutato Roberto a dare a Mangiafoco una struttura drammaturgica così particolare, costruita attraverso momenti di improvvisazioni singole o collettive, spunti di testi classici suggeriti da lui oppure proposti da noi e sulle nostre stesse biografie teatrali, in una dimensione di immaginarie audizioni, collegate al percorso iniziatico di Pinocchio nel momento in cui entra nel Gran Teatrino delle Meraviglie di Mangiafoco.

Marco Manchisi: Quando Roberto ha cominciato a pensare al Teatro comico, mi ha contattato dicendomi che aveva intenzione di approfondire il lavoro con la maschera e che avrebbe voluto vederci riuniti, con Marco Sgrosso ed Elena Bucci, come corpo e memoria di un lavoro condiviso con il nostro comune maestro Leo De Berardinis.

Elena Bucci: È tornata la memoria dei giorni delle scelte, sono tornati i nomi di Perla Peragallo, di Leo de Berardinis, di Antonio Neiwiller, i nostri maestri vicini tra loro e tutti testimoni di un’epoca straordinaria, sono tornati i ricordi che uniscono Roberto a noi, ma sono diventati nostri anche i ricordi degli altri, quelli che non abbiamo vissuto. Vicinanze, differenze, maestri, memoria di viaggi, spettacoli, vita, percorsi autoriali e scrittura sono diventati un patrimonio condiviso che scorre da uno all’altro, rendendoci tutti attori autori dentro l’universo immaginato da Roberto.

In questo clima di armonia e concentrazione abbiamo inseguito la nudità, l’essenza, assecondando la richiesta di Roberto di partecipare alla creazione. Questo fiume in piena si è distillato in materiale drammaturgico nel quale, nonostante l’apparente naturalezza e un certo margine di improvvisazione, ogni nota è strettamente sorvegliata e affidata alla capacità di ascolto e controllo di ognuno di noi.

Roberto Latini propone una metafora di attore burattino e burattinaio, condotto e libero allo stesso tempo: quanto vi riconoscete in questa immagine in questa fase della vostra carriera?

Marco Manchisi: Mi riconosco in questa metafora di attore burattino e burattinaio al cento per cento. Lavoro da anni, per quanto riguarda i miei spettacoli, intorno alla condizione dell’attore all’interno della fascinazione che subisce direttamente dalla scatola teatrale, la quale indica inesorabilmente, come si trattasse di un destino prescritto, la strada drammaturgica e motivazionale dei personaggi che vado a creare. In questo, anche il lavoro sulla maschera risponde al principio che sono la scena e la situazione a determinare le sorti del racconto e del movimento spirituale del personaggio.

Elena Bucci: Le immagini del burattinaio e del burattino sono per me molto potenti e hanno già attraversato diverse volte il mio cammino. Nel corso della preparazione di questo spettacolo, Roberto ha creato uno spazio di accoglienza e libertà che ha fatto rivivere la memoria della mente e del corpo restituendomi gesti, voci, ricordi vivi che sono ora parole e azioni. Sono burattino e burattinaio, anche nel corso di una sola azione: mi sento in alternanza l’uno e l’altro e ogni sera quasi mai negli stessi identici punti. Dipende dalla mia energia e dal respiro e dall’umore del pubblico che, in questo spettacolo, sento con una forza speciale perché cerchiamo di inseguire una trasparenza e una nudità sempre più abbandonate.

Se invece pensiamo a queste parole immaginando semplicemente il burattinaio come colui che governa i movimenti altrui e il burattino o marionetta come colui che esegue, riconosco di essere stata molto fortunata perché da attrice sono sempre stata invitata a praticare una libertà creativa, mentre da autrice e regista ho avuto la possibilità di creare uno spazio dove gli altri fossero altrettanto liberi, traendone grande piacere e divertimento per il pubblico e per noi. Ho potuto sperimentare quanto il teatro sia un organismo vivo, mai simile a sé stesso, dove le persone si trasformano senza fine, maestro nel depistare il pregiudizio e nel generare conoscenza, anche attraverso l’esperienza dei propri limiti e orrori che, superati e visti, possono diventare un trampolino o uno scivolo.

Marco Sgrosso: La metafora proposta da Roberto vale per la struttura drammaturgica di questo spettacolo, ma personalmente non la definirei una fase del mio percorso teatrale. Come attore, non mi sono mai sentito burattino nel senso di “manovrato”, neppure in quelle esperienze di lavoro dove la direzione registica era fortemente determinante, come certamente è stata, ad esempio, la prima fase del lavoro con Leo, in cui lui dava indicazioni ferree su come impostare e sviluppare la presenza nello spettacolo. Anche in quelle occasioni, mi sono sempre sentito libero di conciliare le indicazioni registiche con gli impulsi del mio sentire, ovviamente in armonia e senza che ciò comportasse il minimo problema di relazione.

Con Roberto, la libertà di esecuzione è molto ampia, ma ciò non vuol dire che sia anarchica o scevra del suo sguardo attento e unitario nella creazione dello spettacolo. No, non credo di essere un attore-burattino, ma nemmeno mi sento attore-burattinaio. Essere “condotto” e libero allo stesso tempo è la condizione fondamentale perché un attore sia creativo, ma non userei i termini “burattini” e “burattinaio” per definire questo stato.

Mangiafoco – Roberto Latini. Foto © Masiar Pasquali

Lo spettacolo nasce anche per Matera, dove ha debuttato in prima assoluta il 21 novembre alla Serra del Sole in occasione delle celebrazioni del 2019, e adesso è in scena in un teatro carico di storia come il Piccolo Teatro Studio Melato: come cambia il vostro lavoro a seconda dello spazio in cui agite e del pubblico con cui vi relazionate?

Elena Bucci: In questo caso abbiamo fatto un’esperienza di straordinario interesse: i Mangiafoco che ho vissuto io sono almeno tre. Uno è quello vissuto in prova, nella sala Carpi che ci ha accolto quasi fuori programma, visto che le prove erano state programmate a Matera, ma poi spostate per impreviste difficoltà tecniche. Qui abbiamo creato la drammaturgia, il ritmo, il respiro. Con la complicità dei tecnici abbiamo usato tutti gli elementi possibili e immaginato quelli che sarebbero arrivati soltanto nello spazio del Teatro Studio. Abbiamo vissuto con emozione l’affiorare dei testi, il loro intersecarsi con le musiche e con gli accenni di luce, l’arrivo degli elementi di scena, la partenza di quelli che non servivano, abbiamo indossato giorno per giorno i costumi bellissimi.

A Matera, città di una bellezza quasi paralizzante, abbiamo trovato uno spazio incastrato in una cava, senza graticcio, con il palco rialzato, certo molto diverso dal Teatro Studio. Abbiamo quindi lavorato con Roberto a una intensa trasformazione dei materiali drammaturgici, del ritmo, della gestione degli spazi. Anche da un punto di vista strettamente tecnico sono stati necessari grandi cambiamenti: era impossibile usare elementi come il lampadario o lo scivolo, bisognava trasformarli in altro. Quanto si sviluppava in profondità si è disteso in larghezza. Abbiamo immaginato quello che non poteva esserci, trasformandolo in altre azioni.

Arrivando al Teatro Studio, sono arrivate scoperte nuove: le maschere di Topolino chiedevano altri linguaggi, più fisici e meno sonori, lo spazio ha respirato in tutta la sua profondità, lo scivolo ha potuto finalmente diventare quello che Roberto aveva immaginato, i ritmi sono cambiati e anche la drammaturgia, sono arrivate le farfalle gialle immaginate da Roberto l’ultimo giorno nella Sala Carpi, quando abbiamo provato senza oggetti, senza scene e costumi. Alcune scene che erano presenti a Matera sono cadute, altre hanno cambiato posto, tutto è precipitato verso una maggiore sintesi, pur mantenendo sempre un senso di grande libertà.

Ogni luogo è animato da una particolare atmosfera, non solo legata alla fisicità: abbiamo lavorato con armonia e serenità per modificarci, senza affezionarci mai a nulla, assecondando lo spazio e addomesticandolo, trovando la strada per ricreare le giuste condizioni per il rito con il pubblico. E il pubblico ci sorprende sempre, a Matera come a Milano. Quando si pensa di avere capito dove riderà e dove starà in muto silenzio commosso, subito si è smentiti, per fortuna. E ricomincia la ricerca intorno all’imprevedibile e ricchissima natura delle emozioni, del pensiero, dell’energia, del teatro.

Marco Manchisi: A Matera il palco tradizionale così frontale ci portava una distanza infinita dal pubblico, qui al Piccolo il pubblico ci circonda ed è come se fosse in scena con noi. Questa condizione influisce certo sulla nostra performance, personalmente sento che mi spinge a cercare più fortemente una relazione con il pubblico, aiutandomi a spingere per quanto riguarda la recita più delicata della mia biografia, che non può considerarsi propriamente Teatro, ma che lo è comunque dal momento che vive sulla scena. E questa architettura a pista di circo certamente porta una maggiore forza di concentrazione in cui il detto prende forza di confessione.

Marco Sgrosso: Quando uno spettacolo è vivo, all’interno di una compagnia in armonia come questa, benché ogni spettacolo muti di sera in sera impercettibilmente, le variazioni sono di esecuzione e non di senso. I mutamenti dettati dalle condizioni diverse degli spazi di replica fanno parte dell’esercizio di questo mestiere, ma spesso sono soprattutto cambiamenti tecnici che non intaccano la sostanza emotiva, anzi a volte aiutano a re-inverdire la freschezza del sentire.

Dopo Goldoni e Pirandello, continua con Collodi la riflessione di Roberto Latini sul teatro nel teatro: perché, secondo voi, uno spettatore che non si occupa di teatro dovrebbe venire a vedere uno spettacolo che parla di teatro?

Marco Sgrosso: Innanzitutto perché un vero spettatore di teatro non credo possa non essere interessato a uno spettacolo che parla del Teatro, anzi direi che casomai può essere particolarmente stimolato a spiarne i meccanismi, i retroscena e le dinamiche. E poi per nutrire l’immaginazione, per diventare testimone attivo e partecipe e allargare gli orizzonti della fruizione. Non mi sembra una scelta logica andare a vedere solo ciò di cui ci si occupa, sarebbe un po’ come chiudersi in un piccolo bunker. Il pensiero e l’immaginazione vanno nutriti e stimolati soprattutto con ciò che non si conosce.

Marco Manchisi: È questa una fase storica in cui il teatro sta disperatamente cercando delle motivazioni valide per rappresentarsi davanti ad un pubblico. Probabilmente è stato sempre così, ma in quest’era dei social network tutti sentiamo uno smarrimento ed una generalizzazione del nostro lavoro molto pericolosa. A volte riattraversare teatralmente una vita legata alla scena può aiutare tutti a ricordare quanta fatica si fa, non solo a livello tecnico-scenico, ma anche umanamente, per poter riconsegnare ad artisti e pubblico dignità, valori ed etica.

Elena Bucci: Penso che uno spettatore si occupi sempre di teatro, anche se non sempre ne è consapevole, perché è parte integrante di un rito dove memoria e futuro, individuo e gruppo, realtà e sogno, età, censi, culture, etnie riescono a fondersi. Per me uno dei motivi del fascino del teatro, e di ogni forma artistica, è che le domande sulla sua apparenza e sostanza fanno parte della sua essenza e vanno rinnovate di continuo, per ritrovare freschezza e profondità nella creazione. Penso che quando pubblico e artisti non si interrogano più sulla loro relazione o si sta vivendo in un’epoca di straordinaria armonia, e non è il nostro caso purtroppo, o si rischia di ripetere forme vuote che non danno il nutrimento che dovrebbero, ma solo passatempo.

Credo sia un privilegio avere tanti luoghi dedicati all’arte, ma vorrei che ogni apertura o debutto fossero vissuti come se fosse la prima volta, con il fiato sospeso e la speranza di avere l’occasione per rinnovare lo sguardo, illimpidire lo spirito e avere il coraggio di mutare quello che non va. Forse in questo momento ci interroghiamo tanto sul teatro e sull’arte perché sentiamo, a volte solo d’istinto, che il mondo attuale, quando ha il volto cattivo del solo profitto, ci sta rubando il gioco, l’intuizione, il tempo, l’affetto amichevole, la benevolenza, la libertà, mentre le arti, forse, possono restituirli.

Mangiafoco – Roberto Latini. Foto © Masiar Pasquali

Nel finale ognuno di voi si paragona ad un effimero blocco di ghiaccio destinato a sciogliersi accanto al fuoco: in questo regno dell’impermanenza, cosa vorreste lasciare di voi al mondo?

Marco Sgrosso: La memoria del brivido che sento quando recito in stato di grazia. Quella traccia indefinibile di un’emozione effimera che non può essere fermata ma che continua a sopravvivere nel ricordo, come momento di luce. Questo certamente, e poi anche la lealtà e la generosità del darsi che è sempre un grande dono di condivisione.

Elena Bucci: Visto che si tratta di sogni e desideri, posso rischiare di essere presuntuosa. Vorrei lasciare qualcosa di quello che coloro che mi sono stati maestre e maestri hanno lasciato a me: la necessità di trasmettere quello che si è imparato e liberarsene, fare della paura coraggio, dei difetti virtù, dell’ingiustizia risata, del talento azioni ed energia invisibile ma potente che scorre attraverso il tempo. Mi piacerebbe che qualcuno imparasse dai miei errori come evitarli.

Certo, come tutti, preferirei essere ricordata che dimenticata, ma se di tante strade che si aprivano davanti a me ho scelto questa, nascosta e fragile, forse è stato anche per non affezionarmi a quello che sono e che faccio, per imparare a scorrere e passare, nel modo più amorevole possibile. Mi piace che quanto ho imparato serva a sbloccare il talento di altri, sono felice quando riesco a scrollarmi di dosso paure, competizione, invidie e ragionamenti per ritrovare l’infante nascosto in ognuno di noi. Mi stupisco come dal nulla arrivano gli spettacoli e la scrittura. In questa sparizione di Elena, qualcosa resta.

Marco Manchisi: Credo che ognuno di noi lasci comunque delle tracce. Quello che spero si possa ritrovare in quelle tracce che lascerò è una forma di amore universale, quell’amore che mi ha portato ad ascoltare il mio passato e che spero possa servire a qualcuno per credere in una vita futura imbevuta di amore, comprese le sofferenze che l’amore porta seco.